Migranti e reciprocità nella rete e nella formazione - casa-di

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Migranti e reciprocità nella rete e nella formazione - casa-di
A cura di:
Laura Bonica
Migranti e Reciprocità
nella Rete e nella Formazione
© 2000 Casa di Carità Arti e Mestieri
Progetto grafico e impaginazione elettronica: Arcastudio
Torino, Settembre 2000
INDICE
Prefazione
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Introduzione
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1. Perché migranti?
2. La Formazione Professionale Regionale
come contesto favorevole
3. I.Ter. Integra
3.1. Il corso formazione formatori e il manuale
3.2. Grafico n.1: attività previste dal progetto I.Ter. Integra
4. Il progetto di costruzione del manuale
4.1. Articolazione dei due moduli
4.2. Altri materiali utilizzati per la stesura del manuale
5. Guida alla lettura del manuale
Parte prima: IL CONTESTO
CAPITOLO 1
PRESENZA DEI MIGRANTI A TORINO E IN PIEMONTE
Silvia Zabaldano
1.1.
1.2.
1.3.
1.4.
1.5.
Premessa
Nicchie settoriali e territoriali
Il lavoro
La scuola
Dati quantitativi sulla presenza e sulle caratteristiche
dei gruppi etnici nel territorio torinese
CAPITOLO 2
LA CASA DI CARITÀ ARTI E MESTIERI E I MIGRANTI
Michele Grisoni e Silvia Zabaldano
2.1. Corsi per migranti alla Casa di Carità Arti e Mestieri
2.2. Lo Sportello di Orientamento al Lavoro: O.L.M.
2.3. Considerazioni sugli esiti del percorso formativo
del migrante alla Casa di Carità Arti e Mestieri
e situazione attuale dei corsi
2.4. Direttive e linee metodologiche
della Casa di Carità Arti e Mestieri
2.4.1. Direttive specifiche
2.4.2. Linee metodologiche
2.4.3. Grafico n.3: Schema di progetto di corso
2.4.4. Grafico n.4: Modello sistemico/ecologico
2.4.5. Grafico n.5 e 5a: rapporto formatore/allievo a e b
2.5. Il rapporto tra la Formazione Professionale
e i servizi territoriali di Torino
2.5.1. La rete cittadina dei servizi dal punto di vista
della Casa di Carità Arti e Mestieri
2.5.2. Grafico n.6: la rete territoriale per migranti
dal punto di vista della Formazione Professionale
2.6. Progetti di azioni integrate per la realizzazione
di opportunità stabilizzanti
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Parte seconda: OPZIONI TEORICO-METODOLOGICHE
CAPITOLO 3
PER UN MODELLO DI COMUNICAZIONE FONDATO SULLA RECIPROCITÁ’
Laura Bonica
3.1. Premessa
3.2. Qual è la metafora della natura umana che ci ispira?
3.2.1. Meccanicismo e costruttivismo
3.2.2. La prospettiva della complessità
3.3. Concetti utili per una chiave di lettura ispirata
alla reciprocità tra persone e tra istituzioni
3.3.1. Autoreferenzialità,vincoli, reciprocità
3.3.2. Ascolto attivo, conflitto, negoziazione
3.3.3. Contratto e gioco
3.3.4. Coevoluzione e co-costruzione
3.3.5. Verso un approccio ecologico-evolutivo
al concetto di contesto
3.3.6. Dalle dicotomie verso la complementarietà
3.4. Per concludere…
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CAPITOLO 4
UN DISPOSITIVO PER LA COMUNICAZIONE
INTEGRATA NEL TERRITORIO
Laura Bonica
4.1. Premessa
4.2. Le sequenze del dispositivo
4.2.1. La scelta: mi interessa o no collaborare?
4.2.2. Chi ha fatto la prima mossa
e come è stato il primo incontro
4.2.3. Quali sono i rispettivi vincoli istituzionali?
Di che cosa mi sento veramente responsabile?
4.2.4. Quali potrebbero essere le incertezze pertinenti,
i nodi critici, le buone domande da condividere?
4.2.5. Come potremmo ridefinire i nostri vincoli
per rispondere a queste domande?
In vista di quali opportunità comuni?
4.2.6. Co-costruzione di un referenziale comune
4.2.7. Ritorno alla propria istituzione e rinegoziazione
dei propri vincoli interni in funzione
di un progetto interistituzionale
4.3. Discussione
4.4. Allegato: le schede di lavoro proposte ai gruppi.
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CAPITOLO 5
ANALISI DI 4 ESEMPI
Laura Bonica
5.1. Esempio 1: Vincoli autoreferenziali e distanza
rispetto all’utenza: reciprocità e ruoli asimmetrici.
5.2. Esempio 2: L’importanza della prima mossa:
invenzione di una strategia.
5.3. Esempio 3: Autodefinizione all’interno della rete:
un minore seguito da tutti, ma in mezzo ad
equivoci e fraintendimenti
5.3.1. Finalità e contesto
5.3.2. Descrizione
5.3.3. Commento
5.4. Esempio 4: Collaborazione riuscita tra due soggetti
della rete: la Casa di Carità Arti e Mestieri e la Scuola
5.5. Osservazioni conclusive
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Parte terza: MIGRANTI E COMUNICAZIONE DI RETE
CAPITOLO 6
PERCORSI DI RETE ed AREE D’INTERVENTO
Laura Bonica, Michele Grisoni, Silvia Zabaldano
6.1. Ricostruzione di percorsi di rete,
dal punto di vista di migranti, prima del 1990
6.2. La situazione attuale
6.2.1. Frequenza scolastica e ricongiungimenti familiari
6.2.2. La genitorializzazione dei minori
6.2.3. Commento
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6.3. Ricostruzione di percorsi di rete
dal punto di vista dei servizi
6.3.1. Il percorso standard del migrante
6.4. Schede di autodefinizione delle aree d’intervento
rivolte ad utenza migrante
6.4.1. La prima e seconda accoglienza
6.4.2. La scuola
6.4.3. La formazione professionale
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CAPITOLO 7
INTERDIPENDENZA TRA LE TRE AREE E NODI CRITICI
Laura Bonica, Michele Grisoni, Silvia Zabaldano
7.1. Premessa
7.2. Ipotesi per un dispositivo di accompagnamento,
orientamento e formazione
7.3. Le figure del tutor e del mediatore culturale
7.3.1. Il ruolo del tutor secondo diverse prospettive
7.3.2. Organizzazione dello stage
7.3.3. Il ruolo del mediatore culturale
7.4. I criteri di valutazione dei prerequisiti linguistici
7.4.1. Prerequisiti linguistici per la formazione di una classe
7.4.2. Prerequisiti linguistici specifici di accesso
ad un corso professionale
7.5. Conclusioni
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CAPITOLO 8
CILS - CERTIFICAZIONE DI ITALIANO COME LINGUA STRANIERA
Gioia Maestro
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8.2.
8.3.
8.4.
Premessa
Contestualizzazione
Una lingua da imparare, una lingua da usare
Dimostrare certificare le proprie conoscenze
e competenze linguistiche
8.5. Linee guida per la CILS
8.5.1. Il sasso nello stagno: attrazione
di una proposta altamente flessibile
8.5.2. Coordinate informative per il conseguimento
di un titolo caratterizzato da procedure
e meccanismi operativi semplificati
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Parte quarta: MIGRANTI E FORMAZIONE
CAPITOLO 9
RECIPROCITÀ e FORMAZIONE
Laura Bonica, Simona Negri
9.1. Qualche chiarimento ancora sul concetto di reciprocità
9.2. Storie personali e traiettoria evolutiva
9.2.1. Vincoli spaziali, temporali e sociali
9.2.2. Ambivalenze
9.2.3. I rischi di un adattamento immediato e forzato
9.2.4. Una visione più ottimistica
9.2.5. Riflessioni e proposte
9.3. Suscettibilità rispetto al setting formativo
ed ai modelli di apprendimento-insegnamento
9.3.1. Ritornare a scuola: un ulteriore transizione
tra presente e futuro
9.3.2. Una motivazione speciale
9.3.3. Le regole del setting formativo
9.3.4. Il rapporto con l’imparare
9.4. Che fare?
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CAPITOLO 10
SPECIFICITÁ DELLA CLASSE MULTIETNICA
Silvia Zabaldano
10.1. Elementi di eterogeneità
10.1.1. L’età
10.1.2. I titoli di studio
10.1.3. La provenienza etnica
10.1.4. Le differenze di genere
10.1.5. La conflittualità interetnica in classe
10.1.6. Richieste individuali dei corsisti esterne
all’iter didattico
CAPITOLO 11
L’INSEGNAMENTO - APPRENDIMENTO DELLA LINGUA ITALIANA
NELLE CLASSI MULTIETNICHE
Gioia Maestro, Silvia Zabaldano
11.1. La lingua italiana nel corso professionale (Silvia Zabaldano)
11.1.1. Metodologie di insegnamento
11.2. Per chi vuole saperne di più sulla lingua (Gioia Maestro)
11.2.1. Suggerimenti per la costruzione di un’esercitazione
didattica per l’apprendimento della lingua italiana
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Parte quinta: RECIPROCITÀ E VULNERABILITÀ
RISPETTO ALL’AUTODEFINIZIONE
CAPITOLO 12
VIOLAZIONI DELLA RECIPROCITÀ
Laura Bonica
12.1. Definizioni
12.2. Far giocare le differenze
12.2.1. Descrizione dell’esempio
12.2.2. Analisi e commenti
12.3. La moltiplicazione delle cornici
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CAPITOLO 13
APPRENDERE AD APPRENDERE: RELAZIONI, EMOZIONI
E CONTESTI DI APPRENDIMENTO
Marianella Sclavi
13.1. Premessa
13.2. Esercizio n.1: il gioco delle premesse implicite
13.3. Esercizio n.2: il gioco della visione binoculare
(doppia descrizione)
13.4. Esercizio n.3: nel taccuino dell’antropologa:
comportamenti, emozioni e dissonanza di cornici
13.5. Esercizio n.4: il gioco delle narrazioni parallele
13.6. Conclusioni: l’abduzione
p. 225
p. 226
p. 232
CONCLUSIONI
p. 247
BIBLIOGRAFIA
p. 253
p. 234
p. 240
p. 246
Allegato n. 1
Corsi di orientamento di 30 ore rivolti
ai minori stranieri
p. 257
Allegato n. 2
Esempi di schede di resoconto individuale
p. 267
Prefazione
Il Progetto Integra I.Ter. ha rappresentato una grande opportunità per la
Casa di Carità Arti e Mestieri, consentendo di sistematizzare e formalizzare il
lavoro che ormai da più di 10 anni, si stava sviluppando sul tema MIGRANTI.
L’occasione è ancora più importante per il periodo storico nel quale si
colloca, tra le evidenti difficoltà che le realtà sociali dei paesi della Comunità
incontrano nell’accettare e nell’affrontare contestualmente i diversi aspetti di
questo problema, la cui rilevanza anche numerica è ormai sotto gli occhi di
tutti e non più facilmente eludibile.
In qualche modo la ricerca ed il manuale che oggi licenziamo riassumono
la storia di una avventura, le cui tappe sono tutte presenti nella realtà
complessa dell’oggi; il diario di un percorso che ha conosciuto successi e
difficoltà, momenti belli e brusche frenate, accompagnando - spesso anche
prevedendo alla luce dell’esperienza via via maturata - le diverse complessità,
i cammini contorti, le emergenze che in questi anni si sono succedute.
Infatti, gli accadimenti politici e sociali degli ultimi anni di questo secondo
millennio hanno indotto trasformazioni profonde dei flussi migratori come
erano ancora sul finire degli anni ’80.
La Casa di Carità ha sperimentato tutte queste realtà, così diverse e
complesse, a partire dai primi corsi finalizzati a immigrati adulti provenienti
dalla sponda africana del Mediterraneo (tunisini e marocchini in larga
prevalenza) per via via sviluppare attività con i giovani e le donne e affinare il
proprio impegno con persone provenienti da realtà sociali, culturali,
geografiche e storiche profondamente diverse: la Somalia e il Centro Africa,
l’Albania e l’est europeo, il Centro America e le Malaysia.
Come dicevo innanzi, il progetto I.Ter. rappresenta dunque una sintesi
ragionata di un processo esperienziale di 10 anni in cui confluiscono attività,
modalità operative e sensibilità che affondano le loro radici nella storia e nella
stessa ragion d’essere della Casa di Carità e che sono espresse nella Proposta
Formativa dell’Ente.
Questa visione metastorica ha permesso di conciliare formazione culturale,
tecnica e professionale in un contesto multiculturale e interculturale; ha
sviluppato conseguentemente buone pratiche che hanno influito positivamente
nel rapporto con i servizi territoriali; ha reso possibile in un rapporto di stima
vicendevole ricadute positive sulle attività dell’Ente e arricchimento e
valorizzazione delle conoscenze delle culture “altre”.
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Infine il processo di integrazione di attività formative così diversificate e
con target così vario e multi-culturale ha indotto positivi riscontri anche sulla
organizzazione interna dell’Ente, che ha potuto prepararsi ai nuovi scenari di
sviluppo organizzativo e produttivo, basati sulla flessibilità, la quale può
davvero rappresentare un modello interculturale di interazione di competenze
tecnico-professionali e relazionali-comunicative.
Questi pochi spunti penso possano rappresentare altrettante chiavi di
lettura per seguire il dipanarsi del Progetto I.Ter. della Casa di Carità Arti e
Mestieri nei suoi diversi stadi, dalla progettazione, alla attuazione, alle
necessarie verifiche e regolazioni.
Ringrazio tutti gli attori della Rete, che hanno contribuito alla realizzazione
di questo progetto e mi scuso per le eventuali inesattezze e omissioni.
I miei complimenti e ringraziamenti a coloro che hanno steso i diversi
capitoli nei quali si articola il manuale e la ricerca; in particolare alla prof.ssa
Laura Bonica, ed al prof. Maurizio Ambrosini che hanno coordinato i due lavori
e che hanno saputo, con dedizione, impegno e grande entusiasmo, affrontare
la complessa materia, inquadrandola culturalmente e dando spessore e dignità
scientifica al nostro operare.
Infine non posso dimenticare la persona che, da dieci anni, con umiltà,
profonda convinzione e fiera cocciutaggine, opera alla Casa di Carità nel
settore ed ha consentito il realizzarsi di tutto questo: lui, Michele Grisoni, è
stato davvero il lievito che ha portato colleghi e direzione ad impegnarsi
fattivamente su queste tematiche.
Torino, 25 agosto 2000
Il Direttore Generale
Ing. Attilio Bondone
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INTRODUZIONE
1. Perché migranti?
Questa guida è rivolta a coloro che, in diversi contesti, si trovano a fare
formazione con persone straniere, emigrate - immigrate nel nostro paese.
Poiché spesso esse arrivano alla formazione dopo percorsi di emigrazione
multipli e con un obiettivo di stabilità futura ancora incerto, le loro
problematiche d’inserimento possono essere variamente articolate a seconda
dell’età, dello status sociale e scolastico precedente e degli eventuali iter di
ricongiungimento familiare. Proprio partendo da queste considerazioni la Casa
di Carità Arti e Mestieri ha proposto di definire questa utenza più globalmente
come “migrante”. Inoltre questo è il termine utilizzato anche dalla Comunità
Europea per definire tale tipologia di soggetti.
Ciò non significa volerla relegare in una etichetta di mobilità a vita, o di
privarla dell’identità di un luogo caro da cui un giorno è partita, ma più
semplicemente evitare di definirla solo dal nostro punto di vista e, al
contempo, riconoscerle uno stato attuale di transizione verso una opportunità
stabilizzante, che starà all’utenza stessa decidere se e come utilizzare.
2. La Formazione Professionale Regionale
come contesto favorevole
ad accogliere l’utenza migrante
Nel panorama del sistema scolastico italiano la Formazione Professionale
Regionale risulta essere uno dei contesti più sensibili rispetto alla instaurazione
di un dialogo tra allievi e docenti e più aperti al rapporto tra teoria e pratica,
tra educazione e lavoro, tra scuola e imprese, anticipando così alcune delle
linee innovative cui è chiamato a rispondere tutto il sistema scolastico nella
prospettiva dell’autonomia.
Da ricerche, recentemente condotte a livello nazionale, che hanno
investigato sia sullo staff di direzione che su 595 operatori, stratificati in sette
regioni (Malizia, Borsato, Frisanco, Pieroni, 1996), così come dall’indagine Isfol
(1996), che ha raggiunto il parere di 450 allievi, oltre che dei rispettivi docenti
e genitori, la Formazione Professionale Regionale emerge come un contesto
vivo, efficace nell’opera di reinserimento formativo e sociale dei giovani e di
cui si ritengono soddisfatti sia gli operatori che gli utenti.
Se ricordiamo che sui 450 allievi intervistati, il 40% era già stato bocciato
almeno una volta nella sua carriera scolastica, è plausibile dedurre che
nell’ambito della Formazione Professionale Regionale è già presente una
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disponibilità a considerare la differenza delle traiettorie evolutive degli allievi
come una risorsa e che ciò ha consentito di arricchire la professionalità dei
docenti di saperi innovativi rispetto alla messa in atto di strategie di ri-motivazione
all’apprendimento e di accompagnamento dei giovani alla vita adulta.
Tuttavia, più del 40% degli operatori intervistati si lamenta di un certo
isolamento, che passa attraverso il disinteresse degli Enti Locali o attraverso
lo scollamento tra la scuola, la Formazione Professionale Regionale ed il
mondo aziendale.
Quindi, se l’inserimento sempre più massiccio di utenza migrante minore e
adulta nei diversi livelli del nostro sistema scolastico e formativo trova nella
Formazione Professionale Regionale una comunità di pratiche già predisposta ad
una cultura dell’accoglienza della diversità, occorre sottolineare che la
Formazione Professionale vive, nel confronto con le altre istanze del territorio,
anche il senso di una identità incerta e poco compresa. Infatti, come scuola, la
Formazione Professionale Regionale viene spesso definita un coraggioso terreno
di frontiera, la cui utenza fa un po’ paura; al tempo stesso, il riconoscimento di
questo “coraggio” non si traduce in un aumento di interesse allo scambio e si
percepisce quindi una definizione della Formazione Professionale Regionale
come scuola di serie B, caratterizzata da una sorta di cultura debole, come deboli
sono considerate le fasce di utenza di cui si occupa.
D’altronde, come luogo di inserimento sociale dei migranti, essa appare
invece privilegiata, perché, rispetto alle strutture di prima accoglienza, essa
riceve persone che avendo già il permesso di soggiorno dovrebbero avere
ormai superato la prima fase di emergenza1.
L’avvio di una integrazione più feconda tra scuola, Formazione
Professionale Regionale, università e sistema delle imprese è auspicata anche
da Besozzi (1998), nella conclusione del suo esauriente saggio sulla
Formazione Professionale: l’autrice sottolinea inoltre che tale cambiamento non
può poggiare solo sulla buona volontà di singoli centri di Formazione
Professionale, ma richiede, piuttosto, interventi di promozione e di
coordinamento da parte dell’autorità pubblica a livello nazionale e locale.
1 Ciò è stato confermato anche nell’ambito del nostro corso, soprattutto nelle giornate dedicate al
punto di vista della scuola e al punto di vista della prima accoglienza
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3. I.Ter. Integra
I.Ter., Integrare nel Territorio, è un progetto Europeo gestito dalla Casa di
Carità Arti e Mestieri che si propone di raccordare gli interventi dei vari servizi
che si occupano dell’inserimento lavorativo degli stranieri attraverso la
creazione di un modello strutturato di percorso di formazione da realizzarsi
nelle agenzie formative e che si esplicita nelle seguenti attività riportate anche
nel grafico n.1:
Corso di formazione/formatori e di operatori territoriali con la finalità
di uniformare ed orientare le conoscenze e le azioni spendibili nel settore di
riferimento;
Corso di qualifica di mediatore culturale di 900 ore finalizzato
all’inserimento lavorativo utilizzando un dispositivo di accoglienza, di
inserimento nelle aziende/servizi, attraverso l’azione coordinata di formatori
interni ed esterni specializzati nel settori ed appartenenti ad associazioni,
professioni, servizi specializzati;
Tre corsi di orientamento strutturati in rete: due rivolti a minori
migranti soli non accompagnati e uno a donne migranti, propedeutico ad
un corso formativo e/o lavorativo;
Apertura ed attivazione di uno sportello permanente in grado di
assicurare un servizio di informazione/manutenzione e orientamento per le
necessità legate all’accoglienza, all’integrazione, alla formazione e agli
inserimenti lavorativi;
Produzione di un manuale che si pone la finalità di individuare una
chiave di lettura per sistematizzare le metodologie formative;
Produzione di una ricerca quantitativa/qualitativa su dati recenti
nell’ambito teorico (formazione/integrazione/professionalizzazione), operativo
(immigrati nelle varie realtà: Torino, Milano, Brescia) e esperienziale (interviste:
utenza migrante, operatori di formazione).
Per la Casa di Carità Arti e Mestieri il progetto I.Ter. rappresenta anche una
preziosa occasione per giungere ad una sintesi ragionata del percorso
esperienziale degli ultimi dieci anni, in cui sono nate e si sono concretizzate
idee, iniziative, strategie, costruite in un “corpo a corpo” con l’utenza migrante
e mirate al progetto di stabilizzazione.
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3.1. Il Corso di formazione/formatori
ed il manuale: uno spazio per pensare
e progettare “insieme”
Occorre tuttavia ricordare che queste esperienze costituiscono, in gran
parte, un sapere sommerso, perché, come spesso capita quando si è impegnati
in una innovazione, il tempo per la riflessione e per il confronto tra gli
operatori sfugge a favore del “fare”. Ad esempio, anche se la Casa di Carità Arti
e Mestieri persegue da anni rapporti con gli altri attori della rete, il più sovente
essi sono avvenuti nell’emergenza, sulla base di richieste pressanti formulate
dall’una o dall’altra parte, il più delle volte condotti per volontà e passione di
singoli operatori, senza che fosse previsto un tempo istituzionale per fermarsi,
per confrontare le domande di fondo che guidavano proprio gli interventi, più
innovativi, o i dubbi che li accompagnavano.
Nell’ambito del progetto I.Ter. Integra, la stesura del manuale ed il corso di
formazione/formatori, sono stati visti da subito come due progetti
reciprocamente funzionali alla contestualizzazione e concettualizzazione di
queste esperienze in vista di più obiettivi:
• consolidare i rapporti di rete già esistenti, creando le opportunità per
collaborazioni più sistematiche e istituzionalizzate2;
• individuare e confrontare con altri attori della rete i nodi critici d’interesse
comune;
• puntare alla costruzione di una chiave di lettura del rapporto tra operatori
e migranti, utilizzabile da attori eterogenei, nella formazione, ma non solo,
e trasversale alle diverse tipologie di corsi e di utenza.
Lo spazio concesso dal progetto europeo è stato quindi interpretato come
un luogo privilegiato per potenziare il riconoscimento reciproco e la
comunicazione con i servizi che entrano quasi quotidianamente in contatto con
la Formazione Professionale Regionale.
L’idea è che l’aumento sempre più massiccio di utenza migrante costituisca
un’importante sollecitazione alla collaborazione interistituzionale e che una
migliore capacità di comunicazione tra istituzioni favorisca di per sé, in ritorno,
la facilitazione dei percorsi di stabilizzazione da parte dei migranti.
2 Si ricorda, ad esempio che a Torino esiste dal 1990 una Convenzione sui problemi scolastici
dell’utenza migrante stipulata tra Provveditorato, Comune, Regione, a cui si è aggiunta dal 1999
anche la Provincia, da cui la Formazione Professionale,che intrattiene rapporti continui con la scuole
di alfabetizzazione, è stata esclusa almeno sul piano formale.
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3.2. Grafico n.1: attività previste dal progetto
I.Ter. Integra
6.
5.
MANUALE
Metodologie formative
RICERCA
Migranti: Formazione
Inserimenti
Difficoltà
Tutor mentor: Competenze
Funzioni
2.
CORSO
MEDIATORE CULTURALE
INTEGRA
I.TER.
3.
4.
ORIENTAMENTO
MINORI
DONNE
ADULTI
SPORTELLO
di:
Accompagnamento
Orientamento
1.
CORSO
FORMAZIONE FORMATORI
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4. Il progetto di costruzione del Manuale
La progettazione e la cura scientifica di queste due iniziative, il Corso per
formatori ed il Manuale, è stata affidata a Laura Bonica, docente di Psicologia
dello sviluppo e dell’educazione presso il Dipartimento di Psicologia
dell’Università di Torino, in seguito all’interesse dello staff della Casa di Carità
Arti e Mestieri verso il modello per la comunicazione integrata sul territorio da
lei elaborato e già validato in due esperienze di formazione europea finanziate
dalla CEE3. Il corso di formazione è stato, quindi, progettato in modo da
coinvolgere diversi attori della rete cittadina e finalizzato alla sperimentazione
di una metodologia, ispirata alla reciprocità, che favorisse il confronto fra gli
attori della rete sociale in vista della definizione di prassi e di procedure
condivise. Il Manuale costituisce al tempo stesso la testimonianza di questo
percorso e dei materiali che sono stati prodotti nei diversi gruppi di lavoro, ed
una proposta di percorso da effettuare per chi volesse ricostruire, a partire dalla
propria posizione specifica, un modello relazionale (fra persone e strutture
della rete) fondato sulla reciprocità.
Al fine di contestualizzare questo percorso accenniamo all’articolazione dei
due moduli del corso di formazione-formatori4.
3 Una, nell’ambito del RIF (Reseau Institutions de Formation) riguardante l’inserimento scolastico degli
studenti immigrati (Bonica, Biarnes, 1995) e l’altra nell’ambito di un progetto Socrates-Comenius,
riguardante la formazione di responsabili di progetti d’innovazione, centrati sul tema della solidarietà
educativa (Mouvet B., Barbosa L., Bonica L. ed altri, 1997; Bonica L., Mouvet B., 1997).
4 Le opzioni teorico-metodologiche ed i risultati del percorso formativo sono riportati rispettivamente
nella seconda e nella terza/quarta parte di questo testo.
16
4. l. Articolazione dei due moduli
Partecipanti
Il gruppo era formato da 24 persone, aventi in comune un impegno
professionale-istituzionale o volontario nell’ambito del lavoro con migranti. Gli
ambiti di attività coprivano un raggio abbastanza ampio di settori:
Settore
Prima accoglienza
mas fem totale Note
2
2
Un operatore di strada palestinese e un
educatore
Alfabetizzazione e 150 h
2
2
Insegnati
Sostegno scolastico
nella scuola dell’obbligo
2
2
Volontari
Centro Interculturale
del Comune di Torino
1
1
Dirigente
1
1
Assistente sociale
2
4
Docenti in corsi per migranti: minori, donne e
uomini adulti, carcere
2
Tutor interni: uno per i corsi di meccanica
(minori e Arti e Mestieri adulti uomini), l’altro
per donne e per mediatori culturali
Consorzio Intercomunale di Susa
Formatori della Casa di Carità
Arti e Mestieri
2
Tutor della Casa di Carità
Arti e Mestieri
2
Sportello orientamento per migranti
1
Progettazione corsi
1
Mediazione culturale
1
Formatore addetto per alcune ore allo sportello
1
2
Uno della Casa di Carità Arti e Mestieri
e l’altro Ciofs
2
2
Congo e Albania
Consulente aziendale peruviana
1
1
Libera professionista e volontaria alla Caritas
Tirocinanti universitarie
4
4
Scienze dell’Educazione e Psicologia
16
24
Totale
8
Tempi e contenuti
Nel primo modulo (6 giornate, 42 ore) si è cercato di arrivare alla
condivisione di un elenco di questioni comuni, sia attraverso la
sperimentazione del modello di comunicazione integrata sul territorio (due
giornate e mezzo condotte da Laura Bonica, per un totale di 17 ore), sia
attraverso contributi su temi specifici: l’insegnamento della lingua e la CILS
(6 ore, Gioia Maestro), reciprocità, transizioni ecologiche e traiettorie evolutive
(4 ore, Laura Bonica), i gruppi di ascolto (6 ore, Ines Damilano), la gestione
creativa dei conflitti e la comunicazione interculturale (6 ore, Marianella Sclavi)
17
Il secondo modulo è stato progettato, insieme ai partecipanti stessi, come
un’occasione di approfondimento, allargato ad altre esperienze ed istanze
territoriali, sui nodi critici emersi dal primo modulo. Esso è stato articolato in
tre giornate seminariali, ognuna centrata su una specifica area d’intervento:
l’accoglienza, la scuola e la formazione professionale regionale. Per ogni area
sono stati invitati, in modo mirato, attraverso un’intervista preliminare,
rappresentanti significativi delle istituzioni torinesi e di altre città: in particolare,
per la prima e seconda accoglienza: don Fredo Olivero della CARITAS5, e
Giovanna Zaldini dell’ALMA MATER6, entrambi torinesi; per la scuola: il
CIDISS7 di Torino, rappresentato dalla Preside Demo e da un insegnante per
ogni ordine di scuola, e la Preside della scuola Media Giovanni Pascoli di
Milano; per la formazione professionale: Samia Quoider, sociologa, formatrice
ed esperta di fenomeni migratori, e Gianni Daniele e Paola Massignan del
CEDRITT8 di Genova.
4.2. Altri materiali utilizzati per la stesura del
manuale
Per la stesura di questo testo, oltre ai materiali inerenti i due moduli, ci si
è avvalsi di interviste in profondità rivolte a docenti e coordinatori della Casa
di Carità Arti e Mestieri, della documentazione relativa alla progettazione di
corsi, a convenzioni interistituzionali e al monitoraggio del percorso degli
allievi, e, infine, della consultazione bibliografica.
Poiché non è stato possibile, come sarebbe stato nelle intenzioni iniziali,
affiancare un progetto di osservazione sistematica in aula, durante lo
svolgimento dei corsi, abbiamo fatto ampio riferimento a testimonianze
riportate in altre ricerche (soprattutto in Massa e altri, 1994) ed in Carlini (a cura
di, 1991), oltre che ad esperienze tratte dai precedenti progetti europei, già
citati sopra.
5 La Caritas, associazione cattolica, nella diocesi torinese ha istituito uno specifico Servizio Migranti
con un’attenzione alle problematiche di prima accoglienza e dell’inserimento sociale e lavorativo
dello straniero.
6 L’Alma Mater, centro interculturale delle donne si occupa di sostenere, attraverso l’incontro diretto,
donne con problemi collegati ai bisogni di prima accoglienza come il lavoro, l’assistenza ai figli,
l’inserimento abitativo.
7 CIDISS, Centro di Informazione e Documentazione per l’inserimento scolastico degli stranieri (minori
e adulti), nato nel 1990 da una convenzione tra Provveditorato agli Studi di Torino, il Comune di
Torino e la Regione Piemonte.
8 CEDRITT, Centro di Documentazione e di Ricerca sui Trasferimenti di Tecnologie, si occupa dei
rapporti Nord-Sud e di ricerca sulla Cooperazione internazionale. La sua sede è a Genova ed il
Direttore attuale è Gianni Daniele, sociologo.
18
5. Guida alla lettura al manuale
Il testo risente dell’articolazione del percorso seguito, per cui la seconda
parte può essere vista come illustrazione delle opzioni teoriche e della
metodologia seguita nel corso, mentre le due parti successive, relative
rispettivamente alla Rete e alla Formazione, possono essere viste come i
“risultati”. Questi includono sia alcuni dei materiali emersi dai lavori di gruppo
e dalle interviste, sia ulteriori documenti ed approfondimenti, che sono stati
scelti tenendo presenti i nodi critici ed alcune delle priorità suggerite dai
partecipanti durante il corso di Formazione/Formatori.
Al di là di questa precisazione, il testo è stato articolato in capitoli e sezioni,
pensando a quattro funzioni principali, che possono rispondere ad altrettante
esigenze, a cui i lettori possono attingere indipendentemente. Vediamo ora,
una per una, queste funzioni ed i relativi capitoli di riferimento:
• Una funzione di invito alla riflessione teorico-metodologica, sul duplice
versante dello scambio etico-professionale tra attori della rete e della
progettazione della formazione. Rientrano in questa finalità i capitoli che
presentano il modello di comunicazione ispirato alla reciprocità, come la
chiave di lettura che può consentire un isomorfismo nell’analisi dei diversi
tipi e livelli di intervento. Il capitolo 3 fornisce alcune coordinate teoriche
riguardo ai concetti che sono implicati nella opzione etico-epistemologica
verso la reciprocità, in una prospettiva costruttivista e sistemico-ecologica;
la terminologia è talora inconsueta e quindi la lettura può risultare
impegnativa; il lettore non si preoccupi: l’opzione verso la reciprocità
deriva, in definitiva, da una scelta etica personale e non dal
padroneggiamento di questi concetti; tuttavia il supporto della teoria può
costituire un elemento confortante ed anche utile per avanzare più
velocemente verso la costruzione di un referenziale comune.
