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BERNARDETTA E LA SOFFERENZA
Rm 5,1-5
1
Giustificati dunque per la fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore
nostro Gesù Cristo; 2 per suo mezzo abbiamo anche ottenuto, mediante la fede, di accedere
a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio. 3 E
non soltanto questo: noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la
tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata 4 e la virtù provata la speranza.
5 La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per
mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.
Nei capitoli precedenti della Lettera ai Romani, in particolare in Rom 3, 2131, Paolo mostra come tutti gli uomini, presentati nella dualità di “giudei e
pagani”, si trovino in uno stato di ingiustizia e di peccato, descrivendo anche
come avvenga il recupero della dignità di figli di Dio, detto in termini più
tecnici, la nostra “giustificazione ”: il passaggio, cioè, dallo stato di peccato allo
stato di grazia, stato appunto di giustizia. Tutto è dovuto all’iniziativa gratuita
di Dio che agisce mediante il suo figlio Gesù Cristo: Egli è “morto per i nostri
peccati e risorto per la nostra giustificazione” (4, 25).
Tuttavia, la salvezza operata da Gesù rimane chiusa in se stessa, se non è
accolta dal credente; per questo, ogni fedele deve partecipare a quest'opera di
Dio e, in certo senso, farla propria, accogliendola con la fede: ecco perché i
termini fede/credere ricorrono con insistenza nei cc. 1-4; la parola “fede”
compare poi ancora due volte, in 5,1 e 5,2, e non più fino alla fine del cap. 9.
Paolo, infatti, sta avviando il suo discorso sul compimento di salvezza partendo
proprio dalla certezza della giustificazione presente: essa dà fondamento alla
speranza della vita eterna (5,1; 8,81-34). Si afferma poi che le tribolazioni e la
speranza sono strettamente legate (5,3-4; 8,35-37) e che la fiducia nella
salvezza finale poggia sull’amore di Dio manifestato nella morte di Cristo (5,8;
8,35-39) e riversato dallo Spirito nel cuore dei cristiani (5,5). Quanto
affermato ci fa capire che 5,1-5 costituisce la prima parte di uno sviluppo
unitario di pensiero che include anche 5,6-11.
a) fondamento della vita eterna (vv. 1-2)
v. 1 Giustificati dunque per fede, abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù
Cristo, nostro Signore,
v. 2 mediante il quale abbiamo anche avuto, per la fede, l'accesso a questa
grazia nella quale stiamo; e ci gloriamo nella speranza della gloria di Dio;
v. 1 Giustificati dunque per fede: è un’espressione concisa e lapidaria
che ha la funzione di riassumere in modo sintetico ed incisivo il centro
dell’unità 4,1-25 e soprattutto di 3,21-31. Tuttavia mentre nelle suddette
divisioni il punto di arrivo è proprio l’idea di giustificazione, in 5,1 essa
costituisce il punto di partenza per un ulteriore sviluppo teologico. La
congiunzione “dunque” ha in questo caso una forza argomentativa e non solo
conclusiva. Mentre, infatti, in 3,21-26 Cristo viene messo in relazione con
l’opera di giustificazione, ora in 5,1 essa è strettamente collegata con i suoi
frutti: “ abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore
”'. L’opera di Cristo risulta alla fine da una triplice esplicitazione: “dono della
pace”, “accesso alla grazia nella quale si muovono i giustificati”, e “vanto nella
speranza della gloria di Dio”. All’azione passata di Dio (giustificati) corrisponde
per il credente un presente salvifico, l’aver pace con Dio, con cui si descrive la
stessa pace escatologica che in 2,10 veniva promessa per il “giorno dell’ira e
della rivelazione del giusto giudizio di Dio” (2,5) per coloro che operano il
bene. La pace è “la felicità perfetta” e al tempo stesso “il dono di Dio” per
eccellenza, tanto che Rom 14, 7 definirà la condizione cristiana: “giustizia,
pace e gioia nello Spirito Santo”. Si tratta infatti, della pace con Dio, quella che
Paolo al versetto successivo chiama una grazia, cioè un favore assolutamente
gratuito. Il Signore Gesù Cristo, ci ha ottenuto di aver accesso, con la fede, a
questa grazia nella quale siamo integrati.
