LaTurchiael`Europa ovvero:laTurchiainEuropa

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LaTurchiael`Europa ovvero:laTurchiainEuropa
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urchia e l ’Europa o vvero: l aTurchia i n E uropa
d i V i t t o r i o E m a n u e l e Pa r s i
L aT
urchia e l’Europa
ovvero: l aTurchia i n E uropa
d i V i t t o r i o E m a n u e l e Pa r s i
È PROFESSORE DI RELAZIONI INTERNAZIONALI NELL’UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL SACRO CUORE DI MILANO, DOVE È
ANCHE DOCENTE DI SISTEMI POLITICI COMPARATI. È PROFESSORE A CONTRATTO NELL’UNIVERSITÀ DELLA SVIZZERA
ITALIANA A LUGANO E, NELL’AMBITO DI UN PROGETTO TEMPUS-MEDA, INSEGNA DOMESTIC POLITICAL REGIME AND
INTERNATIONAL INFLUENCE PRESSO L’UNIVERSITÉ SAINT JOSEPH DI BEIRUT
E’ DIRETTORE DI DUE MASTER UNIVERSITARI (DI PRIMO LIVELLO) - INSTITUTIONS AND PUBLIC POLICIES E GLOBAL
POLITICS PRESSO L’ASERI (ALTA SCUOLA DI ECONOMIA E RELAZIONI INTERNAZIONALI) DELL’UNIVERSITÀ CATTOLICA
DEL SACRO CUORE.
HA INSEGNATO RELAZIONI INTERNAZIONALI E TENUTO SEMINARI E CONFERENZE PRESSO THE EINAUDI CENTER,
CORNELL UNIVERSITY, ITHACA, N.Y; SCHOOL OF FOREIGN SERVICE, GEORGETOWN UNIVERSITY, WASHINGTON D.C.;
THE ROYAL UNIVERSITY OF PHNOM PENH, CAMBOGIA; THE KAZAKHSTAN LAW ACADEMY, ALMA ATA, KAZAKHSTAN;
NOVOSIBIRSK STATE UNIVERSITY, RUSSIA; SAINT JOSEPH UNIVERSITY, BEIRUT.
DL 1998 È EDITORIALISTA DEL QUOTIDIANO AVVENIRE E DAL 2004 DEL GIORNALE DEL POPOLO (LUGANO, CH).
AUTORE DI NUMEROSI VOLUMI, SAGGI E ARTICOLI, LA SUA ATTIVITÀ DI RICERCA SI È CONCENTRATA SULLE
TRASFORMAZIONI CONTEMPORANEE DEI REGIMI DEMOCRATICI, SULL’INFLUENZA DELL’ARENA INTERNAZIONALE SUI
CAMBIAMENTI DI REGIME E SULLA DINAMICA TRA ORDINE E LEGITTIMITÀ NEL SISTEMA POLITICO INTERNAZIONALE
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La domanda che ci si deve porre è in realtà assai semplice. È
preferibile perseguire la strada di una piena stabilizzazione
della democrazia turca attraverso il suo incorporamento
nell’Unione? Oppure si intende lasciare alle sole istituzioni
democratiche turche, ancora ovviamente fragili, un tale compito, difficile eppure strategico anche per la sicurezza europea?
Quanto è europea la Turchia?: una domanda vecchia quasi
duecento anni
Ancora una volta la “questione turca” agita le discussioni della politica europea e fa
emergere dissapori e contrasti tra le cancellerie del vecchio continente sulle prospettive del
rapporto tra la Turchia e le (altre?) nazioni d’Europa. A partire dalla seconda metà del XIX
secolo i governi europei iniziarono a interrogarsi se l’allora governo della “Sublime Porta”
dovesse essere trattato in tutto e per tutto su un piede di parità. Almeno dal punto di vista
formale la risposta fu positiva, anche se, lungo tutto il periodo conclusosi soltanto con la
dissoluzione dell’Impero ottomano a seguito della Prima guerra mondiale, l’espressione
normalmente associata alla Turchia fu quella di “grande malata d’Europa”, ad indicare una
condizione di “minorità fattuale” dell’Impero ottomano rispetto alle “potenze cristiane”.