Il capitolo 4 presenta il modello operativo che è stato applicato nei moduli
di formazione/formatori; i capitoli 5 e 12 presentano l’analisi di situazioni
di comunicazione tra attori della rete e/o nel rapporto con utenza migrante,
che possono fungere sia da chiarimento e supporto empirico per il modello
teorico, sia da esemplificazione di un metodo di analisi della propria pratica
professionale ed infine, per alcuni dei contenuti tematici che emergono,
possono arricchire la funzione informativa su alcuni dei nodi critici della
comunicazione di rete. Essi rispondono, quindi a più funzioni e potrebbero
essere letti in modo indipendente o affiancati ai capitoli informativi.
• una funzione informativa, che si sviluppa attraverso le diverse sezioni e
che, letta in sequenza, può essere utile ad un operatore o ad un formatore
che si occupa per la prima volta di utenza migrante e che voglia
contestualizzare meglio la sua posizione. Si può partire da una panoramica
della immigrazione torinese (cap.1) per poi entrare nel merito di diverse
19
sfaccettature di tale problematica, che sono state accorpate in due diverse
sezioni:
- la rete, e quindi: i percorsi di rete che individuano le aree di intervento
con cui la Formazione Professionale Regionale è più strettamente collegata,
come la prima e seconda accoglienza e la scuola e le diverse tipologie di
funzioni svolte in tali aree (cap.6); i nodi critici più condivisi e le tipologie
professionali che svolgono un ruolo di ponte tra queste diverse aree, con
particolare riferimento alle tipologie di tutor e ai mediatori culturali (cap.7).
- la docenza in aula, riferita agli elementi di maggiore eterogeneità che si
possono incontrare in una classe multietnica (cap.10), e al problema della
comprensione/insegnamento della lingua italiana (cap.11).
• una funzione di sensibilizzazione alla riflessione sulle problematiche
del cambiamento connesso all’emigrare e alle sfide che questo può
comportare nello spazio della formazione. Rientrano in questa finalità i
capitoli 9 e 12 che trattano diversi aspetti della suscettibilità rispetto
all'autodefinizione dei migranti (traiettorie evolutive, setting formativo,
modelli di apprendimento-insegnamento, violazioni di reciprocità) ed il
contributo tematico di Marianella Sclavi che, attraverso la proposta di alcuni
esercizi/ esempi invita a riflettere, nella prospettiva delineata da Bateson,
sui quei livelli di cambiamento che implicano una modifica radicale delle
proprie premesse epistemologiche e che sono particolarmente favoriti dalle
situazioni di confronto interculturale (cap.13)
• una funzione di stimolo al confronto professionale tra responsabili/
formatori/progettatori/coordinatori, di Enti di Formazione Professionale, su
alcuni aspetti dell’intervento con utenza migrante. Possono rispondere a
questa finalità le parti che presentano dati informativi sulle attività promosse
dalla Casa di Carità Arti e Mestieri come il capitolo 2, o che illustrano ipotesi
di progetti integrati, come il Dispositivo per l’accompagnamento,
l’orientamento e la formazione (cap.7, pr.7.1) o gli allegati che forniscono
esempi di documentazione di corsi realizzati. Può rientrare in questa finalità
anche il contributo tematico di Gioia Maestro che, illustrando il sistema
della CILS, introduce una documentazione utile agli Enti, in sede di
progettazione e di definizione dei prerequisiti linguistici (cap. 8)
Nella nostra visione, l’elemento coesivo, sta nell’aver proposto una chiave
di lettura, l’opzione verso la reciprocità, e di aver cercato di evidenziarne la
pertinenza ai diversi livelli di articolazione degli interventi: la comunicazione di
rete, la formazione dei formatori, la docenza di aula.
In effetti, i riferimenti ad una visione sistemica, alla reciprocità, intesa
come il riconoscimento del diritto di ogni migrante e di ogni attore della rete
ad autodefinirsi ed alla esplicitazione dei rispettivi vincoli eticoprofessionali e culturali, come base per rendere operativo questo
riconoscimento, hanno costituito i concetti base del modello sperimentato nel
20
corso, e sono stati anche il punto di partenza da cui è nato il contratto per la
stesura del manuale.
Infine, si tratta di un manuale che vuole invitare alla riflessione ed al
confronto, senza pretendere di dare ricette. Vogliamo sottolineare due limiti:
l’assenza di esempi concreti di rapporto con il mondo imprenditoriale e la
carenza di esempi tratti da un’osservazione diretta di situazioni di
apprendimento nei laboratori tecnici. Entrambi queste carenze testimoniano
che siamo ancora in una fase sperimentale dell’innovazione; così, da un lato,
è difficile per gli operatori protagonisti delle esperienze più innovative fermarsi
a documentare, riflettere, scrivere essi stessi e dall’altro queste esperienze sono
ancora troppo fragili per inglobare anche la collaborazione sistematica con un
osservatore esterno.
L’entusiasmante sfida di portare alla luce il sapere sommerso della
formazione professionale regionale nei confronti dei migranti (in particolare
quello realizzato dalla Casa di Carità Arti e Mestieri di Torino) si conclude,
quindi, da un lato, con la consapevolezza che il manuale rispecchia una
minima parte delle esperienze in atto, dall’altro con la speranza che esso
inneschi comunque curiosità e desideri, ed anche un criterio di lettura, per
addentrarsi ulteriormente nella comprensione delle concrete situazioni
quotidiane.
21
Prima parte
IL CONTESTO
23
Capitolo 1
Presenza dei migranti a Torino
e in Piemonte
Silvia Zabaldano
1.1. Premessa
La presenza dei migranti in Piemonte si è andata consolidando negli ultimi
25 anni ed è diventata oggetto di iniziative di accoglienza verso la
regolarizzazione già dalla prima metà degli anni Ottanta9.
Dagli anni ’90 il numero degli immigrati, il loro inserimento nel mercato del
lavoro regolare o irregolare, la loro integrazione sociale, la loro visibilità sono
andati aumentando, grazie anche alle varie regolarizzazioni. Esse sono state il
principale strumento con cui il governo ha affrontato le problematiche dei
migranti, in assenza di norme e regolamenti tali da consentire un accesso
graduale e regolare degli immigrati. Questo vale sia per la legge n.40 del 1998
sia per la legge precedente (n.39 Legge Martelli) che sono rimaste
sostanzialmente inoperanti, ad eccezione della sanatoria.
Quindi in Italia, più che in altri Paesi, il flusso reale dei migranti e il flusso
misurabile hanno presumibilmente andamenti molto diversi.
Il numero di permessi di soggiorno e quello dei residenti si impennano
infatti soprattutto nei periodi di regolarizzazione, quando il grosso degli
irregolari diventa regolare e, probabilmente, vari irregolari arrivano con la
speranza di una possibile regolarizzazione.
Inoltre il numero degli stranieri cresce per i casi di ricongiungimento
familiare, fenomeno sempre più diffuso; tale ricongiungimento può essere di
vari tipi: ad esempio la madre e i figli che raggiungono il padre che ha ottenuto
un lavoro regolare o il padre e i figli che raggiungono la madre (generalmente
collaboratrice domestica), o figli soli che raggiungono un genitore o entrambi
i genitori, già arrivati in Italia da alcuni anni10.
Oggi sono passati circa due anni dall’ultima sanatoria (marzo 1998), si è
ormai esaurita la coda delle regolarizzazioni, ma nonostante questo è aumentato
il numero degli irregolari, anche se non si sa con esattezza di quanto (da una
ricerca della CISL il numero di Somali irregolari è vicino a zero, ma vi sono però
moltissimi casi di irregolari rumeni, Est - Europei o Latino Americani)11.
Gli irregolari non sono distribuiti uniformemente per provenienza e quindi
il loro aumento rende sempre meno soddisfacente qualsiasi ragionamento di
carattere generale.
9 Tutti i dati di questo capitolo sono forniti dall’IRES, Piemonte Economico e Sociale. 1997, 1998 e dal
Ministero del Lavoro, Piemonte: Indagine statistica trimestrale per autorizzazione al lavor o.
settembre 1999-gennaio 2000.
10 Si vedano gli esempi “flash”, capitolo 6 paragrafo 6.2.
11 Si veda la tabella 1.5.4.
25
La presenza degli immigrati in Piemonte è ovviamente concentrata in
Torino e provincia. Le varie ondate migratorie sono inizialmente maschili nel
caso di senegalesi, marocchini e albanesi o femminili per le etnie somale,
filippine o peruviane. I ricongiungimenti familiari tendono con il tempo a
riequilibrare tutte le provenienze. Gli uomini sono oggi intorno al 58% del
totale a Torino città e in regione, mentre in provincia intorno al 56%.
I dati disponibili provengono dalle Questure per i permessi di soggiorno,
dai Comuni per le anagrafi, dai Provveditorati per la scuola e dagli Uffici
Provinciali del Lavoro per il collocamento. Le varie fonti non riguardano
esattamente lo stesso universo, perché non solo tutti i presenti sono regolari, ma
non tutti i regolari sono iscritti all’anagrafe, non tutti i minori vanno a scuola e
non tutti quelli che vanno a scuola sono regolari e infine non tutti quelli che
cercano lavoro lo cercano nel luogo di residenza o nella provincia in cui hanno
il permesso di soggiorno. E’ evidente quindi l’insufficiente completezza dei
dati12.
1.2. Nicchie settoriali e territoriali
Chi si inserisce in un Paese straniero facendo un mestiere particolare,
appartenente magari alla tradizione del proprio luogo d’origine, sia pur
modernizzato e modificato, generalmente viene seguito da parenti e conoscenti
che giungono richiamati dalla possibilità di svolgere quel particolare lavoro. In
questo senso vanno viste le nicchie settoriali per alcuni lavori specifici.
É una nicchia di provenienza ad esempio quella dei muratori marocchini;
sono numerosi, arrivano per catene migratorie, sono spesso anche regolari, con
buone retribuzioni e con un rapporto di fiducia stabile con il datore di lavoro.
In realtà non sono in senso stretto una nicchia territoriale perché spesso il
legame con l’azienda porta a spostamenti anche notevoli. Infatti ci sono
piastrellisti e muratori marocchini che da Torino si spostano a Cuneo, entrando
così in concorrenza con piastrellisti e muratori cinesi.
Nel settore agricolo forte è la presenza di albanesi, inseriti nell’agricoltura
avanzata e nella viticoltura dell’astigiano; nello stesso ambito, nella provincia
di Cuneo, numerosi sono i macedoni e i montenegrini, soprattutto nel settore
della raccolta della frutta.
Sono una nicchia i senegalesi nelle fonderie, gli iraniani nel commercio dei
tappeti a Torino, i sarti centroafricani, i pakistani e gli indiani per le attività
autonome nel campo della compravendita di tessuti, i cuochi e i pizzaioli
egiziani, le collaboratrici domestiche filippine, le donne peruviane o somale
che assistono gli anziani e infine le mogli tailandesi ed est - europee che,
soprattutto nelle valli alpine, svolgono adesso il ruolo che un tempo era
proprio delle donne venete o meridionali.
12 Si vedano le tabelle 1.5/ 1.5.1/ 1.5.4.
26
1.3. Il lavoro
I lavoratori migranti assunti a livello regionale sono per l’88% circa uomini
e solo per il 12% donne. La maggioranza degli avviamenti al lavoro registrati
in Piemonte è avvenuta in provincia di Torino, seguita da Cuneo.
Il numero più alto di inserimenti avviene nel settore industriale, inclusa
l’edilizia e le attività ad essa collegate. Al secondo posto troviamo gli
avviamenti al settore terziario, di cui la maggior parte nei pubblici servizi
(lavori domestici, assistenza agli anziani o bambini, imprese di pulizia,
bar/ristoranti…). All’agricoltura spetta l’ultimo posto, ma forte è la
concentrazione in alcune province (Cuneo, Asti e Vercelli).
I lavoratori immigrati extracomunitari avviati senza alcun titolo di studio
apparente rappresentano quasi l’89% del totale, nel quale sono compresi anche
quelli che hanno un titolo ma non lo dichiarano, sia per evitare le prevedibili
difficoltà di riconoscimento, sia perché ritenuto sostanzialmente inutile
all’inserimento lavorativo, almeno iniziale. I migranti sono consapevoli del fatto
che più del percorso di scolarizzazione pregresso nel paese d’origine sia
importante il conseguimento di un titolo (es. qualifica professionale o licenza
media) in Italia13.
Gli avviati al lavoro hanno prevalentemente un’età maggiore di 25 anni.
Quelli compresi tra i 25 e i 29 anni rappresentano il 27% del totale, mentre
quelli con più di 30 anni costituiscono da soli il 55%. É chiaro quindi che i
migranti arrivano al lavoro regolare dopo un periodo abbastanza lungo di
irregolarità e di spostamenti geografici in varie regioni italiane.
I contratti delle donne hanno maggiore durata rispetto a quelli
degli uomini; anche se numericamente le donne avviate sono un decimo degli
uomini, il 75% di esse ha un contratto a tempo indeterminato, mentre per gli
uomini si tratta solo del 48%14.
1.4. La scuola
Il numero di minori stranieri è in aumento più che proporzionale per tutte
le provenienze, in tutte le scuole di ogni ordine e grado, sia a causa dei
ricongiungimenti familiari sia a causa della maggiore natalità dei migranti
rispetto agli italiani. Altri fattori che contribuiscono all’aumento della nuova
generazione sono la maggiore percentuale, rispetto alla popolazione residente,
di uomini e donne stranieri in età riproduttiva e, nello stesso tempo, le azioni
positive per la regolarizzazione, l’accoglienza e l’inserimento scolastico dei
minori stranieri, verso i quali si è rivolta una riuscita azione coordinata di Enti
locali (Comune di Torino, Provincia, Regione Piemonte), Magistratura,
Questura, Provveditorato e Formazione Professionale Regionale.
13 Si vedano le tabelle 1.5.2/1.5.3.
14 Si vedano le tabelle 1.5.5/1.5.6.
27
Grazie a questo coordinamento, i minori irregolari infatti hanno potuto in
questi anni iscriversi alle scuole e frequentare i corsi, sia pure in maniera
provvisoria. Inoltre per i “minori stranieri non accompagnati” è previsto
l’affidamento e la tutela di competenza del Tribunale per i minori, dei servizi
locali e del Giudice tutelare, e il successivo rilascio del permesso di soggiorno
fino al compimento del 18° anno.
Un discorso a parte merita la presenza, in notevole aumento, di giovani e
adulti extracomunitari (anche se non si dispongono dati su tutte le province
piemontesi) nei corsi di formazione professionale soprattutto per i mestieri
tradizionali legati alle attività nel settore industriale. A Torino questo fenomeno
è particolarmente accentuato in due centri di Formazione, la Casa di Carità Arti
e Mestieri e il Centro di Formazione Mario Enrico15.
1.5. Dati quantitativi relativi alla presenza
ed alle caratteristiche dei gruppi etnici nel
territorio torinese16
I cittadini migranti presenti a Torino sono così ripartiti:
AFRICA
AMERICA
ASIA
AUSTRALIA
EUROPA
54,3%
13,2%
15,4%
0,1%
17,0%
In particolare i paesi più rappresentati sono i seguenti:
Magreb
Est Europa
Africa Centrale
Cina e Filippine
Sud America
Altri
44%
15%
15%
12%
12%
2%
15 Dati forniti dall’Ires, Piemonte economico sociale 1997.
16 Elaborazione dati dell’IRES di Torino
(fonte: Progetto ATLANTE su Internet: http://www.provincia.torino.it/atlante/index.xtm)
28
1.5.1. Gruppi etnici con maggiore difficoltà d’inserimento
(1a Accoglienza)
Secondo i dati emersi dagli osservatori cittadini17 le etnie bisognose di
particolare attenzione e più a rischio per i fenomeni di marginalità e “devianza”
risultano essere le seguenti:
MAGREB
(Marocco, Tunisia, Egitto, Algeria)
EUROPA DELL’EST (Albania, Romania, Bosnia, ex Jugoslavia
e ex Unione Sovietica)
CENTRO AFRICA (Nigeria, Senegal)
CINA E FILIPPINE
SUD AMERICA
(Perù, Brasile)
1.5.2. Grado di istruzione di residenti stranieri
a Torino 1996 18
Grado di istruzione
1996
Percentuale
Nessun titolo
Analfabeta
Scuola dell’obbligo
Diploma
Laurea
3.098
701
7.331
6.706
2.201
15,5
3,5
36,5
33,5
11
20.037
100
Totale
1.5.3. Titoli di studio per nazionalità extra comunitarie 19
Paese
Ex Jugoslavia
Iran
Cina
Filippine
Egitto
Marocco
Tunisia
Senegal
Somalia
Brasile
Analfabeta
11,6
13.8
31.7
14.8
20
14.1
13.2
7.3
15.7
11.6
Scuola
dell’obbligo
0,4
1
2.1
0.4
2.6
7.1
2.6
16.1
2.7
0.4
Diploma
Laurea
39,1
61.8
13.2
37.8
40.3
25.4
20.3
9.1
43.9
39.1
16,2
15.5
4.1
6.8
19.9
3.5
1.8
1
6.1
16.2
Nessun titolo
riconosciuto
31,7
7.9
48.9
40.2
17.2
49.9
62.1
66.5
31.6
31.7
17 Osservatorio provinciale sull’immigrazione presso la Prefettura di Torino ed integrato nel progetto
“Atlante immigrazione”.
18 Reginato, 1997, pag.21
19 Ibidem, pag.22
29
1.5.4. Stima immigrati legali e illegali in Italia20
Paese d’origine
Immigrati illegali
Marocco
Albania
Romania
Tunisia
Ex Jugoslavia
Totale
Immigrati legali
24.939
19.380
17.232
15.980
14.762
119.381
70.897
29.738
40.592
73.126
235.567
806.036
1.5.5. Avviamenti al lavoro di extracomunitari in Piemonte
a tempo determinato (periodo sett.’99-gen.2000)21
Settore
Numero avviati
Industria
Agricoltura
Terziario
10
44
8
Totale
62 (di cui 48 uomini, 14 donne)
1.5.6. Avviamenti al lavoro di extracomunitari in Piemonte
a tempo indeterminato (periodo sett.99-gen.2000)22
Settore
Numero avviati
Industria
Agricoltura
Terziario
164
24
644
Totale
832 (di cui 403 uomini, 429 donne)
20 Dati elaborati nel progetto Atlante su Internet, si veda la nota 15.
21 Ministero del lavoro - Piemonte, Indagine statistica trimestrale per autorizzazioni al lavoro rilasciate
ai sensi dell’art.22 D. Lgs 286/98
22 Ibidem.
30
Capitolo 2
La Casa di Carità Arti e Mestieri e i migranti
Michele Grisoni, Silvia Zabaldano
2.1. Corsi per migranti
alla Casa di Carità Arti e Mestieri
Prima del ’90 erano pochissimi gli extracomunitari che si iscrivevano ai
corsi della Casa di Carità Arti e Mestieri.
Dal ’90 la Direzione ha ritenuto, comunque, importante intraprendere una
nuova strada, introducendo corsi specifici per migranti, che tenessero conto
delle loro esigenze in modo non generico. La Casa di Carità Arti e Mestieri si
è così rivolta all’Ufficio Stranieri del Comune di Torino, che aveva fornito la
lista dei primi nominativi di migranti da inserire nei corsi23.
Si è arrivati quindi al primo corso preserale nell’anno scolastico 90/91; la
tipologia del corso era Elementi di Officina Meccanica, rivolto a quattordici
migranti adulti, quasi tutti provenienti dal Marocco, con un grado di
formazione medio-alta acquisita nel paese d’origine, o disoccupati o dediti a
lavori saltuari non regolari. I soggetti avevano una conoscenza discreta della
lingua italiana ma, dai colloqui, emergevano evidenti difficoltà materiali:
precarietà residenziale, lavorativa, problemi per l’ottenimento e rinnovo del
permesso di soggiorno.
L’intuizione dell’Ente è stata quella di collegarsi, già nei mesi precedenti
all’inizio del corso, ai Servizi per stranieri presenti sul territorio torinese, in
modo da ottenere informazioni per la risoluzione di casi specifici. In questo
modo si sono sviluppate quelle sinergie proficue capaci di risolvere e gestire
la complessità di un’utenza caratterizzata da un doppio ordine di disagio
lavorativo e sociale.
Distinzione dei corsi per migranti: minori, adulti e donne.
Questa stessa tipologia di corso è stata presentata nei due anni seguenti
(92/93-93/94); tra i partecipanti si andava a delineare, in forma sempre più
consistente, una presenza eterogenea di minori e di adulti, che spesso rendeva
difficile l’intervento formativo e l’attività di tutorato e di accompagnamento
durante il percorso.
Per i giovani migranti si richiedeva infatti una maggiore attenzione da parte
degli operatori, tanto più che si andava a delineare una tipologia di minori del
tutto nuova, quella di “minore straniero non accompagnato”, il più delle volte
senza una figura di riferimento adulta.
23 Negli anni successivi le iscrizioni sono invece avvenute attraverso il filtro dei Servizi territoriali della
Rete o al passaparola tra i migranti stessi.
31
Le specifiche caratteristiche di questa utenza hanno spinto così la Casa di
Carità Arti e Mestieri ad approfondire le conoscenze e le risorse presenti sul
territorio; ci si è resi conto che altri servizi, come il Comune, l’associazionismo
laico e cattolico, il Ministero di Grazia e Giustizia, il Provveditorato, la
Prefettura, la Questura, lavoravano su questo target di giovani. L’idea accettata
da tutti gli attori della rete era quella della necessità di creare un
coordinamento capace di gestire le politiche di integrazione nel tessuto sociale,
formativo e lavorativo specifiche per la realtà giovanile24.
In questo modo, dal 1992, sono iniziate le collaborazioni tra Casa di Carità
Arti e Mestieri, le scuole per stranieri Parini e Braccini, l’Ufficio Stranieri del
Comune, i Servizi Sociali e il Tribunale; lo scopo era quello di portare il minore
ad ottenere il permesso di soggiorno ed inserirlo in un progetto di crescita e
di formazione.
Dal 94/95 la Casa di Carità Arti e Mestieri è arrivata ad avviare un corso
diurno specifico per minori migranti (in maggioranza non accompagnati)
prevedendo un modulo di 1200 ore nell’orario diurno, rivolto a dodici minori25.
Tutti i partecipanti, che non avevano la licenza media italiana, avrebbero
potuto frequentare i corsi serali delle 150 ore presso le scuole per stranieri
Parini e Braccini. L’obiettivo era quello di garantire ai minori che terminavano
il corso annuale la possibilità di iscriversi al secondo anno regolare (inseriti in
una classe di coetanei italiani) per ottenere l’attestato di qualifica; ma per tale
iscrizione era necessaria la licenzia media e quindi il collegamento con le
scuole delle 150h doveva essere rafforzato. I minori più meritevoli e con
possibilità di mantenimento (accompagnati o che vivevano in comunità)
avrebbero potuto iscriversi al secondo anno diurno, mentre gli altri a quello
serale26. Attualmente questa procedura è in crisi perché sono avvenute delle
modificazioni strutturali del sistema scolastico e formativo (vedi la riforma
scolastica, l’apprendistato e gli orientamenti della formazione professionale).
Nell’anno 1996 avviene un cambiamento importante per quanto riguarda
la durata dei corsi specifici per stranieri: il modulo di 1200 ore viene ridotto a
600 ore sia nei corsi pre-serali sia in quelli diurni, in base alla nuova
Direttiva Europea.
24 Si ricorda che nel ’95 nasce la rete territoriale per Minori Stranieri non accompagnati con l’adesione
dell’Assessorato ai Servizi Sociali, l’Assessorato al Sistema educativo, il Tribunale dei Minori di
Torino, i Giudici Tutelari, il Servizio Migranti della Caritas, le Scuole per Stranieri (Parini/Braccini),
la formazione professionale e associazioni di volontariato.
25 Come è precisato in seguito si ricorda che dal 1996 tutti i corsi per migranti vengono ridotti da 1200
a 600 h, anche quelli specifici per minori.
26 Si ricorda che la partecipazione al corso diurno prevede l’inserimento in una classe con coetanei
italiani; il corso serale, pur portando alla qualifica, comporta l’iscrizione ad un corso che ha al suo
interno una maggioranza di utenza adulta, ma offre la possibilità di lavorare durante il giorno.
Inoltre dal 95/96, per il proseguimento al secondo anno nell’orario diurno per i corsisti migranti
occorre una procedura di inserimento che giustifichi le 600 ore in meno svolte al primo anno rispetto
all’utenza dei corsi ordinari che al primo anno invece di 600 ore frequenta un modulo di 1200 ore.
32
Dal 97/98 la Casa di Carità Arti e Mestieri definisce un altro corso
specifico per minori presso la sede di “Città dei Ragazzi”, utilizzando il
finanziamento della Legge 216, che aveva permesso l’utilizzo di risorse
economiche nell’ambito di progetti rivolti specificatamente al “minore straniero
non accompagnato” 27.
Per quanto riguarda i corsi specifici per donne straniere la prima
tipologia di corso prevista dalla Casa di Carità Arti e Mestieri risale al 1994/95.
L’idea iniziale si collega alla lettura di un articolo della Stampa in cui si parlava
di un gruppo di nigeriane uscite dalla prostituzione grazie all’intervento della
Caritas Sezione Femminile e della Questura che aveva concesso a queste
donne il visto di soggiorno.
Grazie alla collaborazione tra la Caritas e la Casa di Carità Arti e Mestieri si
è arrivati così a elaborare un progetto di corso di formazione, rivolto a questa
utenza specifica (donne dell’area del disagio), con l’obiettivo della
regolarizzazione attraverso la stabilizzazione professionale.
27 I servizi di sostegno al “minore straniero non accompagnato” prevedevano:
1. frequentare il corso “Elementi operativi di Officina meccanica” propedeutico ad un primo
inserimento lavorativo ed all’ottenimento, con la frequenza di ulteriori corsi, della qualifica
professionale. Tale corso può essere frequentato sia in orario diurno sia in orario preserale;
2. usufruire della ristorazione self-service interno alla scuola e partecipare a tutte le attività ludiche
e ricreative che vengono normalmente organizzate;
3. essere seguiti da un servizio di dopo-scuola, organizzato in collaborazione con i volontari e
finalizzato alla assistenza, al sostegno ed al recupero delle situazioni più difficili;
4. seguire i corsi di alfabetizzazione e delle “150 h” per il conseguimento della Licenza Media nelle
strutture tradizionalmente preposte, con i docenti della Pubblica Istruzione e del Comune. Questi
corsi possono essere svolti, più utilmente, presso il Centro di formazione professionale: in questo
caso si risponde in modo organico alle esigenze di migliore funzionalità ed interscambio degli attori
nel processo educativo-formativo nell’ambito dell’educazione Scolastica e dell’educazione al lavoro
(docenti del Centro, volontari, docenti del Comune e della Pubblica Istruzione);
5. ottenere l’intervento tempestivo dei formatori, coordinati dai diversi attori di rete (uffici comunali,
comunità, volontari, mediatori, educatori di strada, assistenti sociali...), per le soluzioni dei problemi
che possono emergere, quali ad esempio:
- l’accompagnamento e l’assistenza presso vari uffici (comunali, consolari...) per regolarizzare la
posizione del giovane in riferimento alla sua condizione giuridica (ottenimento del permesso di
soggiorno);
- le situazioni difficili che possono richiedere anche assistenza legale;
6. partecipare e contribuire a realizzare gite e incontri di tipo ricreativo, culturale e inter-culturale
volti ad approfondire le tematiche delle specificità culturali e della necessaria integrazione nel Paese
ospitante;
7. frequentare un secondo anno preserale con attività lavorativa diurna utilizzando la Borsa lavoro
predisposta dal Comune e/o da Associazioni di imprese al fine di traghettare il giovane verso la
qualifica professionale;
8. frequentare un terzo anno preserale con attività lavorativa diurna utilizzando la Borsa lavoro in
collaborazione con il Comune oppure avere un inserimento lavorativo presso un’azienda
metalmeccanica. Nel terzo anno si concluderà il ciclo formativo con il conseguimento della Qualifica
professionale. In seguito il giovane avrà la possibilità di continuare la Formazione di un ulteriore
anno nei corsi di Secondo livello di Specializzazione con relativo inserimento lavorativo;
9. utilizzare un mezzo di trasporto privato per accompagnare gli utenti presso il Centro formativo
collocato nel Comune di Torino se la zona è sprovvista di mezzi pubblici.
33
Questo corso, nell’ambito della ristorazione, era di 600 ore diurne,
prevedeva quattordici corsiste, scelte grazie al filtro della Rete territoriale
(Caritas, Questura…).
Dal 97/98 oltre al corso di cucina è stato introdotto un altro corso diurno
(sempre di 600 ore) di taglio e cucito per donne straniere senza lavoro; anche
per questi corsi si utilizzava il finanziamento della direttiva 331 per migranti che
prevedeva una borsa lavoro di 4.000 £ orarie.
Un’altra tipologia di corso è quella del Mediatore Culturale, destinata a
migranti con una conoscenza medio-alta dell’italiano ed una elevata
scolarizzazione pregressa nel paese d’origine.
I corsi di Mediatore Culturale sono iniziati nel 96/97, grazie all’intervento di
un soggetto esterno alla Casa di Carità Arti e Mestieri. L’associazione Nova
Familia aveva preso contatti con la Direzione del nostro Centro per richiedere
la presentazione e attuazione di un corso per Mediatori Culturali; questa
richiesta dimostrava come il territorio ritenesse cruciale la formazione di questa
nuova figura professionale.
La Casa di Carità Arti e Mestieri recepì questa esigenza e definì un corso
per Mediatori Culturali di 900 ore rivolto a sedici corsisti che avrebbero
conseguito una qualifica regionale riconosciuta: era il primo corso per migranti
che prevedeva un esame finale con una Commissione Regionale.
Per la buona riuscita del corso la Casa di Carità Arti e Mestieri aveva
elaborato il progetto insieme all’associazione Nova Familia, caratterizzato da
una preparazione soprattutto in ambito sanitario. Alcuni formatori della Casa di
Carità Arti e Mestieri si erano così occupati di contattare l’Ufficio d’Igiene di
Torino e l’Ospedale Amedeo di Savoia, per richiedere una collaborazione di
medici preparati che partecipassero come docenti al corso. Tutti i servizi
convocati per le ore di docenza dimostrarono una disponibilità totale,
rafforzando in questo modo i rapporti tra il Centro e la rete territoriale (alcuni
interventi del giudice Giannone, dell’avv. Pastore dell’Asgi e di Kivar della CISL,
Ufficio Stranieri).
Dopo il successo del primo anno il corso si è ripetuto negli anni seguenti
grazie ai finanziamenti del Progetto Integra I.Ter. che prevedeva, tra le varie
iniziative, anche un corso per mediatore culturale28. Rispetto al modulo
precedente la Casa di Carità Arti e Mestieri ha privilegiato un rapporto integrato
con i servizi territoriali, inserendo nel suddetto corso, una docenza
specializzata che rappresentasse l’associazione di appartenenza29. Questa linea
di condotta avrebbe determinato infatti un salto di qualità nella fase di stage
dei corsisti e una eventuale facilitazione nel loro futuro inserimento lavorativo.
28 Si veda il grafico 1 all’interno dell’Introduzione.
29 Si veda il grafico n.2, schema formatore/docenza nel corso di mediatore culturale.
34
Per questa tipologia di corso, nella scelta dei partecipanti, la Casa di Carità
Arti e Mestieri ha dovuto considerare da una parte la percentuale di presenza
nel territorio torinese dei diversi gruppi etnici, con una particolare attenzione
a quelli con maggiore difficoltà d’inserimento (problemi relativi alla
1a Accoglienza)30 e dall’altra le richieste dei servizi territoriali, interessati
all’inserimento di mediatori culturali di certe etnie e non di altre.
Non va infine dimenticato che, sempre all’interno del progetto I.Ter.
Integra, i corsisti qualificati nel secondo modulo di Mediatore Culturale sono
stati inseriti in attività lavorative presso i servizi territoriali, con un salario
part-time in Borsa Lavoro della durata di 6 mesi per un totale di 480 ore.
Questa esperienza ha avuto tre funzioni:
• abituare i servizi territoriali a questa nuova figura professionale;
• affinare le abilità e le competenze professionali dei mediatori;
• facilitare l’inserimento lavorativo.
30 Gruppi con maggiore difficoltà di inserimento: Magreb (Marocco, Tunisia, Egitto, Algeria), Europa
dell'Est (Albania, Romania, Bosnia, ex Jugoslavia e ex Russia), Centro Africa (Nigeria, Senegal), CinaFilippine e Sud America (Perù, Brasile). Elaborazione dati dell’Ires, su Internet Progetto Atlante, si
veda nota 15.
