Prefazione di Luigi Guatri

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Prefazione di Luigi Guatri
Prefazione
Gli Autori di questo libro concludono l’Introduzione augurandosi «che il favore dei lettori consenta alle nostre pagine di viaggiare a lungo e lontano». È ciò che ogni autore
ovviamente si augura: ma in questo caso credo proprio che l’auspicio si realizzerà.
Lo scrivo con la convinzione che traggo anche dai cinquant’ anni di esperienza (accademica e professionale) nell’arduo – e sempre più arduo – campo delle valutazioni
aziendali, delle stime degli Intangibili, della creazione di valore. E anche dal «filo rosso» che lungo tutta la vita ha collegato le mie ricerche sulla Contabilità, sul Marketing,
sulla Finanza, sulla Strategia: l’«Economia Aziendale».
Nell’ottica degli Autori, «separare la finanza dall’economia reale è impossibile»: per
quanto sofisticata e gestita da soggetti potenti, essa non può che essere uno strumento
al servizio del funzionamento dei mercati e delle imprese e a sostegno della crescita
economica.
Quando si è improvvidamente supposta la possibilità di una finanza fine a se stessa,
cercando di massimizzare i rendimenti senza riflettere sui rischi (si pensi al mitico ROE,
una formula – sempre citata anche nei bilanci annuali – che non comprende in sé il
rischio), il filo che unisce le attività produttive con quelle finanziarie si è spezzato.
Si pensi alla storia dell’ultimo decennio: dalla «bolla speculativa» delle aziende di
Internet (che ha portato nelle Borse aziende prive di «piani industriali» appena ragionevoli e perciò a valori di pura invenzione; le cui azioni peraltro investitori illusi si «strappavano» di mano in sede di sconsiderate IPO); le recentissime crisi delle potenti Merchant Bank statunitensi, legate a «prodotti» finanziari tanto arditi quanto sofisticati, senza legami con il «reale» e quindi spesso di difficile comprensione per i risparmiatori.
Così sempre più alta e gonfia nel cielo dei mercati finanziari si è sollevata la bolla
leggera e pericolosa della speculazione o dell’illusione collettiva, si sono prodotti seri
guasti con gravi danni ai quali tutta la comunità sociale è stata chiamata più volte (e
massimamente proprio in questi tempi) a porre rimedio. Se vi è una ragione per intraprendere la lettura delle molte pagine del libro di Chiacchierini, Perrone e Perrini, è data
dal fatto che esso può costituire un antidoto al veleno di una finanza astratta e meccanica quanto pericolosa. Almeno nella mia ottica personale, questo è il Leitmotiv del libro.
Esso ruota intorno a una chiara domanda: perché e quando il valore (sia di mercato, sia
«fondamentale») di un’impresa ha motivo di divergere dal valore contabile dei suoi
asset? E più in particolare: quali sono le ragioni economiche che giustificano il fatto che
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i-Valuation. Intangibili, competitività e valutazione d’impresa
questo valore possa essere oggi, e presumibilmente domani, superiore, e in modo anche
assai considerevole, rispetto a quello contabile? La risposta a tali domande va scolpita
nella pietra: un’impresa produce nel tempo valore per i propri azionisti ed ha la possibilità di soddisfare le attese dei propri stakeholders solo se sa sviluppare un forte e duraturo vantaggio competitivo rispetto ai propri concorrenti.
Per fruire nel tempo di rendimenti superiori alla media dei concorrenti occorre
disporre di capacità di produrre una differenza positiva percepita dai clienti dell’impresa
e per la quale questi siano disposti a pagare un sovrapprezzo. Da ciò l’invocazione ripetuta dell’unicità, della distinzione, dell’eccellenza. Al di fuori dei casi sempre meno frequenti di settori protetti, nei quali esistono ancora forti barriere alla concorrenza, non è
possibile acquisire un vantaggio sugli altri facendo nello stesso modo ciò che fanno tutti. Troppo spesso ci si dimentica di questa elementare verità. Forse per la ragione che
trovare strade nuove, distintive e redditizie è molto più difficile e rischioso rispetto al
seguire la corrente, all’accontentarsi della mediocrità, che non produce nulla o produce
ben poco.