Allora come ora pesavano sulla Turchia due specificità.
La prima era quella di non essere una nazione cristiana, cioè coerede di quella chri-
stiana res publica dalle cui ceneri era nato il sistema degli Stati europei, progenitore dell’attuale sistema politico internazionale. A distanza di oltre un secolo, la questione di un’alterità turca essenzialmente avvertita sulla scorta delle differenti radici religiose torna ad
emergere con forza. Lo fa soprattuto nei discorsi di quanti temono che l’eventuale ingresso di Ankara nell’Unione porterebbe allo stravolgimento dell’identità europea e, per conseguenza, alla definitiva archiviazione dello stesso progetto europeo, perlomeno di quello
che il Trattato costituzionale disegna. Non è certo un mistero che dietro i rischi crescenti di
una bocciatura del Trattato nel referendum francese previsto per maggio si agiti la questione dell’adesione turca alla UE. A una simile eventualità la maggioranza dei francesi sembrerebbe essere radicalmente contraria, e non per è nulla casuale che, ancora durante i
lavori della Convenzione Europea, il suo presidente, Valery Giscard d’Estaing, si fosse
espresso con inusitati clamore e durezza contro la sola idea che la Turchia potesse divenire
un membro a pieno titolo dell’Unione. La cosa involontariamente ironica era che a difen-
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dere un’identità europea che veniva fatta
“oggettivamente”
(e
violentemente)
coincidere con la connotazione “cristiana” era lo stesso presidente (e i gruppi a
lui vicini) che si era rigidamente opposto
all’accoglimento di qualunque cenno
circa
“le
radici
cristiane”
dell’idea
d’Europa. Allo scopo di disinnescare la
mina di una possibile bocciatura referendaria del nuovo Trattato Costituzionale, il
27 gennaio l’Assemblea Nazionale di
Parigi ha introdotto una modifica alla
Costituzione della V Repubblica, appro-
(
La R epubblicaTurca
appare oggi
sinceramente
impegnata i n u no s erio
sforzo d i radicali
riforme o rientate a
realizzare u na p iù
effettiva d emocrazia
politica e un’economia
maggiormente
adeguata a lle s fide
della globalizzazione
vata con il solo sostegno dell’UMP di
Chirac e Sarkozy, in base alla quale ogni nuova adesione all’UE dovrà essere ratificata da
apposito voto popolare da parte dei cittadini francesi. La decisione dell’Assemblea
Nazionale rende ogni futuro allargamento dell’Europa oggettivamente ostaggio degli
umori popolari di un solo Paese. Paradossalmente, non è per nulla detto che una simile
misura sia sufficiente a garantire il passaggio del Trattato Costituzionale Europeo. Quello
che è invece già certo è che questo atto, di per sé grave, rende ancora più complicato il
governo delle principali decisioni dell’Europa a 25.
La seconda specificità che sembra tornare a distanza di oltre un secolo è quella che
ancorava l’importanza della Turchia al suo ruolo per il mantenimento della sicurezza continentale. Nell’Ottocento (e ancora successivamente), il possesso turco delle “chiavi degli
stretti” (Dardanelli e Bosforo) era una delle condizioni della pace europea. Oggi la stabilità
della Turchia di fronte al risorgere prepotente dell’Islam politico è fondamentale per arginare il dilagare di un fenomeno considerato minaccioso per la sicurezza europea. La Turchia
è rimasta per lungo tempo il solo Stato laico dell’intero mondo musulmano. Certo, negli
anni dopo il secondo conflitto mondiale anche alcuni Paesi arabi, soprattutto la Siria, l’Iraq
e l’Egitto, avevano visto l’instaurazione di regimi autoritari programmaticamente laici. Ma va
detto che il loro zelo e il loro successo nella secolarizzazione delle rispettive società erano
stati decisamente inferiori e coronati da minor successo se comparati all’esperienza della
Turchia kemalista. Sempre all’interno degli Stati le cui società erano a stragrande maggioranza musulmana, la Turchia aveva rappresentato anche l’esperimento più vicino alle
moderne democrazie multipartitiche occidentali. Anche in questo caso, se confrontata con
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queste ultime, la Turchia lasciava parecchio a desiderare per una serie di parametri non
secondari: dal ruolo dei militari alla repressione delle minoranze, dalla carente tutela dei
diritti politici e civili alle limitazioni della libertà di stampa. D’altronde, se il paragone veniva spostato all’interno del mondo musulmano, quello turco appariva di gran lunga come il
regime meno autoritario.