35
Grafico n.2
SCHEMA DI FORMAZIONE/DOCENZA
NEL CORSO DI MEDIATORE CULTURALE
MODULO
LINGUISTICO
MODULO
INFORMATICO
MODULO
INTERCULTURA
E LAVORO
MODULO
ANALISI CASI
(Mediatore Culturale)
SCHEMA DOCENZA ESTERNA
MODULO
ANTROPOLOGICO
(Alma Mater)
MODULO
PSICOLOGICO
(Franz Fanon)
MODULO
SOCIOLOGICO
(Caritas/IRES)
MODULO LEGISLAZIONE
ASGI; I.S.I.-A.S.L. 1
(Uff. Stranieri del Comune)
36
MODULO
SOCIO-SANITARIO
(ISI-A.S.L.1)
MODULO ASSISTENZIALE
E SCOLASTICO
(Uff. Stranieri Minori del
Comune e C.T.P. Parini)
MODULO MEDICINA
E PUERICULTURA
(Amedeo di Savoia,
Camminare Insieme)
MODULO
IGIENE
(Ufficio d’igiene)
2.2. Lo Sportello di Orientamento al Lavoro: O.L.M.
Grazie alla esperienza dei corsi per migranti alla Casa di Carità Arti e
Mestieri in questi anni, è emersa con forza l’idea di offrire ai cittadini migranti
un luogo dove poter essere informati e guidati nella scelta formativa e nella
ricerca del lavoro, anche perché in questo ambito specifico le risorse del
territorio sono ancora molto limitate: attualmente Informagiovani e Cilo31 non
sono ancora in grado di offrire risposte complete per questo tipo di utenza; le
sole azioni specifiche sono condotte dalla Caritas, dai sindacati e da alcuni
sportelli che possono vantare contatti diretti con le aziende.
La Casa di Carità Arti e Mestieri ha così scelto di aprire uno Sportello
per stranieri l’“O.L.M.”, in cui lavorano attualmente (seconda fase
dic. ‘99 – giu.2000) un operatore italiano e un operatore algerino32.
Lo sportello apre tre giorni alla settimana per un totale di 12 ore, disposte
su tre fasce giornaliere (mattino, pomeriggio, sera); l’attività è quella di
accogliere i migranti, registrando su scheda individualizzata i dati anagrafici, le
esperienze scolastiche e professionali, in una prospettiva di counseling,
efficace per “scoprire capacità e attitudini nascoste” relativamente ad
esperienze che gli stessi utenti sono spesso restii a comunicare.
In base alle informazioni ricavate dal primo incontro (schede raccolta dati
utenti), l’operatore passa ad una trasposizione dei dati in forma
computerizzata, verso la creazione di apposite banche dati, dalle quali attingere
eventuali “risorse umane” in relazione alle offerte di lavoro pubblicate (ed
accuratamente vagliate!) su riviste specializzate.
Un’attenta analisi delle richieste di manodopera ha permesso quindi di
effettuare una ricerca precisa, sulla base della disponibilità di nominativi degli
utenti, classificati per categorie professionali (adulti donne, adulti uomini,
minori; con o senza permesso di soggiorno).
Il Centro ha ritenuto importante dare la possibilità al migrante di esprimersi
liberamente nella propria lingua attraverso il confronto con un operatore
straniero; è stata quindi una risorsa il fatto che tra gli operatori del servizio
operassero anche migranti a testimonianza di un clima di disponibilità e di
accoglienza reale.
L’insieme di problematiche che uno Sportello si trova ad affrontare è
vastissimo.
Le persone che si presentano al servizio spesso non solo cercano lavoro ma
non sanno dove dormire o mangiare, non hanno il permesso di soggiorno e
non sanno dove rivolgersi per un’eventuale assistenza sanitaria.
31 Il Cilo è il centro di iniziativa locale per l’occupazione, con la funzione di favorire l’incontro
domanda/offerta di lavoro, promuovendo e o pubblicizzando occasioni di orientamento e
formazione.
32 Nella prima fase (febbraio - giugno ‘99) erano stati inseriti anche un obiettore di coscienza e alcuni
mediatori culturali in stage.
37
Per questo fondamentale è l’azione coordinata con le strutture territoriali;
la rete è formata da attori istituzionali (ospedali, circoscrizioni, scuole, servizi
assistenziali e culturali del comune e servizi giudiziari), volontariato (Caritas,
Camminare insieme, Coop. Sociali...) e mondo del lavoro (sindacati, enti di
formazione, aziende, agenzie di lavoro interinale).
Le persone che vengono allo sportello sono quasi sempre disposte a
svolgere qualsiasi lavoro. É difficile far emergere la professionalità che molti di
loro possiedono, soprattutto se questa è stata acquisita nel paese d’origine. Gli
stranieri tendono a ritenere le esperienze pregresse poco importanti, quasi
fossero da cancellare nel momento dell’arrivo in Italia. Così i laureati cercano
posti da diplomati o qualificati e sono disposti a svolgere quelle professioni che
noi italiani non abbiamo più intenzione di fare.
Alcune volte ci si trova di fronte a datori di lavoro che hanno scarsa
conoscenza delle potenzialità e delle competenze lavorative degli stranieri
perché ancora ostacolati da stereotipi che frenano il processo di inserimento.
Un primo fattore discriminante è la lingua: lo straniero non capisce quello
che deve fare e quindi spesso non fa immediatamente ciò che gli viene assegnato
. Per questo è importante far capire ai migranti che uno dei passaggi obbligati
per trovare lavoro si collega alla buona conoscenza della lingua italiana.
Un’altra difficoltà è quella del lavoro sommerso e dello sfruttamento,
soprattutto per le donne: le addette all’assistenza alla persona o ai lavori
domestici sono, nella maggioranza dei casi, irregolari. Lo stesso vale per gli
operai, inseriti nelle imprese edili o nelle piccole aziende, che raramente sono
a norma con i libretti.
Una risorsa dello sportello è quella di conoscere una serie di aziende, con
le quali la Casa di Carità Arti e Mestieri ha rapporti di collaborazione
pluriennali, potendo offrire in alcuni casi garanzie essenziali per la tutela dei
diritti e la regolarità nell’assunzione. Un nodo critico emerge quando,
accompagnando/orientando un migrante ad un lavoro al di fuori dalla rete
delle professioni collegate al comparto meccanico o informatico (ambiti
specifici dei corsi tradizionali della Casa di Carità Arti e Mestieri), esiste il
rischio di inserire in un’attività in cui è possibile il rischio di sfruttamento o di
“lavoro in nero”, ad esempio nel campo della ristorazione o dell’edilizia.
2.3. Considerazioni sugli esiti del percorso
formativo del migrante alla Casa di Carità Arti e
Mestieri e situazione attuale dei corsi.
Per quanto riguarda la dispersione formativa, minimo è stato il numero
degli stranieri che non hanno concluso il corso per superamento del tetto
massimo di assenze previste; i casi verificati sono tutti collegati a motivi di
lavoro (dispersione massima di uno o due allievi per corso) o di salute (nel
caso di donne adulte nel periodo della maternità).
38
Tutti i minori stranieri che hanno finito il secondo anno, conseguendo la
qualifica, sono stati assunti in azienda e hanno visto riconosciuta la loro
professionalità; lo stesso vale per gli adulti stranieri che, concluso il primo
corso di 600 ore e la seconda annualità (corso serale regolare con italiani),
hanno tutti trovato un lavoro.
Nell’anno formativo 1999/2000 la domanda da parte dei migranti è stata
superiore rispetto all’offerta di corsi da parte della Casa di Carità Arti e Mestieri.
Il numero di migranti, in confronto all’anno formativo 1998/1999, risulta
superiore di 28 unità anche se si avverte una flessione nei corsi preserali
perché molti di questi non sono stati approvati.
La situazione attuale risulta quindi costituita da 169 frequentanti33 (100 in
riserva) così distribuiti:
• Donne
38
• Uomini
81
• Minori
50 (di cui 24 nati nel 1982, 18 nel 1983 e 8 nel 1984)
Complessivamente i corsi che sono stati approvati e finanziati dalla Regione
Piemonte nell’anno 1999/2000 sono:
• Mediatore interculturale (600 ore)
1
• Servizi di ristorazione di base (600 ore)
1
• Taglio e cucito (600 ore)
1
• Costruzioni alle Macchine Utensili (600 ore)
4
• Orientamento di 30 ore all’interno del progetto Integra - I.Ter.
3
(2 per minori e 1 per donne)
• Orientamento di 50 ore dei C.T.P.
2
La positività di questi risultati può essere ricondotta all’azione centrale del
tutorato realizzata durante il percorso del migrante, soprattutto con i minori
non accompagnati; questa azione si è realizzata attraverso una raccolta dati sui
migranti frequentanti, che ha permesso di rendere efficaci eventuali interventi
degli organi territoriali (giudiziari e socio-assistenziali) preposti a valutare e
riconoscere la legalità dello straniero e di produrre una ricostruzione
attendibile della sua storia personale. Infatti questi dati34, raccolti in schede
personali, riportano le condizioni di arrivo e quelle di vita attuali e, nel caso di
minori soli, l’indicazione del tutor referente.
33 I migranti sono così ripartiti nei vari centri della Casa di Carità Arti e Mestieri:
• Torino, Corso Benedetto Brin, 26
49
• Torino1, Corso Trapani, 25
40
• Grugliasco (TO), V. Generale Perotti, 94
8
• Città dei Ragazzi, Torino, Strada al Traforo di Pino, 6
35
• Ivrea (TO), V. Piave, 11
7
• Susa (TO), V. Madonna delle Grazie, 4
19
• Ovada (AL), V. Gramsci, 9
11
34 Si vedano, nella documentazione allegata, gli esempi delle schede compilate dalla Casa di Carità Arti
e Mestieri per ciascuno degli iscritti ai diversi corsi. Da queste si può constatare che le iscrizioni dei
minori sono state gestite in stretta collaborazione con le scuole di alfabetizzazione e 150 ore.
39
Tutto questo risulta prezioso per la formazione professionale regionale
perché riduce l’abbandono ai corsi e permette di svolgere una formazione di
qualità come è richiesta dalle aziende nel momento degli stage, dei tirocini,
delle borse lavoro, e delle future assunzioni35.
2.4. Direttive e linee metodologiche della
Casa di Carità Arti e Mestieri
2.4.1. Direttive specifiche
Dal 1990 il documento che vincola è la DIRETTIVA ANNUALE SULLA
FORMAZIONE PROFESSIONALE FINALIZZATA ALLA LOTTA CONTRO LA
DISOCCUPAZIONE dell’obiettivo, asse, sub asse 3.3.1.
OBIETTIVO 3: “Lotta contro la disoccupazione di lunga durata, inserimento
professionale dei giovani, integrazione delle persone minacciate di esclusione
dal mercato del Lavoro”
Asse 3: “Integrazione per migranti, immigrati e nomadi”
Sub-Asse 1: Formazione per migranti, immigrati e nomadi
Beneficiari: immigrati, migranti o nomadi privi di titoli di studio o con titoli di
studio non adeguati, per i quali sono necessari interventi formativi di
qualificazione o di specializzazione.
Durata massima: 600 ore per ogni tipologia di corso
Reddito allievi: massimo £ 4.000 per ora allievo.
2.4.2. Linee metodologiche della
Casa di Carità Arti e Mestieri
Cogliendo lo spirito di Cresson e Flynn (1996) l’intervento formativo della
Casa di Carità Arti e Mestieri cerca di confrontarsi con il nuovo modo di
operare, auspicato tra i soggetti del mondo del lavoro. In particolare vengono
considerati gli aspetti che più qualificano oggi un'azienda moderna: la
concorrenza di tutti i partecipanti all’evento produttivo per il perseguimento
della Qualità Totale, la flessibilità delle persone e delle strutture, la ricerca e la
valorizzazione di un rapporto di collaborazione che conduca ad una
soddisfazione tra tutte le parti.
35 Si veda l’ipotesi di Dispositivo per l’orientamento, l’accompagnamento e la formazione, presentato
nel capitolo 7, pr.7.2.
40
Per progettare l’intervento formativo secondo questi criteri di qualità, è
stato considerato opportuno procedere secondo un approccio sistemico, il
quale richiede una scuola integrata , non solo nelle sue variabili interne, ma
anche in relazione al territorio circostante. Ciò comporta la tensione a costruire
una coerenza tra piano educativo, programma di attuazione e progetto
operativo. Più in particolare, per attivare corsi di formazione in grado di
assorbire utenza migrante capace di terminare i corsi e di inserirsi nel mondo
del lavoro, viene ritenuto necessario promuovere una mentalità nuova che
consiste nell’integrare nel territorio la formazione professionale, i servizi di
accoglienza e di alfabetizzazione e le aziende .
Si tratta di un agire locale che tende a riconoscere il ruolo della molteplicità
di protagonismi che concorrono alla formazione professionale. D’altra parte
per lavorare in rete occorre un coordinamento e collegamento a livello
territoriale con un approccio culturale che viene definito, ad un tempo “del
limite” e “dell’estremo”. Sviluppando la cultura del limite, si pone come
obiettivo quello di esplicitare i propri vincoli e di riconoscere quelli altrui,
mentre con la cultura dell’estremo, si ricerca un’apertura ad una interpretazione
innovativa, creativa, di tali vincoli anche in funzione della negoziazione con gli
altri attori istituzionali36. Rifugiandosi solo in una o nell’altra di queste culture
si rischierebbe invece o di rimanere immobilizzati dai limiti, o di restare isolati
dalla eccessiva volontà di espansione e di indipendenza.
Lo scopo quindi è quello di superare immobilismi e isolamenti. Il territorio
diventa un ambiente innovator e nel quale anche i corsi possono trovare nuove
forme di gestione e di monitoraggio.
C’è, inoltre, la forte convinzione che l’integrazione nella diversità
multiculturale è un’acquisizione che ha bisogno di politiche e di strategie
d’interazione.
Un primo obiettivo può essere quello di sostituire alla materia, intesa come
costrutto unitario individuale, l’area delle materie. Ad esempio:
• l’area tecnico operativa
• l’area tecnico scientifica
• l’area culturale/multiculturale/interculturale
Un secondo obiettivo può essere quello di concretizzare l’invito contenuto
ancora in Cresson e Flynn (1996), attraverso un maggiore coinvolgimento dello
straniero, evidenziando, cioè, il suo ruolo centrale e co-progettuale rispetto al
percorso formativo proposto.
36 In questa prospettiva si pone il Dispositivo per la comunicazione integrata sul territorio , presentato
nel capitolo 4.
41
La missione fondamentale dell’istruzione è di aiutare ogni individuo a
diventare un essere umano completo e non uno strumento per l’economia;
l’acquisizione delle conoscenze e delle competenze deve essere accompagnato
da un’educazione del carattere, da un’apertura culturale e da un
interessamento alla responsabilità sociale.
Alla luce di queste opzioni lo strumento operativo adottato dalla Casa di
Carità Arti e Mestieri, è caratterizzato dalla sigla P.D.C.A37, uno strumento nato
per guidare le politiche di miglioramento continuo in azienda, ma
perfettamente applicabile nel campo dell’innovazione formativa.
Cosa vuol dire?
•
P. sta per PLAN e si riferisce alla pianificazione accurata che parte da una
buona individuazione delle esigenze, in un'ottica sistemica ed evolutiva.
• D. sta per DO e si riferisce alla esecuzione operativa, che riguarda i
contenuti, l’attrezzatura, la produzione e più in generale comprende il
motivare e l’incentivare a produrre bene.
• C. sta per CHECK e si riferisce al controllo della qualità rispetto a ciò che
si è pianificato, e comporta il fissare gli standard e garantirne il rispetto.
• A. sta per ACTION e si riferisce al mantenere o correggere, cioè fare il
follow-up; adottare quindi le misure correttive indicate dalla funzione
qualità, indirizzare gli allievi verso strutture che rispondano alla formazione
acquisita, assistere gli allievi e raccoglierne le indicazioni.
Dall’Action, la volta successiva, si determinerà un miglioramento nel
successivo P.D.C.A.
37 Si veda nei GRAFICI n.3,4, 5a e 5b il funzionamento del P.D.C.A. nell’azione della Casa di Carità.
42
2.4.3. Grafico n. 3: schema di progetto in corso
Milieu innovateur
è definibile come area territoriale limitata in cui
grazie alla presenza di:
• prossimità spaziale fra imprese (servizi);
• facile circolazione dell’informazione
• forte senso di appartenenza a una comunità
territoriale.
• comuni radici socio-culturali nelle diversità
(multiculturalità e interculturalità)
P
C
D
A
RACCOLTA
DATI
Si realizzano rapidi processi di confronto e di
imitazione che fondano l’“apprendimento
collettivo”. In definitiva occorre cogliere le
caratteristiche e le potenzialità del territorio.
PROGETTAZIONE
ATTIVAZIONE DEL
PERCORSO
COINVOLGIMENTO
DEI SERVIZI
In questo schema si evidenzia che l’innovazione non riguarda la singola istituzione
ma il territorio di partenza. Nel momento in cui si progetta un corso occorre tenere
conto che si è parte di un contesto di rete. La progettazione non avviene quindi in
un contesto concettuale di isolamento ma si cerca il più possibile di far riferimento
al territorio. Punti di vista differenti possono prodursi reciprocamente attraverso
uno scambio di significati tra gli attori della rete. Questo territorio diventa
innovatore se le risorse di ognuno vengono riconosciute dagli altri e se c’è la
disponibilità a raggiungere accordi condivisi. Ogni istituzione (scuola, formazione,
azienda, sanità, giustizia) ha una sua cultura e vincoli propri e il milieu innovateur
si riferisce proprio alla possibilità di rendere fruibili reciprocamente le iniziative, le
innovazioni che possono prodursi nei diversi punti della rete.
43
2.4.4. Grafico n. 4: modello sistemico/ecologico
MILIEU INNOVATEUR
ORGANIGRAMMA
DEL CENTRO PROFESSIONALE
A/B
TEAM A/B
FORMATORE/I
A/B
PROPOSTA
FORMATIVA
dell’ENTE
A/B
A: materiale
B: immateriale
Competenze tecniche,
indicatori risultati
Idee, esperienze, comunicazione,
relazioni, creatività, abilità
Competenze trasversali
Intese come “un insieme di abilità di ampio spessore, che
sono implicate in numerosi tipi di compiti dai più elementari
ai più complessi e che si esplicano in situazioni tra loro
diverse e quindi ampiamente generalizzabili”
44
2.4.5. Grafico n. 5: rapporto formatore/allievo
FORMATORE (fornitore)
ALLIEVO (utente/cliente)
COSTRUZIONE DI UN CONTESTO
FAVOREVOLE ALL’AZIONE
ESPERIENZA
FOCALIZZAZIONE
ATTENZIONE
ESEMPLIFICAZIONE
RIPRODUZIONE
SPIEGAZIONE
DOMANDA
SOSTEGNO ALLA COSTRUZIONE
RAPPRESENTAZIONE
CHIARIFICAZIONE/SEMPLIFICAZIONE/ PROBLEMATIZZAZIONE
RIFORMULAZIONE
RISPECCHIAMENTO/RINFORZO
IPOTIZZARE
SOLUZIONE AUTONOMA
Anche nella relazione diretta docente/discente utilizzare il PDCA significa
optare per un ruolo di sostegno e promozione che può essere identificato con il
tutoring descritto dagli approcci che si rifanno alla scuola storico – culturale di
Vygotskji (Pontecorvo, 1999, Pontecorvo, Ajello, Zucchermaglio, 1995)38
38 Si vedano il paragrafo 3.3. sulla coevoluzione e la co-costruzione, all’interno del capitolo 3.
45
Grafico n.5a
FORMAZIONE CONTINUA
(Il mondo della vita entra nel mondo del lavoro)
RAPPRESENTAZIONE
SOLUZIONE
AUTONOMA
PROBLEMATIZZAZIONE
DOMANDA
ESPERIENZA
ATTENZIONE
RIPRODUZIONE
IPOTIZZARE
Nel grafico si vede come questo processo che parte dell’esperienza dell’allievo
(utente/cliente), in un contesto favorevole preparato dal formatore, abbia un
andamento circolare in cui le diverse componenti contribuiscono all’esito
formativo, attraverso processi di costruzione, chiarificazione e riformulazione del
problema.
46
2.5. Il rapporto tra la Formazione Professionale
e i servizi territoriali di Torino
In tema di Migranti posti in situazione di “Disagio” sono state realizzate a
Torino iniziative diverse, che si sono collocate soprattutto nell’ambito del
contenimento e della prevenzione a carattere giudiziario, dell’ordine pubblico,
dell’emergenza. Ultimamente si assiste ad un salto di qualità ed il nuovo
orientamento è quello di traghettare il migrante verso l’integrazione nel tessuto
sociale torinese attraverso gli inserimenti scolastici, formativi, lavorativi,
culturali che coinvolgono tutte le istituzioni pubbliche, private ed il
volontariato cittadino.
Sono state, ad esempio, realizzate iniziative di coordinamento degli
apparati giudiziari, dei servizi sociali, dell’alfabetizzazione e 150 h, del
volontariato, della Formazione Professionale Regionale, della Prefettura e del
Ministero degli Affari Sociali. Ma tali esperienze, pur dimostrando un notevole
potenziale di efficacia, sono state centrate unicamente sulle risorse dei “corsi”,
e si sono potute rivolgere, quindi, ad una quota estremamente limitata di
popolazione interessata.
In ogni caso, difficilmente esse hanno potuto operare in modo da
sviluppare un reale “percorso virtuoso”, tale da favorire per i migranti implicati
un effettivo itinerario volto all’inserimento nella realtà sociale e lavorativa.
Ciò a causa della mancanza di una prospettiva programmata e strutturata a
monte, capace, quindi, di dare continuità interattiva ed interfacciale ai vari
interventi, ed in particolare in relazione ai tre sistemi quali:
• Servizi sociali
• Istruzione-educazione
• Formazione e lavoro
Occorre, tuttavia, valorizzare al massimo tali esperienze, e quant’altro è
stato sviluppato in quest’ambito (accoglienza, modelli di orientamento, di
counselling, progetti di prevenzione...).
Tale valorizzazione può avvenire attraverso un progetto sperimentale
centrato sulla creazione di un vero e proprio sistema individualizzato ed
integrato di interventi fondati sulla logica delle “opportunità stabilizzanti per
migranti” coerente con le indicazioni provenienti dall'Unione Europea e con le
spinte e gli orientamenti innovativi della città di Torino attenta ad un forte
coordinamento operativo di servizio all’utenza migrante.
2.5.1. La rete cittadina dei servizi
dal punto di vista della Casa di Carità Arti e Mestieri
La struttura della rete cambia a seconda dell’Ente di riferimento, del tipo di
progetto (es. minori/adulti stranieri, uomo/donna migrante) e del criterio di
47
accorpamento degli interlocutori con cui si stabiliscono i rapporti (contatti
frequenti/rari, primari/secondari).
Nel grafico 6, si intuisce subito come la rete territoriale di un Centro
professionale sia ampia e articolata in diversi livelli.
Partendo dal centro, il primo livello comprende i Centri con cui la
formazione professionale ha contatti molto frequenti, quasi quotidiani. Essi
sono prevalentemente i servizi che si occupano della prima e seconda
accoglienza (Uffici pubblici, Servizi socio-assistenziali, Servizi sanitari pubblici
e privati, Servizi educativi e scolastici, Servizi culturali e Associazioni di
volontariato).
Il secondo livello comprende invece contatti che possono nascere o da un
progetto mirato (per esempio il progetto Lia, finalizzato alla creazione di una
guida ai Servizi della città) o dalla partecipazione a strutture di coordinamento
che si incontrano regolarmente, ma una tantum (es. Coordinamento volontari
del Comune).
Il terzo livello comprende il contatto con gli Enti locali o con Centri
nazionali di ricerca ed è caratterizzato da un lato da una maggiore distanza
rispetto alle emergenze quotidiane, dall’altro da un collegamento ai problemi
di gestione (finanziamenti, leggi) o di progettazione/pianificazione
(commissionamento di ricerche o utilizzazione di ricerche svolte). All’interno
del centro professionale chi gestisce questo livello è prevalentemente lo staff
direzionale che, a sua volta, ha un rapporto meno diretto con l’utenza
migrante, in confronto ai tutor e ai formatori.
Complessivamente i diversi livelli di contatto consentono al Centro di
ricevere contributi concreti per la risoluzione di problemi di funzionamento
interni ai corsi (stage, selezione dei corsisti, referenti per i minori soli, ricerche
sulle opportunità occupazionali per migranti…) o risposte ai bisogni specifici
degli utenti (permesso di soggiorno, inserimento abitativo, supporto
psicologico…).
D’altra parte anche gli altri attori della rete sono interessati a entrare in
contatto con il Centro di formazione professionale per esigenze specifiche
interne; ad esempio le Scuole per stranieri possono indirizzare i minori verso i
corsi professionali e alcuni Servizi territoriali richiedono mediatori culturali al
Centro professionale.
Ogni struttura avrà quindi un suo modello di rete di riferimento specifica,
in base ai settori di intervento e al ruolo ricoperto nel contesto di attività.
48
2.5.2. Grafico n. 6: Rete territoriale per migranti
IRES
Enti locali
CICSENE
Coordinamento
volontari del Comune
ASGI
Centri per
l’impiego
Tribunale
dei minori
Pretura e
Giudici Tutelari
Prefettura
di Torino
Ufficio stranieri
del Comune
Centro
interculturale
Direzione provinciale
del Lavoro
Camminare
insieme
ISI
Ospedali
Ferrante Aporti
Assistenti
sociali
Centro
Frantz Fanon
CENTRO DI
FORMAZIONE
PROFESSIONALE
Consultori
OIRM
Consulta
Educatori
di Strada
Comunità di
accoglienza e alloggio
Servizio migranti
Caritas
Ufficio stranieri
della Questura
Scuole di alfabetizzazione
e 150 ore
Associazione
ALMA MATER
Associazioni di
volontariato privato
CIDISS
Centro Interculturale
Progetti mirati
49
2.6. Progetti di azioni integrate per la realizzazione
di opportunità stabilizzanti
Per opportunità stabilizzante per migranti si intende la capacità che ha
il sistema territoriale di individuare, attraverso un percorso strutturato di
orientamento alla formazione e al lavoro, le conoscenze, le abilità acquisite dal
migrante nel suo paese d’origine o nella sua storia passata; fare emergere
queste competenze significa riconoscere al soggetto dignità, orientandolo, in
un percorso formativo e/o lavorativo il più possibile coerente con la propria
storia.
Tale opzione ripropone, verso l’utenza migrante, lo stesso orientamento
che la Casa di Carità Arti e Mestieri ha assunto nei confronti dei minori italiani,
e cioè un orientamento ispirato alla Pedagogia del successo. Esso consiste nel
cercare di entrare in contatto con le componenti vitali, adattive della persona
e nel selezionare le difficoltà dei compiti e degli obiettivi in funzione della
possibilità, da parte della persona stessa, di sperimentarli e superarli con
successo. Tutto ciò nell’intento di favorire l’aumento del senso di padronanza
degli strumenti conoscitivi e della stima di sé.
Le principali strategie operative per un’azione di questo tipo potrebbero
essere:
1) Formare operatori specializzati (tutor) nella conduzione di progetti
individualizzati per migranti in situazione di disagio, secondo la logica della
valorizzazione e promozione personale, soggetti che siano quindi in grado
di sfruttare le leve della prima accoglienza, dell'orientamento, della
formazione e del lavoro.
2) Consolidare le sinergie esistenti, ed eventualmente attuarne di nuove , tra
gli operatori pubblici e privati presenti sul territorio al fine di massimizzare
le opportunità per i migranti in situazione di disagio e di evitare
incongruenze e sovrapposizioni indesiderate, quali, ad esempio, la non
approvazione di corsi considerati strategici ed innovativi per tali soggetti.
50
Parte seconda
OPZIONI
TEORICO-METODOLOGICHE
51
Capitolo 3
Per un modello di comunicazione
fondato sulla reciprocità
Laura Bonica
3.1. Premessa
Muoviamo dalla consapevolezza che il fenomeno migratorio, soprattutto
nelle sue forme così diffuse come nella fase attuale, sia un evento di
straordinaria complessità che coinvolge/stravolge contemporaneamente la vita
dei singoli migranti ed i mondi che ne sono toccati, sia quello di partenza che
quello di accoglienza. Sia l’uno che l’altro non saranno mai più gli stessi,
perché saranno ora descritti, nominati, sentiti sulla base di un confronto che
porterà alla luce proprio le caratteristiche più ordinarie, più primarie, dell’uno
e dell’altro, quelle che stanno alla base della condivisione di ciascuna cultura;
queste non risulterebbero forse mai visibili se non avvenisse questa transizione,
questo passaggio che apre un nuovo spazio mentale di ridefinizione di ciò che
“era” familiare e di ciò che è “nuovo”, di ciò che si era nel passato e di ciò che
si potrà essere nel futuro.
Nell’ambito della rete territoriale e dei processi formativi questa complessità
conduce ad assumere una prospettiva teorica abbastanza articolata che ci aiuti,
sostanzialmente, a riconoscere le difficoltà ed i vantaggi della comunicazione
interculturale: che renda conto perciò del diritto di ogni individuo, cultura e
istituzione ad autodefinirsi nelle situazioni, che ci consenta di scorgere,
nell’intreccio delle storie personali, delle culture e delle istituzioni coinvolte, il
potenziale evolutivo e riorganizzatore delle fasi di transizione e di disequilibrio,
e che ci predisponga a riconoscere, nelle dinamiche connesse ai processi di
insegnamento – apprendimento, quegli spunti che possono renderci
consapevoli del “nuovo” che sta accadendo attraverso l’incontro tra le nostre
menti e quelle dei migranti.
Il modello proposto è fondato su alcune ipotesi principali:
• che il cambiamento umano sia fondamentalmente il frutto di un processo
di comunicazione/negoziazione che avviene in concrete situazioni sociali
• che per comunicare produttivamente sia necessario avere reciproca fiducia
e riferirsi allo stesso dominio descrittivo, allo stesso problema
• che le istituzioni possano essere considerate come sistemi autoorganizzati,
dotati di caratteristiche affini a quelle dei sistemi viventi
• che, soprattutto nelle situazioni di eterogeneità, la collaborazione possa
essere facilitata se l’atteggiamento che guida l’incontro con l’altro è
improntato ad una specie di paradosso: aspettarsi differenze ed imprevisti,
53
come l’evento più probabile e, al contempo, sentirsi sicuri di poter sempre
ricondurre questa differenza ad una profonda similarità di base con l’altro:
siamo tutti esseri viventi complessi, capaci di autodefinirci, di avere
sentimenti, idee e progetti e tutti abbiamo dei vincoli.
Il supporto empirico deriva da ricerche condotte nell’ambito
dell’educazione e della formazione, svolte nella prospettiva sistemicocostruttivista (Bonica, 1984, 1989, 1990a, 1990b, 1991, 1992, 1999;
Merenda,1993; Parrinello, 1993; Negri S., 1999)
Più in dettaglio, l’ispirazione principale per la costruzione di questo
modello mi è stata suggerita dall’intreccio tra due esperienze. Da un lato
l’attività di ricerca sulla risoluzione autonoma dei conflitti tra bambini piccoli:
la loro immediata reazione al non sentirsi considerati dall’altro e le svariate
strategie messe in atto per ricostruire una forma basilare di reciprocità,
nonostante la loro giovane età, mi hanno spinto ad utilizzare, anche nelle
negoziazioni tra adulti e tra istituzioni, i concetti di autoreferenzialità, vincolo,
reciprocità, negoziazione e gioco delle differenze.
Dall’altro il coordinamento della formazione continua e della
sperimentazione didattica delle strutture socioeducative del Comune di
Genova, da cui ho tratto la convinzione che un sistema sociale organizzato
funzioni come un sistema vivente e che qualsiasi cambiamento venga proposto
o pretenda di essere imposto dall’esterno debba tener conto del sapere agito
degli operatori e cioè della capacità di autoorganizzazione del
servizio stesso e dei vincoli che ne costituiscono l’identità .
Di conseguenza, l’opzione verso la reciprocità verrà fondata principalmente
sul riconoscimento dell’autodefinizione e sulla esplicitazione dei vincoli tra
sistema che osserva e sistema che è osservato.
Procederemo in due fasi. Dapprima, cercherò di supportare l’opzione verso
la reciprocità anche sul piano teorico. In seguito presenterò il modello
operativo, un dispositivo per la comunicazione integrata sul territorio, che è
stato utilizzato nel corso Formazione Formatori, affinchè il lettore stesso possa
provare a rispondere attivamente alle diverse proposte ed eventualmente
utilizzarlo, a sua volta, per favorire la comunicazione di rete.
3.2. Qual è la metafora
della natura umana che ci ispira?
3.2.1. Meccanicismo e costruttivismo
Pensiamo all’attimo che precede il nostro primo incontro con “l’altro immigrato - sconosciuto”, persona o gruppo o istituzione, in funzione del quale
si giustifica il nostro ruolo professionale di quel momento: formatore,
54
educatore, insegnante, tutor, dirigente amministrativo, assistente sociale, ecc.
Qual è la metafora della natura umana che ci ispira?
Nel modo di rappresentarci l’altro, più o meno attivo/passivo, più o meno
capace di autodefinirsi, noi, non solo esprimiamo una prima definizione del
nostro ruolo e di quello che attribuiamo all’altro, ma anche la nostra visione
della natura umana e del tipo di comunicazione che riteniamo opportuna tra
esseri viventi.