In 5,1 l’apostolo vuole presentare l’intero processo salvifico che accompagna
ogni credente, processo che parte dal passato (giustificati), attraversa il
presente (abbiamo, abbiamo avuto, stiamo) e tende al futuro (nella speranza
della gloria di Dio). L’agire di Dio è, insomma, dinamico e progressivo per
condurci alla pienezza esperienziale del suo amore.
v. 2 mediante il quale abbiamo anche avuto, per la fede, l'accesso a
questa grazia nella quale stiamo
La fede è connessa alla giustificazione e il ruolo di Cristo è quello che regge
tutta la vita cristiana: così la formula “per nostro Signore Gesù Cristo”,
utilizzata già all'inizio della lettera (Rom 1, 5) e richiamata alla fine del capitolo
precedente (4, 25), scandirà per così dire, come un ritornello, ciascuno degli
sviluppi del proseguo della lettera, ritornando anche alla fine dei cc. 5, 6, 7, 8.
Cristo è la porta di comunione con il Padre. L’espressione “abbiamo accesso” è
al presente per indicare che Cristo ci introduce non una volta sola, ma in
continuazione in una dinamica di relazione che si rivela come relazione filiale
nei confronti di Dio Padre. Si tratta di un accesso durevole e stabilizzato:
possediamo stabilmente “questa grazia nella quale stiamo”.
e ci gloriamo nella speranza della gloria di Dio: non soltanto ci
troviamo in uno stato aperto al flusso della « grazia » divina, ma conduciamo
un'esistenza sorretta e confortata da un “vanto” da un “gloria” straordinaria:
quella di una umanità rinnovata, a tale punto avvicinata a Dio e segnata dalla
grazia di Dio, da potere tendere con speranza sicura alla “gloria di Dio” che le è
stata riservata. Questa affermazione è il vertice della dignità cristiana
promessa da Dio.
Il dono già concesso tende per proprio dinamismo al conseguimento di una
perfezione celeste, la quale è detta appunto « gloria di Dio ». Tanta verità è
incarnata in esistenze concrete e suscita una speranza commisurata. Tale
speranza, a sua volta, coincide con un senso insieme umile e fiducioso di
celebrante sicurezza. Paolo non pretende che la speranza cristiana sia un
“vanto” psicologicamente avvertito dai singoli fedeli. Egli, però, desidera
proporla come un privilegio insito oggettivamente nella novità di un'esistenza
segnata da Cristo, cogliendovi una definizione della dignità umana, sorta dalla
grazia di Cristo e confermata dai tesori di potenza e d'amore operanti nel
vangelo divino della salvezza.
Va ricordato che questo “vanto”, affermato in un contesto in cui si celebra la
grandezza del dono di Dio, non può essere il « gonfiarsi » vano di persone che
si ergono autonome al cospetto di Dio, riponendo la loro fiducia in motivi
estranei alla verità di Dio. È invece, come si preciserà a conclusione della
pericope, un « vantarsi in Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo » (v.
11). Si tratta, quindi, di un « vanto » tipicamente evangelico che può
descriversi come un senso di sicurezza gioiosa col quale una umanità nuova,
percependosi oggetto e sede dell'amore-potenza di Dio, si riconosce rivestita di
ricchezza e dignità e come tale avanza nel cammino terreno della fede. Da una
parte, è un “vanto” pieno d'umiltà e di gratitudine, essendo il privilegio di
credenti che hanno aderito ed aderiscono tuttora alla verità del vangelo divino
della misericordia, ed hanno accolto ed accolgono tuttora il dono gratuito della
giustificazione divina; dall'altra parte, è un vanto pieno di sicurezza e di
fiducia, essendo come il volto fiero e lieto di una speranza prodigiosa. « Ci
vantiamo nella speranza della gloria di Dio »: è un riconoscere e proclamare,
nell'umiltà e nella fiducia, nella verità e nella piena sicurezza, nella fede e
nell'entusiasmo ammirato, che si ha il privilegio e la dignità di camminare in
novità di vita, tesi al possesso della « gloria di Dio », come al raggiungimento
di una compiutezza verso la quale si è personalmente orientati
b) Il vanto di una speranza tribolata (vv. 3-4)
v. 3 non solo, ma ci gloriamo anche nelle afflizioni, sapendo che
l'afflizione produce pazienza
v. 4 la pazienza esperienza, e l'esperienza speranza.
I vv. 3-4 mostrano che tanto privilegio e tanta dignità non sono dei concetti
teorici, ma esprimono una realtà vissuta nella concretezza quotidiana di un
cammino ancora onerato da precarietà terrena.
La “pace con Dio”, “l’accesso” stabile alla “grazia” del vangelo, che diventa
motivo di “vanto/gloria” e di speranza che non delude, sono vissuti nondimeno
in mezzo alla “tribolazione” come in un suo ambiente terreno caratteristico.