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urchia moderna: una continua tensione verso l’Europa
Come è stato osservato, il problema della Turchia moderna è sempre stato quello di
riuscire ad integrarsi a pieno titolo nell’Occidente senza voltare le spalle al Medio Oriente.
Detto in termini diversi, la politica estera di Ankara ha strategicamente cercato di tenere in
equilibrio la vocazione europea delle sue élite modernizzatrici con il dato di fatto che la gran
parte dei confini del Paese corrono lungo territori per lungo tempo province imperiali (dal
Medio Oriente al Caspio, al Caucaso). Se il passato remoto della Turchia, remoto ma non
rinnegato, affonda le sue radici in Asia, il passato prossimo, il presente e il futuro del Paese,
di questa Turchia che è porzione minima rispetto all’Impero Ottomano, è saldamente orientato verso l’Europa. Sono del resto le stesse radici della Rivoluzione turca di Kemal Ataturk
- e ancora prima dei radicali tentativi riformisti dei cosiddetti “Giovani Turchi” nel 1908 - a
garantire che la Turchia moderna nasca con una naturale vocazione europea. E non avrebbe potuto essere diversamente, se solo si considera che occidentalizzazione, secolarizzazione e modernizzazione rappresentano per tutto il XX secolo un trinomio inscindibile.
Paradossalmente, una simile consapevolezza appariva assai più salda, presso i governi occidentali, negli anni bui della Guerra Fredda, che non per caso videro la piena accettazone
della Turchia tra i paesi membri della NATO e dello stesso Consiglio d’Europa, l’istituzione
il cui scopo statutario e originario era quello di promuovere la cooperazione europea dopo
le devastazioni del secondo conflitto mondiale.
La Turchia moderna nasce con Mustapha Kemal Ataturk, che per realizzare la propria
missione si avvalse anche di metodi autoritari, ma che di fatto trasportò di peso nel XX secolo ciò che restava dell’impero turco. Nel sistema kemalista il guardiano della modernizzazione e della natura laica delle istituzioni politiche era l’esercito, dalle cui file del resto Kemal
proveniva (era lui l’invitto generale di Gallipoli), e allo Stato era riservato un ruolo centrale
nell’organizzazione dello stesso sistema economico, in ossequio anche a quelle teorie corporativiste così in voga tra le due guerre mondiali. Negli anni Ottanta, è il premier Ozal che
inizia la liberalizzazione del mercato dall’invadente pressione statale e la graduale interna-
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zionalizzazione dell’economia turca, che viene poi completata in questi anni con la politica
di apertura agli investimenti esteri, le riforme legislative orientate in tal senso e la liberalizzazione del mercato del lavoro. Le scelte di questi anni recenti sono opera del primo governo di ispirazione islamista nella storia del Paese. È dalla vittoria alle elezioni del 2002 che il
timone del Paese è nelle mani del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AK), guidato da
Recep Tayyip Erdogan. Preceduto da parecchi timori e tuttora guardato con un misto di
sospetto e incoraggiamento da parte di molti governi europei, Erdogan ha fin qui dimostrato una considerevole capacità di sospingere la Turchia verso la riforma economica e una
più effettiva e completa liberalizzazione politica. Già nel 2002, infatti, il governo di Ankara
(di cui Erdogan diverrà premier solo l’anno successivo, quando verrà eletto in un turno elettorale suppletivo) concordava un recovery programme con il Fondo Monetario
Internazionale, la cui applicazione ha consentito al Paese di crescere di oltre il 5% all’anno,
e di ridurre drasticamente l’inflazione. L’azione riformatrice di Erdogan non si è però limitata all’economia. Sotto la sua leadership il governo turco ha iniziato a porre sotto controllo
civile le potenti istituzioni militari, ha abolito la pena di morte e riformato il codice penale,
ha acconsentito a introdurre maggiori spazi di libertà a favore della minoranza curda. Le
azioni intraprese da Erdogan sono apparse alla Commissione Europea e ai Capi di Stato e
di Governo dell’Unione abbastanza significative da indurli, nel dicembre 2004, a decidere
di dare il via ai colloqui di adesione della Turchia all’Unione a partire dall’ottobre 2005.