Pur con diverse sfumature, nella storia del mondo occidentale si possono
individuare due principali metafore o concezioni dell’essere umano che hanno
trovato supporto anche nella letteratura scientifica:
a) macchina ALLOPOIETICA (visione comportamentista- meccanicistica)
b) macchina AUTOPOIETICA (visione organismica - costruttivista)
a) La concezione meccanicistica vede l’essere umano come una “macchina”
composta di parti, alle quali possono essere applicate delle forze che
provocano una reazione a catena, per cui la macchina si muove da uno
stato all’altro. In teoria diventa così possibile avere una capacità predittiva
profonda, in quanto la conoscenza completa che possediamo sullo stato
della macchina e sulle forze che agiscono in un dato momento ci permette
di fare inferenze sullo stato successivo (Miller, 1994, p. 28). Questa
macchina può essere definita “allopoietica” nel senso che, per funzionare,
dipende da input esterni (Maturana e Varela, 1980). Secondo questo
paradigma un determinato sistema A (ad es. un docente, un operatore,
ecc.) può agire su un altro sistema B (ad es. una classe di studenti, un
gruppo di migranti) secondo un rapporto causale di stimolo-risposta da
cui derivano i concetti di condizionamento e di istruzione.
Una concezione allopoietica dell’essere umano implica, quindi:
• un rapporto di non reciprocità tra la persona/istituzione/sistema A
e la persona /istituzione/sistema B
Ad esempio, A osserva, definisce ed istruisce B, in base a presupposti
unilaterali, mentre B, l’osservato, deve applicare più o meno passivamente
le istruzioni, senza che venga tenuto conto della sua capacità di definirsi o
di pensare altrimenti.
•
una prospettiva semplificatrice di prevedibilità oggettiva
Il sistema A, che istruisce, presume che la sua descrizione delle
caratteristiche del sistema B possa coincidere con le caratteristiche reali di
B, o con quelle che B dà di se stesso e che, quindi, certi comportamenti di
B possano essere causati dalle istruzioni di A e studiati - valutati - misurati
oggettivamente.
55
• la sottovalutazione o la mancanza dell’analisi dei vincoli
dell’osservatore:
La presunta oggettività, sopra citata, spesso induce il sistema che istruisce
a dimenticare che i propri vincoli incidono sulle proprie definizioni del
sistema B.
Applicando questa prospettiva al rapporto con utenza migrante e al mondo
della formazione, un centro professionale potrebbe definire i “bisogni”
dell’utenza migrante da formare, e costruire e valutare il setting formativo
corrispondente, misurando gli esiti in funzione della deviazione dal
modello di risposte previste, senza aver tenuto conto né della definizione
che i migranti avrebbero dato dei propri bisogni, né delle loro eventuali
definizioni del setting formativo stesso39. Tale semplificazione occulterebbe
tutta la dinamica comunicativa delle rispettive attribuzioni di significato
rispetto al setting, e rischierebbe di vanificare la validità della procedura di
valutazione, in quanto diventerebbe molto difficile stabilire che cosa
realmente quei risultati hanno misurato.
Oppure, noi occidentali potremo tendere a giudicare i bisogni ed i
comportamenti degli extracomunitari, dimenticando che anche i nostri
giudizi sono, a loro volta, inseriti in una storia di vincoli sociali, storici e
culturali, oltre che personali.
L’occultazione dei vincoli del sistema che osserva/definisce/istruisce è
spesso favorita da una condizione di maggior potere, e questo favorisce la
tendenza a radicalizzare le rispettive posizioni e differenze. Infatti, se
i vincoli del sistema che ha maggior potere, non sono esplicitati, e vengono
mascherati dietro al ruolo istruttivo, essi tenderanno ad essere percepiti dal
sistema istruito, solo come i “privilegi”; mentre i vincoli del sistema istruito,
mascherati dietro il bisogno o il “deficit”, tenderanno ad essere percepiti
solo come gli ostacoli da rimuovere. In questo modo, chi ha più potere
appare, in qualche modo, senza vincoli, mentre chi ha meno potere
appare, in qualche modo, senza risorse40.
A partire dalla fine degli anni ’50, questa visione è stata criticata per il
riduttivismo e l’inadeguatezza a spiegare fenomeni complessi come le
strategie cognitive innovative, la comunicazione umana ed i cambiamenti
psicologici che comportano delle trasformazioni profonde del sistema di
credenze personali. Tuttavia possiamo constatare che il modello del deficit
ha caratterizzato per lungo tempo la politica sociale nei confronti delle
fasce deboli (Bronfenbrenner, 1979) e che nella vita quotidiana, soprattutto
39 Si veda il capitolo 9 paragrafo 3 sulla suscettibilità rispetto al setting formativo e ai modelli di
apprendimento-insegnamento e la parte quinta, capitolo 12 e 13 sulla reciprocità e vulnerabilità
rispetto all’autodefinizione.
40 Si veda esercizio n.1 all’interno del capitolo 5, paragrafo 5.1.
56
quando esiste un’asimmetria sul piano dei ruoli e del potere, o una
differenza di cultura, la tendenza a considerare “l’altro” come se fosse una
macchina semplice, cioè più prevedibile e meno complessa, per esempio
di quanto siamo noi stessi, è tuttora presente in molte situazioni di
apprendimento e di rapporto tra istituzioni.
b) La concezione organismica e costruttivista si è andata affermando, nel
corso degli anni ’60 in alternativa alla visione meccanicistica, assumendo
come metafora l’essere vivente stesso. Essa mette in primo piano la qualità
“vivente e attiva” dell’essere umano e lo vede come una macchina
autopoietica, cioè come un’unità attiva ed autoorganizzata in continuo
cambiamento.
Un ecosistema autopoietico non può essere istruito meccanicamente
dall’esterno in quanto esso seleziona autonomamente ciò che gli serve.
S. H. White descrive così un organismo attivo:
Definiamo attivo un organismo che dà forma alla propria esperienza, mentre è passivo
un organismo che prende forma dalla propria esperienza. Gli organismi attivi sono
dotati di scopi e sanno prestare attenzione, ragionare e percepire in maniera selettiva.
Tutto questo fa sì che l’organismo attivo sia in grado di selezionare, modificare o
respingere influenze provenienti dall’ambiente che premono su di esso (White, 1976, in
Miller, 1994, p. 28).
Piaget può essere considerato il primo teorizzatore sistematico di una
concezione autopoietica dello sviluppo umano. Secondo Piaget (1936), ad
ogni età ed in ogni interazione con l’ambiente, fisico e sociale,
l’autoorganizzazione si manifesterebbe attraverso vincoli biologici, detti
invarianti funzionali (l’assimilazione, l’accomodamento e l’equilibrazione),
che fonderebbero un rapporto bidirezionale tra le strutture cognitive
dell’individuo e le sollecitazioni, presupposte come indispensabili,
dell’ambiente.
Le sollecitazioni dell’ambiente vengono chiamate “perturbazioni” per
distinguerle dal concetto di stimolo, utilizzato dalle teorie
comportamentiste; la loro funzione non è quella di “causare” delle risposte
determinate e prevedibili, al contrario è quella di attivare processi di
interpretazione e di riorganizzazione delle conoscenze che dovranno
sempre essere ipotizzati come originali e parzialmente imprevedibili; infatti
sarà lo stesso soggetto a costruire la realtà, inserendola in un sistema di
significati in funzione del mantenimento della sua autoorganizzazione e
secondo livelli di complessità compatibili con l’organizzazione attuale delle
sue strutture mentali.
57
3.2.2. La prospettiva della complessità
La prospettiva costruttivista di Piaget è stata ripresa dalla fase più recente
di evoluzione del pensiero sistemico, che va sotto il nome di prospettiva della
complessità. Essa prende le sue mosse, già negli anni ’60, dalle ricerche
dell'antropologo Gregory Bateson41 sull’ecologia della mente e si sviluppa negli
anni ’80 e ’90 attraverso le ricerche dei biologi Maturana e Varela (1980),
diffondendosi in svariati ambiti di ricerca come un paradigma alternativo alla
concezione meccanicistica e deterministica degli eventi e trovando, in ambito
evolutivo-educativo, punti di convergenza anche con il filone della psicologia
storico-culturale di Vygotskij e di Bruner. I principali nodi affrontati in questa
prospettiva, riguardano: il ruolo dell’osservatore ed il ruolo del contesto
socio-culturale. (Bocchi, Cerruti 1987)
Il prendere sempre più coscienza del ruolo dei vincoli dell’osservatore
umano, sia quando osserva i fenomeni fisici, sia, e soprattutto, quando osserva
un altro sistema vivente, ha condotto, da un lato a ritenere che la descrizione
scientifica dell’universo richieda sempre anche una descrizione di colui che
descrive e dall'altro a fondare un principio metodologico di RECIPROCITÀ tra
il sistema che osserva ed il sistema che è osservato.
Questa maggiore attenzione al ruolo dell’osservatore ha condotto a
rivedere molti degli assunti della scienza classica ed a costruire una sorta di
nuovo vocabolario. Nel prossimo paragrafo verranno illustrati i concetti ritenuti
più utili a progredire nella costruzione della chiave di lettura, qui proposta, per
facilitare la comunicazione tra attori del territorio e nei rapporti di
insegnamento-apprendimento.
3.3. Concetti utili per una chiave di lettura
ispirata alla reciprocità tra persone
e tra istituzioni
In questo paragrafo verranno approfonditi i concetti ritenuti utili, sia per
una migliore comprensione dei risvolti teorici del Dispositivo presentato nel
capitolo 4, sia per operativizzare, anche ad un altro livello di elaborazione,
alcune delle opzioni principali della Casa di Carità Arti e Mestieri rispetto al
percorso dei migranti: opportunità stabilizzanti, pedagogia del successo,
impegno etico-professionale, da parte degli operatori.
3.3.1. Autoreferenzialità, vincoli, reciprocità
Maturana e Varela si sono posti l’obiettivo di approfondire la visione
autopoietica della natura umana. Nel loro libro, “Autopoiesi e cognizione”
(1980), essi hanno proposto una descrizione dei sistemi viventi complessi,
58
come organismi dotati di un carattere unitario. L’unitarietà è da riferirsi alla
integrazione tra il ruolo di attore e di osservatore che caratterizza ogni essere
umano, in quanto organismo vivente cognitivamente complesso. Il ruolo di
attore è riferito all’organismo vivente in senso ontologico, che, come tale fa
parte dell’universo vivente, e quello di osservatore è riferito alla capacità
cognitiva di questo stesso organismo nel descrivere i fenomeni ontologici e
quindi anche se stesso, all’interno di particolari vincoli neurobiologici ed
evolutivi.
Questi autori definiscono autoreferenzialità la capacità di ogni organismo
vivente di subordinare tutti i cambiamenti al mantenimento dell’autoorganizzazione. L’autoorganizzazione, cioè la capacità di selezionare
autonomamente ciò che è favorevole o nocivo alla sopravvivenza, sarebbe
specificata dai vincoli.
I vincoli sono definiti come i fattori invarianti che specificano
l’organizzazione di sopravvivenza di un dato sistema vivente e che ne
costituiscono l’identità, indipendentemente dalla varietà di trasformazioni
della sua struttura, connesse ai cicli di riorganizzazione interna o alle
interazioni (perturbazioni) con altri sistemi .
L’autoreferenzialità ed i vincoli sarebbero quindi da intendersi come
caratteristiche proprie dell’essere vivente, e sarebbero proprio queste le
caratteristiche che fondano, al tempo stesso, un principio di unitarietà nello
stesso soggetto, in quanto attore e potenziale osservatore di se stesso e la
reciprocità tra attori/osservatori; infatti, se l’osservatore è un sistema vivente,
esso non può essere privo di vincoli, sia quando osserva/definisce se stesso sia
quando osserva/definisce l’altro, perché tutto ciò che si applica ai sistemi
viventi, si applica anche a lui (Maturana e Varela, 1980). Quando due persone
discutono, esse agiscono nel dominio linguistico, descrittivo, che è
condizionato dai rispettivi vincoli ontologici, e, quindi, ciò che viene detto non
va confuso con la realtà ontologica. In altri termini, quando formuliamo
un’asserzione sulla realtà, dovremo chiederci sempre “Chi l’ha detto?, Quali
sono i criteri che l’hanno guidato? In che relazione di accordo/disaccordo sta
con i miei criteri?” Detto ancora in altri termini, gli osservatori non possono
essere responsabili degli aspetti ontologici della vita/della realtà di cui sono
parte, ma possono e dovrebbero essere responsabili dei criteri che adottano
per interpretare questa realtà. Sarebbe, quindi opportuno, se si desidera fare
delle azioni insieme, esplicitare i criteri che le guidano e costruire un dominio
descrittivo comune, cioè un referenziale condiviso.
A loro volta, questi criteri, queste teorie agiscono sulla realtà orientando i
concreti comportamenti degli attori e diventando quindi suscettibili di produrre
trasformazioni più o meno favorevoli al mantenimento dell’autoorganizzazione.
Secondo questa visione, l’organismo vivente tende al mantenimento
dell’autoorganizzazione, ma le teorie che il soggetto assume, nel ruolo di
59
osservatore, potrebbero essere più o meno adatte all’autoconservazione, così
da orientare comportamenti più o meno vitali, che possono mettere in pericolo
o rompere questo equilibrio, oppure trasformarlo in senso positivo.
É infatti interessante sottolineare che, nella nuova prospettiva considerata,
il concetto di vincolo viene coniato in alternativa al concetto di legge proprio
per riferirsi ad un limite che non viene più visto con le caratteristiche di
necessità di una legge e, quindi, la nozione di invarianza che esso implica è da
intendersi soprattutto come funzionale all’osservatore (per avere un parametro
da cui progettare il cambiamento), piuttosto che da riferirsi ad una legge
esterna data come immutabile. (Cerruti, 1986)
Il modello di comunicazione, qui proposto si fonda, per una buona parte,
su una elaborazione di questi concetti, anche in chiave educativa ed
inter-istituzionale. (Bonica, 1992)
I vincoli, oltre che biologici ed esistenziali, possono essere storici, culturali,
istituzionali, professionali. Nella interpretazione che proponiamo, essi
segnalerebbero ad un tempo l’identità del sistema considerato, soggetto umano
o istituzione e la prospettiva del cambiamento possibile in quel momento.
Nel caso degli attori territoriali i vincoli potrebbero corrispondere alle
invarianti istituzionali.
Per invarianti istituzionali si potrebbero intendere quelle caratteristiche
che specificano l’identità del servizio e che possono essere riconosciute come
stabili nonostante i cambiamenti che possono essere innescati da riforme
strutturali (per esempio l’attuale riforma della autonomia scolastica) o da
iniziative innovative che partono dall’interno, o ancora dall’incontro con altri
sistemi.
I vincoli possono quindi rappresentare il luogo in cui il cambiamento si
manifesta prevalentemente come capacità di salvaguardare la sopravvivenza
del servizio a cui è legato il proprio posto di lavoro ed il ruolo professionale;
questo cambiamento è inerente a due dimensioni principali: la vivibilità del
soggetto stesso all’interno dell’istituzione, ed il consenso dell’utenza diretta;
quando sono in pericolo questi due fattori, può manifestarsi, in modo più
visibile, la capacità degli attori di esercitare un potere soggettivo di
reinterpretazione dei vincoli, che fino ad allora potevano essere stati vissuti
come invarianti immutabili dotate di un potere coercitivo proveniente
dall’“alto” o, comunque, dall’“esterno”. La soggettiva percezione dei vincoli
può comportare un margine di opzionalità che può oscillare attraverso un
continuum che va da comportamenti mirati alla conservazione dello status
quo, a comportamenti che, in nome della buona conservazione dell’identità del
sistema, implicano trasgressioni o innovazioni. In questa chiave di lettura la
cosiddetta “resistenza al cambiamento” delle istituzioni, spesso imputata
dall’“esterno”, dovrebbe essere ogni volta riletta dal punto di vista interno
all’istituzione: ciò che dall’esterno appare come conservazione potrebbe
costituire, invece una scelta innovativa, o viceversa.
Può risultare quindi più chiaro che, in questa prospettiva,
60
autoreferenzialità non significa automaticamente corporativismo o chiusura
persistente nei confronti dell’altro, o egoismo, ma la tendenza di ogni sistema
vivente/istituzione a subordinare tutti i cambiamenti al mantenimento
della sua identità, intesa come capacità di autoorganizzazione. Come
abbiamo detto sopra, questa capacità di autoconservazione non sarebbe da
vedersi opposta od alternativa alla capacità di modificarsi o di entrare in
interazione con un altro sistema autopoietico, proprio perché i vincoli che
fonderebbero le rispettive autopoiesi non opererebbero come costrizioni
esterne, al contrario entrerebbero a far parte del processo coevolutivo. Sul
processo di co-evoluzione e di co-costruzione delle conoscenze, ritorneremo
successivamente. Ora vorrei sottolineare come la natura dei cambiamenti
strutturali possa essere compatibile con la conservazione dell’identità.
Riprendiamo l’esempio delle riforme scolastiche o pensiamo a certi processi
d’innovazione educativa partenti dal basso: essi innescano cambiamenti a livello
strutturale che rimangono peraltro compatibili con la salvaguardia dell’identità
della scuola. Ad esempio, uno dei vincoli indispensabili, almeno al momento
storico attuale, per la sopravvivenza delle istituzioni scolastiche, può essere la
dimensione collettiva dell’apprendere-insegnare, rispetto ad altri sistemi
che, invece, prevedevano un rapporto diadico, come per esempio l’istituzione
del precettore a domicilio. Occorrerebbe, quindi, che il cambiamento non
comportasse una perdita drastica delle iscrizioni degli studenti. D’altra parte
questo livello d’identità è compatibile con la differenza, perché ogni istituzione
scolastica, pur condividendo con le altre lo stesso vincolo di base, può
interpretarlo in modi diversificati. Dietro ad ognuno di questi modi c’è una
quota di rischio assunto soggettivamente ed una storia di negoziazioni e
condivisioni con gli utenti ed i colleghi.
Vincoli, opportunità, unità di analisi e sapere agito
Possiamo constatare che questo stesso vincolo, non solo segnala il punto
di partenza ed il limite entro cui può essere affrontato un cambiamento, ma
segnala anche l’opportunità di costruire un sapere specifico, che, riprendendo
l’esempio di prima, riguarda “l’apprendimento-insegnamento in situazione
collettiva”. Ciò significa che questo vincolo indica anche qual è l’unità di
analisi minima utilizzata dai docenti nelle concrete situazioni e suggerisce,
quindi, uno dei criteri autoreferenziali, identitari, per esplicitare e confrontare
questo sapere con altre figure professionali, ed anche per migliorarlo in modo
creativo. Se, però, questo sapere non viene assunto come una specifica
opportunità offerta dai propri vincoli istituzionali perché questi ultimi vengono
considerati solo come un ostacolo, “malgrado” il quale si realizza il processo
di insegnamento-apprendimento, rispetto, per esempio, al “privilegio” di chi
può permettersi di trattare con un utente per volta, c’è il rischio che il confronto
avvenga al’insegna di un equivoco e che questo sapere resti sommerso. D’altra
parte questo equivoco può scattare anche nella fase di formazione degli
insegnanti, quando le unità di analisi proposte, in sede di formazione, sono
riduttive o, comunque non rappresentative, della complessità dei vincoli delle
61
situazioni professionali. In ogni caso il sapere agito e costruito in situazione,
grazie alle strategie di negoziazione dei rispetti vincoli con gli utenti diretti ed
i colleghi, costituirà sempre una componente “viva” della professionalità. É
infatti universalmente riconosciuto che in fase di stage, di tirocinio, di
apprendistato si ha l’opportunità di apprendere qualcosa in più e di diverso,
rispetto al setting scolastico, perché ci si rapporta con esperti che traducono
il sapere tecnico in azioni e decisioni negoziate all’interno di una comunità di
pratiche. In questo senso i vincoli possono anche essere visti, più
complessivamente, come luoghi di sintesi tra la dimensione tecnico-scientifica
e la dimensione etico-professionale del proprio lavoro.
In questa prospettiva l’opzione verso la reciprocità si fonderebbe quindi
su un assunto di similarità di base fondata sull’autoreferenzialità e sui vincoli,
e si manifesterebbe attraverso il riconoscimento reciproco di questo potere
autoasserente.
3.3.2. Ascolto attivo, conflitto, negoziazione
Il tener conto che anche l’altro ha sempre un suo punto di vista e quindi
anche una sua capacità di definire sé stesso e l’altro, comporta che
l'atteggiamento conseguente per la costruzione di un accordo consensuale sia
un atteggiamento di cautela, di domanda, di ascolto, di attesa, di negoziazione
in alternativa ad un atteggiamento di presupposizione unilaterale .
Ciò presuppone, da un lato un atteggiamento di fiducia, dall’altro la
disponibilità ad assumersi il rischio del rifiuto, del conflitto, della rottura,
dell’insuccesso.
Come abbiamo appena accennato sopra, l’opzione nei confronti della
reciprocità diviene più evidente nelle situazioni di conflitto, di asimmetria di
potere e, più in generale, di differenza. Infatti, non ci può essere né conflitto
né negoziazione tra persone che non si riconoscono reciprocamente il diritto
ad avere sentimenti, pensieri, opinioni personali.
In un modello d’interazione fondato sulla reciprocità il conflitto può
rappresentare un momento importante di crescita del rapporto tra individui e/o
istituzioni, in quanto esso presuppone un riconoscimento dell’altro come
persona capace di autodefinirsi, in alternativa ad un atteggiamento di
svalutazione o di disconferma che, rispetto ai migranti, può rivolgersi alla loro
stessa presenza nel qui ed ora.
D’altra parte, perché la negoziazione sia possibile occorre condividere un
dominio di descrizioni, vale a dire, riferirsi allo stesso problema e quindi
parlare lo stesso linguaggio. Spesso si resta invece nel fraintendimento e nel
conflitto “non detto”, perché la differenza delle rispettive posizioni di partenza
(i vincoli) fa sì che ognuno attribuisca un suo e diverso significato alla stessa
cosa e quindi, pur parlando apparentemente della stessa cosa, non si condivide
lo stesso problema.
62
La ricerca scientifica sulle prime fasi di sviluppo infantile ci suggerisce che
questa specie di Torre di Babele va considerata come un fenomeno normale,
intrinseco alla complessità della mente umana; per quanto possa
meravigliarci, stiamo scoprendo che il modo in cui un bambino di tre anni
comunica con un coetaneo è in un certo senso più consono alla complessità
della mente umana di quanto non lo sia il modo di un adulto che utilizza la
sua maggiore esperienza per “sostituirsi” al bambino nella definizione di sé.
I bambini, infatti, non potendosi ancora muovere all’interno di una sapiente
logica di giustificazioni razionali a supporto dei propri comportamenti, si
muovono secondo una epistemologia più dinamica e flessibile: la loro
prevedibilità è quasi totalmente basata sull’ascolto attento ed attivo di ciò
che avviene intorno e pur non disponendo di una astratta teoria della
comunicazione, riescono a comunicare e arrivano a condividere attività di
gioco complesse. Come mai? Forse perché trovano normale che l’altro sia
imprevedibile, e quindi non scappano dalle difficoltà; ciò li porta ad affrontare
via via i conflitti o i malintesi che nascono nella relazione con l’altro. Quando
riescono a superare un momento d’impasse sembrano molto contenti e, nel
loro gioco immediatamente successivo, sembrano divertirsi a rimettere in
scena quegli equivoci, come se attraverso le provocazioni sui reciproci modi
di essere potessero al tempo stesso rassicurarsi sull’accettazione dei
rispettivi limiti ed inoltrarsi verso la scoperta di nuove parti di sé e dell’altro.
La loro epistemologia, per quanto rudimentale e intuitiva, sembra improntata
al paradigma della complessità, perché sembrerebbe fondarsi sulla
inevitabilità dell’interdipendenza e su una quota di imprevedibilità della
natura umana (Bonica, 1990 b).
3.3.3. Contratto e gioco
Secondo Cerruti il reinserimento del soggetto e dell’osservatore nel
processo di conoscenza prospetta un mutamento epistemologico nel pensiero
scientifico che si può definire come passaggio da una scienza della necessità a
una scienza del gioco. (Cerruti,1986)
La strategia che è prevalente in una logica di reciprocità è una strategia
contrattualistica; ci si muove con la fiducia che sia possibile arrivare ad un patto
condiviso. L’obiettivo non dovrebbe essere tanto quello di convincere l’altro
attraverso la seduzione o l’estorsione o la forza,come se quella che
proponiamo fosse la realtà o l’unica interpretazione possibile, quanto quello,
appunto, di confrontare le rispettive autoreferenzialità, i rispettivi vincoli,per
riuscire a raggiungere un accordo consensuale sui criteri.
Il termine gioco è allora molto appropriato.
É giocando a “far finta” che i bambini di tre anni apprendono i vincoli interni
delle relazioni interpersonali, cioè la necessità di arrivare ad un consenso
condiviso. Proprio la mancanza di vincoli esterni rispetto al contenuto del
gioco (si può infatti far finta che esistano anche due soli, o due mamme),
63
mette maggiormente in evidenza la necessità che i giocatori si accordino
sulla cornice (è per finta), sui significati (ad esempio “questo bambolotto è il
nostro bambino”) e sui ruoli interpersonali nelle decisioni che riguardano la
trasformazione del gioco. Facendo questo, spontaneamente, i bambini cocostruiscono un copione fantastico ricco di temi che si trasformano in modi
coerenti. Come ci arrivano? Per arrivarci, scoprono e costruiscono via via un
sistema di norme di validità della comunicazione, fondato sulla reciprocità.
Paradossalmente i rispettivi egocentrismi fanno sì che, da un lato, ognuno
tenda inizialmente a trattare l’altro come se fosse facilmente manipolabile, e
dall’altro che ognuno reagisca prontamente a tali violazioni. Ognuno è così
costretto a inoltrarsi al di là del suo progetto iniziale, a scoprire che l’altro non
è trasparente, ma complesso, a ritornare su battute precedenti, a fare una
specie di bilancio retroattivo, a modificare i propri comportamenti e ad
esigere modifiche da parte dell’altro, fino ad arrivare ad un accordo
consensuale. Rispetto alla reciprocità, il momento più significativo di questo
processo è quello in cui ogni bambino sembra arrivare autonomamente alla
comprensione che occorre una rinuncia attiva, che occorre trovare un
equilibrio tra strategie di persuasione e strategie di concessione, per
continuare a giocare insieme. Da parte dei bambini, la voglia di continuare a
giocare insieme e l’accettazione dell’interdipendenza come di un fatto
normale sembrano i fattori determinanti che li aiutano a inoltrarsi nella
differenza dell’altro, a inventare strategie creative di risoluzione dei conflitti e,
così facendo, a scoprire e costruire nuove parti di sé oltre che ad inventare
nuovi mondi condivisi (Bonica, 1989 e 1990 b).
Noi adulti siamo senz’altro più capaci di anticipare mentalmente lo
svolgimento di un incontro, di attribuire caratteristiche psicologiche e culturali
all’altro, ma questo succede anche in virtù del fatto che siamo più cristallizzati
nelle norme di riferimento della nostra cultura e più abituati a fidarci della
razionalità ed a diffidare delle emozioni; diventa così, paradossalmente, più
difficile per noi uscire dalla cornice abituale ed aprirci alla scoperta di nuovi
modi di vivere o attribuire nuovi significati agli eventi e, più in generale, essere
disposti ad osservare con interesse e curiosità ciò che può capitarci se ci
inoltriamo a riconoscere, ad ascoltare davvero la differenza dell’altro. Per noi
adulti occorre quindi una scelta consapevole: vogliamo partecipare a questo
gioco? Siamo motivati a vivere il rischio di esserne un po’ trasformati?
Riteniamo che si possa arrivare a condividere delle norme di validità della
comunicazione, pur partendo da professioni diverse o da culture diverse?
La scelta della metafora del gioco e della reciprocità come norma di validità
della comunicazione non è quindi da confondersi con una logica libertaria ed
egualitaria o con una logica di compiacenza e di seduzione volta
all’affrancamento dell’altro per omologarlo alla nostra cultura. (Labelle, 1996)
Né si tratta di un ottimismo utopistico esclusivamente rivolto alla “accettazione
incondizionata dell’altro”.
64
Giocare le differenze comporta spesso confrontarsi anche con problemi
spinosi: forse, nessuno di noi europei si sentirebbe disposto ad ammettere
pratiche che consideriamo lesive e violente come quella dell’infibulazione,
oppure vorrebbe trovarsi personalmente costretto a subire un’atmosfera
chiassosa durante una veglia funebre42. Anche noi abbiamo i nostri vincoli di
vivibilità, d’identità culturale che devono essere riconosciuti. Ma è proprio il
confronto, la partecipazione al gioco che può farci rispettivamente
comprendere quali sono i vincoli che veramente possono ledere la nostra
traiettoria evolutiva, la nostra capacità di autoregolazione, la nostra identità di
base e quali quelli che, invece, possono essere rinegoziati senza costi troppo
esosi per la nostra sopravvivenza. Per esempio, la decisione dello stato
francese di impedire il chador era poi così indispensabile?
Occorre anche riconoscere che la logica contrattualistica non può sempre
essere esplicita e razionalmente verbalizzata: le nostre ed altrui reazioni sono
spesso imprevedibili, la loro base è inconscia e si manifestano attraverso
indicatori emotivi e non verbali come il senso d’imbarazzo, il senso del ridicolo
o il disgusto e lo spaesamento. I lavori di Gregory Bateson e gli esempi riportati
da Marianella Sclavi ci indicano una via originale, interessante e preziosa per
non negare queste emozioni, senza peraltro subirle solo in modo passivo43.
Questi indicatori possono infatti diventare i nostri alleati che ci aiutano a
riconoscere i nostri vincoli culturali. Questo riconoscimento autoreferenziale
può essere già un passo per entrare o per restare nel gioco.
Il gioco rappresenta per G.Bateson (1979) un esempio paradigmatico della
comunicazione a più livelli. Infatti per giocare bisogna comunicare
contemporaneamente che questa è la realtà, ma anche che questa non è la
realtà e tuttavia il gioco sta proprio nell’impegno a fare “come se” quella fosse
davvero la realtà. L’umorismo, ad esempio, può permetterci di comunicare
contemporaneamente l’accettazione ed il disagio.
Anni fa ho collaborato con quindici scuole genovesi in una ricerca
interculturale sugli indicatori di reciprocità. Una classe di quinta elementare si
è interrogata sulla differenza che c’è tra il “prendere in giro” offensivo ed il
prendere in giro scherzoso e bonario; i bambini e le bambine hanno convenuto
che la differenza è molto sottile perché sta nel tono della voce, nello sguardo
e spesso nell’accompagnare le parole ad una pacca sulla spalla, al toccare
l’altro… La classe si è impegnata e divertita a giocare anche con quelle
differenze che sono generalmente considerate “i difetti”. Un bambino si è
espresso così:
…è una specie di liberazione poter scherzare senza offendere perché puoi
dire al tuo compagno che è ciccione o fargli il verso di come sbaglia le parole
42 Si veda l’esempio n.3 riportato da M. Sclavi nel capitolo 13.
43 Si veda M. Sclavi, capitolo 13.
65
italiane, ma fargli anche capire che ti è simpatico così… ma se non glielo dici
finisce che ci pensi da solo a queste cose un po’ difettose e poi ti diventa
antipatico davvero.
3.3.4. Coevoluzione e co-costruzione
Nei contesti finalizzati ad un compito, come la scuola, la rete territoriale o
la formazione, come sono visti i processi che sottostanno alla condivisione dei
significati ed alla trasmissione delle conoscenze?
Riprendendo i fondamenti del costruttivismo, le perturbazioni esterne,
come un corso di formazione, un ciclo di incontri di rete, la spiegazione di una
nozione, l’esemplificazione di un comportamento, l’azione congiunta con un
collega, possono innescare un disequilibrio che ogni soggetto/istituzione,
tratterà in modo autoreferenziale, cioè, come già detto, filtrandolo e
rielaborandolo cognitivamente, in modo tale da non perdere la propria identità.
Questo adattamento, che avviene per compensazioni attive, può (non “deve”)
innescare un potenziale processo co-evolutivo tra i soggetti protagonisti dello
scambio. In questa prospettiva l’attenzione è posta sul come la reciproca
influenza può portare ognuno a interpretare in modo originale gli spunti colti
nell’altro o intenzionalmente forniti dall’altro, di modo che l’esito di questo
processo non può più essere ricondotto solo alla mente di uno o dell’altro , ma
allo stesso processo di co-costruzione.
L’aspetto interessante del cambiamento riguarda, quindi, il “come” punti
di vista diversi o nuovi possano prodursi reciprocamente.
Riconducendo questo principio coevolutivo alla tematica di cui ci stiamo
occupando, sorge l’esigenza di individuare quali potrebbero essere i criteri di
facilitazione della comunicazione in gruppi eterogenei, come quelli costituiti
dai diversi attori della rete, o da una classe multietnica.
Nell’ambito di una concezione autopoietica dell’essere umano, disponiamo
principalmente di due modelli di facilitazione della comunicazione centrata su
un compito: il modello del conflitto socio-cognitivo, che è stato elaborato
all’interno del costruttivismo neopiagetiano (Doise e Mugny, 1981) ed il
modello del tutoring, che si è sviluppato a partire dalla psicologia storicoculturale, che fa capo a Vygotskij. (Vygotskij, 1974)
Il primo è maggiormente interessato allo sviluppo spontaneo delle
acquisizioni, cioè a quelle trasformazioni delle strutture cognitive che
avvengono indipendentemente da una finalità pedagogica istituzionale, e
sembrerebbe, quindi, più adatto a facilitare i processi di co-costruzione che
avvengono tra partner eterogenei e simmetrici, come, potrebbe essere
l’interazione di gioco tra coetanei, o il gruppo di formazione-formatori del
nostro corso. In questo caso l’elemento facilitatore del processo co-costruttivo
sarebbe rappresentato dall’asserzione dei diversi punti vista, e dal conseguente
potenziale conflitto cognitivo che, costringendo ognuno dei partner ad
esplicitare ed argomentare il proprio punto di vista, innescherebbe una
dinamica interattiva favorevole, sia a sviluppare le strutture cognitive di tutti i
66
partecipanti (sia quelli più avanzati che quelli meno avanzati, purchè la
distanza tra i loro livelli non sia troppo ampia), sia a costruire nuove ipotesi,
nuove definizioni della realtà considerata.