Non per questo, però, scade il “vanto” asserito precedentemente: anzi, la
tribolazione stessa, per il fatto che rientra nella dinamica di un'esistenza tutta
segnata dalla “grazia” e dalla verità del vangelo, si trova a rafforzare i motivi
per cui ci è dato di trovare nella “speranza della gloria” un nostro “vanto”
fondato e gradito a Dio.
Anzitutto viene presupposto che la tribolazione non è affatto casuale, ma è
la condizione prevedibile, anzi in qualche modo necessaria, di chi porta
quaggiù nella fedeltà della coerenza il segno di Cristo, di chi è chiamato dalla
sua stessa identità battesimale a “partecipare alle sofferenze di Cristo”. Il
cammino, dunque, della fede e della speranza, quel rispondere quotidiano al
Dio che “chiama al suo regno e alla sua gloria” (1Ts 2, 12), è necessariamente
un “aspettare la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo” (1Cor 1, 7)
con il coraggio e la saldezza di una “perseveranza” che è come l'alimento e la
riprova concreta di un'esistenza cristiana autenticamente vissuta.
Ben sapendo che la tribolazione produce perseveranza, la
perseveranza una virtù provata… (v. 3). L'Apostolo affronta il tema della
speranza, e lo mette in evidenza contrapponendolo alla tribolazione che,
apparentemente, sembrerebbe negare la stessa speranza. Paolo, invece, vede
in queste tribolazioni la conferma della medesima, come mostrano sia il valore
qualitativo-escatologico di “nelle tribolazioni” (può essere che con esse Paolo
abbia voluto indicare la realizzazione dei beni messianici), sia l’argomentazione
che Paolo fa seguire in 5,3b-4: essa, partendo da una premessa che si fonda
su un sapere religioso, si muove su una stretta linearità deduttiva, descrivendo
il dinamismo interno della fede: la tribolazione opera la costanza, questa una
virtù provata, la virtù provata la speranza, il cui fondamento (5,5) è lo stesso
amore di Dio che trova la sua espressione concreta nel dono dello Spirito, già
in possesso del cristiano.
L'esperienza della fede dice che l'autenticità cristiana è coerenza
perseverante; dice pure che questa nasce e si sviluppa, per quanto in modo
misterioso, nel terreno immancabile e provvidenziale della tribolazione.
L'argomento tuttavia, procede oltre. Il « vanto » cristiano di cui si parla nel
v. 3 è lo stesso “vanto” affermato nel v. 2 e, pertanto, è strettamente legato
alla “speranza”. Ciò significa che se il credente ha il privilegio di vantarsi
“anche nelle tribolazioni”, il motivo ne è che la tribolazione (thlipsis) non
soltanto l'interpella come un invito alla perseveranza e come una riprova di
autenticità personale, ma è da lui vissuta come un'esperienza caratteristica
della sua dignità nuova nella “grazia” di Cristo, in quella “grazia”, cioè, di cui
era stato detto che i “giustificati per fede” hanno ottenuto “accesso” stabile (v.
2). Il “vanto” cristiano, senso della propria dignità in Cristo, è
costituzionalmente fondato sulla realtà della “grazia” e non può in alcun modo
essere motivato da valori, meramente ascetici come, ad esempio, la
“perseveranza” e la “virtù provata”, prese in se stesse. Occorre quindi che
queste, insieme con la “tribolazione” che ne è il terreno di crescita, siano
comprese e vissute nella “grazia” e colte come una testimonianza sia della
ricchezza della grazia
medesima sia della dignità di un'esistenza
misericordiosamente qualificata da Cristo.
Ci vantiamo anche nelle tribolazioni: è tanto il “vanto” che nasce dalla
“speranza della gloria” ed è fondato su premesse tali di “grazia” divina, da
trovare perfino nelle “tribolazioni” un motivo convincente di gioiosa fiducia
nelle divine promesse gloriose. La “tribolazione” è di per sé testimonianza di
precarietà, di debolezza e di fragilità. Ma se viene accolta e vissuta nella grazia
di Cristo, invece di indurre allo scoraggiamento, può portare un frutto inatteso,
rivelatore di quanto ricca di grazia divina sia l'esistenza nuova dei credentigiustificati. Con la tribolazione, infatti, la loro stessa speranza è rafforzata e
ravvivata, e, insieme con la speranza, il vanto stesso è alimentato e
confermato, divenendo sicurezza fiduciosa e fiducia gioiosa in modo ancor più
convincente. Quella di Paolo sembra una affermazione che sa di follia;
l’esperienza, infatti, ci dice che la tribolazione spezza le forze fino a far alzare
la voce verso Dio. Ciò che l’Apostolo afferma non è comprensibile secondo una
logica umana, ma soltanto alla luce del progetto di redenzione e di salvezza:
“là dove è abbondato il peccato (quindi ogni genere di povertà) ha
sovrabbondato la grazia”: fuori della “grazia” la tribolazione diventa solo
disgrazia!