Il solido ponte che gli Autori di questo volume hanno saputo gettare per collegare tra loro
finanza, economia, strategia, organizzazione e contabilità è certamente di aiuto anche agli
operatori delle aziende. Si pensi, per esempio, al tema centrale degli Intangibili e in particolare delle risorse e capacità distintive che possono consentire all’azienda di costruire e
mantenere un vantaggio competitivo. Quando si scava a fondo, come si fa nel libro, alla
radice del successo di una impresa s’incontrano sempre gli uomini. Si possono scegliere
termini evocativi e scientificamente precisi come quelli di capitale umano e capitale intellettuale, ma la sostanza sulla quale riflettere è che ciò che le persone fanno, sanno, studiano, inventano e comunicano, è quanto può fare per davvero la differenza.
Il management ha la responsabilità di definire le condizioni organizzative in grado di
favorire questi processi. Deve rendere l’azienda attraente per le persone giuste, disegnare gli incentivi più idonei a motivarle per produrre impegno e idee, per eliminare le barriere che impediscono la comunicazione e l’integrazione necessarie. Non vi è spreco
peggiore per l’azienda delle capacità e dell’entusiasmo dei propri collaboratori.
Le imprese vincenti sono quelle che hanno saputo conquistare una posizione migliore nei difficili mercati globali nei quali oggi si compete, attribuendo fiducia alle persone
capaci, rompendo le gabbie delle burocrazie e delle gerarchie inutili, dando spazio ai
progetti innovativi, alla soluzione tecnologica avveniristica. E ancora mettendo più
responsabilità personale in una squadra che funziona unita, più testa e più cuore in tutto
quello che si fa.
«Creare» valore trovando in modo originale la propria strada tra le molte possibili
non è solo la condizione necessaria, come si dimostra in quella che gli Autori chiamano
la «catena del valore per l’azionista», per soddisfare le attese di chi nell’azienda ha investito il proprio capitale. Dovrebbe anche essere il presupposto per consentire un equo
riconoscimento economico per tutti coloro che si sono impegnati attivamente per il successo dell’impresa. A livello macroeconomico si potrebbe dire che un paese deve essere
capace di conseguire e mantenere un vantaggio competitivo e di produrre valore al fine
di distribuire in modo equo la ricchezza prodotta.
Non si discuterà mai abbastanza dell’importanza degli Intangibili nell’epoca della
globalizzazione delle economie. Non si metterà mai abbastanza al centro della riflessione generale e soprattutto di chi è portatore di responsabilità e di decisioni, la centralità
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dei saperi, delle idee, dell’innovazione, della tecnologia, delle nuove forme di organizzazione necessarie per competere e produrre valore in un mondo che cambia e si amplia.
Dietro l’espressione «rendimenti di scala crescenti» che i lettori troveranno più volte
richiamata in questo volume, si nasconde il segreto della nuova divisione internazionale
del lavoro e della differenza tra paesi realmente avanzati e quelli che non lo sono (o non
lo sono più). Un segreto che sta negli alti costi iniziali di un investimento in innovazione che porta allo sviluppo di un nuovo software, di una nuova tecnologia di propulsione,
di tutto ciò che si realizza quando la produzione si avvicina alla frontiera della conoscenza e della creatività, a fronte dei quali si otterranno poi rendimenti crescenti all’ampliarsi dei volumi di produzione e di vendita e un reale e solido potere di mercato.
Quanto precede mi richiama un’immagine di tempi ormai lontani, ma che mi è rimasta impressa nella mente. L’idiosincrasia che Leopoldo Pirelli manifestava per l’EVA
(l’Economic Value Added, invenzione di grande rilievo «commerciale» di Bennet
Stewart del 1991). In una intervista a Eugenio Scalfari dell’ottobre 1999, alla domanda
«Nell’industria cos’è cambiato?» risponde: «Molto. Le dimensioni dei gruppi, la tecnologia, il rapporto con il lavoro. La natura del capitale. I parametri che misurano l’efficienza. Adesso si chiamano Eva. Il nome è gentile, se vuoi è quasi seduttivo: Eva, invece è la sigla di un parametro necessario ma abbastanza spietato… In una grande azienda
quotata in Borsa il capitale è diffuso tra i risparmiatori, i fondi, le banche. Chi sono gli
azionisti? L’imprenditore non lo sa. Sa soltanto che sarà giudicato in base a Eva. In più
deve decidere in fretta e ogni giorno.»