Il secondo si sviluppa a partire da domande che riguardano l’educabilità
dell’essere umano, dentro ad una cultura di riferimento; sembrerebbe, quindi,
più adatto a spiegare i processi di co-costruzione che possono avvenire tra
generazioni di età diverse o tra un partner esperto ed un novizio, o nei processi
di apprendimento-insegnamento, cioè in situazioni sociali caratterizzate da
asimmetria e relativa omogeneità culturale. Il tutoring non è da intendersi
come un insieme di mosse lineari e unidirezionali che vanno dall’esperto alla
mente del novizio, ma come un processo complesso situato in un preciso
contesto culturale, che si fonda su diverse strategie che sono considerate
efficaci, nella misura in cui si ancorano allo sviluppo autopoietico attuale
dell’altro, consentendo una condivisione reciproca di significati e tendono a
spostare l’equilibrio di potere a favore della persona che sta ricevendo l’aiuto.
Equilibrio di potere non significa uguale potere, ma significa, appunto,
accettazione di una asimmetria in cui chi ha più potere in quel momento non
ostacola, anzi favorisce che l’altro assuma sempre maggiori responsabilità. Tali
strategie possono essere: l’esempio dimostrativo, la spiegazione, il
rispecchiamento della frase o del comportamento, il fornire una impalcatura
che aiuti a restare focalizzati sul compito. Dal punto di vista del discente o del
novizio questo processo viene definito di “appropriazione culturale”, cioè il
fare “proprio”, in modo selettivo, secondo criteri compatibili con la propria
autoorganizzazione, i contenuti e gli strumenti di una professione, di una
disciplina, di una cultura.
Entrambi questi modelli possono essere tenuti presenti da un formatore, e
integrati, a seconda dello svolgimento in itinere della situazione interattiva44.
Analogamente, lo spazio interculturale può essere visto come uno spazio di cocostruzione tra soggetti eterogenei e può fondarsi sia su processi di confronto
tra le culture, sia su processi di progressiva appropriazione dei significati della
cultura ospite, nel corso della condivisione di esperienze significative,
connotate dal reciproco riconoscimento della propria autopoiesi. Il concetto
stesso di INTERCULTURA differisce dal concetto di multicultura o di
acculturazione, perché si riferisce al processo di co-costruzione, guarda, cioè,
a quella dimensione nuova, da considerarsi sempre parzialmente
imprevedibile, che può nascere solo in seguito a catene circolari di reciproche
perturbazioni in cui vengono, ogni volta, ridefiniti i rispettivi vincoli ed i
significati ad essi attribuiti.
44 Una proposta di integrazione tra questi due modelli, e ricerche sull’apprendimento, in una
prospettiva storico culturale sono presentate dal gruppo di ricerca diretto da C.Pontecorvo in diversi
testi. Si segnala qui: Pontecorvo 1999 e Pontecorvo, Ajello, Zucchermaglio, 1995.
67
3.3.5. Verso un approccio ecologico/evolutivo
del concetto di contesto
Nella prospettiva co-costruttiva, appena delineata, il contesto, non viene
più visto come una variabile indipendente che circonda l’individuo, e incombe
come una realtà a lui esterna, ma come qualcosa nel quale l’individuo è
immerso fin dalla nascita, ed i cui confini vengono di volta in volta ridefiniti
dalle pratiche culturali, educative e lavorative condivise, dai significati
scambiati nelle relazioni, e tra generazioni, che sono, si, radicate nella storia
e nella cultura, ma che sono esse stesse produzione di nuova storia e di
nuova cultura, attraverso un’oscillazione continua tra sfera della canonicità (i
vincoli, le invarianti che sono espresse attraverso il diritto, le leggi che
sistematizzano la cultura) e sfera delle possibilità cui l’individuo partecipa
attivamente, attraverso l’esercizio delle sue potenzialità e nell’incontro con
gli altri soggetti.
Il contesto è, di conseguenza, inteso in modo ampio, al di là dei
rapporti più immediati, faccia a faccia, anche se non può non prescindere
da questi.
Bronfenbrenner (1979) descrive i cambiamenti inerenti allo sviluppo
umano come cambiamenti che interessano sia le percezioni che i soggetti
traggono dalle interazioni reciproche con i diversi ambienti nei quali essi si
sviluppano, sia il rapporto che questi ambienti intrattengono tra di loro.
Egli distingue quattro livelli ambientali: il microsistema, la cui
caratteristica sono i rapporti faccia a faccia (la famiglia, la scuola, il posto di
lavoro, ecc.,); il mesosistema che costituisce il collegamento tra i diversi
microsistemi e che si estende ogni volta che l’individuo entra a far parte di una
nuova situazione ambientale: esso può comprendere legami intermedi
all’interno di una rete sociale, comunicazioni formali e informali tra situazioni
ambientali diverse; l’esosistema che si riferisce agli ambienti di cui l’individuo
non fa parte direttamente ma che influenzano la qualità delle attività, dei ruoli
e delle relazioni nell’ambito dei microsistemi (per esempio l’esistenza di élite
che mediano tra l’individuo ed il potere istituzionale, come potrebbero essere
le associazioni di volontariato per una famiglia che ha un bambino
handicappato, oppure le associazioni etniche per un migrante, o ancora le
associazioni professionali degli insegnanti, la direzione di un centro
professionale, ecc.) ed il macrosistema, che costituisce il livello della cultura,
dei programmi nazionali, delle leggi e delle congruenze che possono essere
osservate a livello dei microsistemi. Infatti, benché culture e subculture
possano differire l’una dall’altra, come si nota confrontando, per esempio,
istituzioni diverse, possiamo aspettarci che esse siano relativamente omogenee,
nel loro interno. Questa omogeneità, che specifica le caratteristiche culturali di
questi microsistemi, emergerà con più chiarezza nelle fasi di grande
cambiamento politico – economico - sociale, oppure quando si osservano gli
ambienti di vita dal punto di vista di un’altra cultura.
68
L’unità minima di analisi presa in considerazione per descrivere il
funzionamento ed il cambiamento, in ognuno di questi livelli ambientali,
comprende:
• le attività molari, cioè quelle attività che hanno una dimensione
progettuale e si fondano sulla motivazione intrinseca e che l’individuo
svolge e vede svolgere da altre persone per lui significative;
• i ruoli, cioè le reciproche aspettative in termini di funzioni svolte e di
distribuzione del potere e
• la qualità delle relazioni affettive, con particolare riferimento alle
pratiche che fondano fiducia e reciprocità tra i soggetti.
L’omogeneità di una cultura può riguardare, quindi, i tipi di situazioni
ambientali di cui la persona entra a far parte in momenti successivi della vita,
il contenuto e l’organizzazione delle attività progettuali, dei ruoli e delle
relazioni riscontrabili all’interno di ciascun tipo di situazione, il grado e la
natura delle connessioni esistenti tra le situazioni ambientali di cui la persona
che cresce fa parte o che influiscono sulla sua vita.
In questa prospettiva lo sviluppo dell’individuo è visto in funzione della
progressiva partecipazione a nuove situazioni ambientali, ed ognuno di questi
passaggi viene definito transizione ecologica, cioè un evento che comporta una
trasformazione di ambiente e di ruolo. Esempi di transizione ecologica si
manifestano nell’arco di tutta la vita: sposarsi, avere un bambino; tornare a casa
dall’ospedale; trovare lavoro, perderlo, cambiarlo; andare in pensione, e
naturalmente, emigrare. L’emigrazione può essere definita, quindi, come
una transizione ecologica a livello di macrosistema. Quando un soggetto
si inserisce in un nuovo ambiente è sollecitato a modificare lo schema di
attività, ruoli e relazioni che ha consolidato fino a quel momento.
Bronfenbrenner definisce traiettoria evolutiva questa modalità propria a
ciascun individuo di impegnarsi, nell’ambito della famiglia e di altri eventuali
contesti significativi e duraturi, nelle attività, nei ruoli e nelle relazioni.
Affinché la transizione ecologica abbia un ruolo di promozione dello sviluppo
è necessario che esistano dei collegamenti di sostegno tra le situazione
primarie in cui quegli schemi si sono consolidati e la situazione nuova, in
modo da controbilanciare gli ostacoli dell’inserimento.
Diventa quindi fondamentale, per il soggetto migrante, la funzione di
accoglienza svolta dalle comunità etniche e le funzioni di sostegno,
orientamento e accompagnamento che implicano anche iniziative di politica
sociale a livello del mesosistema e dell’esosistema per favorire la
comunicazione tra le diverse situazioni ambientali.
Inoltre il potenziale evolutivo delle situazioni ambientali risulta
incrementato nella misura in cui le modalità di comunicazione tra di esse sono
di tipo personale, quindi in ordine discendente: comunicazione faccia a faccia,
lettera o nota personale, lettera ufficiale, avviso. La condizione meno
favorevole allo sviluppo, quindi, è quella in cui i collegamenti supplementari
o non danno alcun sostegno, o mancano del tutto, cioè quando il mesosistema,
la rete, è scarsamente collegata.
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3.3.6. Dalle dicotomie verso la complementarietà.
Per concludere questa rassegna delle opzioni che ci sono sembrate più utili
a costruire una chiave di lettura adatta alla complessità del lavoro con utenza
migrante, vorremmo sottolineare la tendenza di fondo, in questa prospettiva, a
muoversi verso criteri di analisi che privilegiano la complementarietà delle
descrizioni, in alternativa a criteri che privilegiano principi dicotomici.
Questa opzione comporta diverse conseguenze nell’interpretazione dei
fenomeni umani, che, in parte dovrebbero essere emerse dall'elaborazione dei
concetti sopra esposti. Va, per esempio, in questa direzione la maggiore
considerazione attribuita al ruolo degli stati di disequilibrio del sistema, che
vengono visti come fasi complementari e non contrapposte alle fasi di
equilibrio; la scienza classica, invece, tendeva a privilegiare lo studio degli stati
di equilibrio, considerando quest’ultimo come la meta di tutti i processi
evolutivi. Ciò va nella direzione di favorire il superamento di altre dicotomie,
per esempio la tendenza a contrapporre il razionale e l’emotivo, la forza e la
debolezza, l’attività e la pausa, la necessità ed il caso, la legge ed il fenomeno
secondario, evidenziando come anche i momenti di incertezza, di fragilità, di
attesa o eventi casuali concorrano alla costruzione dell’equilibrio e
dell’autoorganizzazione. (Cerruti, 1986; Fabbri Montesano, Munari 1984,
Bonica, 1992). L’interesse per le transizioni tra equilibrio e disequilibrio ha
messo in evidenza, per esempio, che è proprio nella transizione che certi
fenomeni, che stanno sullo sfondo, che riposano nella consuetudine, possono
venire alla luce in modo più visibile. (Bonica, 1990 a)
Si veda a questo proposito il concetto di transizione ecologica, in base al
quale il fenomeno migratorio è visto come un evento arricchente che rende più
visibili le rispettive identità culturali e sollecita nuovi spazi di ridefinizione di
queste identità. Anche la tendenza a superare la dicotomia tra particolare e
generale riveste un particolare interesse, ad esempio, per quanto concerne la
comunicazione di rete. La visione dicotomica portava a considerare l’inclusione
dei sistemi più piccoli in quelli più grandi, secondo un’ottica gerarchica che
attribuiva al sistema più ampio la funzione esterna di controllo e di
omogeneizzazione dei punti di vista. Mentre in una visione che premia la
dimensione della complementarietà vi è un interesse più attento
all’autodefinizione di ogni attore e allo scambio di significati che possono
attraversare i sistemi attraverso i più svariati canali formali ed informali.
La domanda più importante, come abbiamo visto, non riguarda tanto la
coerenza e l’omogeneizzazione dei punti di vista, quanto il come punti di vista
differenti possano prodursi reciprocamente. (Cerruti 1986)
70
3.4. Per concludere
Il riconoscere ogni istituzione, ogni soggetto come autoreferenziale, cioè
capace di autodefinirsi, a partire da certi vincoli che ne specificano l’identità, è
una scelta. È evidente che l’autoreferenzialità può essere esercitata in modo
“chiuso ed egoistico” quando è riferita solo a se stessi. L’implicazione etica
della prospettiva qui considerata, sta proprio in una scelta cosciente verso
la reciprocità. Questa scelta è tanto più libera, quanto più ci troviamo in una
posizione di potere che ci consente di occultare o di negare l’autoreferenzialità
dell’altro, senza mettere visibilmente a rischio la nostra, almeno nel breve
periodo di tempo. Tale scelta acquista una dimensione etica da parte di chi ha
più potere, perché occorre un atto volontario e consapevole di rinuncia a
utilizzare i vincoli della propria posizione per non occultare l’autoassertività di
base dell’altro.
Vedere l’altro, individuo o istituzione, come un sistema vivo che non ha
bisogno di essere passivamente istruito dall’esterno perché possiede già in sé i
criteri per scegliere che cosa è nocivo o buono per il mantenimento della sua
sopravvivenza comporta di valorizzare, anche nell’immigrato, tale vitalità
autoassertiva.
Per esempio, la storia della partenza dal proprio paese raccontata da
Mohamed nel carcere delle Vallette di Torino all’insegnante di giardinaggio,
testimonia, da un lato, un percorso travagliato che ha richiesto coraggio,
attenzione, intelligenza; dall’altro come questo arrivo clandestino sia stato
interpretato in modo drasticamente unilaterale; Mohamed non fa in tempo a
negoziare una definizione di sé. Nel suo racconto, sembra che ciò che più lo
rammarica , non sia tanto l’essere finito in carcere, quanto il fatto che nemmeno
la sua nazionalità sia riconosciuta: Mohamed è palestinese, ma la polizia lo
prende per marocchino.
Io sono salito su un camion che doveva partire per la Francia (Marsiglia) e
sono stato 4 giorni chiuso dentro con una bottiglia d’acqua e un po’ di pane.
Nessuno dei miei parenti sapeva della mia decisione di partire... Arrivato a
Marsiglia ho preso il treno e sono venuto in Italia nella città di Torino. Ho
conosciuto dei miei connazionali e mi hanno offerto da bere. Mi sono
ubriacato e la polizia mi ha fermato e picchiato. Io mi sono difeso e mi hanno
portato in carcere alle Vallette. Io sono Palestinese e la polizia pensa che
io sia Marocchino . In Italia avrei voluto lavorare, ma non è possibile.
(Mohamed)
Il superamento di una visione meccanicistica e deterministica degli eventi
sociali, comunicativi e formativi richiede di recuperare, innanzitutto, una
profonda consapevolezza dei vincoli dell’osservatore stesso, una maggiore
accettazione anche delle sfere d’incertezza e di fragilità, insieme alla
71
convinzione che l’ascolto della complessità - diversità dell’altro sia uno dei
modi per inoltrarsi nella scoperta della propria unicità e complessità.
In questa visione, il riconoscimento reciproco dell’autodefinizione e
l’esplicitazione dei vincoli degli attori sembra diventare il filo rosso che
consente ad ogni sistema vivente di mantenere comunque un potere assertivo
sulla propria vita pur continuando a tessere la propria identità attraverso la
molteplicità delle appartenenze e dei percorsi.
Nella nostra prospettiva questa reciprocità di base tra l’osservatore e
l’osservato fonda una specie di isomorfismo tra tutti i livelli implicati
nell’intervento socio - formativo: nell’accoglienza, nell’orientamento, in classe,
tra operatori delle istituzioni, nella formazione dei formatori.
La reciprocità tra il sé e l’altro potrebbe essere desunta come una norma di
validità della comunicazione, norma che può apparire paradossale: proprio
perché siamo così biologicamente simili (tutti dotati di autoorganizzazione e di
strutture cognitive complesse) possiamo avere idee, strategie, progetti diversi da
renderci unici e potenzialmente sempre imprevedibili. (Bonica,1991, 1999)
72
Capitolo 4
Un dispositivo per la comunicazione
integrata sul territorio 45
Laura Bonica
4.1. Premessa
Il dispositivo, che presentiamo, oltre a testimoniare il percorso proposto nel
corso Formazione Formatori, costituisce un invito al lettore stesso, nel caso
volesse, a sua volta utilizzarlo, per favorire la comunicazione di rete.
Nella nostra prospettiva, l’interesse è focalizzato sui processi di cocostruzione di un referenziale comune. Il mezzo privilegiato, intorno a cui
ruota il percorso, riguarda l’esplicitazione dei rispettivi vincoli e degli episodi
in cui essi sono stati soggettivamente percepiti ed affrontati in modo nuovo,
attingendo alla propria storia professionale. Nella nostra ipotesi questa
esplicitazione può innescare sia meccanismi di confronto autoassertivo, sia
meccanismi di appropriazione della cultura dell’altro. L’ipotesi è che questa
cornice stabilisca una profonda similarità di base tra i partecipanti, fondata
sul riconoscimento reciproco di ognuno, come soggetto situato in uno
specifico contesto storico-istituzionale-culturale, in cui è maturata la capacità di
stabilire soggettivi criteri di scelta etico-professionali (Bonica, 1989). Ciò
dovrebbe rendere più comprensibile il senso soggettivo che ciascuno
attribuisce alla responsabilità del suo ruolo e facilitare il disporsi ad una
eventuale rinegoziazione dei rispettivi vincoli in funzione di un progetto
condiviso46. La verifica del cambiamento è, quindi, operata in direzione della
trasformazione della percezione dei propri vincoli, e viene riferita a due
momenti: quello epistemologico, nello spazio del gruppo di formazione e,
quello decisionale, nell'ambito della propria istituzione (Bonica, Mouvet, 1997).
Il percorso promosso sulla base di questo modello si svolge sempre al
limite del rapporto tra la formazione e l’agire professionale e del rapporto tra
invarianti e cambiamento. Si tratta di un modello operativo che potrebbe essere
definito come un tentativo di operazionalizzare la reciprocità tra istituzioni.
Come abbiamo già visto, la reciprocità è definita sulla base dell’assunto di
45 Una illustrazione più approfondita di questo Dispositivo sarà reperibile in Bonica L., Reciprocità e
negoziazione nella psicologia dello sviluppo, dell’educazione e della formazione, in corso di stampa
presso la UTET, Torino.
46 Come vedremo nell’articolazione delle sequenze del dispositivo, l’elemento discriminante di questa
facilitazione sta nel favorire l’espressione anche delle rispettive incertezze, e fragilità, che, a loro
volta, stanno alla base della possibilità di arrivare a condividere delle “buone domande” e, quindi,
a predisporsi a co-costruire un referenziale comune.
73
similarità tra il sistema che osserva ed il sistema che è di volta in volta
osservato: entrambi sono considerati sistemi viventi, auotopoietici, dotati di
autoorganizzazione, di vincoli e di capacità di autodefinizione. Ciò che si
applica all’uno si applica all’altro.
Anche in questa, come in tutte le altre situazioni formative in cui questo
modello è stato applicato, sono presenti due elementi costanti: l’eterogeneità
dei ruoli professionali e la natura progettuale della cornice in cui il modulo di
formazione si inserisce; in questo caso si trattava di mettere insieme le
esperienze di più attori impegnati nell’attività con un utenza migrante al
duplice fine di facilitare una comunicazione più efficace tra gli stessi attori nella
rete territoriale locale, e di enucleare nodi critici e spunti di approfondimento
da condividere con i futuri lettori di questo manuale.
Si tratta quindi di una cornice che invita a fare qualcosa insieme, soprattutto
una volta usciti dal corso. E questo invito implica a sua volta l’idea che il corso
innescherà dei possibili cambiamenti rispetto ai rapporti attuali. Ma… si può
progettare di cambiare qualcuno? Il percorso proposto si fonda sui concetti
appena esposti, parte da ciò che è supposto come invariante, dai propri vincoli
istituzionali, da ciò che già si è, da ciò che già si fa e si sa. Il cambiamento, se
verrà, verrà a partire dall’assunzione di questi vincoli, dalla loro esplicitazione,
dal confronto nel gruppo. È un gioco di alternanza tra figura e sfondo.
L’idea è che un gruppo eterogeneo possa regalare ad ognuno dei partecipanti
innumerevoli occasioni per allenarsi a modificare il rapporto tra figura
e sfondo.
Ed ogni volta che portiamo in primo piano ciò che non esisteva, dato che
non lo vedevamo, essendo relegato sullo sfondo, noi costruiamo un nuovo
mondo. Maturana e Varela dicono che la specificità dell’essere vivente è di
essere esso stesso un mondo. Marianella Sclavi ci ha affascinato con l’arte di
guardare e di costruire mondi possibili. Ma come si comunica tra sistemi
autopoietici, tra mondi? Questo è quello che si è cercato di sperimentare.
4.2. Le sequenze del dispositivo
Questo dispositivo prevede sette unità didattiche che possono essere viste
come altrettante sequenze interattive, che hanno come oggetto le domande e
le azioni riportate nella tabella 1 e che riprenderemo punto per punto.
74
Tabella 1
UN DISPOSITIVO
PER LA COMUNICAZIONE INTEGRATA SUL TERRITORIO
1) LA SCELTA: MI INTERESSA O NO COLLABORARE? (tab.2)
2) CHI HA FATTO LA PRIMA MOSSA E COME È STATA LA PRIMA MOSSA
(tab.3)
3) QUALI SONO I RISPETTIVI VINCOLI ISTITUZIONALI? DI CHE COSA MI
SENTO VERAMENTE RESPONSABILE? (materiali: scheda n.1 e n. 2 )
4) QUALI POTREBBERO ESSERE LE INCERTEZZE PERTINENTI, I NODI
CRITICI, LE BUONE DOMANDE DA CONDIVIDERE?
(materiali: scheda n. 3 e n. 3 bis)
5) COME POTREMO RI-DEFINIRE I NOSTRI VINCOLI PER RISPONDERE A
QUESTE DOMANDE COMUNI? IN VISTA DI QUALI OPPORTUNITÀ
COMUNI? (materiali: scheda n.4 e n.5)
6) CO-COSTRUZIONE DI UN REFERENZIALE COMUNE
(La messa in comune delle molteplici descrizioni: Es.n.1,2,3 nel capitolo 5 e
capitolo 6 par. 6.4)
7) RITORNO ALLA PROPRIA ISTITUZIONE E RINEGOZIAZIONE DEI PROPRI
VINCOLI INTERNI IN FUNZIONE DI UN PROGETTO O DI UNA
COLLABORAZIONE INTERISTITUZIONALE (Es. n. 4, capitolo 5)
75
4.2.1. La scelta: mi interessa o no collaborare?
Soggetti e vincoli
Quando è importante l’esplicitazione e il chiarimento dei propri vincoli con
gli altri soggetti della rete?
Il rapporto tra istituzioni sul territorio può essere letto considerando un
continuum che va dall’assenza di ogni rapporto, cioè da una ignoranza
reciproca a diversi tipi di rapporto unidirezionale o bidirezionale la cui forma
può prevedere gradi diversi di riconoscimento reciproco. Ciò che interessa qui
è un modello di rapporti basato sulla reciprocità e sulla collaborazione.
Per fare ciò considereremo i soggetti istituzionali in relazione al reciproco
riconoscimento e quindi alla potenziale disponibilità a negoziare i rispettivi
vincoli istituzionali e professionali.
Tabella 2
SOGGETTI E VINCOLI
1. IGNORANZA RECIPROCA: ognuno per conto suo
2. UTILIZZAZIONE UNIDIREZIONALE: chi può cerca di trarre vantaggi dall’altro
senza preoccuparsi del punto di vista dell’altro.
3. UTILIZZAZIONE RECIPROCA: ognuno porta acqua al suo mulino.
4. COOPERAZIONE: c’è da parte di entrambi una disponibilità ad esporsi al
rischio del cambiamento e/o del fallimento del rapporto: il contratto di
cooperazione può comportare la negoziazione di nuovi vincoli rispetto
all’organizzazione della propria istituzione, rispetto al sapere, rispetto alla
dimensione etico-professionale
A quale livello mi interessa o ritengo utile, in questo momento, entrare in rapporto?
Osserviamo la tabella 2: nel 1° caso ogni soggetto porta avanti il lavoro
per conto suo. Potrebbe essere il caso del rapporto tradizionale tra scuola e
impresa.
76
Nel 2° caso si crea un’interdipendenza, la quale però è gestita
prevalentemente da uno dei due soggetti che utilizza l’altro per i suoi scopi.
Si tratta forse del tipo di relazione più frequente, soprattutto nel rapporto tra
territorio e scuola dell’obbligo. La scuola può, ad esempio, prestarsi come
contesto adatto a diffondere una certa campagna di prevenzione, o alla raccolta
di questionari, oppure ancora a svolgere un certo tipo di ricerca.
Essendo la scuola un ente pubblico ed essendo diverse le agenzie
interessate ad entrare in contatto con l’utenza infantile o giovanile, è del tutto
legittimo che si verifichino tali rapporti. Tale rapporto, però, non prevede di
negoziare l’avvio di un progetto comune e quindi lascia intatti i vincoli di
ciascuno dei due soggetti.
Nel 3° caso, il progetto di utilizzazione è reciproco. Rimanendo ancora
intatti i vincoli delle due istituzioni, può esservi un contratto che consente ad
ognuno di raggiungere alcuni vantaggi al suo interno. Riprendendo il caso
precedente, la scuola, per esempio, potrebbe avere interesse a conoscere e ad
utilizzare per sé i risultati del questionario o della ricerca.
Il caso della cooperazione parte, invece, dalla dichiarata necessità
dell’interdipendenza per risolvere problemi che stanno a cuore a entrambi gli
enti o a più enti. In questo caso i membri partecipanti si espongono
consapevolmente al rischio di un eventuale fallimento e alla possibilità di
modificare qualcosa della propria cultura istituzionale e professionale.
É in questo caso che la esplicitazione e negoziazione dei vincoli può essere
una strategia comunicativa utile per arrivare a costruire un linguaggio comune
che parta da un iniziale riconoscimento delle rispettive identità47.
4.2.2. Chi ha fatto la prima mossa e come è stato
il primo incontro?
Nel rapporto tra istituzioni, spesso le ambiguità partono proprio dal primo
momento in cui un soggetto della rete si attribuisce il ruolo di iniziatore di un
progetto e comincia a coinvolgere un altro soggetto cui attribuisce il ruolo
dell’“altro”:
Nella pragmatica della comunicazione interpersonale, la prima mossa
è molto importante perché influenzerà la natura delle strategie immediatamente
successive che ognuno dei soggetti intraprenderà per farsi riconoscere
dall’altro. Ritornare mentalmente sul primo sguardo posato sull’altro vuol
dire cominciare a fare chiarezza sui reciproci criteri di definizione. (Watzlawick
e altri, 1971)
47 Si veda l’esercizio 4 nel capitolo 5.
77
Ecco alcune delle domande che un attore della rete potrebbe farsi, quando
ritorna sulla sua prima mossa:
Tabella 3
LA PRIMA MOSSA
Chi è questo “altro”?
Come lo sto definendo mentre preparo questo modulo, questo progetto, questa
proposta?
Dove sono io e dove metto l’altro?
Mi considero parte del suo mondo? Mi considero esterno? estraneo? Di che cosa
mi sento responsabile? Dove mi porta questa responsabilità? Mi avvicina o mi
allontana dall’altro?
Come si definisce l’“altro” e dove si pone rispetto alla mia definizione?
L’accetterà? Oppure cercherà di farmi capire che vorrebbe essere considerato
diversamente? Quali spazi ha l’altro o quali di questi posso concedere io per
consentirgli di autodefinirsi diversamente? Che cosa cambia se l’altro non è
d’accordo?
Come mi sento definito dall’ “altro” e dove lui mi piazza?
La definizione che mi sta attribuendo mi va bene? Corrisponde a quella che mi
attribuisco io?
Quali spazi ho per ridefinirmi? Per condurre a termine questo progetto che cosa è
importante che io riesca a salvaguardare e/o ad esplicitare all’altro?
Gli indicatori che ci aiutano a individuare che qualcosa non va, quando
ritorniamo mentalmente sulla comunicazione con l’altro, sono spesso piccoli
particolari, apparentemente banali: un certo tono di voce, un modo brusco
di concludere una telefonata, certe frasi ripetute più volte che lasciano un eco
di insoddisfazione, o di incompiutezza, il non ricevere un fax o
un’informazione al tempo giusto, che lascia il senso di essere stati ignorati o
scavalcati, il sentirsi ridicoli o in imbarazzo, o in confusione, tutte sensazioni
che creano una sorta di pesantezza, o di paura o di fastidio al pensiero
dell’incontro successivo. Per contro un senso di leggerezza, un moto di
78
curiosità, un desiderio che arrivi il momento di informare o di essere informati
sull’andamento delle cose che fondano l’incontro, ci rassicura sulla
corrispondenza delle reciproche definizioni. Tutto ciò avviene spesso
inconsciamente e non sempre ci appare importante accertarci che la
comunicazione funzioni. A volte possiamo dare per scontato che vada bene,
altre volte possiamo dare per scontato che vada male, per i più svariati motivi.
Altre volte si può dare per scontato che ci si ignori. Ma quando c’è una
situazione d’interdipendenza e si vuole collaborare da posizioni differenti,
allora può essere necessario interrogarsi, chiedere, ascoltare bene, non
accontentarsi di dare tutto per scontato.
Nel gioco del far finta, tra bambini, chi fa la prima mossa assume, in un certo
senso, il ruolo di regista e se la proposta è ambigua o l’altro vuole giocare,
ma non è d’accordo sul copione proposto, la discussione oscillerà tra due
livelli: cambiare il copione oppure ribaltare i ruoli. In ogni caso chi ha fatto la
prima mossa dimostra di comportarsi come se sapesse che il ruolo
dell’iniziatore ha uno statuto particolare, e, quindi, se l’altro, vuole proporre
una nuova cornice, non è sufficiente che sia convincente sul nuovo
contenuto proposto, deve farlo facendo molta attenzione a rispettare la
suscettibilità dell’altro sul suo ruolo. Per i bambini passare dalla costruzione
del copione al negoziare “chi decide?” è appassionante ed infatti si
prendono tutto il tempo che ci vuole, anche a costo di spostarsi su nuovi
copioni collaterali, che li aiutino proprio a gestire quest’aspetto: quando i loro
giochi possono prolungarsi nel tempo senza interruzioni esterne, il più delle
volte, essi arrivano spontaneamente ad una soluzione soddisfacente per
entrambi. (Bonica, 1990b)
In questa sede ci riferiamo ad un particolare contesto di interdipendenza:
quello della progettualità che si può creare tra persone che rivestono ruoli
professionali diversi o dentro a istituzioni o associazioni, diverse, che , tuttavia,
hanno a che fare con la stessa utenza migrante. Si tratta di contesti complessi,
in cui la comunicazione è caratterizzata dal confronto sulle differenze che
possono riguardare i vincoli istituzionali, le pratiche professionali, l’asimmetria
di ruoli, le provenienze etniche e culturali.
I problemi ricorrenti, rispetto a questo punto possono essere tanti e di vario
tipo. Proviamo ad elencarne alcuni:
• si fa riferimento a qualche istanza di potere che dovrebbe fare la prima
mossa, e invece non la fa e quindi chi la fa lo stesso, come , ad esempio,
il mondo del volontariato, può coltivare un’aspettativa di risarcimento;
• in rapporti più paritari chi ha fatto la prima mossa, si lamenta di essere stato
quasi derubato, quando ha l’impressione che quel lavoro in più, inerente
all’aver preso l’iniziativa, che spesso significa trovare spazi, inviare posta,
far quadrare i calendari, non sia riconosciuto e si finisca pari e patta;
• in altri casi sembra che il ruolo dell’iniziativa sia l’unico veramente ambito,
o almeno, molto di più che arrivare ad un contratto condiviso;
79
• c’è poi il problema di sentirsi esclusi dalla prima mossa altrui, come è il
caso dei protocolli d’intesa e delle convenzioni, che non sempre tengono
conto di tutti gli attori attivi nella rete;
• ed ancora si può considerare il caso delle strategie di pressione perché
qualcun altro, ritenuto più prestigioso, faccia proprio quella prima mossa,
che dovrebbe risultare quasi a misura del proprio progetto.
Anche questo sommario elenco può essere sufficiente per constatare che il
problema del chi e del come viene fatta la prima mossa può rappresentare
l’inizio di una serie di fraintendimenti e di ostacoli ad un proseguio produttivo
di un progetto di rete.
Rispetto alla formazione il problema della prima mossa può essere visto
come la necessità di darsi un tempo abbastanza consistente per la fase di
progettazione; rispetto al setting formativo, potrebbe invece essere implicato
quell’ambito della comunicazione tra docente e discenti, o tra discenti e tra
docenti stessi, in cui si giocano le rispettive aspettative e suscettibilità rispetto
a chi ha il diritto di insegnare a qualcun altro.