Il credente non desidera la tribolazione e ne sente tutto il peso quando è
presente, tuttavia non la esclude dalla propria vita, perché accetta la “logica”
della grazia, mediante la quale si opera la trasformazione, allora la tribolazione
dischiude la perseveranza e questa una virtù provata. Riguardo a questo ultimo
termine, il greco usa il vocabolo dokimê, ma forse più che “virtù provata” è
meglio tradurre con “discernimento”, “valutazione”. In tal modo si afferma che
nei riguardi delle tribolazioni abbiamo una diagnosi in profondità, quella che
Paolo fa, per esempio, in 2Cor 12,1-11, quando colloca le tribolazioni nel
quadro del mistero pasquale, costituito inscindibilmente dalla croce presente e
dalla gloria futura, oggetto tipico della speranza. La pazienza permette un
discernimento che la superficialità o l’istantaneità dell’accadimento non riesce a
cogliere; siamo dunque rimandati ad una lettura della vita letta alla luce della
fede e dello Spirito.
L’insegnamento che Paolo offre in questi versetti apparteneva alla catechesi
della chiesa di Antiochia che esortava i fedeli “a stare saldi nella fede, perché è
necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio” (At
14,22). Tale insegnamento corrisponde anche alla promessa che Gesù aveva
fatto ai suoi discepoli: “voi avrete tribolazioni nel mondo, ma abbiate fiducia…”
(Gv 16,33). Così, quando la tribolazione si era presentata sul loro cammino ciò che era regolarmente avvenuto - non avevano potuto lamentarsi di non
essere stati avvisati e preparati alla sua venuta. La tribolazione, la sofferenza è
la normale esperienza dei credenti, ma per essi diventa opportunità di gioia: “a
voi è stata concessa la grazia non solo di credere in Cristo, ma anche di soffrire
per lui” (Fil 1,29).
Secondo l’Apostolo quello presente è il tempo contrassegnato dalle
sofferenze, anche se esse non hanno nessun confronto con la gloria che si
rivelerà in noi (cfr Rom 8,18; 2Cor 4, 17). Solo se condividiamo la logica di
amore di Gesù, partecipando cioè alle sue sofferenze, prenderemo parte alla
sua gloria e saremo coeredi insieme con Lui (cfr Rom 8,17). Il tema della
sofferenza occupa un posto centrale nel pensiero di Paolo: nelle sue lettere ci si
imbatte in una multiformità del patire che è sia fisico ed esteriore, sia
psicologico ed interiore (1Ts 3, 7; Rom 8, 35; 2Cor 2, 4;1; 6, 4; 12, 10; Fil 1,
17…). Per lo più, la sofferenza, esteriore od interiore che sia, indica la
tribolazione subita a motivo di Cristo e della fede, sia da parte dei credenti in
genere che dall'Apostolo in prima persona (1Ts 1, 6; 3, 3.7; 2Ts 1, 4-5; 2Cor
1, 4-7; 4, 8-12; 6, 4-5; 7, 5; Fil 1, 12.20.29-30…). Questa «tribolazione»,
cristiana ed apostolica (ved. le drammatiche testimonianze date in 1 Cor 4, 913; 2 Cor 4, 8ss.; 6, 4ss.; 11, 23ss.; 12, 10 … ) è l’esperienza sofferta di una «
debolezza » innegabile (2 Cor 4, 7; 11, 30; 12, 7-10) e di un disfacimento che
equivale ad un morire quotidiano (2 Cor 4, 11.12.16; cf anche 1 Cor 4, 9; 2
Cor 1, 9), ma Paolo la comprende e la vive alla luce del mistero pasquale, con
la fiducia sicura e lieta della speranza (Rom 8, 17.18.35-39; 2 Cor 1, 5; 4, 712.16-18; 6, 10; 12, 9-10; Fil 1, 19-20.27-30; 3, 10-11; 4, 13; Col 1, 24…).
v. 5 Ora la speranza non delude, perché l'amore di Dio è stato sparso
nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo che ci è stato dato.
