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MUSICA IN VINILE The Cars No, non sono ancora su Facebook. Ci sto pensando. Da un pezzo. Probabilmente ci penserò così a lungo che quando mi sarò quasi deciso la creatura di Mark Zuckerberg sarà divenuta obsoleta, sorpassata da una nuova genialata di un ragazzetto stronzo. Potrò allora rinunciare definitivamente all’idea, tirando un sospiro di sollievo. In fondo, sono uno che ha meditato quei quattro o cinque anni se aprire un blog e poi non l’ha aperto. Ma vengo al punto. Non essere iscritti a Facebook (lo scrivo per quei quattro o cinque lettori che al riguardo ne sanno meno di me) implica non potere interagire con gli abitanti di quel mondo e avere un accesso limitato ai suoi contenuti ma non, in assoluto, non potervisi collegare. E allora, appena raggiunto lo scorso ottobre dalla notizia che i Cars erano di nuovo insieme e al lavoro sul loro settimo album, a quei ventitré anni dalla pubblicazione del sesto, ne ho cercato la pagina. Sono stato ricompensato da un assaggio di una canzone inedita, “Blue Tip”, con l’inconfondibile marchio di fabbrica e qualitativamente del tutto degna (per quanto si può giudicare da 1’13”) del loro storico catalogo di trionfi. Persino meglio una “Sad Song” postata a inizio dicembre, e in totale contraddizione con il titolo, e una “Free”, propulsa da un riffone granitico, messa su a capodanno. 1’26” con al fondo un annuncio: nuovo disco fuori in primavera. Non so voi, ma io sono discretamente eccitato all’idea e dire che, se fossi Dio, cancellerei la parola “reunion” dal vocabolario del rock. Facendo rarissimamente un’eccezione e la sensazione è che per Ric Ocasek e sodali - tutti presenti, con l’ovvia eccezione dello sfortunato bassista Benjamin Orr, scomparso nel 2000 - valga la pena di giocarsela. Che ironia che in un’intervista del 1997 proprio il leader affermasse, perentorio, che “non torneremo mai insieme e quando dico mai intendo mai”! Molta pop music vive di corsi e ricorsi. Incredibilmente popolari fra il ’78 e l’84-’85, già all’altezza di quello che è ancora il loro ultimo album, il peraltro bruttarello “Door To Door” dell’87, i Cars venivano snobbati, considerati antiquariato come spesso accade a quelli che hanno saputo essere nuovissimi. Per almeno quindici anni dei rimossi dalla critica se non dalle playlist delle radio rock americane più classiciste, i Bostoniani hanno cominciato a tornare d’attualità mano a mano che ci inoltravamo nel nuovo secolo e sempre più gruppi traevano evidente ispirazione dalla new wave. Il loro nome (in precedenza citato giusto quando Ocasek firmava l’ennesima produzione per altri, o dava alle stampe una prova da solista puntualmente liquidata in poche righe) prendeva a riaffacciarsi in recensioni, interviste, articoli. Musica che vent’anni prima pareva vecchia potrebbe oggi confondersi in un flusso di novità e, solo a scegliere un pezzo non degli innumerevoli finiti a loro tempo in classifica, nessuno noterebbe cesure. Breve riassunto della loro vicenda… Entrambi di famiglie provenienti dall’Europa dell’Est l’allora ventitreenne Ben Orr e il ventunenne Ric Ocasek si conoscono nel 1970 a Columbus e cominciano a suonare insieme come duo, con un repertorio che a classici del rock’n’roll alterna già le prime composizioni originali. Trasferitisi a Boston, incontrano tal Jas Goodkind con il quale danno vita ai Milkwood, intestatari nel ’73 di un LP su Paramount, “How’s The Weather?”, alla cui realizzazione concorre anche il tastierista e sassofonista Greg Hawkes. È un disco che non c’entra nulla con quel che verrà, simpatica robetta di derivazione CSN&Y a volerla nobilitare e se no un buon referente sono gli America. Scioltosi il trio, Ocasek e Orr passano per vari progetti che non lasciano tracce prima di ritrovarsi con Hawkes nei Captain Swing, il cui secondo chitarrista è Elliot Easton. Ci siamo quasi. Quando il ruolo di batterista è assunto dal navigatissimo (in curriculum Modern Lovers, DMZ e The Pop) David Robinson, il quintetto cambia nome ed ecco a voi The Cars. A guadagnare