Il processo previsto è straordinariamente lungo (dieci anni) e particolarmente sensibile alla cosiddetta “condizionalità europea”: può cioè essere bloccato a tempo indeterminato in qualunque momento, qualora da parte dell’UE non si ravvisassero avanzamenti adeguati sul terreno delle riforme politiche ed economiche. Secondo gli osservatori più ottimisti, nei dieci anni di negoziati da qui al 2015 dovrebbero poter essere centrati due obiettivi. Fare della Turchia un Paese compiutamente “europeo”, ovvero con le carte in regola per
un’adesione senza sconti all’Unione. E convincere i cittadini dell’Unione che l’ingresso della
Turchia non porterà a un’islamizzazione dell’Unione, ma semmai a un’europeizzazione di
una parte importante dell’Islam.
La stabilizzazione della Turchia come opzione strategica
dell’UnioneEuropea
La domanda che ci si deve porre è in realtà assai semplice. È preferibile perseguire
la strada di una piena stabilizzazione della democrazia turca attraverso il suo incorpora-
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mento nell’Unione? Oppure si intende lasciare alle sole istituzioni democratiche turche,
ancora ovviamente fragili, un tale compito, difficile eppure strategico anche per la sicurezza europea? La stabilizzazione attraverso la prospettiva di inclusione è finora l’unica
politica estera di successo perseguita dall’Unione. Laddove è stata praticata fin dall’inizio ha giocato un ruolo decisivo al buon esito della transizione verso la democrazia dei
Paesi ex comunisti. In taluni casi ha contribuito persino a far sì che problematiche secessioni nazionali avvenissero in maniera pacifica (come nel caso dell’ex Cecoslovacchia).
Per converso, nei casi in cui non si è saputo o non si è voluto rendere immediatamente
concreta una simile prospettiva, l’Europa ha collezionato drammatici insuccessi come
attesta proprio il caso della ex Iugoslavia. Apparirebbe dunque francamente suicida (per
l’Europa) la scelta di privarsi deliberatamente della sua carta migliore.
La Repubblica Turca appare oggi sinceramente impegnata in uno serio sforzo di
radicali riforme orientate a realizzare una più effettiva democrazia politica e un’economia maggiormente adeguata alle sfide della globalizzazione. Tali riforme sono possibili
sulla base di due presupposti. Il primo è di carattere interno, ed è la legittimità che deriva ai nuovi leader da un’investitura popolare ottenuta attraverso una competizione elettorale aperta e trasparente. Il loro successo dipenderà dalla capacità di rendere le istituzioni disegnate da Ataturk adeguate rispetto alla democrazia, oltre che funzionali alla
modernizzazione. Nello stesso tempo la leadership turca è alle prese con la sfida di rendere l’islamismo politico non radicale compatibile con la democrazia liberale. Se l’esperimento turco avrà buon esito, esso costituirà una lezione e un modello anche per molti
altri Paesi musulmani. Per la prima volta la Turchia non sarebbe più la “brillante eccezione” di uno Stato laico e moderno nonostante l’Islam, ma “l’esempio imitabile” di una
Stato democratico e musulmano, capace di trasformare l’Islam politico in un’opportunità
per la diffusione della democrazia, da problema che era per la sua sopravvivenza. Il
secondo presupposto delle riforme di Erdogan è proprio la prospettiva di un ingresso
nell’Unione Europea. Se questo obiettivo fosse percepito come irrealizzabile a causa di
un veto europeo, il rischio che il partito della “democrazia islamica” finisca col divenire
incapace di intercettare l’elettorato più sensibile alla propaganda religiosa diventerebbe molto consistente. E ciò aprirebbe un periodo di pericolosa destabilizzazione.