La speranza per Paolo non è una carta bianca sul futuro, piuttosto è simile
ad un bozzetto che deve essere sviluppato, ad un disegno che deve essere
colorato, il cui progetto lo possiamo vedere realizzato in Cristo, nell’agire del
Padre in Lui. Dio è colui che “dà vita a ciò che è morto e chiama all’esistenza le
cose che non sono” (Rom 4,17). Il credente vive una realtà germinale in cui sa
cogliere la potenza operante dell’amore di Dio, poco prima presentato come
giustificazione, pace, accesso alla gloria. Lo sperare, perciò, non è una illusione
o una delusione, né è un provare vergogna, come esprime meglio il significato
del verbo greco, bensì “un vanto” di certezza che fa tendere alla pienezza della
promessa salvifica. Si tratta di sicurezza, di fiducia, di senso della propria
dignità nella grazia di Cristo - componenti tutte del predetto “vanto” cristiano.
Non resterà confuso chi ha portato lungo il cammino tribolato della fede la
speranza di possedere la “gloria di Dio”: anzi, egli ha ragione di “vantarsi” nella
speranza che lo sta indirizzando verso la perfezione gloriosa della grazia, nella
quale è già stabilito.
Perché l'amore di Dio è stato sparso nei nostri: Paolo fonda la nostra
speranza sull'amore stesso con cui Dio ci ama, e di cui abbiamo una prova
certa: è lo stesso amore di Dio che trova la sua espressione concreta nel dono
dello Spirito, già in possesso del cristiano E’ probabile che qui Paolo si riferisca
al momento del battesimo, come stimano alcuni commentatori. Per ricordare
poi in concreto che i credenti hanno già il dono dello Spirito, quale certezza
dell’amore di Dio, si mette in evidenza come la presenza dello Spirito in noi
attesta non solo l’amore di Dio, ma anche il nostro presente salvifico. Infatti,
mentre gli uomini erano nell’impotenza e ancor più nella empietà (v. 6 cfr
1,18), proprio allora Cristo è morto per essi, per noi (v. 6). Questa frase
sintetica, ripetuta con poca differenza in 8b, vuole dire che con la sua morte
Cristo ha liberato gli uomini dall’impotenza e dalla empietà, cioè dal peccato.
La prova di amore di Dio è
messa ulteriormente in luce con la
contrapposizione all’atteggiamento dell’uomo nei confronti del suo simile (cfr v.
7). Quindi la morte di Cristo assicura che la speranza del giustificato vedrà il
suo compimento.
Mediante lo Spirito Santo che ci è stato dato: la speranza, come la fede,
ci insegna a distogliere lo sguardo da noi stessi e dai nostri meriti per fissarlo
esclusivamente su Dio e sulla sua fedeltà: “ È fedele Iddio, grazie al quale voi
siete stati chiamati alla comunione con suo Figlio Gesù Cristo nostro Signore”
(1Cor 1,9). Ma come può Paolo affermare l’amore di Dio, che evidentemente è
in Dio e non in noi, e che è stato effuso nei nostri cuori dallo Spirito Santo che
ci è stato dato? Sono le ultime parole a suggerire la risposta. Il cristiano vive
“nello Spirito”. Tutto il cap. 8 avrà questo come tema: il “figlio di Dio” è per
definizione colui “che è condotto/animato dallo Spirito di Dio” (Rom 8,14). Per
Paolo la guida dello Spirito non è un impulso sporadico, ma un'esperienza
abituale del credente, mantiene qui ed ora la vita e la forza nello spirito dei
credenti e dà, con la sua presenza in loro, la garanzia di essere amati. Infatti,
lo Spirito Santo è l'amore reciproco del Padre e del Figlio, colui nel quale il
Padre ama il Figlio e tutti gli uomini. In questo senso, cioè in virtù del dono
dello Spirito, l'amore di cui Dio ci ama, abita nel cuore di ogni cristiano. In Rom
8,14-15, passo evidentemente parallelo a Rom 5, 5, l'Apostolo spiegherà che lo
Spirito Santo si unisce al nostro spirito per attestare che siamo figli di Dio,
mettendoci sulle labbra la parola con la quale il Figlio si rivolge al Padre:
“Abba”. Il fatto che “in Lui” noi possiamo invocare Dio come nostro Padre,
testimonia che il Egli ci ama come figli, di più, ci ama come il Figlio unigenito
in cui, secondo l'audace espressione di Gal 3, 28, noi formiamo “un solo essere
vivente”.
Quindi lo Spirito di Dio porta una testimonianza che dà il proprio consenso
allo spirito personale dei cristiani: essi sono figli di Dio. Ma vi è di più: i figli di
Dio sono suoi eredi, eredi della gloria appartenente a Cristo per diritto speciale,
unico, della quale gloria egli fa partecipi per grazia i suoi, rendendoli perciò
coeredi con lui. Coloro che sperimentano in questa vita presente la comunione
con le sue sofferenze possono essere sicuri, anche nel futuro, di prendere parte
alla sua gloria.