loro un contratto con la Elektra (matrimonio che durerà) sono due anni, ’76-’77, trascorsi battendo a tappeto i club del New England e soprattutto il demo di una canzone, “Just What I Needed”, che la influente WBCN prende a trasmettere a spron battuto. È la pietra d’angolo, con le otto che le fanno corona nel giugno 1978 in “The Cars”, dell’edificio di un suono che è combinazione geniale di già sentito e inaudito. Mettendo insieme il minimalismo di garage e punk, la sfacciataggine melodica di glam e bubblegum music e le tessiture elettroniche di certo art-rock (i Roxy Music un’influenza anche estetica), i Cars riescono nel miracolo di equilibrismo di inserirsi in un filone di rock classico nel mentre si sintonizzano sul montante techno-pop. Il debutto resta quasi tre anni nei Top 200 di “Billboard” e arriverà a vendere quei sei milioni di copie. Il seguito del 1979 si fermerà a quattro e “Panorama”, dell’80 e volutamente oscuro e introverso, a tratti semi-sperimentale, a uno. Crisi? Ma quale crisi! Per dirla con quei cani morti dei Supertramp. Edito in origine nel novembre ’81 e da poco aggiunto al catalogo di “Original Master Recording” di Mobile Fidelity (distribuzione Sound & Music), “Skake It Up” era l’album in cui le pulsioni “avant” dei nostri eroi meglio si amalgamavano con il gusto per la melodia istantanea prima che il successivo di tre anni “Heartbeat City” ne facesse delle star, da statunitensi che erano, globali. Facile che abbiate presente la title-track, un chiodo che non lo togli più una volta che si è infisso nella memoria. Magari vi sembreranno familiari pure gli altri singoli: la trascinante “Cruiser”, la malinconica” “Since You’ve Gone”, la sferzante “Think It Over”, la sincopata “Victim Of Love” (se Tom Petty fosse stato uno dei Devo…). Tempo di scoprire o riscoprire, allora, le Ronettes aggiornate di “Maybe Baby”, le atmosferiche “I’m Not The One” e “Dream Away” e anche e soprattutto “This Could Be Love”: una meravigliosa scheggia di David Bowie “by the wall”. Eddy Cilìa 100 AUDIOREVIEW n. 319 febbraio 2011 La grande canzone FRANK SINATRA Sinatra At The Sands (Mobile Fidelity/Sound & Music) Riportato in circolazione in un doppio LP rimasterizzato su vinile 180 grammi in tiratura limitata dalla Mobile Fidelity, “Sinatra At The Sands” raccoglie ventuno brani cantati dal mitico “Ol’ Blue Eyes” nel 1966. L’orchestra di Count Basie con gli arrangiamenti di Quincy Jones fa letteralmente faville in una serie di performance dal vivo raccolte nella mitica Copa Room del Sands. La cornice di tutto questo è ancora una volta Las Vegas e ci piace più che mai raccontare di una delle città simbolo degli Stati Uniti, quando ancora abbiamo intenso nella mente il sapore delle fragranti (ed abbondanti) colazioni che puntualmente ci accompagnano nella nostra settimana di lavoro al Consumer Electronics Show. La Las Vegas degli anni Sessanta era ben diversa dalla metropoli che abbiamo conosciuto negli ultimi dieci anni. Su scala ridotta rispetto all’attuale, questa città pulsava di vita notturna. Se oggi ci sono sei edizioni stabili e contemporanee di altrettanti show del Cirque du Soleil (quello dedicato ai Beatles e quello che vede protagonista Elvis sono i più attraenti musicalmente) in quel tempo erano personaggi come Elvis e gruppi come il Rat Pack a essere protagonisti. Epicentro dell’entertainment era lo storico Sands, lussuoso hotel in seguito demolito per fare posto allo straordinario Venetian, che non a caso è da qualche anno la sede della più grande vetrina audio proprio nei giorni febbrili del CES. Oggi in un certo senso Sinatra torna a Las Vegas con un nuovo show a lui dedicato (“Sinatra: Dance With Me”) fortemente voluto da Steve Wynn al teatro principale del Wynn-Encore, lo splendido megaresort nel quale tutti vorrebbero trascorrere almeno una notte in buona compagnia. La scelta di presentare questo doppio LP di Sinatra non nasce quindi dal caso. Avevo bisogno di ascoltare qualcosa che mi preparasse al grande viaggio, tuffandomi nell’atmosfera sognante e un po’ irreale di quegli anni, gustando