Il Papa che amava le montagne
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Il Papa che amava le montagne
testimonianze U Una piccola canonica di un piccolo paese di montagna. È lì che comincia l’attesa. Il vecchio parroco – don Sesto, 79 anni – è emozionato. Qui, nella piccola Lorenzago, che in quegli anni per molti era poco più di un pulviscolo nella carta geografica, non troppo distante da Cortina, sta arrivando, per la sua “vacanza” di una settimana (poi diventeranno nove giorni), il Papa. Sì, il Papa. È il luglio del 1987. Il Santo Padre rientra dalla visita pastorale nella sua Polonia. E nel Cadore cerca la pace e la magia della sua infanzia in Polonia, la maestosità dei monti Tatra, il “sapore” di sentieri lungo i quali Karol Wojtyla ha costruito, in tempi 10 Il Papa che amava le montagne lontani, il suo straordinario rapporto con le montagne. La visita coglie quasi tutti di sorpresa. E pensare che oggi tutti parlano della forza di un Papa mediatico… La sbornia dell’informazione che ha travolto tutto e tutti era allora impensabile e dei quasi 5 mila giornalisti (di 487 tv, di 876 testate, di 296 agenzie fotografiche e di 93 radio) che sono arrivati a Roma per i suoi funerali, alla fine degli anni Ottanta non c’è praticamente traccia. I cronisti di 122 Paesi che hanno “assediato” la capitale della Chiesa fra la fine del marzo e l’inizio di aprile di quest’anno, in quei giorni avevano ben altro da fare. Il “Papa mediatico” – alla fine degli anni Ottanta – era considerato ancora Giovanni XXIII: per i collegamenti radiofonici da Regina Coeli, per quella “carezza” da dare ai bambini che rimbalza per anni di tv in tv. E così a Lorenzago, anche l’anno successivo, i grandi vaticanisti decidono di non andare. Certo non potevano immaginare che di lì a pochi anni Lorenzago non sarebbe stata famosa solo per il Papa, ma anche per essere il paese dov’è nato il ministro Tremonti e dove i “saggi” della maggioranza hanno dato vita ad una curiosa “Costituente”. il Trentino Un giovane cronista in Cadore sulle tracce di un Wojtyla "sfuggente" In questa pagina e nelle seguenti, altre immagini della visita del Papa sull'Adamello, dal reportage di Diego Decarli. I direttori, fra il 1987 e il 1988, “studiano” ancora il “fenomeno” Wojtyla. Certo, è vivido il ricordo dell’”impresa” del 1982, con la leggendaria sciata in Adamello di cui racconta in queste pagine Diego Decarli. Ma non si è pronti alle “vacanze” del Papa. Per un mix di rispetto – merce divenuta sempre più rara fors’anche di sottovalutazione. Dunque mi sorprende non poco – anche perché sono l’ultimo dei cronisti del Gazzettino, in quel periodo impegnato nella redazione periferica di Belluno –, la chiamata del direttore Giorgio Lago. Quel grande direttore, quell’uoil Trentino mo libero che ha saputo raccontare come nessun altro il Nordest, quel profeta che il destino ha voluto portarci via in questo stesso 2005, mi fece cadere dalla sedia. “Faustin (lui mi chiamava così, ma non alla veneta; piuttosto all’anglosassone, con un forte accento sulla “a”), c’è da seguire il Papa: parti per il Cadore”. M’avesse detto di partire per il Vietnam mi sarei forse agitato di meno: il direttore voleva che raccontassi le giornate di un “Papa innamorato delle nostre montagne”. Detto e fatto. Arrivo in Cadore con il fotografo che nel Bellunese – anche per come ha saputo raccontare di Alberto Faustini il Vajont, ferita sempre aperta – è un sorta di mito: Bepi Zanfron. In “sala stampa” – una piccola stanza messa a disposizione del Comune – ci sono anche un giovane Gian Antonio Stella (Corriere), un acuto cronista di Avvenire (Umberto Folena, oggi vicedirettore dell’Adige), Luciano Gulli del Giornale (oggi impegnato sui fronti dell’Iraq), Umberto Marchesini del Giorno, Paolo Giani, della Rai (che qualche anno prima aveva lavorato al Tg regionale a Trento), Marco Tosatti, della Stampa. Mi sento una pulce. A maggior ragione quando mi dicono che sta arrivando Joaquin Navarro-Vals, psi11 chiatra, grande giornalista (memorabili i suoi reportage di guerra da Israele sui giornali spagnoli), di recente nominato direttore della Sala stampa Vaticana. Giani sparisce e… la pulce s’insospettisce. E si scopre che per l’arrivo in elicottero del Papa solo una testata – mamma Rai – potrà raggiungere il castello di Mirabello, la villetta adagiata nel bosco che ospiterà le “vacanze papali”. Se comunico al direttore che non ci sarò all’arrivo del Papa – mi dico – mi licenzia seduta stante. Non c’è modo di oltrepassare i cancelli. A salvare il mio posto di lavoro – e chiedo scusa se rivelo a distanza di anni questo segreto – sono il colonnello Palombo e il maggiore dei Carabinieri di Belluno. Nascosto nella loro macchina riesco a raggiungere rocambolescamente la piazzola e quando la scorta grida “chi è quel giovane col taccuino” è tardi. Atterra l’elicottero. E il mondo si ferma. Il Papa scende. Sorride. Ritrova la sue amate montagne. È un Papa forte, in forma smagliante, incredibilmente diverso da quello che s’è impadronito di tutti i nostri ultimi ricordi. Non lo ringrazierò mai abbastanza, il colonnello Palombo, che è poi diventato capo supremo dei Nas e ha fatto un carrierone nell’Arma. “Tranquillo – mi disse – anche a Genova ho aiutato un