In questa sede, ci limitiamo a sottolineare i problemi connessi
all’autodefinizione. L’inadeguatezza o il disagio o l’improduttività delle
negoziazioni interistituzionali derivano spesso dal fatto che i criteri di
definizione degli attori non coincidono, che l’etichetta che viene attribuita non
coincide con quella che io o lui si attribuisce. E questo a sua volta succede
perché, in diversi modi, non si tiene conto dell’importanza della prima mossa,
o si tende a superare frettolosamente la comprensione dei fattori in gioco in
questa fase: la comunicazione tende ad essere troppo velocemente spostata
solo sugli aspetti realizzativi, quasi a dover carpire consensi per mete
prestabilite, prima ancora di essersi dati un tempo ed uno spazio per
comprendere che cosa ogni attore sta mettendo in gioco davvero, rispetto alla
sua percezione dei propri vincoli istituzionali ed etico-professionali: chi e che
cosa ognuno si aspetta di “cambiare” o di non poter cambiare, quali sono i
criteri comuni, quelli differenti e quelli non negoziabili. In definitiva, si finisce
per fondare la conoscenza reciproca sul parlare molto di “loro”, migranti, allievi
o allievi-migranti, e molto poco di “noi”, di quali sono le nostre pratiche
professionali quotidiane, le nostre responsabilità, le nostre solitudini, i rischi
che ci assumiamo, le strategie che inventiamo, il sapere a cui teniamo, le
ambizioni cui aspiriamo, le frustrazioni che temiamo e le paure che
nascondiamo. Detto in altri termini, ci si impegna molto, anche litigando
appassionatamente, sulle definizioni che riguardano i presunti bisogni del
“sistema osservato”, ma ci si interroga e ci si confronta meno sui vincoli e sui
criteri che guidano gli osservatori. Ciò, oltre all’eventuale convinzione e buona
volontà, richiede effettivamente tempo48.
48 Si veda l’esempio 2 nel capitolo 5.
80
4.2.3. Quali sono i rispettivi vincoli istituzionali?
Di che cosa mi sento veramente responsabile?
Obiettivi
Mentre le prime due unità didattiche, appena esposte, hanno un ruolo
prevalentemente introduttivo, questa unità costituisce il perno intorno a cui
ruotano tutte le fasi del modello. Il suo scopo è, innanzitutto, quello di favorire
la reciprocità nel gruppo intesa come il riconoscimento della capacità di
ognuno di autodefinirsi nelle situazioni.
Benchè la consegna di riflettere sui vincoli della propria istituzione sia
rivolta principalmente alla percezione soggettiva di tali vincoli, di solito, per
arrivare a questa, occorre un percorso che va dai criteri più “oggettivi” a quelli
più soggettivi; ad esempio, dalle caratteristiche invarianti del servizio, alla
visualizzazione di una giornata di lavoro come punto di partenza per
identificare le principali caratteristiche dei vincoli, al racconto scritto di
particolari episodi in cui si è espressa la decisione di ridefinire, innovare
trasgredire l’abituale percezione dei vincoli.
La possibilità per ognuno di autopresentarsi, partendo da una riflessione sui
propri vincoli istituzionali e sugli aspetti soggettivamente significativi del
proprio lavoro, ha inoltre, la finalità di evitare che lo scambio sia “inquinato”
da presupposizioni unilaterali sulle rispettive identità etico professionali; queste
presupposizioni, potrebbero infatti, ostacolare l’auspicata trasformazione di
questo spazio formativo in un percorso di progettazione reale.
Materiali
Di solito vengono fornite ai partecipanti delle spiegazioni ed alcuni
materiali, che hanno lo scopo di aiutarli a individuare le invarianti del proprio
servizio e a rientrare in contatto con la propria esperienza e responsabilità
professionale quotidiana.
• Per rintracciare i fattori invarianti può essere utile chiedersi “quale evento
potrebbe fare scomparire il servizio in cui lavoro?”. Il cercare una
risposta a questa domanda può evidenziare da subito l’utenza e la
maggiore o minore solidità e legittimazione sociale del servizio e quindi
anche l’eventuale precarietà o ambiguità del ruolo professionale svolto.
• Per favorire il successivo confronto sui rispettivi vincoli si può proporre di
visualizzare una giornata lavorativa tipo e di utilizzare una schedapromemoria (scheda allegata n.1) di criteri di analisi, che più possono
aiutare a entrare nel merito delle proprie pratiche lavorative. Nella scheda
proposta in questa sede, i criteri fanno riferimento all’individuazione e
descrizione dei propri utenti, a eventuali oggetti mediatori del rapporto
con gli utenti (per esempio una materia disciplinare o una agenda o il
telefono), agli spazi privilegiati e/o all’eventuale mobilità, alle modalità di
scansione del tempo e alle unità di tempo minime per svolgere un pezzo
81
significativo del lavoro e alle eventuali forme di documentazione
richieste. Infine vengono proposte due dimensioni che riguardano le
modalità soggettive attraverso cui si valuta la soddisfazione e
l’insoddisfazione dopo una giornata di lavoro e la natura della fatica e
delle risorse per riposarsi dopo il lavoro o per ricaricarsi durante il lavoro.
Questa lista costituisce uno spunto di partenza che viene di solito ampliato
e modificato dai partecipanti.
• Un altro spunto proposto (scheda allegata n.2) riguarda la richiesta di
raccontare episodi che riconducono più direttamente alla soggettiva
percezione dei vincoli e l’invito a trovare nella propria esperienza esempi
di situazioni in cui vi sono state trasgressioni alla abituale percezione di
questi vincoli: “di che cosa mi sento veramente responsabile? Se
comandassi io? Quella volta ho fatto di testa mia!”
Clima
È importante che il clima (modalità di proporre la consegna,
organizzazione dello spazio) sia adatto a favorire il predisporsi ad una
testimonianza personale, che ciascun soggetto possa considerare valida e
significativa, innanzitutto per se stesso. Occorre quindi prevedere la possibilità
che ognuno possa pensare e scrivere “a modo suo”: c’è chi pensa passeggiando
avanti e indietro e poi si sceglie un angolino protetto per scrivere; c’è chi ha
bisogno di raccontare ad un altro per identificare ciò che vorrebbe veramente
dire; c’è chi chiede di andare fuori a fumarsi una sigaretta, ecc.; in definitiva
sarebbe opportuno concedere più ampia libertà possibile ai rituali personali
che accompagnano l’attività del riflettere e dello scrivere “per sé”.
Ogni materiale o spunto proposto viene dapprima elaborato
individualmente e poi si procede ad una restituzione nel grande gruppo.
4.2.4. Quali potrebbero essere le incertezze pertinenti,
i nodi critici, le buone domande da condividere?
Obiettivi
Questa unità è finalizzata a scegliere, tra le tante possibili, alcune buone
domande nell’intento di giungere a un progetto comune.
Avendo privilegiato, nella sequenza precedente, il livello dell’attribuzione
di significato e dell’esercizio del potere di scelta, su episodi concreti, i soggetti
sono invitati a stare a contatto con la propria esperienza , e a non separarsi da
essa per inseguire “un dover essere astratto”; quindi anche le debolezze, le
incertezze, il senso di solitudine, la paura, il senso del ridicolo, hanno potuto
trovare una loro collocazione accettabile nello scambio con gli altri.
Esplicitare e condividere incertezze ha una valenza formativa sia perché
introduce una legittimazione e rassicurazione rispetto ai momenti di incertezza
vissuti individualmente nella propria realtà, sia perché consente di pensare alla
formazione anche come ad un luogo di ricerca e di “attesa” e non solo ad un
luogo in cui si trasmettono modelli forti e compiuti.
82
La condivisione delle incertezze è, inoltre, un passo importante per arrivare
a formulare delle buone domande e per cominciare a costruire un terreno di
reciproco riconoscimento, che può facilitare la realizzazione di azioni e progetti
comuni.
Ricordiamo che, in questo caso, il progetto consisteva nel potenziamento
di una comunicazione più efficace tra i soggetti della rete in relazione ai
percorsi di inserimento dell’utenza migrante.
Scegliere le domande pertinenti, in questo caso, comportava il privilegiare
quelle che evidenziavano i fattori d’interdipendenza, cioè quei nodi critici che,
per essere affrontati nel maggior interesse dell’utenza migrante, richiedono una
collaborazione interistituzionale.
Materiali
Per favorire l’individuazione dei nodi critici comuni, l’attenzione del gruppo
è stata portata sui percorsi d’inserimento dell’utenza migrante. Si è proposto di
raccontare un esempio di inserimento lavorativo riuscito, ricostruendo
i percorsi di rete effettuati dal migrante a partire dal primo contatto con un
attore istituzionale; ai partecipanti stranieri è invece stato proposto di ricostruire
lo stesso percorso dal punto di vista del migrante stesso dal momento della
partenza dal proprio paese (schede allegate n.3 e 3a). Si è proposto inoltre
di descrivere la rete cittadina dei servizi a partire dal punto di vista del proprio
servizio, prendendo come spunto di partenza il grafico costruito dalla Casa di
Carità Arti e Mestieri, dal punto di vista di un Centro professionale49.
Clima e organizzazione dei gruppi
Nei piccoli gruppi, i partecipanti, dopo un giro di battute, decidono chi di
essi, almeno due, sarà intervistato dagli altri, al fine di ricostruire il percorso.
Queste interviste lasciano spazio anche a racconti ed osservazioni personali
che, riportati nel grande gruppo, possono innescare interessanti discussioni su
aspetti etici ed educativi più generali. Diventa quindi importante, in questa fase,
non bloccare il confronto, ma cercare di farlo evolvere verso l’individuazione
di nodi critici, che in parte saranno ripresi nella unità successiva, in parte
potranno essere rielaborati da ciascuno, anche in altre sedi50.
La restituzione di questo lavoro, dal punto di vista dei contenuti, è riportata
nel capitolo 6, paragrafo 6.1, 6.2 e 6.3.
Dal punto di vista della comunicazione, invece, questa unità didattica mette
spesso in evidenza, tra i nodi critici, la difficoltà a riferirsi alle stesse definizioni.
L’esigenza di costruire un dominio descrittivo condiviso, in questo caso, ha
riguardato le tipologie di servizio e le funzioni che ricorrono nella rete,
segnalando l’opportunità di riferirsi a tre principali aree: la prima e seconda
accoglienza; la scuola, la formazione professionale regionale.
49 Si tratta del grafico n.6, riportato nel capitolo 2, e commentato nel par.2.5.1.
50 Molti di questi interventi hanno fornito lo spunto per approfondimenti riportati nei capitoli 6 e 9.
83
4.2.5. Come potremo ri-definire i nostri vincoli
per rispondere a queste domande?
In vista di quali opportunità comuni?
Obiettivi
Questa unità didattica è strettamente connessa a quella precedente ed alla
successiva. Essa è finalizzata a mettere ordine nelle incertezze emerse, sia
individuando priorità, sia procedendo ad una ridescrizione del proprio servizio,
funzionale alla comunicazione con le altre strutture del territorio e, quindi,
realizzata all’interno di una cornice di criteri condivisi.
Se la negoziazione appare la forma di comunicazione più adeguata per
garantire la tendenza al rispetto della reciprocità, è pur vero che essa diventa
produttiva solo quando si è sicuri che si sta parlando della stessa cosa.
Materiali ed organizzazione dei gruppi
Tenendo conto degli spunti emersi dalla unità didattica precedente,
i gruppi sono stati formati sulla base dell’appartenenza ad una delle tre
aree affini, la prima e seconda accoglienza; la scuola, la Formazione
professionale, e, per ognuna di esse, si è proposto di accordarsi sulla
definizione delle seguenti tipologie di funzione/servizio, utilizzando la
esperienza professionale dei partecipanti: INFORMAZIONE, MEDIAZIONE,
ORIENTAMENTO, FORMAZIONE, INSERIMENTO LAVORATIVO E TUTORATO
(scheda allegata n. 4).
Si è chiesto inoltre di costruire una mappa dell’area, indicando, per ognuna
delle funzioni sopra menzionate, la natura degli interventi svolti, l’utenza finale
ed i servizi territoriali coinvolti. Inoltre ogni gruppo è stato invitato ad
accordarsi sui nodi critici relativi a quest’area (scheda allegata n. 5).
Per la compilazione della scheda, riguardo alla natura degli interventi, si è
suggerito di tener conto, mentalmente, di una unità di analisi che non si
limitasse alle attività intese solo come prodotti o servizi, ma che tenesse anche
conto delle relazioni e dei ruoli più sovente implicati nello svolgimento di
tali attività51.
Clima
La suddivisione per gruppi di area affine, può fare emergere conflittualità
più o meno latenti all’interno della stessa istituzione. Tali eventi possono essere
colti e diventare spunto per un’analisi collettiva52.
51 Vedi il riferimento alle funzioni A e B del PDCA nel grafico 4 del cap.2. Inoltre i risultati di tale unità
didattica sull’autodefinizone da parte delle tre aree è riportato nel capitolo 6, par. 6.3.
52 Si veda l’esempio 1, nel capitolo 5, par.5.1.
84
4.2.6. Co-costruzione di un referenziale comune
Obiettivi
Questa fase prevede la restituzione di ciascuna area nel grande gruppo ed
una discussione plenaria mirata ad accordarsi su un prodotto od un progetto.
Il referenziale comune può essere, quindi, visto come l’esito di un percorso di
condivisione dello sforzo di lettura della realtà, a diversi livelli di
approfondimento, a partire dall’esplicitazione dei propri vincoli e dalla
condivisione di buone domande.
Dinamica
Per ciascuna area questa presentazione comporta una ulteriore presa di
distanza dal proprio specifico, in quanto il proprio lavoro viene in un certo
senso già riletto alla luce di quello fatto dalle altre aree.
L’eterogeneità del gruppo favorisce il processo intellettuale che sottende
questa costruzione, perché essa obbliga i diversi attori a esplicitare il loro
quadro di riferimento e le scelte che guidano la loro interpretazione dei fatti.
L’apertura alla complementarità dei contributi crea un clima di reciprocità
intellettuale che può rivelarsi propizio all’apertura verso nuove sperimentazioni
e verso nuovi criteri di analisi delle situazioni.
Il Progetto
In questo caso la capacità propositiva si è indirizzata verso la preparazione
del secondo modulo del corso. Sulla base di una ulteriore selezione dei nodi
critici prioritari, il gruppo ha
ritenuto opportuno progettare un
approfondimento di essi, allargando il confronto a nuovi soggetti della rete
torinese e di altre regioni.
La flessibilità consentita dai dirigenti della Casa di Carità Arti e Mestieri , ha
permesso di valorizzare queste richieste per la progettazione del modulo
successivo: si è deciso, così, di organizzare tre giornate, ognuna dedicata
specificamente a una delle aree, e si è concordato un elenco di “testimoni
privilegiati”, da invitare per ogni area.
Ognuna di queste giornate ha effettivamente consentito un consolidamento
della rete iniziale e l’opportunità di conoscere nuovi modi di rapportarsi
all’utenza migrante, maturati anche in altre città. Tra i diversi contributi emersi,
riportati nei capitoli successivi, l’attenzione è stata prioritariamente focalizzata
sui terreni di collegamento tra le diverse aree; in particolare: l’articolazione dei
livelli di distanza dall’emergenza vissuta faccia a faccia con l’utenza,
l’interpretazione dei diversi ruoli del tutor ed il tema della certificazione dei
livelli linguistici si sono rivelati quelli di maggior interesse per tutte le aree53.
Si è deciso inoltre di selezionare dall’insieme delle testimonianze prodotte
dai partecipanti, un dispositivo per l’accompagnamento, l’orientamento e la
53 Si veda il capitolo 7.
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formazione, presentato da un coordinatore della Casa di Carità Arti e
Mestieri54 , come esempio di una modalità possibile di collaborazione tra prima
accoglienza, scuola e formazione professionale; nello stesso tempo sono state
indicate alcune situazioni esemplificative sui principali nodi emersi in relazione
alla comunicazione di rete o dentro ai servizi ed interessanti anche per una
ulteriore esemplificazione e validazione delle opzioni teoriche sottese al
modello adottato 55.
4.2.7. Ritorno alla propria istituzione
e rinegoziazione dei propri vincoli interni in funzione
di una collaborazione interistituzionale
Qualcosa di ciò che è accaduto è stato descritto fin qui. Poi ognuno ritorna
nella sua istituzione. E qui è il momento in cui può operarsi un cambiamento
di strategia nel sistema di alternative utilizzato finora. Qui può succedere che
un elemento di sfondo appaia in primo piano e faccia sorgere una nuova idea
“Toh! Perché non ci avevo pensato prima?”.
Non si tratta di cercare il rapporto di causa ed effetto tra il corso e
quell’idea nuova, ma un rapporto di familiarità, di apparentamento. Per questo
si torna “sul luogo del delitto” a vedere, a sentire e tra le tante cose che sono
cambiate se ne individuano alcune che sembrano proprio apparentate con il
percorso. Probabilmente erano già lì pronte per uscire, chissà?
I cambiamenti possono essere apparentemente banali o implicare piccole
trasformazioni dei comportamenti consueti: essi sono, comunque riconoscibili
perché suscitano sempre una meraviglia nel soggetto, un sorprendersi a
modificare qualcosa che fino a quel momento era stato pensato come
immodificabile o agito come consuetudine quasi inconsapevole.
Un’insegnante di quarta elementare che ha partecipato ad un ciclo di incontri, in un
gruppo eterogeneo (insegnanti di asilo nido, scuola materna, e scuola elementare)
sull’inserimento di bambini immigrati, e che in seguito all’inserimento di un bambino
ceylonese, si era appassionata all’apprendimento della sua lingua, una mattina, entrando in
classe, chiede a questo bambino che cosa vuol dire una certa parola. Il bambino risponde
che lui non lo sa, ma che sua mamma lo sa senz’altro. Allora l’insegnante con perfetta
naturalezza dice “andiamo in segreteria a telefonare a tua mamma”. Tutta la classe la segue,
la maestra porge al bambino in questione il telefono e solo quando il bimbo comincia a
parlare con la madre, la maestra si sorprende ad avere preso una iniziativa che sconvolge
l’idea che lei aveva avuto fino a quel momento dei vincoli rispetto agli spazi della scuola e
si preoccupa che la madre stessa del bambino potrebbe allarmarsi per sentirlo telefonare,
da scuola, a quell’ora. In realtà la telefonata tra questo bambino e la madre è stata seguita
54 Si veda il capitolo 7 pr 7.2.
55 Si veda il capitolo 5.
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con grande curiosità dagli altri bambini, non ha provocato nessun disordine nella scuola ed
ha, invece, ritornati in classe, suscitato una serie di domande a quel bambino. Quelle
domande hanno evidenziato che, trattandosi di un bimbo straniero e di colore, alcuni suoi
compagni pensavano che lui non avesse una casa ed un telefono, ma che fosse povero e
che vivesse in una capanna insieme alle mucche. Questo bambino ha avuto così
l’opportunità di esaudire il desiderio della maestra rispetto al significato della parola ed
anche di soddisfare la genuina curiosità dei suoi compagni, assumendo un nuovo status nel
gruppo classe.
L’insegnante ha ricondotto il comportamento di cui si è sorpresa alle
“perturbazioni” innescate dal confronto con la cultura della scuola materna, dai
cui racconti e filmati emergeva un differente modo di percepire i vincoli
spaziali, caratterizzato dalla tendenza ad “abitare” tutti gli spazi della scuola.
(Bonica, 1999)
La ridefinizione dei vincoli può quindi poggiarsi, anche, su “trasgressioni”
autorizzate dalla cultura dell’“altro”.
Queste trasgressioni, che sono tali rispetto ai canoni della propria cultura
istituzionale, dal momento in cui sono interiorizzate attraverso il racconto dei
vincoli dell’altro, assumono uno spessore etico particolare, in quanto la cultura
dell’altro le inserisce in un processo storico di condivisione di valori e di
significati, che può renderle profondamente più accettabili (Bonica, 1999)
Un gruppo eterogeneo può, quindi, favorire un trasferimento di risorse
e strategie che potrà essere utilizzato in forma originale, come ridefinizione dei
propri vincoli, in particolari momenti di esercizio del proprio ruolo
professionale, e questo può innescare, a sua volta, un nuovo terreno di
negoziazione dentro alla propria istituzione.
Nel nostro caso, ci si è accordati per scegliere un progetto di collaborazione
interistituzionale riuscito, tra la scuola e la formazione professionale, che pur
innescandosi su spunti di sperimentazione precedente, ha trovato, nell’ambito
del corso, la spinta e la cornice per essere riprogettato su base istituzionale56.
56 Si veda il capitolo 5, esempio n. 4.
87
4.3. Discussione
Quando, come insegnanti, formatori, direttori di corso, ricercatori,
educatori siamo immersi nella nostra pratica professionale siamo portati a
vedere i vincoli del nostro ruolo, della nostra istituzione e della nostra attività
come dei limiti che fanno ostacolo allo svolgimento del nostro lavoro; i vincoli
sono quelli che ci fanno dire sarebbe bello... ma non si può. Raramente essi
vengono visti anche come la fonte del nostro specifico potere/sapere
professionale, e quindi, raramente ci si sofferma a interrogarli in positivo, per
comprendere quali sono quelli veramente “vitali” e quali quelli che potrebbero,
invece, cambiare senza che ci sia perdita d’identità per il nostro ruolo
professionale e per la nostra istituzione.
Nel nostro corso, la esplicitazione dei rispettivi vincoli ha suscitato
confronti produttivi, dai quali i partecipanti stessi hanno selezionato i nodi
meritevoli di un approfondimento successivo57; alcuni li riprenderemo subito,
a ulteriore esemplificazione degli spunti che possono emergere da un percorso
di questo tipo: i livelli di distanza rispetto al rapporto faccia a faccia con gli
utenti, la individuazione della utenza diretta e indiretta, l’organizzazione del
tempo, i vincoli di obbligatorietà e di opzionalità dei servizi.
I livelli di distanza rispetto al rapporto faccia a faccia con gli utenti.
In questo campo il coinvolgimento diretto è stato riconosciuto da tutti come
fonte di grande umanità ma al tempo stesso sono emerse anche sottolineature
e enfatizzazioni della necessaria disponibilità a confrontarsi con la sofferenza
altrui, che potevano essere recepite come sottili “accuse di insensibilità o
aridità” verso le persone che invece seguono i migranti prevalentemente da un
tavolino. D’altra parte il confronto comune con i rispettivi vincoli ha consentito
invece di verificare che, al di là della distanza rispetto al rapporto diretto con
l’utente, nessuno era solo un privilegiato, e che tutti potevano invece disporre
di un margine di flessibilità nell’interpretazione personale di vincolo.
Il riferimento al micropotere quotidiano ed al sapere agito consentivano infatti
di mettere in primo piano esempi da cui emergeva la creatività e la rilevanza
etica dell’assunzione soggettiva di un rischio: intervenire o non intervenire in
una situazione, la rapidità o la lentezza in una decisione, interpretare in modo
restrittivo e estensivo la propria competenza in quel momento. Così è stato
possibile anche mettere sullo stesso piano oggetti mediatori “caldi”, più diretti
e fisici (voce e corpo) ed altri, più “freddi”, come il telefono, l’agenda, il
computer, evidenziando che invidie e diffidenze reciproche tra questi due
mondi potevano essere superate cogliendo ancora una volta gli elementi simili
di rischio soggettivo assunto per facilitare comunque la qualità delle risorse
offerte agli utenti.
57 Cioè: l’articolazione dei livelli di distanza dall’emergenza vissuta faccia a faccia con l’utenza,
l’interpretazione dei diversi ruoli del tutor ed il tema della certificazione dei livelli linguistici, temi
sviluppati nel capitolo 7.
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Utenza diretta e indiretta
Riguardo agli utenti indiretti, è emerso, soprattutto per i minori,
l’importanza del rapporto con le comunità di residenza e con i servizi
sociali, da parte della Formazione professionale regionale. Si possono citare a
questo proposito i casi di abbandono dei corsi da parte di minori passati all’età
adulta, i quali, non essendo ancora regolarizzati, sono stati espulsi dalle
Comunità e riinviati al paese d’origine, senza che la formazione professionale
fosse avvisata o potesse intervenire per sollecitare le istanze competenti verso
una maggiore flessibilità.
La dimensione del tempo
Riguardo ai tempi è emersa l’importanza di una rinegoziazione dei rispettivi
vincoli rispetto ai diversi calendari, come elemento indispensabile per poter
collaborare più facilmente nel territorio, ad esempio tenendo maggiormente in
conto le rispettive scadenze burocratiche, come la presentazione dei progetti
per i finanziamenti dei corsi.
Ma anche le unità di tempo minime sono state discusse, sulla base
dell’interesse comune alla progettazione di unità didattiche di poche ore,
per favorire le transizioni tra scuola e Formazione Professionale; quindi, ad
esempio, brevi corsi di orientamento da svolgersi nell’ambito di sportelli
preparati insieme 58.
Più in generale
Quando i vincoli sono assunti attivamente e riconosciuti anche come fonte
della propria creatività professionale, si può aprire un terreno fruttuoso per lo
scambio di esperienze che, da un lato vede i partecipanti come protagonisti e,
dall’altro può consentire anche l’avvio di un percorso di ridefinizione dei
rispettivi vincoli.
Per esempio, analizzando la situazione dei partecipanti a questo modulo,
si è evidenziato immediatamente che per tutti ciò che farebbe scomparire la
specifica utenza qui considerata sarebbe un improvviso blocco
dell’immigrazione straniera. Tuttavia si è osservato che tale utenza non
specificava l’identità di tutti i servizi rappresentati e inoltre alcuni di questi
avevano un vincolo di obbligatorietà (scuola dell’obbligo e minori) mentre altri
avevano un vincolo di opzionalità (per esempio il centro di formazione
professionale, le cooperative e le associazioni di volontariato).
Se questi vincoli vengono concepiti solo come limiti, che incombono
dall’esterno e in quanto tali sono solo subiti, la comunicazione tra partecipanti
eterogenei da questo punto di vista, può spesso cadere in equivoci o,
addirittura in rivalità che non sarebbero produttive ai fini di una ricerca di
collaborazione. Per esempio la formazione professionale potrebbe dire alla
58 Si può citare, ancora, il progetto di orientamento nato dalla collaborazione tra scuola e Casa di Carità,
riportato nel capitolo 5, esempio n. 4.
89
scuola statale: “Io, se perdo dei frequentanti, perdo anche il finanziamento per
l’anno successivo. Tu invece puoi non preoccuparti se a scuola vengono
volentieri o meno”. E la scuola potrebbe rispondere, a sua volta: “Noi non
abbiamo certo il problema di cercarci gli utenti; ma vorrei vedervi con un
utenza sempre più numerosa e eterogenea, in cui prevale il numero degli
analfabeti” .
Si è potuto quindi constatare come tali differenze agiscano sulla serenità
rispetto al proprio ruolo e all’utenza, facendo sì che ognuno sia più o meno
interessato, anche individualmente, a mettere in atto strategie volte a costruire
un consenso e/o a impegnarsi in progetti innovativi, per reclutare nuova
utenza. E come esse possano influenzare anche le rispettive posizioni di fronte
a problemi comuni.
Si può ricordare l’esempio della verifica dei prerequisiti linguistici: la
scuola, proprio per i suoi vincoli di obbligatorietà, si muove in modo più
flessibile, nel senso che ogni scuola tende a costruirsi i propri materiali per tale
verifica; la Formazione Professionale Regionale, reclutando, invece, i suoi
allievi attraverso più canali ed avendo dei vincoli più rigidi riguardo alla
continuità della frequenza dei corsi, avrebbe un maggiore interesse all'utilizzo
di metodi standardizzati, come la CILS, ed auspicherebbe che essi diventassero
un critero condiviso all’interno della rete.
D’altra parte il riconoscere tali specificità ha, invece, favorito la
complementarietà dei contributi possibili, in alternativa ad un atteggiamento di
rivalità o di competizione59.
Tralasciamo ora altri spunti che sono emersi per passare invece, con il
prossimo capitolo, ad alcuni esempi di interpretazione creativa dei vincoli che
sono stati anche oggetto di microanalisi nel gruppo.
59 Si veda, ad esempio, la scelta condivisa di approfondire questo tema (cap.7 par.7.4 e capitolo 8, sui
prerequisiti linguistici e la CILS)
90
4.4. Allegato
Le schede di lavoro proposte ai gruppi
Scheda n.1
ESPLICITAZIONE DEI VINCOLI
che costituiscono l’identità professionale.
Possibili criteri di individuazione dei vincoli.
UTENTI
Quali sono i vostri utenti diretti?
Presentano caratteristiche di eterogeneità o di omogeneità?
Ritenete di avere utenti indiretti?
MEDIATORE TECNICO-PROFESSIONALE
Per definire la vostra identità professionale fate riferimento ad uno strumento di
mediazione tecnico specifico o ad un ambito specifico di obiettivi?
In che modo questo mediatore specifica la vostra attività
professionale, a differenza di altri mediatori?
SPAZIO-LUOGHI
In quali spazi si svolgono le vostre attività quotidiane?
(spazio unico, diversi spazi, fissi-mobili, interni-esterni)
Esiste uno spazio-luogo privilegiato, che specifica la vostra identità professionale?
TEMPO-UNITÁ DI ANALISI
Il vostro lavoro richiede un’articolazione del tempo in fasi?
Se si, riferite un esempio di una fase significativa di lavoro.
Il vostro lavoro richiede un’articolazione del tempo in cicli?
Se si, riferite un esempio di un ciclo completo di lavoro.
Potete indicare una o più unità di tempo minime indispensabili affinché la vostra
prestazione assuma un senso compiuto?
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Qual è l’unità di tempo minima di cui avete bisogno per svolgere un pezzo
significativo del vostro lavoro? Riferite un esempio.
DOCUMENTAZIONE
La vostra attività comporta una qualche documentazione? (per esempio l’iter
burocratico)
SODDISFAZIONE- INSODDISFAZIONE.
Provate a pensare ad una specifica giornata di lavoro che ritenete positiva.
Riuscite a individuare da che cosa capite che oggi il lavoro è andato bene oppure
è andato male?
Quali sono le emozioni positive ( di soddisfazione) o negative (di insoddisfazione)
che più vi sembrano collegate alla natura professionale del vostro lavoro?
FATICA-RIPOSO
Che cosa è che vi affatica di più del vostro lavoro? Quale è il tipo di fatica più
connessa alla natura del vostro lavoro?
Di che cosa sentite il bisogno appena uscite dal lavoro? Che cosa vi riposa di più
appena smesso di lavorare?
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Scheda n. 2
I vincoli orientano il micropotere quotidiano
attraverso comportamenti di conservazione, trasgressione,
innovazione e fondano un sapere agito
Di che cosa mi sento veramente responsabile?
Se comandassi io!
Quella volta ho fatto di testa mia!
Flashes, in situazione:
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Scheda n. 3
PERCORSI
E
RETE
DI SERVIZI
I partecipanti , a turno, si intervistano.
Ripensando ad un inserimento riuscito, cerca di ricostruire i percorsi della
rete effettuati dal migrante, a partire dal primo contatto con i servizi.
Scheda n. 3 bis
PERCORSI DI RETE DAL PUNTO DI VISTA DEL MIGRANTE
Interviste ai partecipanti stranieri:
Cerca di ricostruire il tuo percorso a partire dal momento della decisione
della partenza dal tuo paese.
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Scheda n. 4
VERSO UN DOMINIO DESCRITTIVO COMUNE
I termini riportati sotto indicano delle possibili FUNZIONI o TIPOLOGIE DI
SERVIZIO svolte all’interno dell’istituzione in cui lavori.
Ripensando agli obiettivi ed ai vincoli della tua istituzione ed alle attività,
ruoli, relazioni in cui sei quotidianamente impegnato/a, quali definizioni
daresti di questi termini? Ne aggiungeresti altri? Ne elimineresti alcuni?
INFORMAZIONE
MEDIAZIONE
ORIENTAMENTO
FORMAZIONE
INSERIMENTO LAVORATIVO
TUTORATO
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Scheda n. 5
AUTODEFINIZIONE DI AREA
TIPOLOGIE DI SERVIZIO E SPECIFICITA’ DELL’UTENZA
Riuniti in gruppo per ognuna delle seguenti aree:
Prima e seconda accoglienza
Scuola e alfabetizzazione
Formazione professionale
Accordatevi sull’elenco e sulle definizioni delle diverse tipologie di servizio.
Inoltre, per ognuna di esse, indicate:
• i principali interventi, tenendo presente non solo l’attività prodotta, ma anche
i ruoli e le relazioni che accompagnano la natura di tali interventi
• l’utente finale specifico, tenendo presenti sia i migranti, sia altri eventuali
interlocutori (servizi, famiglie,ecc.)
• gli altri servizi territoriali coinvolti e, se è il caso, i referenti istituzionali per quel
tipo di intervento.
TIPOLOGIE
DI SERVIZIO
INTERVENTI
Attività, ruoli
relazioni
UTENTE
FINALE
TERRITORIALI
COINVOLTI
Informazione
Mediazione
Orientamento
Formazione
Inserimento
lavorativo
Tutorato
NODI CRITICI
Infine, accordatevi, sui principali nodi critici che, dal vostro punto di vista,
andrebbero affrontati nella vostra area.