PER LA RIFLESSIONE PERSONALE E COMUNITARIA
“Mediante il quale abbiamo anche avuto, per la fede, l’accesso a
questa grazia nella quale stiamo”: Cristo è l’accesso permanente e
unico alla relazione di figliolanza con Dio, è la porta sempre spalancata su
quelle braccia del Padre pronto ad accoglierci e ad avvolgerci col suo
amore di madre. Siamo talmente abituati a chiamare Dio padre e a
proclamarci suoi figli che spesso non siamo capaci di renderci conto della
immensità del dono che ha fatto a tutti noi il Signore per mezzo del suo
Figlio. Chiediamoci allora se il nostro comportamento è davvero di figli. E
se ci diciamo figli, con quale atteggiamento viviamo nella casa del Padre?
Siamo come il figliol prodigo della parabola che, con atteggiamento
pretenzioso, rivendichiamo quello che ci spetta per chiudere ogni relazione
con il Padre? O siamo come il fratello maggiore, che pur vivendo nella sua
stessa casa, di fatto, viviamo in essa più da servi che da figli? E
quand’anche ci rendiamo conto di aver sbagliato, siamo capaci di rientrare
in noi stessi facendo memoria di quanto si sta bene a casa con il Padre e
sappiamo con umiltà metterci in cammino per tornare e chiedergli
perdono per restare sempre con Lui?
“Ben
sapendo che la tribolazione produce perseveranza, la
perseveranza una virtù provata?” Le tribolazioni, insieme alle
persecuzioni a causa della Parola, sono quelle a causa delle quali, nella
Parabola del Seminatore, la parte del seme caduta tra i sassi, non avendo
radice subito resta bruciata e si secca. Ci capita mai, dunque, di essere
anche noi quel terreno sassoso, capace magari di accogliere la Parola con
gioia, ma poi, non avendo radice in noi stessi a causa della nostra
incostanza, lasciamo che il germe di questa Parola venga seccato, da
qualche tribolazione o difficoltà sopraggiunta inaspettata? Possiamo
identificare quali siano di fatto nella nostra vita le tribolazioni, a livello
personale, a livello sociale o comunitario, che più ci debilitano nel
cammino di fede? Come reagiamo dinanzi ad esse? Lasciamo che siano la
disperazione e lo scoraggiamento a prendere il sopravvento, oppure ci
sforziamo, come afferma Paolo, di cogliere in esse il mistero della grazia
sempre all’opera, riuscendo a trasformare questi momenti di difficoltà in
occasione di crescita nella fede, per continuare a perseverare, fosse anche
contro ogni speranza? Siamo consapevoli che proprio questo perseverare
nell’abbandono al Padre, nonostante tutto e seppure nella incomprensione
umana del suo misterioso progetto, è capace di renderci più forti nella
fede, aiutandoci a leggere in profondità ogni accadimento della nostra
vita?
“L’amore
di Dio è stato sparso nei nostri cuori”: L’immagine
sottostante, alla quale ci richiama il verbo “spargere, versarsi”, è quella
del vino che fuoriesce dagli otri (Cfr. Mt 9, 17: “Né si mette vino nuovo in
otri vecchi, altrimenti si rompono gli otri e il vino si versa e gli otri van
perduti”). L’amore di Dio, potremmo dunque dire, è stato versato e
continua ad essere versato (questo, infatti, indica il tempo del perfetto
greco qui usato) dal cuore del Padre nel nostro, come si versa vino da un
otre all’altro o in una brocca. Per questo siamo resi capaci di corrispondere
al suo amore e di amare i nostri fratelli come Lui li ama, cosa che,
altrimenti, con le sole forze umane, sarebbe impossibile. Ora, è naturale
che non si può riempire un contenitore già pieno, se prima non lo si
svuota. Chiediamoci allora se il contenitore del nostro cuore è pronto a
ricevere tale amore o se è già occupato da altri contenuti. Domandiamoci,
con franchezza, quali e quanti sono i materiali che lo ostruiscono. Ci
impegniamo quotidianamente in questo svuotamento del cuore, mettendo
via l’attaccamento a cose o persone, gli oggetti ingombranti come l’amor
proprio, l’orgoglio, l’egoismo, l’invidia, la gelosia, tutte cose che mettono
allo stretto l’amore di Dio, togliendogli lo spazio necessario perché vi
possa dimorare? L’amore del Padre è per tutti e in misura
sovrabbondante, questo deve essere sempre il fondamento della nostra
speranza. Sta a noi, e soltanto a noi, “fare pulito” nel nostro cuore, perché
esso possa crescere e ci renderemo conto che, nella misura in cui gli
facciamo posto, mediante l’ascolto della sua Parola e l’esposizione alla sua
grazia, il nostro cuore si dilaterà, diventando sempre più vuoto e libero da
tutte quelle cose ingombranti che di fatto lo appesantiscono senza tuttavia
dargli gioia, impedendogli, semmai, di amare con l’amore con cui è stato
amato.