giornalista ostinato che voleva vederci chiaro in un fattaccio di cronaca: Paolo Garimberti”, allora vicedirettore di Repubblica, giornale nel quale è tornato dopo aver diretto il Tg2. Il Papa ha un sorriso per tutti. È paziente. Ma ha fretta di mettersi in cammino. Con una battuta, potrei dire che da quel momento non l’abbiamo più visto. La verità è che l’abbiamo inseguito per le montagne bellunesi in lungo e in largo per un’intera settimana, ma… s’è fatto prendere solo quando ha voluto. Partiva all’alba. Regolarmen12 te c’era una macchina con la scorta che sfrecciava verso una valle, una “carovana” simile che andava da un’altra parte e una da un’altra ancora. Il Santo Padre, di solito, s’era già dileguato a bordo di una jeep prima che s’alzasse il sole. A volte partiva a piedi dai boschi del Castello di Mirabello. Camminava anche sette, otto o addirittura – quando ha raggiunto il Monte Peralba (2693 metri) – nove ore. Gli inseguimenti finivano quando un paziente – e sovente stravolto – Navarro-Vals, arrivata la sera, ci raccontava i percorsi, gli incontri, le preghiere e le grandi camminate (“Nessuno di noi – confessava – riesce a tenere il passo del Santo Padre: solo le guide alpine gli stanno dietro”). E allora si ricostruivano le sue giornate – emozionanti come possono esserlo solo certe ore passate sulle vette – e si iniziava la “caccia” ai fortunati che l’avevano incontrato lungo il sentiero. Navarro-Vals ci rivelò una frase poi riba- dita da Wojtyla nella messa celebrata in paese, un paese che seppe gestire con semplicità e intelligenza quell’evento che allora, appunto, era ancora in qualche modo intimo: “Davanti a questo panorama di prati, boschi, torrenti, cime svettanti verso il cielo – disse il Papa -, noi tutti ritroviamo il desiderio di ringraziare Dio per le meraviglie delle sue opere e vogliamo ascoltare in silenzio la voce della natura al fine di trasformare in preghiera la nostra ammirazione; queste montagne infatti suscitano nel cuore il senso dell’infinito, con il desiderio di sollevare la mente verso ciò che è più sublime”. In questa frase – come tutti scrissero già in quelle incredibili e indimenticabili giornate dell’estate del 1988 – c’era anche il profondo legame di Giovanni Paolo II con le montagne, per quelle finestre che s’affacciavano al cospetto di qualcosa di più grande, di unico. A me piaceva immaginare che in questo suo amore per le guglie miil Trentino Il Papa con i piloti dell'elicottero militare della Provincia autonomadi Trento. rabilmente descritte da Dino Buzzati (di cui pochi ricordano le origini bellunesi), vi fosse anche una forte vicinanza nei confronti del Papa che per soli 33 giorni aveva “governato” la Chiesa: il bellunese (agordino, per la precisione) Albino Luciani, archiviato troppo frettolosamente come il “Papa del sorriso” da chi non aveva saputo cogliere quanta grandezza e anche quanta voglia di innovare e di capire i meccanismi del Vaticano vi fosse dietro a quel suo apparentemente ingenuo sorridere. Sì, era bello pensare che su queste montagne – “consumate” col passo di uno scalatore infaticabile – Giovanni Paolo II cercasse anche un po’Giovanni Paolo I. Del resto, fu lui stesso, una sera, a rivelarlo, parlando del “segno indelebile lasciato dal mio indimenticabile predecessore”. Consumammo suole, giornate, nottate ad inseguirlo. Incontrammo testimoni sbalorditi. Come Dolores Casanova De Marco, che non creil Trentino deva al figlio che le diceva di aver visto il Papa scendere da Tabiè e che volle salire in macchina fino al sentiero riuscendo ad incontrarlo. Come Arcangelo e Giovanni De Sandre e Antonio e Dino Calzavara, che lo incrociarono ai piedi delle Marmarole. O, ancora, come Antinesca e Antonio De Bettin, che videro entrare nel loro rifugio di Forcella di Zovo il Santo Padre nel tardo pomeriggio mentre stavano pulendo i funghi. Il Papa restò affascinato dal loro piccolo caminetto e chiese se la sera cenavano là, vicino al focolare, come si usava fare nella sua Polonia. Sì, consumammo intere giornate ad inseguirlo e quando ci salutò, prima di tornare sul “papa-elicottero” che l’avrebbe riportato a Roma, sentimmo che il suo dispiacere di abbandonare per almeno un anno le amate montagne era proporzionale al nostro senso di vuoto: finivano giornate pazzesche dal punto di vista professionale, ma uniche da ogni altro punto di vista. Quell’uomo che sapeva parlare al mondo e che di lì a poco avrebbe cambiato la storia – stava per cadere il muro di Berlino e lui pensava, anche in quei giorni, a Reagan, a Gorbaciov, alla prigionia di Mandela… - aveva con la montagna un rapporto unico, fatto di emozioni certamente tipiche di un cattolico al cospetto del creato, ma anche semplici e genuine, come quelle di chi sa conservare nel cuore il bambino che è stato. I media, in un certo senso, non c’erano ancora – eravamo tutti piccoli “storici del presente” e mai avremmo pensato di ritrovarci di lì a 18 anni, in una Piazza San Pietro inondata di persone, di emozioni, anche di contraddizioni – eppure lui sapeva già parlare con un linguaggio diretto e unico agli uomini, alle loro coscienze, ai loro popoli, ai loro sogni. Tutte cose che la maestosità e il candore delle sue amate montagne hanno reso ancora più forti. 13