Leopoldo Pirelli, pur senza essere un esperto di finanza, aveva più di una ragione. In
una intervista a Giovanna Dossena (nella rivista «La valutazione delle aziende» n.
4/1997) Bennet Stewart afferma: «Una delle ragioni per le quali la Coca-Cola adottò
EVA nel 1993 era collegata al fatto che i manager stavano ottenendo ottimi ritorni ed
erano riluttanti a sviluppare nuovi prodotti per non diluire i tassi di ritorno già ottenuti,
ma in tal modo non accrescevano il valore del business. Dal momento in cui è stato
adottato EVA, la Coca-Cola ha moltiplicato il proprio EVA di circa 12 volte, così come
il prezzo di mercato».
Basta del resto ricordare come la rivista Fortune del 20.9.1993 abbia dedicato all’EVA la propria cover story con il titolo The Real Key to Creating Wealth: nella quale
veniva riportato il grafico delle quotazioni del titolo Coca-Cola per il periodo 19801993, con l’esplosivo aumento del valore di 12 volte (naturalmente, come del resto
sostiene Stewart nella citata intervista, tutto merito dell’EVA!).
Nella mia visione di accademico, ho sempre rifuggito la contaminazione tra ricerca
scientifica e marketing delle (vere o supposte) «scoperte». Quando incontrai nel 1993
Bennet Stewart nel mio studio a Milano e mi ripeté, attribuendolo all’Eva, il miracolo della moltiplicazione per 12 volte delle quotazioni della Coca Cola (come già aveva fatto nell’intervista di Giovanna Dossena), cominciai a diffidare di tutto ciò. E non riuscii a rendermi conto di come l’antico concetto di «reddito differenziale» (o Economic Profit)
potesse spiegare un tale successo di marketing, da consentire che un intero palazzo di New
York, con centinaia di addetti, potesse vantaggiosamente essere impiegato allo scopo.
Tra gli investimenti necessari per promuovere un’economia basata sulla conoscenza e
sull’innovazione vi sono anche gli investimenti nel sistema educativo e di formazione,
lo strumento principale attraverso il quale un paese può dotarsi delle persone necessarie
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i-Valuation. Intangibili, competitività e valutazione d’impresa
per crescere e competere in modo vincente. Da questo punto di vista molte considerazioni sviluppate in questo libro dovrebbero essere lette attentamente da qualsiasi classe
politica che voglia porsi, in termini aggiornati ed efficaci, la questione della crescita
economica e del futuro del paese.
Uno degli argomenti di particolare rilevanza affrontati nel libro è il ruolo del tempo
nelle dinamiche aziendali e competitive. Gli Autori introducono all’idea di «dipendenza
dal sentiero», secondo la quale non tutte le alternative di scelta strategica in astratto
accessibili per un’impresa sono effettivamente da questa prima scopribili e poi percorribili. Visione e azione sono limitate dai vincoli accumulati con le scelte e i comportamenti passati: sia nel bene, come quando vengono a costituirsi traiettorie virtuose di
scelte indovinate e tempestive difficilmente replicabili dai concorrenti, sia nel male di
una progressiva rigidità, che è mentale prima ancora di essere blocco all’azione, che
impedisce all’impresa di mantenere una sintonia proficua con l’evoluzione della propria
«arena» competitiva.
Chiunque abbia avuto esperienza di gestione (soprattutto di grandi imprese) sa che
l’inerzia, la chiusura e la rigidità – dei pregiudizi come dei comportamenti – sono i
nemici da battere ogni giorno se si vuole progredire quanto è necessario per rimanere
realmente competitivi. E conosce l’ambiguità del passato: che da un lato si offre come
serbatoio ricco di esperienze e di conoscenze; e nello stesso tempo proietta spesso un
cono d’ombra dal quale bisogna avere il coraggio e la forza di uscire, se si vuole continuare a dominare il proprio futuro, invece che farsene sorprendere. Nel tempo poi tutti i
vantaggi competitivi mostrano i propri limiti e la propria instabilità.