TESTI PER LA RIFLESSIONE
1. Dal “Quaderno di note intime” di S. Bernardetta Soubirous
O Gesù desolato e al tempo stesso rifugio delle anime desolate, il vostro amore mi insegna che è
dalle vostre pene che devo trarre tutta la forza di cui ho bisogno per sopportare le mie. Sono
persuasa che il più grande abbandono in cui io possa cadere sia di non partecipare affatto al vostro.
Siccome però mi avete donato la vita con la vostra morte, e mi avete liberata, con le vostre pene, da
quelle che mi erano dovute, voi pure avete meritato, col vostro abbandono, che il Padre celeste non
mi abbandonasse affatto, e che non fosse mai più vicino a me, con la sua misericordia, di quando io
gli sia più unita per la sua desolazione.
Vi scongiuro, mio Dio, per i vostri abbandoni, non di affliggermi, ma di non abbandonarmi
nell’afflizione, di insegnarmi a cercarvi in essa come mio unico consolatore, di sostenervi la mia
fede, di fortificarvi la mia speranza, di purificarvi il mio amore; fatemi la grazia di riconoscervi la
vostra mano, e di non volervi altro consolatore che voi. Umiliatemi allora quanto vi piacerà, e
consolatemi solo affinché io possa soffrire e perseverare, fino alla morte, nella sofferenza. Poiché le
grazie che vi domando sono il frutto dei vostri abbandoni, fatene apparire la virtù nella mia
infermità, e gloriatevi nella mia miseria, o mio Gesù, unico rifugio dell’anima mia. O Santissima
Madre del mio Gesù, che avete visto e avete sentito l’estrema desolazione del vostro caro Figlio,
assistetemi nel tempo della mia.
Io soffro. E’ verso di voi, mio consolatore, che si elevano incessantemente i miei gemiti. E’ nel
vostro cuore adorabilissimo che riverso le mie lacrime, è ad esso che confido i miei sospiri, le mie
angosce, alle sue amarezze le mie amarezze. Fate, o Gesù mio, che questa unione le santifichi. Fate
che aumentando il mio amore, essa le renda più dolci e più leggere.
Ricordatevi spesso questa frase che vi è stata pronunciata dalla Vergine Santissima: penitenza!
Penitenza! Voi dovete essere la prima a metterla in pratica. Perciò, soffrite tutto in silenzio, affinché
Gesù e Maria siano glorificati. Domandate pure a Nostro Signore e alla Santissima Vergine di farvi
conoscere la croce che Egli vuole che portiate quest’anno. Portatela con amore, fedeltà e generosità.
Consegnatela tutte le sere a Nostro Signore, che ve la restituirà ogni mattina al vostro risveglio.
Questa croce farà la vostra gloria e la vostra consolazione.
2. L’amor puro e la pura sofferenza
Una vigilia del 1° gennaio mi sono recata insieme con due compagne nella camera di suor MarieBernard per presentarle i nostri auguri di capodanno. Terminata la visita, lasciai uscire le altre due e
dissi a Bernardetta: “ Cara sorella, mi fareste piacere se mi auguraste qualcosa per quest’anno “.
Bernardetta riflettè e mi dissi: “ Vi auguro l’amor puro e la pura sofferenza “. “ Oh, no! – le dissi –
Questo no! “. Ma lei mantenne l’augurio. Ebbene, di questa formula che mi faceva paura me ne
sono ricordata parecchie volte durante la mia vita e mi ha dato coraggio.
(Suor Athanase Baleynaud)
3. Mio Dio, ve lo offro
La violenza del dolore le causava delle crisi che non poteva contenere, ma lei le mutava in ardente
preghiera. Diceva con energia: “ Mio Dio, io ve lo offro … Mio Dio, io vi amo … Sì, mio Dio, io la
voglio, la vostra croce “.
(Sempè)
4. Macinata come un chicco di grano
Mi ricordo ancora del suo sguardo, quando ci disse: “ Sono macinata come un chicco di grano “.
Mi sembra che aggiunse: “ Non avrei mai creduto che bisognasse soffrire tanto per morire “:
(Suor Lèontine)
5. Amore e croce
Ognuno “ prenda la sua croce “, dice Gesù. Strane e uniche queste parole. Ma anche queste, come le
altre parole di Gesù, hanno qualcosa di quella luce che il mondo non conosce. Sono così luminose
che gli occhi spenti degli uomini, e anche dei cristiani languidi, restano abbagliati e quindi accecati.