La Turchia è un Paese popoloso tanto quanto e in prospettiva più della Germania,
non c’è dubbio. Una volta entrato nell’Unione essa sarà un attore decisivo in termini
numerici. Ma il suo peso ponderato (politico-economico) è infinitamente minore di quello degli altri grandi Paesi europei. Basti pensare che oggi il suo GDP è pari all’1.9% di
quello complessivo dell’Unione e che nel 2015 (assumendo un tasso di crescita costante
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del 5% annuo) sarà pari al 2,9%. A chi scrive sembra che l’impatto dell’auspicabile futuro ingresso della Turchia in un’Unione a 28 (con Bulgaria e Romania) sarà sì significativo,
ma non meno gestibile dei precedenti allargamenti, per cui le sole considerazioni che
dovrebbero essere tenute in conto nel 2015 sono quelle relative al soddisfacimento del
cosiddetto acquis comunitario e dei criteri di Copenaghen. Riservare alla Turchia un trattamento differente verrebbe giudicato dall’opinione pubblica turca un atto immotivatamente discriminatorio.
A proposito dell’opinione pubblica turca occorre sottolineare che proprio la sensazione di essere discriminata ingiustamente sta riaccendendo un certo qual nazionalismo, che è esattamente quanto non serve né alla Turchia né all’Unione Europea. Non
possiamo permetterci il lusso di sprecare questi dieci anni, magari con la segreta speranza che da qui ad allora la Turchia non sia in grado di soddisfare i parametri d’adesione. Questo processo o si concluderà con un successo, per la Turchia e per l’Unione, o si
concluderà con un disastro, per la Turchia e per l’Unione. Un vicino umiliato e frustrato
è lo scenario peggiore che potremmo augurarci. Mentre è interesse strategico
dell’Unione che la Turchia sia una democrazia stabile, un’economia prospera e un alleato fedele. Giunti a questo punto, una volta avviati i colloqui d’adesione, tutti questi
importanti obiettivi potranno essere perseguiti solo se la Turchia raggiungerà lo status
di una membership piena, effettiva, esattamente analoga a quella degli altri Stati membri. Di questo dobbiamo essere consapevoli. Qualunque risultato differente sarebbe
inaccettabile. Esso delegittimerebbe la leadership moderata e aprirebbe le porte ai
gruppi radicali nazionalisti e islamisti, con la conseguenza di regalare all’UE un confine
ben più strutturalmente instabile di quelli che acquisirebbe attraverso l’integrazione
della Turchia.
L’intero quadro mediorientale è d’altronde in movimento. Sta all’Europa decidere
se vuole partecipare alla sua stabilizzazione o se vuole restare per l’ennesima volta alla
finestra. È stato spesso rilevato con ragione come l’integrazione della Turchia consentirebbe all’Europa di poter allontanare da sé l’immagine di un “club cristiano”, di fatto
erede di quel sistema europeo che nel XIX e ancora nella prima parte del XX secolo
impose il proprio dominio sul mondo musulmano, discriminandone la principale rappresentanza statale. A ciò deve essere aggiunta un’ulteriore considerazione. Un’Europa
non più solo cristiana, ma di cui facesse parte anche uno Stato musulmano, potrebbe
probabilmente esercitare un’azione più incisiva e bene accetta su una porzione cospicua
del Medio Oriente, e contribuire in maniera assai più fattiva alla propria sicurezza e alla
sicurezza collettiva.
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