attraverso il buon vecchio disco nero momenti per certi versi irripetibili. La cornice è cambiata, ma il sound di Sinatra, quasi mezzo secolo dopo, è ancora intatto, più vibrante e coinvolgente che mai. Non c’è bisogno di volare nel Nevada per tornare a provare il brivido di quegli anni. Il grande crooner è nella metà degli anni Sessanta all’apice delle proprie energie vocali. Ha raggiunto una maturità che gli consente uno sviluppo di frase e una ricerca di sottili preziosismi che rendono l’ascolto godibile più e più volte, alla scoperta di dettagli sempre nuovi. Il supporto orchestrale è, come prevedibile per una produzione di quel calibro, di livello assoluto, con uno swing di ineffabile fattura e sonorità ancora brillanti e incisive. “Fly Me To The Moon” e “I’ve Got You Under My Skin” sono superlative. L’incisione dal vivo è tecnicamente eccellente, dotata di presenza e senso di naturalezza con buon equilibrio tra le diverse sezioni. Voce non inopportunamente in primo piano, mentre la ristampa restituisce senza imbarazzi tutto lo smalto di un tempo. Da non mancare. Marco Cicogna Rock TURTLES Save The Turtles (Manifesto) Negli ingenui anni ’60 gli ingenuissimi Howard Kaylan e Mark Volman si legavano in maniera tanto inestricabile a una casa discografica oltretutto minore (White Whale) cui regalavano signori introiti da scoprire, una volta determinatisi al divorzio, di non avere i diritti non solo sulla sigla Turtles ma addirittura sulle loro stesse identità anagrafiche. La loro seconda giovinezza artistica e commerciale, propiziata da Frank Zappa, dovranno così viverla in altra guisa, come Flo & Eddie. Ma sbagliando si impara, giusto? Ripresisi da tempo la loro storia, dopo la ristampa integrale nel 2005 di un catalogo assommante a cinque album - ahiloro tutti carini e nessuno imprescindibile - Kaylan e Volman provvedevano nel 2009 a confezionare un’assai più seducente sinossi (sottotitolo: “The Turtles Greatest Hits”) di cui da qualche settimana è diponibile questa edizione in vinile. A parte che non è esposta in ordine cronologico come sarebbe stato il caso, è un’indagine più che adeguata su un gruppo di poca personalità e paradossalmente tanta incisività, partito da copia conforme dei Byrds folk-rock e trasformatosi, un singolo di successo via l’altro, in un ibrido Beatles/Beach Boys/Lovin’ Spoonful che ambiva alla psichedelia ma inciampava nel vaudeville. Beat barocco, verrebbe da dire, con momenti di gloria vera chiamati “Happy Together” (in Italia “Per vivere insieme” dei Quelli) ed “Elenore” (in Italia “Scende la pioggia” di Gianni Morandi). Eddy Cilìa Soul RAY CHARLES The Genius Sings The Blues (Mobile Fidelity/Sound & Music) Titolo vero a metà. Se genio è chi prende cose esistenti e ne fa combinazioni inedite, chi tira fuori ciò che non c’era e nel momento che c’è sembra ci sia sempre stato, ebbene, non c’è dubbio che Brother Ray (lui preferiva farsi chiamare così) meritasse appieno il soprannome che gli affibbiarono (The Great non bastava più) nel pieno del favoloso settennato, ’53-’60 , trascorso alla Atlantic. Non avrà in assoluto inventato nulla, ma prima di lui nessuno aveva mischiato diavolo e acqua santa, facendo un tutt’uno di blues e gospel. Lui il primo a infiltrare influenze caraibiche nel suono di New Orleans, il primo a buttare nel rhythm’n’blues un piano rock’n’roll invece che boogie e ancora lui uno fra i primi neri ad avventurarsi sul terreno minato di un country’n’western cui seppe donare accenti peculiari. Non bastasse: grande cantante confidenziale e squisito jazzista. Ciò detto: in questo che era nell’ottobre 1961 l’ultimo LP di tredici a vedere la luce per l’etichetta di Ahmet Ertegun (da un anno il Nostro era passato alla ABC, ma lasciandosi dietro una quantità di materiale inedito) di blues ce n’è eccome ma raramente (appena un paio di episodi su dodici) declinato nella sua accezione più canonica. Antologie escluse, finisce per risultare uno degli album che meglio danno un’idea complessiva di ciò che fu questo artista immane. Eddy Cilìa AUDIOREVIEW n. 319 febbraio 2011 101