L’equilibrio aziendale è dinamico; e richiede, per essere duraturo, energia e capacità
di adattarsi momento per momento al mutare delle condizioni esterne. Alcune delle
pagine più interessanti di questo volume sono dedicate alle capacità dinamiche, quelle
che le aziende accumulano, riconoscono come importanti e imparano a codificare per
creare, mantenere e modificare nel tempo la propria base di risorse. È impossibile non
concordare con gli Autori sull’importanza di queste capacità per vincere la sfida del
cambiamento e rendere il più possibile duraturo il proprio vantaggio competitivo. Conoscere come si sviluppa un nuovo prodotto in modo efficace e in tempi rapidi, piuttosto
che il modo migliore di utilizzare le alleanze strategiche con altre imprese, o come realizzare in modo efficiente fusioni e acquisizioni mirate, per sostenere la propria competitività, sono solo significativi esempi di tali capacità dinamiche.
Un altro aspetto rilevante è la ricerca di nuove vie di misura del valore degli Intangibili:
un tema che decenni di impegno – nel campo accademico e professionale – non sono
bastati per portare a conclusioni concettualmente (e operativamente) soddisfacenti. In
questo campo devono essere ben chiare alcune regole, che già ricordavo in un libretto
del 1997 (Valore e «Intangibles», Egea):
• l’enunciazione di semplici dichiarazioni di principio serve a poco; occorrono necessariamente specifiche tecniche di misurazione (possibilmente basate su teorie solide):
senza tali misure non si progredisce;
• su questo argomento sono più d’una volta intervenute le grandi società mondiali di
consulenza aziendale. Queste ultime con contributi vivaci e nel complesso importanti, ma tra i quali è indispensabile distinguere l’innovazione vera, che ha contenuti di
rigore scientifico, dall’innovazione… a fini commerciali, fatta cioè sostanzialmente
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per vendere «nuovi» prodotti e servizi. Le innovazioni con finalità commerciali sono
state, va detto una volta per tutte con chiarezza, un fenomeno talora inquinante per il
progresso scientifico in questo settore della conoscenza.
Anche i nuovi principi contabili internazionali (IAS-IFRS) sollecitano in vari modi a
tradurre il generico Goodwill in specifici asset Intangibili (cosiddetti Intangibili specifici). Ma nel nostro Paese troppe società hanno difficoltà a compiere tali scelte. E ciò per
ragioni inaccettabili: il timore di essere costrette (per gli Intangibili specifici a tempo
determinato) ad ammortizzarne i valori contabilizzati, mentre il Goodwill è più facilmente… addomesticabile con Impairment Test condotti superficialmente. Il libro di
Chiaccherini, Perrone e Perrini si batte con efficacia contro tutte simili gravi limitazioni.
Nel libro ritrovo, per concludere, il rinnovarsi in termini moderni di quel «filo rosso»
che dagli anni venti del secolo scorso è stata la «stella polare» in Italia e in buona parte
d’Europa (con la Germania in prima linea) delle ricerche serie in campo aziendale:
l’«Economia aziendale» (o la «BetriebsWirtschaft»). Com’è bello ed entusiasmante
incontrare giovani che sanno realizzare il progresso della Scienza senza disconoscere le
loro radici e la loro storia!
Anche nella mia ottica, che risale nel tempo per diversi decenni, la valutazione delle
aziende non è mai un’applicazione meccanica di criteri e di formule. Per comporre una
valutazione credibile bisogna disporre, oltre che di una serie di strumenti concettuali e
di informazioni, della capacità di «capire» l’azienda, le sue politiche, le sue strategie. E
bisogna saperla inquadrare nel sistema in cui opera.
Credo che, in futuro, il giudizio di valutazione sarà sempre più integrato nella conoscenza della gestione, dell’efficacia con cui essa viene condotta e dei miglioramenti realizzabili, nonché degli orientamenti di medio/lungo periodo in termini di crescita e di
capacità di realizzare e controllare la crescita.
È del pari evidente l’importanza di conoscere e prevedere il quadro macro-economico del Paese o dei Paesi in cui l’impresa opera; oltre alle caratteristiche del settore cui
appartiene. Non è infondata l’affermazione che, in alcuni Paesi, le condizioni «generali»
influenzano i risultati e il valore dell’azienda non meno dei suoi comportamenti, che ne
sono del resto pesantemente condizionati.
Luigi Guatri