L’amore ha spinto Gesà alla croce che da molti è ritenuta pazzia. Ma solo quella follia ha salvato
l’umanità, ha plasmato i santi. I santi infatti sono uomini capaci di capire la croce. Uomini che,
seguendo Gesù, l’Uomo-Dio, hanno raccolto la croce di ogni giorno come la cosa più preziosa della
terra; l’hanno amata tutta la loro vita e hanno conosciuto e sperimentato che la croce è la “ chiave “,
l’unica chiave che apre un tesoro, il tesoro. Apre piano piano le anime alla comunione con Dio.
La croce è il mezzo necessario per cui il divino penetra nell’umano e l’uomo partecipa con più
pienezza alla vita di Dio, elevandosi dal regno di questo mondo al Regno dei Cieli. La croce … cosa
tanto comune. Così fedele, che non manca, all’appuntamento di nessun giorno. Basterebbe
raccoglierla per farsi santi. La croce, emblema del cristiano, che il mondo non vuole, fuggendola, di
fuggire al dolore, e non sa che essa spalanca nell’anima di chi l’ha capita il regno della Luce e
dell’Amore: quell’amore che il mondo tanto cerca, ma non ha.
(Chiara Lubich)
6. Nella malattia si attua la beatitudine evangelica dei poveri
“ Beati i poveri nello spirito “, ci dice Gesù. Una forma permanente di povertà, sempre presente
anche nei paesi più progrediti, e veramente autentica, è la malattia. La malattia porta una vera
povertà e, come questa, viene senza essere chiamata. Nessuno la cerca, è un dovere combatterla,
eppure c’è. Un malato può essere ricco, ma le sue ricchezze sono cose assenti da lui; gli rimane solo
il metro quadrato del suo letto. L’uomo abituato a un certo lusso impara qui un distacco, uno
spogliamento che, se lo vuole, possono divenire un’elevazione spirituale. Le sue opere passate,
presenti e future si distaccano da lui. La beatitudine dei poveri diventa sua. Un secondo lineamento
di questa povertà che la caratterizza forse meglio dell’assenza di beni, è l’insicurezza. Il malato è
immerso nell’insicurezza, con gli alti e i bassi della sua malattia, l’aggravamento che incombe, il
miglioramento precario, i rischi più o meno gravi sempre presenti. Il malato, ancor più
dell’impiegato che rischia di perdere il posto, non è mai sicuro del domani. Una terza caratteristica
consiste nella diminuzione dell’indipendenza e della dignità umana. Il malato è divenuto
dipendente. Non decide più da sé, è nelle mani del medico e degli infermieri. Condizione umiliante
che può trasformarsi in una vera infanzia spirituale nelle mani di Dio. Miei fratelli ammalati, portate
nella Chiesa una testimonianza della povertà evangelica.
(Thomas Chifflot)
7. Soffrire con Gesù
Ogni nostra croce è un frammento della Croce di Gesù. Ogni nostro sacrificio è una parte di quel
supremo sacrificio. Non c’è dolore che egli non abbia patito; non c’è lacrima che non abbia versata;
non c’è spina dalla quale non sia stato perforato. Ti domanda – domanda a tutti – una personale
partecipazione. E’ lui che te la chiede, dopo avertene fissato il grado, il momento e l’intensità. Ogni
tua piccola o grande croce è una parte della sua, fissata in maniera proporzionata alle possibilità e
alle necessità che Egli solo conosce. Quando sei colpito dal dolore, quando esperimenti la trafittura
delle spine, lo strazio di una ferita, l’onta di uno schiaffo, lo spasimo dei fori alle mani e ai piedi,
l’umiliazione di un insulto o di una calunnia, non accusare nessuno; non incolpare i tuoi fratelli, le
circostanze, gli eventi della vita. Essi non sono che strumenti: è lui, il divino Crocifisso, che ti invita
a seguirlo, ad imitarlo, a continuare, in te, la grande legge della salvezza nella sofferenza. E’ lui che
domanda di stenderti sul legno insanguinato della sua Croce. Ad ogni tua croce corrisponde un suo
aiuto. Ad ogni tuo dolore, per quanto umanamente impossibile, una sua grazia particolare. E se ogni
tua piccola croce è un frammento della sua Croce, tu la devi accettare e vivere con lui, con intensità
di amore, con perfetta adesione ai suoi arcani disegni, con ferma convinzione di avere da lui la forza
che ti è indispensabile.
(Novello Pederzini)