96
Capitolo 5
Analisi di 4 esempi
Laura Bonica
Gli esempi che seguono sono una testimonianza dell’analisi svolta
nel gruppo su alcuni dei nodi critici (es. 1 ed es. 3), ma anche del sapere
creativo che i vincoli possono suggerire (es. 2 ed anche es. 3) e della possibilità
di rinegoziarli, al proprio interno, ai fini di collaborare con un’altra istituzione
(es. 4).
5.1. Esempio n.1
Vincoli autoreferenziali e distanza rispetto all’utenza:
reciprocità e ruoli asimmetrici
Il pagamento della diaria.
Riprendiamo il nodo relativo al pagamento dei corsisti60. Ricordiamo che
esso ha suscitato un confronto tra il punto di vista dello staff direttivo, in base
al quale il pagamento è liquidato alla fine del corso, ed il punto di vista del
tutor e del docente, che sarebbero concordi a modificare questo vincolo per
favorire la continuità della frequenza, con la proposta di un pagamento
liquidato in rate già dalla prima fase di frequenza del corso. A livello di chi dà
e gestisce finanziamenti il vincolo portato a giustificazione dell’impossibilità di
operare un cambiamento è quello di non rischiare un investimento a vuoto e
quindi appare ragionevole il criterio di abbinare il pagamento alla verifica di
una quota standar d di frequenza (attualmente corrispondente ai 2/3 delle ore
complessive), verifica che può essere attuata solo alla fine del corso.
In questo caso emerge un esempio di conflitto tra punti di vista che
dipendono dai particolari luoghi di osservazione o vincoli di responsabilità
interni alla stessa formazione professionale. Pur trattandosi dello stesso
servizio, la diversa distanza dal rapporto faccia a faccia con gli utenti fa sì che
sia soprattutto il docente a gestire il disagio e l’eventuale abbandono del corso.
In effetti si tratta di un nodo delicato in quanto il paradosso riguarda la sfera
della fiducia nella motivazione del migrante: il docente e il tutor si
troverebbero così a cercare di fondare motivazione, partecipazione e coesione
nel microsistema (gruppo classe), all’interno di una cornice, inerente alle scelte
operate a livello di eso e macrosistema che disdicono questa stessa fiducia.
D’altra parte se gli abbandoni sono eccessivi, le conseguenze ricadono
ugualmente sul bilancio degli investimenti in quanto l’Ente, non solo è tenuto
a restituire parte dei finanziamenti ricevuti, ma rischia di non vedere più
approvata quella tipologia di corso.
60 Si veda la scheda di autodefinizione della formazione professionale / nodi critici, capitolo 6, pr. 6.3.3.
97
Si è quindi ipotizzata una soluzione che tiene conto di entrambi i punti di
vista e, cioè, ripartire la percentuale delle presenze obbligatorie su due o etr
periodi, a seconda delle ore complessive del corso , in modo che il principio di
c o l l e g a re l’obbligo della frequenza alla diaria venga mantenuto ed, al
contempo, si eviti che le eventuali assenze siano concentrate tutte nella fase
finale o in un solo periodo. Questa soluzione introduce, quindi, anche una
preoccupazione relativa al rapporto tra la distribuzione delle assenze e
l’esigenza di non intr o d u r re, comunque, una eccessiva discontinuità
nell’apprendimento.
Commento
Questo esempio suggerisce diverse considerazioni teoriche e pratiche.
Innanzitutto si può evidenziare la natura circolare dei fenomeni osservati ; essa
impedisce di guardare ai diversi livelli del sistema solo come a cerchi chiusi,
inclusi l’uno nell’altro.
Sembrerebbe piuttosto, come sostiene Bronfenbrenner (1979), che ciò che
succede a livello dei rapporti faccia a faccia (microsistema) non possa essere
pienamente compreso se non interrogando anche il contesto più ampio; ma lo
stesso succede anche per quest’ultimo. D’altra parte si osserva anche che
ognuno degli attori considerati si comporta in modo autopoietico, ognuno dei
due punti di vista è ancorato a motivazioni autoreferenziali, in cui è in gioco
al tempo stesso la salvaguardia del servizio e l’identità del ruolo professionale.
Questo esempio è interessante anche perché consente di affrontare il tema
dell’autopoiesi, quando c’è una asimmetria di ruoli di potere.
È evidente che chi gestisce i finanziamenti e i bilanci ha più chance di usare
il proprio potere per ignorare il punto di vista del docente e di scegliere di
trattarlo come se fosse un sistema allopoietico, ma ciò non può impedire al
docente né di avere il suo punto di vista sulla questione specifica, né di
scegliere, a sua volta, come autodefinirsi rispetto al sistema più ampio.
La comunicazione tra attori della rete è spesso ostacolata dal fatto che
ognuno o ritiene di subire il punto di vista dell’altro o di dover imporre un
punto di vista all’altro.
È qui che emerge la responsabilità etica della scelta di come vedere l’altro.
A questo proposito Stanford Beer, nella prefazione ad una delle opere di
Maturana e Varela proponendo di trasferire il concetto di autopoiesi anche ai
sistemi sociali organizzati, fa la seguente considerazione.
...in un’era in cui il rapido cambiamento istituzionale è un prerequisito per la pacifica
sopravvivenza, sembrerebbe che gli architetti del cambiamento stiano facendo lo stesso
errore in tutto il mondo. Il fatto è che essi percepiscono il sistema al loro proprio livello di
ricorsione come autopoietico, e lo fanno perché identificano se stessi con quel sistema e
sanno di essere così; ma insistono a trattare i sistemi che sono contenuti nel loro sistema, e
quelli entro i quali il loro sistema è contenuto, come allopoietici. (S.Beer, in Maturana e
Varela, 1980, pag.122-123)
98
Tornando al nostro esempio, potremmo aggiungere che questa tendenza,
quando non è deliberatamente scelta, deriva dalla convinzione che il sistema
di alternative entro cui ci si sta muovendo per risolvere un problema sia l’unico
possibile e che quindi la soluzione individuata assuma caratteri di necessità tali
da farla ritenere immutabile.
D’altra parte la rilevazione di paradossi e incomprensioni potrebbe avere
un ruolo riorganizzatore e suggerire che è sempre possibile costruire un nuovo
sistema di alternative.
5.2. Esempio n.2
L’importanza della prima mossa:
invenzione di una strategia
Questo esempio riguarda l’individuazione di una strategia di reclutamento
del minore elaborata da un operatore di strada e ripresa da tutto il gruppo
come una modalità esemplare di rendere operativo il concetto di reciprocità
secondo la definizione proposta e condivisa dal gruppo.
K. (così chiamiamo l’operatore di strada) sostiene che è possibile
coinvolgere un minore straniero in un percorso di inserimento, solo se si
riesce, prima, a costruire una relazione significativa individuale con lui. Questo
obiettivo, nella sua esperienza, è vanificato se è l’operatore di strada a fare la
prima mossa esplicita verso il migrante61.
Di solito mi reco nelle strade o nei bar in cui si incontrano questi minori. Sto lì, passo,
ripasso negli orari cruciali e a un certo punto creo uno stratagemma perché avvenga
l’incontro casuale. Per esempio, faccio cadere gli occhiali per terra, oppure inciampo in uno
di loro, insomma faccio in modo che ci sia un pretesto che crei un precedente per il giorno
dopo. Dal giorno dopo, infatti, ripasso, fino a quando non rincontro quel minore e viene
allora spontaneo salutarlo. Lui non sa nulla di me. Forse per questo, di solito, si meraviglia
e attacca per primo a chiedermi cosa faccio, come mai sono lì. Io non rispondo subito in
modo del tutto esauriente, ma faccio a mia volta delle domande, esprimo la mia curiosità
per la sua vita. Questo dialogo è molto delicato, perché è importante che sia lui ad arrivare
a chiedere di utilizzare il mio appoggio. E questo succede quando queste prime battute lo
fanno sentire libero ed al tempo stesso accettato per come è. Solo successivamente, dopo il suo
interessamento esplicito, prende avvio la vera e propria presa in carico, il contratto formativo
fra lui e il servizio (K., educatore di strada).
61 Si veda anche la scheda di autodefinizione del gruppo prima e seconda accoglienza (capitolo 6, pr.
6.3.1.), da cui emerge l’importanza di considerare la fase di emergenza come un momento che
richiede un tempo ad hoc e che presenta una sua relativa autonomia sul piano degli obiettivi e del
sapere messo in campo dagli operatori.
99
K. ha quindi colto l’importanza della prima mossa con l’utente, inventando
diverse strategie per far avvenire l’incontro casualmente, fino a che sarà il
minore stesso a fare la prima mossa, chiedendo a K. di presentarsi.
Per K. questa è la condizione perché un educatore di strada possa avviare
una comunicazione in cui la proposta di assistenza da parte di un Centro di
accoglienza diventi per il minore un’ipotesi accettabile.
Perché? Ragionando sull’ipotesi contraria possiamo scorgere il principio di
reciprocità che sottende questa scelta e la sottile raffinatezza di questa strategia.
Se la prima mossa fosse la proposta di assistenza da parte dell’educatore
sul piano della relazione interpersonale il messaggio sarebbe “tu devi cambiar e
vita, così come sei non va bene. Adesso ci penso io”
. Ciò implicherebbe un
giudizio negativo a priori sulla realtà esistenziale dell’altro e, quindi, una
possibile negazione delle opportunità per l’altro di definirsi altrimenti. Inoltre,
ed è questa la conseguenza più interessante, questo giudizio critico
precluderebbe o renderebbe più difficoltose le successive ridefinizioni di sé da
parte del minore, perché ogni volta egli dovrebbe smontare questa cornice
iniziale per dimostrare la sua autopoiesi in questo percorso. L’incontro
partirebbe quindi da una violazione della reciprocità di base tra il sistema che
osserva (operatore) ed il sistema che è osservato (minore) e ciò creerebbe una
stonatura, una contraddizione con il modo di K. di interpretare l’identità del
suo ruolo professionale. Il vincolo, alla base del servizio in cui K. lavora, è
infatti quello di accompagnare il soggetto verso un percorso di autonomia
guidata, che richiede la costruzione di una integrazione tra fiducia nell’altro e
fiducia nelle proprie capacità.
Questa strategia può essere considerata un esempio raffinato di
applicazione del modello dell’attesa, che consente una forma di tutoraggio
tanto presente, quanto discreta. Non meraviglia, allora, che il gruppo che aveva
lavorato sui vincoli dell’accoglienza, abbia ritenuto opportuno introdurre un
vincolo temporale per la prima fase di emergenza come una condizione
indispensabile per garantire la qualità e la continuità dell’intervento.
Emerge quindi come i vincoli vissuti nell’agire professionale quotidiano
possano essere interpretati in modo più o meno restrittivo e siano quindi
suscettibili di sollecitare anche la costruzione di un sapere innovativo.
La strategia di K. è particolarmente interessante anche da un altro punto di
vista teorico, perché essa attribuisce un ruolo importante al caso, invece di
fondarsi su un sistema di alternative basato sulla costrizione e sulla necessità.
Infine essa ci ricorda che il gioco può essere un importante alleato; la
strategia di K. implica il far finta , la messa in atto di diversi stratagemmi per
salvaguardare, da una posizione di maggior potere, il diritto del minore ad
autodefinirsi e a scegliere il momento per lui ottimale in cui chiedere l’aiuto.
100
5.3. Esempio n. 3
Autodefinizione all’interno della rete: un minore seguito
da tutti, ma in mezzo ad equivoci e fraintendimenti
5.3.1. Finalità e contesto
Questo esempio, raccontato da un insegnante delle 150h, ha attinenza con
il lavoro di rete e riguarda un episodio di comunicazione conflittuale tra i
servizi sociali e la scuola.
Esso offre anche un esempio di ridefinizione dei propri vincoli da parte
della scuola (dall’esercitazione: di che mi sento veramente responsabile? se
comandassi io!). Il nodo del conflitto riguardava la valutazione della maggiore
o minore gravità dei comportamenti di un ragazzo marocchino, da parte delle
diverse istituzioni che, a titoli diversi, si occupavano di lui. In particolare, la
scuola riteneva che i servizi sociali sottovalutassero gli improvvisi scoppi d’ira
del ragazzo, il suo oscillare tra momenti “buoni” e momenti “devianti”, non
considerando, così, anche la responsabilità assunta dalle insegnanti rispetto
all’incolumità degli altri ragazzi, e l’importanza della propria incolumità e
serenità per poter svolgere proficuamente il proprio mestiere. In questo caso è
il ruolo stesso della scuola che sembra essere stato frainteso, non abbastanza
valutato. Questo vissuto di sottovalutazione da parte dei servizi sociali, farà
scattare negli insegnanti un comportamento di “chiusura autoreferenziale”,
volto a difendere l’identità della propria organizzazione, del proprio lavoro.
Grazie a questo rientrare in contatto profondo con l’identità professionale, e
quindi, con le caratteristiche invarianti che la specificano (ad esempio l’essere
responsabili di un gruppo di individui e non di un solo individuo per volta),
le insegnanti entrano in contatto anche con il potere connesso a tale senso di
responsabilità. Questo potere si esprimerà attraverso la capacità di trovare
facilmente un accordo tra di loro, sia per porre alcune condizioni ai servizi
sociali, sia per ridefinire, al loro interno, nuovi vincoli per accogliere il ragazzo,
creando condizioni apposite, da loro ritenute più adatte a prevenire i rischi che
esse avevano colto.
5.3.2. Descrizione
anno 1996/97
Un ragazzo marocchino (A) si iscrive al corso di lingua italiana della scuola X.
A. vive con la sua famiglia. A detta dell’educatore di territorio il padre viene espulso per
reati di delinquenza e lascia al figlio il mandato di tenere sotto controllo la madre e la
sorella. Queste hanno interiorizzato usi e costumi occidentali, si truccano e indossano abiti
corti, aderenti, ecc.
Anche la sorella del ragazzo frequenta la stessa scuola e tra i due esiste uno stato di
tensione molto forte, al punto che le insegnanti decidono di inserirli in due classi diverse.
A seguito di un litigio in casa la ragazza si butta dal balcone o forse viene spinta dallo
101
stesso fratello, comunque riporta delle lesioni.
Dai servizi sociali i due vengono collocati in due comunità diverse e la ragazza viene
iscritta in un’altra scuola 62.
anno 1997/98
Ottobre
Il ragazzo, iscritto per il secondo anno alla stessa scuola, frequenta alcuni giorni e poi
non si fa più vedere.
Novembre
Un’insegnante contatta l’assistente sociale che afferma di averlo invitato più volte a
riprendere la frequenza presso la scuola X, perché le sue difficoltà a esprimersi bloccano la
comunicazione anche nell’esplicitazione dei bisogni ed i problemi personali.
Dicembre
Da un incontro con gli insegnanti di un Centro di formazione professionale la stessa
insegnante apprende casualmente che il ragazzo (A.) sta frequentando un corso di
florovivaismo, che il suo rendimento è buono e che si presta molto ad aiutare un compagno
marocchino che ha maggiori difficoltà di lui nell’uso dell’italiano.
Marzo
A. riprende a frequentare la scuola X. Ha lasciato il corso di F.P. perché non è stato
inserito nello stage di formazione (forestazione) come voleva, ma in quello di florovivaismo
che a lui non interessa. La scuola di F.P. motiva questa decisione con il fatto che il ragazzo
era stato assente alle lezioni sull’utilizzo dei macchinari usati nella forestazione.
A. si inserisce bene nella nuova classe (i suoi compagni di ottobre sono passati ad un
livello più alto) e stabilisce buoni rapporti sia con le insegnanti che con i compagni. Accetta
bene anche eventuali rimproveri degli insegnanti.
Una collega viene a sapere da un insegnante della scuola di F.P. che il ragazzo si è reso
autore di due episodi di aggressività di una certa gravità nei confronti di due compagni. Nel
primo, in refettorio, era andato a cambiarsi le scarpe calzandone un paio di quelle con i
chiodi e aveva preso a calci un compagno che una settimana prima aveva dedicato qualche
attenzione particolare ad una loro amica. Nel secondo, all’aperto, aveva divelto un paletto
metallico e aveva colpito un compagno.
È inoltre stato visto ai Murazzi e ha esibito un portafoglio con molti soldi. La scuola X,
allarmata, decide di convocare un incontro al quale partecipano tutti i servizi che si
occupano del ragazzo per un confronto:
• la scuola X esprime la sua preoccupazione anche se il comportamento del ragazzo per
il momento è ineccepibile.
• il Centro di F.P. ribadisce che questi due episodi di aggressività non sono da
sottovalutare
• la comunità del Comune che lo ospita non ha da segnalare nulla di rilevante
• l’assistente sociale e l’educatore di territorio tengono una posizione in sua difesa e
affermano che bisogna lavorare sul positivo che c’è nel ragazzo. Egli ha ammesso di
aver spacciato in passato, ma di avere smesso al presente. Gli operatori dei servizi
annunciano, inoltre, di avergli trovato un buon lavoro presso un carrozziere.
62 Si veda la genitorializzazione del minore, capitolo 6 pr. 6.2.2.
102
Aprile
Una sera, in comunità, il ragazzo ha un violento alterco con una operatrice che lo aveva
invitato a cambiare programma alla TV, invece di guardare un film porno.
L’operatrice e un altro ragazzo marocchino, che aveva preso le sue difese, vengono
aggrediti e feriti. Il ragazzo sfascia anche alcune suppellettili.
Il ragazzo viene trasferito in un’altra comunità fuori Torino. Interrogato sull’accaduto, si
dimostra tranquillo, sereno perché ritiene che la colpa fosse dell’operatrice.
Il servizio sociale, senza fare nessuno sconto sul comportamento del ragazzo, ritiene che
il comportamento dell’operatrice sia stato inadeguato.
Le insegnanti di classe sono preoccupate dal dover accogliere un soggetto con questi
scoppi improvvisi di aggressività e temono di non poter difendere né la propria incolumità
né quella degli altri bambini.
La scuola X, per stimolare il servizio sociale, decide di prendere questo provvedimento
che di fatto è un ricatto:
“Riammettere A a scuola solo dopo una visita al centro F. Fanon”.
Il servizio sociale non condivide questo procedimento, ma si adegua.
Maggio: rinegoziazione dei vincoli interni alla scuola
Il ragazzo viene riammesso a scuola dopo che è stata prenotata la visita. Viene inserito
in una piccola classe composta da soli minori e selezionati al fine di evitare dinamiche
esplosive.
Un insegnante uomo ha dato la propria disponibilità come volontario, oltre il suo orario
di lavoro, e la frequenza è al mattino, in modo che non possa incontrare il compagno che
aveva ferito in comunità.
Il ragazzo viene a scuola solo un paio di volte perché apprende che mancandogli il
numero minimo di presenze non può sostenere l’esame di licenza elementare. Non è
motivato dal fatto che la frequenza attuale costituisca un credito formativo per il prossimo
anno scolastico. È deluso perché pensava che la licenza “gli fosse dovuta” e, a detta
dell’educatore, questa avrebbe rappresentato una promozione sociale.
Il ragazzo perde la borsa di lavoro perché, a detta dell’educatore, ne ha combinata una
talmente grossa che non potrà più essere inserito da nessuna parte.
Il ragazzo non si presenta alla visita del centro F. Fanon perché quel pomeriggio c’è lo
sciopero degli autobus.
anno 1998/99
Ottobre-dicembre
Il ragazzo, iscritto per il terzo anno alla scuola X, frequenta abbastanza regolarmente.
È inserito in una classe normale dove non ci sono altri minori marocchini.
Fa riferimento al servizio sociale di un’altra circoscrizione perché sua madre ha
cambiato residenza.
Viene iscritto in un corso di formazione professionale e chiede il trasferimento ad altra
scuola per il corso d'italiano in quanto non gli sarebbe possibile conciliare gli orari dei vari
impegni: stage in azienda, corso di italiano, rientro in comunità fuori Torino.
Febbraio
Un insegnante del corso di italiano riferisce che il ragazzo si è inserito bene e che ha
buoni rapporti sia con gli insegnanti che con i compagni.
103
5.3.3. Commento
In queste sequenze decisionali traspare la sicurezza professionale degli
insegnanti, fondata sulla fiducia nella propria capacità di vedere
psicologicamente gli utentie sulla serena accettazione della propria funzione di
accoglienza, che le aiuterà a trovare comunque, al loro interno, le condizioni
per accogliere il ragazzo, senza tergiversare o nascondersi dietro a presunte
responsabilità altrui. Dall’insieme dell’episodio emerge inoltre che intorno al
ragazzo c’è una rete, che il suo agire è visto, pensato, discusso, seguito a più
livelli: ad esempio, ciascuno dei servizi è, a suo modo, presente e tempestivo
nell’individuare nuove alternative ad ogni episodio di crisi.
Poiché il racconto è prodotto da uno dei punti della rete, la scuola,
nell’ambito della quale non si sono prodotti episodi di violenza da parte del
ragazzo, emerge anche la tensione degli insegnanti a ricostruire i pezzi
mancanti del percorso del ragazzo, intessendo rapporti di rete con gli altri
operatori che permettano loro di acquisire informazioni e di farsi un’idea più
complessiva dell’utente come persona sociale e non solo come studente.
Tuttavia la rete funziona prevalentemente ad un livello informale: tutte le
notizie che segnalano l’evoluzione della storia di questo ragazzo e che fondano
l’ipotesi di gravità delle sue condizioni psicologiche, allarmando le insegnanti,
sono acquisite casualmente. L’unica riunione di rete “ufficiale” è quella
convocata dalle insegnanti stesse. Si può quindi dedurre che, a fronte di una
frequente quanto coinvolgente comunicazione tra gli operatori intorno ai
ragazzi e agli episodi che per diversi motivi possono creare effetti di choc,
manchi, a monte, la progettazione di uno spazio di confronto, in rete, tra le
diverse identità professionali che consenta, da un lato di specificare meglio le
rispettive responsabilità e identità professionali, e, dall’altro, di imparare
dall’esperienza in itinere a meglio raccontarsi e raccordarsi, riducendo i rischi
di reciproca sottovalutazione o svalutazione dell'identità professionale.
5.4. Esempio n. 4
Collaborazione riuscita tra due soggetti della rete:
la Casa di Carità Arti e Mestieri e la scuola
Questa collaborazione tra scuola e formazione si è realizzata nella
consapevolezza della necessità dell’interdipendenza per realizzare l’obiettivo
comune di favorire il percorso dei minori, verso opportunità stabilizzanti, in
alternativa ai rischi di dispersione.
Infatti i minori stranieri coinvolti in questa iniziativa hanno beneficiato di
un progetto più ampio di continuità educativa e di facilitazione del percorso,
avendo potuto interagire nello stesso contesto (scuola), con interlocutori
diversi che, insieme, gli hanno proposto opportunità per il suo futuro63.
63 Si ricorda la modalità operativa illustrata nella tabella 1 del Dispositivo per la comunicazione
integrata sul territorio all’interno del capitolo 4.
104
Di quale collaborazione si tratta?
Due mediatori culturali della Casa di Carità Arti e Mestieri durante il
periodo di stage dell’anno ’99-2000 sono stati inviati alla scuola per stranieri
Parini con il compito di gestione di uno sportello di orientamento alla
formazione professionale; questo sportello è rimasto aperto tre giorni
all’interno della scuola stessa, con lo scopo di presentare il progetto di un corso
di “orientamento al lavoro” di 30 h rivolto a 30 minori stranieri, che si sarebbe
tenuto nel maggio ’99 presso la Casa di Carità Arti e Mestieri64.
I mediatori in stage dovevano occuparsi della presentazione delle modalità
di svolgimento del corso (dopo la partecipazione al corso il minore avrebbe
potuto iscriversi ai corsi professionali per stranieri) e, nello stesso tempo,
dell’iscrizione di quei minori, segnalati dagli insegnanti della scuola stessa con
il prerequisito minimo del secondo livello di alfabetizzazione.
Dopo i tre giorni previsti per le attività di sportello, i mediatori culturali in
stage hanno poi seguito quegli stessi minori durante il corso di orientamento.
Il loro compito era di supporto sia agli orientatori del corso e sia ai minori
stessi, che venivano aiutati nei colloqui individuali e nei casi di difficoltà
linguistiche nella compilazione delle schede personali.
Come si è arrivati a questa collaborazione tra scuola e formazione
professionale?
Tra la Casa di Carità Arti e Mestieri e la Parini esisteva una reciprocità di
rapporti già dagli anni ’92-’93.
L’idea di consolidare questi rapporti, progettando un corso insieme, si è
sviluppata perché il progetto Integra I.Ter. prevedeva 3 corsi di orientamento
al lavoro, rivolti a utenza migrante.
Proprio per la disponibilità di questi finanziamenti il Centro professionale
ha proposto alla scuola Parini una collaborazione per la sperimentazione di
questo corso di “orientamento al lavoro”, riscuotendo interesse e disponibilità
alla collaborazione.
L’esito favorevole di questa prima mossa ha visto le due istituzioni
impegnate in una serie di negoziazioni produttive per rendere complementari
i propri ruoli e per stabilire spazi, tempi, strumenti, orari, compiti dei due
mediatori in stage.
Alla scuola è stato riconosciuto il compito fondamentale di fungere da
“filtro” nella segnalazione dei minori da iscrivere, di conseguenza è stato deciso
che lo sportello si aprisse in un’aula della scuola stessa; le due istituzioni si
sono quindi accordate sui giorni e sulle modalità di apertura dello Sportello
orientativo, tenendo conto sia degli impegni relativi agli spazi ed al tutor della
64 Si veda in allegato il progetto di questo corso di orientamento. (Allegato n. 1)
105
scuola, sia della organizzazione del tempo dei due mediatori della Casa di
Carità Arti e Mestieri, in stage, che avrebbero preso in gestione lo sportello
presso la scuola.
Ciò che è risultato importante, con l’avvio di questa collaborazione
interistituzionale è che, su 30 partecipanti al “corso di orientamento al lavoro”
(maggio ’99), 18 si sono iscritti l’anno successivo ai corsi rivolti a minori
stranieri della Casa di Carità Arti e Mestieri.
La positività dell’obiettivo raggiunto risulta ancora più significativa, se si
considera che la maggioranza di questi minori erano soli e vivevano in
comunità - alloggio.
Questo esempio dimostra la volontà dei due soggetti, scuola e formazione,
di cooperazione reciproca nel riconoscimento dell’identità e del ruolo
dell’altro.
I due attori hanno scelto di mettere insieme le esperienze e le competenze
acquisite nei rispettivi ambiti di intervento con utenza migrante: insegnamento
della lingua seconda nella scuola e insegnamento di un “mestiere” nella
formazione professionale 65.
Entrambi i soggetti hanno accettato che l’altro entrasse nella propria cornice
di attività con il suo specifico statuto etico-professionale e hanno concordato
così tempi, spazi, orari…
La scuola, attraverso la cooperazione con la formazione professionale
regionale ha potuto dare maggiore significato alla propria progettualità rispetto
ai minori poiché ha inserito i propri interventi in una prospettiva più ampia,
ricavando così vantaggi sia per quanto riguarda i propri obiettivi istituzionali di
facilitazione per i minori migranti sia in termini di maggiore soddisfazione per
gli operatori.
Inoltre, la mancanza di un mediatore culturale nella scuola era uno dei nodi
critici lamentato dal gruppo di lavoro sulla scuola e, quindi, l’inserimento di un
mediatore culturale ha significato anche una risposta a questa esigenza66.
La scuola ha potuto così contare su una presenza fissa di sostegno al docente
nella gestione di questioni critiche interne alla classe, con interventi appropriati
di mediazione, e nella funzione di interpretariato per i corsisti con maggiori
difficoltà linguistiche (previste alcune ore in lingua d’origine).
65 La Casa di Carità Arti e Mestieri ha proposto anche alla scuola Braccini lo stesso modulo di corso
di orientamento al lavoro, della durata di 30h. É interessante osservare che, in questo caso, la
negoziazione ha condotto ad un’altra formula di sensibilizzazione: invece dell’apertura di uno
sportello temporaneo, è stato concordato che un coordinatore del Centro professionale organizzasse
due incontri con i ragazzi della scuola, per presentare il corso di orientamento. Accompagnato dalla
mediatrice culturale che lavora presso la Casa di Carità Arti e Mestieri, il coordinatore ha potuto così
informare e sensibilizzare i futuri partecipanti, che, anche in questo caso erano stati segnalati dalle
insegnanti.
66 Si vedano le schede di autodefinizione delle tre aree di intervento (cap.6) ed in particolare quella
della scuola, nel paragrafo 6.3.2.
106
Il Centro professionale, dal suo canto, ha visto riconosciuto il proprio
modulo di corso (Mediatore Culturale) e la figura professionale che ha
“formato”, vedendone valutata positivamente la preparazione e la competenza;
infatti, come già detto, nella scuola Parini sono stati proprio i mediatori culturali
in stage a gestire lo sportello di ascolto interno, destinato alla presentazione e
all’iscrizione dei minori al corso di orientamento al lavoro.
Nello stesso tempo la formazione professionale, in prospettiva, potrà
contare su un serbatoio di utenza futura, che spesso proviene proprio dalle
scuole di alfabetizzazione e dai corsi di 150 h; potrà quindi disporre di una
pubblicità in positivo delle proprie proposte formative da parte di un soggetto
di primo piano nella rete dei servizi per stranieri: la scuola.
Ma ciò che più conta è che la realizzazione di questo progetto di
comunicazione integrata tra scuola e formazione professionale porta vantaggi,
soprattutto, al migrante stesso che, nel momento in cui si inserisce nella
formazione, può passare da una situazione di precarietà iniziale ad una
opportunità di stabilizzazione lavorativa futura. I corsi per stranieri, come
abbiamo visto nell’introduzione, facilitano infatti i frequentanti nella possibilità
di trovare lavori regolari.
5.5. Osservazioni conclusive
L’ipotesi che sottostà al modello di formazione che stiamo descrivendo è
che l’ascolto della esplicitazione dei rispettivi vincoli, sia tra aree eterogenee
che all’interno della propria area, favorisca la visibilità della reciproca
interdipendenza e renda più comprensibile ad ognuno il sistema di alternative
entro cui l’altro si sta muovendo per definire i criteri del suo agire.
La sensazione che si ricava, guardando i partecipanti, ascoltando i loro
commenti e la produzione spontanea di altri racconti o materiali scritti che essi
portano nel gruppo, è che si sia aperto un nuovo interesse per la circolazione
delle idee nel gruppo.
Riferirsi alla esplicitazione dei vincoli professionali/istituzionali
può risultare un’utile strategia per salvaguardare il principio di reciprocità
e la congruenza tra i diversi livelli di articolazione delle istanze
educativo/formative, perché consente di affrontare le differenze attraverso un
comune criterio di lettura: i vincoli favoriscono, infatti, il confronto su una
condizione comune a tutti gli attori, qualunque siano le asimmetrie di ruolo o
le specificità professionali.
Come abbiamo visto, questo percorso di esplicitazione e di confronto può
innescare un processo di apertura alla ridefinizione dei rispettivi vincoli e alla
individuazione di nuove soluzioni.
La reciprocità rischia, infatti, di restare un assunto ideologico se non entra
nel merito del riconoscimento reciproco di soggetti che sono tali, anche perché
essendo quotidianamente impegnati nella negoziazione di certi vincoli
professionali-istituzionali, hanno trovato un proprio modo di convivere con
essi e detengono quindi uno specifico sapere etico-professionale.
107
Parte terza
MIGRANTI E
COMUNICAZIONE DI RETE
109
Capitolo 6
Percorsi di rete ed aree d’intervento
Laura Bonica, Michele Grisoni, Silvia Zabaldano
6.1. Ricostruzione di percorsi di rete,
dal punto di vista dei migranti, prima del 1990
Partiamo da due percorsi che riguardano inserimenti precedenti agli anni
’90. Come si potrà osservare, i percorsi di rete effettuabili in quegli anni erano
fondamentalmente basati su appoggi familiari e personali. In entrambi i casi si
tratta di migranti che hanno dovuto rinunciare alle loro ambizioni universitarie,
ma che sono diventati operatori ed oggi rivestono un ruolo di riferimento
qualificato nella progettazione della prima e seconda accoglienza per minori
migranti.
J., peruviano
J. è arrivato nel’ ’81 dal Perù per ragioni familiari; era infatti sposato con una donna
italiana. La condizione di straniero non gli permetteva di lavorare legalmente; in quegli anni
risultavano insufficienti i Servizi per stranieri e le norme non garantivano facilità di
regolarizzazione per il lavoro.
L’inserimento è avvenuto autonomamente per conoscenze personali; non era inserito in
una rete etnica, anche perché nel ’81, a Torino, vi erano solo 4 peruviani (nel ’98 sono
invece 3200 i peruviani regolarizzati).
K., palestinese
K. palestinese con passaporto israeliano, parte per motivazioni politiche e decide di
iscriversi all’Università in Italia per completare gli studi in Veterinaria. La sua rete di
riferimento sono i parenti già immigrati in passato.
Il primo contatto avviene alla Stazione di Roma, dove K. incontra difficoltà a farsi capire
dal bigliettaio, che non parla inglese. Parte quindi per l’Università di Perugia, perché sa che
lì esiste un ufficio presso la Questura che si occupa di accoglienza degli studenti stranieri.
Si iscrive ad un corso di lingua italiana a Perugia della durata di un mese: K. ottiene un
attestato di conoscenza di lingua italiana. Vive presso una famiglia di Assisi, contattata grazie
a conoscenze di compagni di Università.
Durante l’estate svolge un lavoro stagionale in un ristorante di Rimini. Qui K. ha un
contatto con un operatore di polizia che minaccia di denunciarlo per lavoro in nero.
In autunno si iscrive alla facoltà di Veterinaria dell’Università di Milano. Ha il problema
di trovare un posto letto. Alla Casa dello Studente di Milano la quota di posti letto per
stranieri è del 10%. K. è escluso, per mancanza di posti liberi. Così, per tre mesi va a
dormire nella stazione, dove si ritrova anche con altri studenti stranieri.
Insieme progettano un'azione di occupazione della Casa dello Studente.
Nel corso di questa fase iniziale è riuscito a mantenersi grazie ai soldi guadagnati in
111
Palestina, prima di partire per l’Italia.
Ora deve lavorare. Tramite conoscenze private si inserisce nell’attività di trasporto
dell’Euro-Club. Ciò favorisce la possibilità di fare attività politica in giro per l’Europa:
K. fonda, così, un’Associazione di Studenti Palestinesi del ’48, e si impegna in diverse forme
di propaganda e di attività autogestite, per la causa palestinese.
K., nell’84, arriva a Torino ed entra in contatto con il servizio Caritas, che si occupava
di aiuto e sostegno agli immigrati. Qui conosce un obiettore di coscienza che lo presenta al
responsabile di una cooperativa sociale.
Assunto dalla Cooperativa Sociale Crescere Insieme, il suo compito è gestire soggiorni
estivi per ragazzi portatori di handicap. Diventa dopo pochi mesi educatore in Comunità Alloggio per minori italiani.
Nel ’93 assume il ruolo di educatore di strada nel progetto di prevenzione del disagio
giovanile per minori italiani e stranieri.
Il ruolo dell’educatore di strada è quello di seguire, accompagnare e orientare
nell’inserimento il minore straniero; l’educatore di strada viene pagato dalla Circoscrizione
per 3,5 h al giorno, anche se, in realtà, ne deve fare anche sette o otto.
(K.)
In questo nuovo ruolo valuta la presa in carico del minore verso un tipo di accoglienza
professionalizzante, e comincia ad elaborare idee e strategie in merito67.
L’educatore deve cercare il contatto con il ragazzo, muovendosi per il quartiere. Sono
necessarie varie fasi di approccio per capire i bisogni e le esigenze del singolo soggetto. La
fase dell’avvicinamento è indispensabile per conquistarsi la fiducia del ragazzo. Solo dopo
questo momento iniziale è possibile iniziare il rapporto individuale con il minore
straniero. (K.)
K., dal ’96, lavora nell’Associazione Solidea68, che ha preso in tutela 9 minori stranieri.
6.2. La situazione attuale
Negli anni più recenti, come si è già visto nel capitolo 1, l’ondata migratoria
si è intensificata e presenta caratteristiche molto più articolate. Dal racconto dei
percorsi emerge l’importanza della rete, e si avverte che pur rimanendo
l’inserimento lavorativo un obiettivo primario, tuttavia il successo del percorso,
soprattutto per i minori, si gioca attraverso i filtri precedenti.
Minori albanesi
I minori albanesi il più delle volte arrivano soli, senza legami familiari;
il problema principale è che spesso essi hanno l’obbligo di mandare i soldi
a casa, e questo vincolo condiziona la loro disponibilità ad un percorso
formativo continuativo. In una considerevole quantità di casi, occorrerebbero
anche interventi alternativi per aiutarli ad uscire dalla rete della criminalità
organizzata.
Di solito il primo contatto avviene attraverso Organizzazioni di volontariato,
più frequentemente, quelle cattoliche (Caritas, Sermig, Oratori…).
67 Si veda anche il capitolo 5, esempio n. 2: la prima mossa .
68 Solidea è in rete con altre Associazioni (Premoli, Ala) che si occupano di accompagnare e seguire il
minore nell’assistenza, nell’istruzione, nelle pratiche legali e sanitarie.
112
Il contatto successivo passa attraverso l’Ufficio Minori Stranieri del Comune,
dove avviene una prima schedatura del minore. Questo ufficio può contattare
altri Enti della rete; cerca di impostare programmi appositi di tutela e
inserimento in comunità d’accoglienza, rapportandosi con la Questura e i
giudici tutelari.
Quando il percorso è riuscito, prevede la frequenza presso le Scuole medie:
Parini, Braccini o altri C.T.P. (Centri Territoriali Permanenti) e parallelamente ad
un corso di Formazione Professionale Regionale.
Minori marocchini
Come punto di riferimento, i minori marocchini spesso hanno un adulto e
arrivano a Torino perché hanno un genitore o comunque parenti/amici immigrati
precedentemente.
Nel racconto degli operatori questo esempio di percorso riuscito ha
previsto le seguenti tappe del percorso di rete:
Il primo contatto presso l’educativa di strada che, a Torino, opera
prevalentemente nel quartiere S. Salvario.
Quindi, l’inserimento nella scuola media statale Manzoni ed il sostegno da
parte dell’Associazione Solidea, che si occupa di sostegno scolastico e
inserimento lavorativo.
Infine l’inserimento in un corso professionale specifico per migranti minori.
Riuscire ad evitare l’uscita dalla legalità, trovare una casa in cui tornare la
sera e iscriversi ad un corso professionale, può essere già considerato un lusso,
una buona garanzia per un inserimento riuscito anche dal punto di vista sociale
e lavorativo.
Sentiamo a questo proposito la descrizione della fase iniziale del percorso
dei migranti visto dal punto di vista di uno dei responsabili storici dei servizi
per la prima accoglienza, don Fredo Olivero69.
69 Attualmente don Fredo Olivero dirige il Servizio Stranieri della Caritas di Torino.
113
Chi sceglie di emigrare è spinto in primo luogo dal bisogno di una
casa e di lavorare piuttosto che di andare a scuola.
La casa, o anche più semplicemente un letto, significa un luogo di
riferimento sicuro dove poter tornare la sera. Essere bianco o
essere nero, appartenere ad una etnia o ad un’altra significa molto
nella possibilità di trovare una casa.
Essere africano ma non nigeriano è già un punto in più!
Il secondo livello di bisogni si ricollega al lavoro comprendendo
almeno tre aspetti:
• la necessità di sopravvivere;
• il mantenere una famiglia che è rimasta lontano nel paese di
origine;
• lo scioglimento del debito che il migrante contrae quando sceglie
di partire.
Nella fase di prima accoglienza è quindi determinante il rapporto
tra casa e lavoro. La ricerca del lavoro per uno straniero appena
arrivato è affannosissima, un vero e proprio incubo determinato
dalla condizione di irregolarità che non permette di mostrare delle
credenziali.
Il rischio è quindi che l’immigrato irregolare finisca con l’accettare
lavori precari il più delle volte al di sotto della dignità umana.
Vivo in una casa senza luce e acqua e lavoro anche 14-16 ore al
giorno!
Ma con il passare del tempo il migrante arriva a conoscere il
territorio e le strade da percorrere per trovare un luogo ed un lavoro,
sia legali che illegali.
Scatta così il rischio opposto.
Come ci ricorda don Fredo Olivero70, un problema molto sentito
dagli operatori dell’accoglienza è che spesso il migrante, quando
trova una collocazione in una comunità/alloggio, entra in una
situazione di stallo, con il rischio di sedersi, perdendo lo stimolo
iniziale della ricerca del lavoro. Lo straniero arriva ad
un’accettazione implicita di una cultura assistenziale.
Siccome il migrante si ritrova a vivere in un posto dove può non
pagare, si siede e cerca lavoro in modo saltuario. Appena arrivato
va tre volte alla settimana allo Sportello per cercare lavoro, poi
sempre di meno. (Un operatore della prima accoglienza).
Un altro aspetto fondamentale nell’inserimento lavorativo è
costituito dalle condizioni di salute; senza il benessere fisico (ma
anche psicologico) non è possibile investire pienamente nel proprio
progetto lavorativo.
70 Relazione - intervista presentata al corso di formazione nella giornata sull'accoglienza.
114
Alla casa, al lavoro e alla salute segue poi il bisogno di
socializzazione come momento di verifica dell’inserimento nella
realtà di accoglienza.
Le scuole di lingua italiana o i corsi di formazione professionale
sono veri e propri laboratori di intercultura, luoghi di
scambio/incontro/conoscenza con le altre comunità etniche.
Soprattutto per i minori stranieri l’inserimento in un contesto di
classe è un passo fondamentale verso l’integrazione.
La scuola permette inoltre al migrante di iniziare a conoscere il
territorio e a muoversi con più facilità al suo interno.
Un altro ambito da considerare è sicuramente quello relativo al
bisogno di ricongiungimento familiare. Tutti i migranti dichiarano
inizialmente l’intenzione di rimanere in Italia solo qualche anno,
mentre in realtà i rientri in patria sono solo nell’ordine dell’1%.
I casi di ricongiungimento sono aumentati negli ultimi quattro anni:
il 10% degli immigrati è costituito da persone ricongiunte.
Come ultimi bisogni, ma non per questo meno sentiti, troviamo
l’identificazione religiosa, vista come possibilità di esprimere la
propria fede e l’associazionismo etnico. Numerosissimi sono i
momenti di ritrovo e di festa; ad esempio la comunità rumena (4000
cristiani circa a Torino) si riunisce molto più frequentemente dei
praticanti italiani.
Dietro la fede si rivela il bisogno di ritrovarsi, di sentirsi uniti e di
riconoscersi in un luogo “protetto”.
Anche l’associazionismo etnico risponde al bisogno di
socializzazione e di scambio di informazioni; spesso è il principale
strumento di inserimento e avviamento lavorativo.
Molte sono le comunità autoreferenti inserite nella realtà lavorativa
piemontese, come ad esempio la comunità cinese nel settore
tessile o della ristorazione o la comunità rumena nel settore
domestico/assistenziale.
In questi casi prevale un sistema di regolarizzazione interna dei
nuovi arrivati, senza un confronto con gli attori istituzionali della rete
torinese.
Di conseguenza il migrante, che si impegna in associazioni italiane,
è spesso visto come traditore ed è ostacolato dalla comunità di
appartenenza.
115
6.2.1. Frequenza scolastica e ricongiungimenti familiari
Riportiamo alcune testimonianze emerse nel gruppo di ascolto durante il
corso Formazione Formatori, nella giornata condotta da Ines Damilano, che
riguardano i ricongiungimenti familiari. Ci pare che aggiungere anche questo
flash possa aiutare a completare l’idea dei percorsi dei migranti, e delle diverse
difficoltà che possono impedire la continuità della frequenza dei corsi.
Esempio 1
Nell’ambito di un corso di lingua italiana per stranieri:
Una ragazzina peruviana di 17 anni che frequentava e sembrava motivata,
dopo un mese sparisce. Ha deciso di ritornare in Perù. Quale situazione
c’è dietro?
La ragazzina è arrivata a Torino per raggiungere la madre e poter così
continuare gli studi che nel suo paese avrebbe dovuto interrompere. La madre
è qui da otto anni e quindi non ha più potuto coltivare un rapporto diretto con
la ragazza da quando la lasciò in Perù all’età di 9 anni. Tuttavia la madre
organizza tutto il soggiorno in funzione di questo ricongiungimento: lavora
come colf fissa in una famiglia e risparmia per comprarsi un appartamentino.
Appena ha una casa, si informa sui corsi, iscrive la figlia anticipatamente al
corso di lingua e le organizza il viaggio. Arrivata qui, la figlia passa molte ore
da sola in questo appartamentino, comincia le lezioni ma non sa ancora la
lingua, si annoia, è delusa, è sola. Dopo un solo mese decide d’impulso di
ripartire. La madre non riesce a fermarla, si rende conto di non avere nessuna
autorità sulla figlia o abdica per prima alla sua autorità. Qualcosa si è rotto.
E crolla anche il suo sogno.
Esempio 2
D., madre congolese è in crisi con la figlia di 9 anni. Stanno per metterla
in istituto: trova invece appoggio nella famiglia di J., mediatrice culturale e sua
connazionale emigrata a Torino, la quale riesce a mediare tra madre e figlia e
ad impedire la separazione.
Esempio 3
Da una cooperativa di lavoro:
B., madre peruviana con 3 figli, è in Italia da 4 anni. Subentra una forte
depressione. Fa più di 200 ore di assenza, ed è costretta a lasciare il lavoro.
Questa donna viveva una grande nostalgia, ma non osava esprimere il suo
bisogno di ritornare in Perù perché temeva il giudizio del marito. In cuor suo
pensa che sia stato il marito a spedirla qui.
116
6.2.2. La genitorializzazione dei minori
Un altro aspetto di cui tener conto, rispetto alla criticità dei percorsi, è la
posizione di un migrante adolescente, la cui capacità di apprendimento della
lingua seconda è più rapida rispetto ad un adulto. Il minore diventa spesso il
soggetto che riesce a risolvere problemi familiari concreti, come ad esempio la
compilazione di moduli/certificati, il pagamento di bollette, il rapporto con i
Sevizi socio-assistenziali, scolastici… La generazione giovane rappresenta
quindi un interprete esperto, il punto di riferimento della famiglia immigrata; il
rischio è quello di un rovesciamento dei ruoli, una sorta di
“genitorializzazione dei figli” con conseguenze anche gravi nell’equilibrio
familiare.
Dal punto di vista dei valori etnici, si può ricordare anche l’esempio 3,
descritto nel capitolo precedente71, in cui il ragazzino marocchino, che riesce
a coinvolgere, intorno ai suoi scoppi improvvisi di violenza, diverse istanze
della rete dei servizi, aveva ricevuto dal padre, costretto a rimpatriare, il
compito di fare da capo famiglia rispetto alla madre ed alla sorella. E lui allora
non sopportava che la sorella e la madre vestissero all’occidentale. Si era,
quindi, fatto carico di un grosso compito, che richiedeva, in un certo senso di
rinunciare alla sua identità di adolescente. La gravità della crisi familiare, in
seguito a questo snaturamento dei ruoli genitoriali, aveva condotto i servizi a
metterlo sotto tutela presso una comunità.
6.2.3. Commento
Il contesto della partenza . Quando una donna viene qui, abbandonando
marito e figli, di quale progetto è portatrice? Chi ha deciso veramente? Quali
“non detti” sono restati sospesi al momento della partenza? Come è stato il
saluto?
Ciò che è restato in sospeso va a confluire, per chi resta e per chi parte,
nei rispettivi cambiamenti dovuti all’età, alle esperienze, all’ambiente e al
momento del sognato ricongiungimento e può costituire una barriera che
esplode alla prima difficoltà.
Il ruolo di un terzo può diventare allora fondamentale. Esso può essere
costituito dalla comunità come nell’esempio 2, ma sovente, soprattutto se il
ricongiungimento è idealizzato e annunciato come tale anche nella comunità
di riferimento, quando la barriera esplode la persona si trova psicologicamente
spiazzata, fallita, delusa, sola. Lo spazio dei corsi, la scuola o il contesto di
lavoro diventano allora i luoghi della “nuova identità” cui il soggetto può aver
bisogno di aggrapparsi per ristabilire un luogo presente e stabile dal quale
rileggere il passato, smontare le illusioni, ricostruire una speranza ed una
nuova immagine dei propri affetti e ruoli familiari.
71 Si veda il capitolo 5, paragrafo 5.3.
117
I gruppi di ascolto possono fungere da “terzo” che autorizza questo
spazio. Ciò può liberare nuove energie per l’apprendimento, può consentire di
distinguere tra presente, passato e futuro, può condurre a relativizzare la
delusione facendo emergere l’importanza, anche per se stessi, di darsi tempo
e ascoltarsi.
La ragazza del primo esempio è fuggita dopo un solo mese; è sorprendente
che la madre non sia riuscita a comunicarle il senso di una prospettiva
temporale più ampia per fare un bilancio. Perché? In fondo, la madre stessa
aveva agito in fretta, anticipando tutte le pratiche per i corsi di studio, senza
prevedere un tempo per digerire i sospesi, ricostruire un rapporto,
comprendere i cambiamenti, prepararsi ad avere di fronte, non più la bambina,
ma un’adolescente e ciò probabilmente le ha impedito di costruire una nuova
autorità fondata su una nuova base di reciprocità e comprensione72.
6.3. Ricostruzione di percorsi di rete,
dal punto di vista dei servizi
La ricostruzione dei percorsi di rete, effettuata dal punto di vista degli
operatori dei servizi, a partire dal primo contatto, conduce ad introdurre la
differenziazione, all’interno dell’utenza migrante, tra i minori, le donne e gli
uomini adulti. Vediamo, per ognuna di queste tipologie di utenza qual’è il
percorso più probabile:
Minori migranti
Il minore arriva in Italia, nessuno sa nulla di lui.
PRIMO CONTATTO: educatori di strada, oratori, gruppi sportivi e
Associazioni di volontariato. Gli operatori di polizia trovano il minore senza
genitori. Interviene la Questura per la regolarizzazione e l’inserimento in
comunità alloggio. Il minore straniero segnalato dal giudice tutelare ha il
permesso di soggiorno fino al 18° anno; oltre a questa data la permanenza è
possibile solo se il ragazzo lavora. Viene iscritto in una scuola media e/o nei
corsi di alfabetizzazione. Inserimento in corsi di formazione professionale.
Uomini adulti
Il migrante si rivolge a strutture, come gli sportelli di orientamento, che
incanalano alla formazione professionale regionale.
Avviene una verifica burocratica dei documenti per poter essere inseriti nei
corsi, come iscritto regolare o regolabile.
All’interno del Centro professionale avviene l’accoglienza: si spiegano le
tipologie dei corsi e i vari livelli di inserimento professionale.
Spesso mancano informazioni e dati di ritorni positivi del migrante che ha
avuto successo nell’inserimento lavorativo.
72 Si veda anche capitolo 9, pr. 9.2. sulle storie personali e le traiettorie evolutive.
118
Donne migranti
Appena arrivate, cercano vitto e alloggio (presso la Caritas o altre
Associazioni di volontariato).
Molti centri di accoglienza offrono formazione professionale gratuita alle
donne nell’ambito infermieristico, della gestione domestica, del
perfezionamento linguistico.
Tra le donne migranti, che seguono questo percorso, sono soprattutto
quelle che vengono dall’Europa dell’Est che trovano facilmente lavoro come
colf o nell’assistenza domiciliare.
Si presentano numerosi casi di ricongiungimento dei parenti, nel momento
in cui la donna ha raggiunto un’occupazione stabile e regolare in Italia.
6.3.1. Il percorso standard del migrante
Come abbiamo visto, negli anni più recenti, i contatti di rete sono risorse
fondamentali per risolvere i problemi del singolo migrante dal momento
dell’arrivo in Italia. L’integrazione reale dello straniero avviene solo attraverso
l’inserimento lavorativo, ma per arrivare a questo obiettivo esistono diverse
strade.
Il grafico, a cui ci riferiamo, (grafico n. 7) prende in esame un potenziale
percorso semplificato che ci consente di mettere in sequenza il tipo di
istituzioni/servizi con cui solitamente entra in contatto il migrante che si muove
verso l’inserimento lavorativo e la stabilità.
Come si vede dal grafico il primo momento è rappresentato dal contatto
tra il soggetto migrante e un operatore di un qualunque servizio. Può avvenire
in diversi modi: per strada, su iniziativa dello stesso straniero o
dell’educatore/servizio che lo incontra; può essere una richiesta di aiuto
implicita o esplicita, ma ciò che è importante è la capacità di cogliere l’input
di richiamo.
In questa fase di avvicinamento occorre ricordare che spesso il migrante si
trova in una posizione irregolare e il primo soggetto istituzionale che incontra
è un vigile che lo ferma e lo porta in Questura. Anche in questo caso il contatto
ha un valore positivo perché rappresenta comunque il primo momento in cui
il migrante diventa visibile come potenziale assistito dalla Rete territoriale dei
servizi. Come abbiamo già visto, a seconda del tipo di approccio, può crearsi
o meno la fiducia dello straniero verso gli Enti istituzionali. Per una riuscita
positiva del contatto è importante un atteggiamento di apertura rassicurante dei
Servizi verso la sofferenza del migrante che si ha di fronte, unita ad un
atteggiamento di partecipazione sentita e rispettosa; non serve una semplice
risposta di comodo.
Nel primo contatto, se viene coinvolto un minore in stato di abbandono
nasce immediatamente il problema della tutela e la conseguente necessità di
collegarsi alla prima accoglienza (Comunità di assistenza e alloggio, tutori).
Altro è il caso dell’adulto non regolare che può prendere strade diverse: seguire
119
il percorso del grafico, prendere altre vie non istituzionali (appoggio presso
parenti/amici), oppure indirizzarsi verso l’illegalità come risposta iniziale ad
uno stato di disagio per poi reinserirsi, eventualmente, nei percorsi regolari, in
una fase successiva.
Il contatto rappresenta il primo ambito di possibile confronto costruttivo tra
due diverse culture, quella di origine e quella del paese di accoglienza,
rappresentata, di volta in volta, dall’operatore del Servizio che, per primo,
inserisce il migrante nella rete dei potenziali utenti.
Alla base di un percorso professionalizzante si trova l’accoglienza, che
risponde ad una situazione di emergenza iniziale attraverso la mediazione dei
bisogni del migrante con le richieste istituzionali (Questura, Comune). Di solito
questa parola è usata con un significato “emergenziale”, per designare una rete
di opportunità essenziali alla immediata assistenza materiale di chi arriva sui
nostri suoli (prime necessità: vitto, alloggio, cure mediche immediate); in
secondo luogo serve ad indicare la necessità di mettere lo straniero nella
condizione di non smarrirsi e di trovare un approdo, più o meno temporaneo,
disponibile a farsi carico dei suoi problemi (primo inserimento).
Nell’accoglienza i soggetti coinvolti sono gli educatori di strada, gli
operatori dei Servizi sociali, le Associazioni di volontariato (Caritas, Sermig…)
e le Comunità di assistenza e alloggio.
In questa fase di emergenza i Servizi forniscono informazioni per
consentire al singolo migrante di muoversi autonomamente nella realtà di
arrivo (conoscenza degli Enti territoriali per stranieri).
L’obiettivo è quello di orientare il migrante a costruirsi un progetto
personale verso l’inserimento lavorativo, sviluppando la sua capacità di
relazionarsi senza disperdere la propria identità; entra in gioco il ruolo
fondamentale degli sportelli di orientamento.
In questa fase avviene la prima verifica (verifica 1) delle capacità e
possibilità di presa in carico professionalizzante da parte dei Servizi. Non è
importante l’Ente che incontra il migrante (Questura, Associazioni di
volontariato, Servizi sociali, educatori di strada, Scuole, Formazione
professionale), quello che conta è la condivisione dell’obiettivo finale da parte
di tutti i Servizi della Rete: individuazione di percorsi specifici verso una reale
opportunità lavorativa. È opportuna una comunicazione integrata nel territorio
tra i diversi attori (Istituzioni, Accoglienza, Scuola e Formazione Professionale);
il punto di partenza è il riconoscimento del ruolo dell’altro servizio, dei vincoli
che ne specificano l’identità e delle concrete possibilità di intervento di ognuno
in base al proprio statuto.
È necessario ammettere il proprio limite e accettare il confronto con l’altro
Ente, senza vederlo come concorrenziale: l’atteggiamento più produttivo per
giungere ad una collaborazione si è rivelato quello della reciprocità e della
complementarità, viste come riconoscimento e negoziazione del proprio sapere
etico-professionale.
120
Il progetto, centrato sulle aspettative del singolo in relazione alle
opportunità reali offerte dal territorio, può dirigersi verso tre ambiti: la Scuola,
la Formazione Professionale Regionale e le prospettive di lavoro.
Il migrante può vivere questi settori uno dopo l’atro (alfabetizzazione,
corso professionale, attività lavorativa) o parallelamente (corso di
alfabetizzazione al mattino/corso professionale serale o lavoro diurno/corso
serale presso la Scuola di lingua per stranieri o il Centro professionale).
La scuola (alfabetizzazione e 150 h) costituisce un punto di riferimento
centrale per lo straniero, non solo come luogo di apprendimento della lingua
seconda ma come ambito di socializzazione, mediazione e incontro con altre
culture.
Le scuole si preoccupano inoltre della gestione dell’interazione con gli altri
attori della rete (Questura, Tribunali, Accoglienza e Formazione professionale),
per la risoluzione di problematiche extra-scolastiche tipiche di un’utenza
straniera: segnalazioni di tutele al tribunale dei minori, accompagnamento agli
uffici comunali, richiesta di interventi specializzati (vaccinazioni, supporti
psicologici).
La scuola svolge quindi una funzione di orientamento, di
accompagnamento e guida sia nel percorso professionale sia nell’inserimento
sociale; può indirizzare verso un corso professionale o verso opportunità
lavorative regolari, attraverso un attento bilancio di competenze del singolo
soggetto.
Sullo stesso piano della scuola si trova la Formazione Professionale
Regionale che rappresenta un proseguimento della preparazione del migrante
verso l’inserimento lavorativo.
Gli Enti formativi dovrebbero avere una struttura efficiente e integrata nel
territorio; un primo compito è di carattere informativo e orientativo.
Ogni Centro raccoglie informazioni dai Servizi territoriali e provvede a
erogarle a più utenti possibili; deve collaborare con la rete attraverso un
rapporto di negoziazione interistituzionale . Ha il compito di definire i percorsi
professionalizzanti in base alle esigenze e alle aspettative del singolo migrante,
senza anticipare i suoi bisogni ma attraverso un progetto di autonomia guidata.
La formazione prevede diverse tipologie di corso e di stage lavorativi
interni al modulo formativo, con la predisposizione di borse lavoro; centrale
diventa l’azione di accompagnamento e di verifica dell’inserimento del
migrante nell’azienda o nell’ente prescelto durante il periodo di stage (tutor).
Come già detto l’obiettivo finale rimane quello dell’inserimento
lavorativo, come punto d’arrivo dei percorsi scolastici o professionalizzanti
precedenti. È necessaria un’azione di monitoraggio dei dati forniti dalle
imprese sulle reali opportunità lavorative dei migranti.
È essenziale una verifica conclusiva da parte della Formazione
Professionale (Verifica 2) degli obiettivi raggiunti e mancati, in modo tale da
consentire una fase di riprogettazione adeguata che risponda ai reali bisogni
121
dell’utenza migrante e delle strutture territoriali (Istituzioni, Servizi, aziende).
Il nodo cruciale rimane il lavoro che è la premessa per avere una
regolarizzazione e il conseguente accesso ad un percorso professionale più
qualificato (corso professionale, borse lavoro). Ad esempio molti stranieri
appena arrivati accettano occupazioni di fatica senza professionalità con lo
scopo di ottenere il permesso di soggiorno, ma con il tempo tendono a
oscillare verso una possibilità di miglioramento occupazionale (ad esempio un
marocchino regolarizzato come imbianchino che sceglie però di frequentare un
corso serale di tornitore qualificato su macchine utensili).
Occorre quindi sottolineare che il percorso di un migrante può essere
molto più a zig-zag dello schema; questo significa, ad esempio, che lo
straniero che arriva alla formazione professionale il più delle volte non è
ancora completamente uscito dalla fase iniziale dell’emergenza (prima
accoglienza).
È il caso ad esempio di alcuni minori immigrati che non riescono a
frequentare con assiduità un corso di alfabetizzazione o un corso professionale
perché vivono ritmi “sballati” rispetto al dormire e al mangiare (esigenze
primarie).
In conclusione, dall’insieme dei percorsi raccontati, si possono individuare
tre aree principali che sono implicate nel sostegno al percorso d’inserimento
del migrante: la prima e la seconda accoglienza, la scuola e la formazione
professionale. Si può osservare anche che, in queste testimonianze, manca una
ricostruzione del percorso del migrante a partire dall’azienda che lo ha assunto,
perché purtroppo i rapporti con le aziende sono ancora minimi e sporadici,
soprattutto nella fase della restituzione dei dati relativi all’inserimento
lavorativo riuscito.
122
Grafico n.7
La rete: il percorso standard di un migrante
S1
V3
S2
S3
S4
S...
Controllo Q.
CONTATTO
Servizi Socio-assistenziali,
Comunità, Circoscrizioni,
Cooperative, Servizi
comunali, Caritas, Servizi
Sanitari: Camminare
insieme, Ospedali, A.S.L.,
Educatori di strada,
Mediatori,
Volontariato, Cittadini...
VERIFICA 1
possibilità/capacità
di presa in carico
professionalizzante
da parte dei Servizi
ACCOGLIENZA
ORIENTAMENTO
PROGETTO
SCUOLA
INSERIMENTO
FORMAZIONE
PROFESSIONALE
FORMAZIONE
PERMANENTE
Fase di riprogettazione
STAGE
Bor.lav.
INSERIMENTO
LAVORATIVO
VERIFICA 2
Raggiungimento
degli Obiettivi
MONITORAGGIO
progettuali
123
6.4. Schede di autodefinizione delle aree
d’intervento rivolte ad utenza migrante
In questo paragrafo, approfondiremo le caratteristiche di queste tre aree,
servendoci delle autodefinizioni che gli attori del territorio, presenti nel corso,
hanno dato per ognuna di essa. Prenderemo quindi visione di una scheda per
ogni area, prima e seconda accoglienza, scuola, formazione professionale
regionale, da essi compilata, secondo una traccia di criteri comuni73. Queste
schede non pretendono, ovviamente, di esaurire l’informazione sulle attività in
queste tre aree74; tuttavia ci sembra interessante riportarle perché esse
testimoniano il rispettivo sforzo di rilettura della propria realtà lavorativa
secondo criteri comuni, e possono fornire una panoramica sintetica delle tre
aree ad un lettore novizio.
Le schede sono precedute dalle definizioni delle tipologie di funzione o di
servizio più ricorrenti e indicano, per ogni colonna come queste funzioni si
ripartiscono rispetto alla natura degli interventi, agli utenti finali e al rapporto
con gli altri servizi territoriali. Segue poi un elenco dei nodi critici ritenuti più
importanti nella propria area.
6.4.1. La prima e seconda accoglienza
Utenti: minori stranieri; adulti
Sedi coinvolte: educatori di strada, operatori dei servizi sociali,
Definizione di operatore territoriale dei servizi sociali: operatore
dell’accoglienza che si attiva per dare risposte alle esigenze di prima necessità
(vitto, alloggio, servizi di igiene personale….). Collabora con l’assistente sociale
seguendo i casi dei minori segnalati dai vari servizi.
Definizione di educatore di strada: è un educatore che deve capire i bisogni
essenziali del minore dando risposte specifiche in base alle esigenze del
singolo utente. Deve inoltre conoscere la mappatura dei servizi territoriali per
proiettare il minore verso traguardi positivi.
Accoglienza: consta di due fasi, emergenza e informazione. La prima fase a
sua volta si divide in: informazione e mediazione. La seconda fase si divide in:
orientamento, progetto di autonomia guidata.
73 Per il contesto della consegna relativa alla compilazione delle schede, si ricorda la sequenza n.4.2.5.
del Dispositivo per la comunicazione integrata nel territorio, presentato nel capitolo 4.
74 Per quanto riguarda la Formazione professionale, ed in particolare l'attività della Casa di Carita Arti
e Mestieri, rimandiamo al capitolo 2.
124
TIPOLOGIE
DI SERVIZIO
INTERVENTI
UTENTE
FINALE
SERVIZI
TERRITORIALI
COINVOLTI
1a fase:
Emergenza
Vitto, alloggio
Minori,
adulti
Questura,
Comune
1a) Informazione
Servizi di igiene
Personale; modalità di
Regolarizzazione
Minori,
adulti
Associazioni
territoriali, Ufficio
Stranieri del
Comune, Questura
1b) Mediazione
Risposte immediate per
non perdere il contatto
con il migrante,
rischiando di
delegittimare il servizio e
l’operatore. Per i minori
la definizione di un
progetto di crescita in
base ai bisogni essenziali
Minori,
adulti
Operatori,
responsabili
istituzionali, scuola
(alfabetizzazione e
150h), centri
professionali
2a) Orientamento
Sapersi muovere nei
servizi, conoscenza dei
percorsi burocratici
previsti
Minori,
adulti
Operatori territoriali,
Uffici del Comune,
tribunale, assistenti
sociali, scuola e
formazione
2b) Progetto di
autonomia
guidata: sapere,
sapersi
relazionare, saper
essere senza
disperdere la
propria identità.
È costituito da:
• Informazione
• Orientamento
• Mediazione
Corsi di formazione,
borse lavoro, sistemi di
tutoraggio
Minori,
adulti
C.F.P., Scuole, centri
ricreativi, sportivi e
di socializzazione
2a fase:
Informazione
NODI CRITICI
1.
2.
Necessità di cambiare la politica di intervento dei servizi territoriali al fine di dare
risposte più rispettose del bisogno di coniugare l’immediatezza con la continuità degli
interventi rivolti all’utenza migrante.
Necessità dell’accompagnamento dell’operatore territoriale per l’inserimento
lavorativo, per le attività scolastiche/formative ed extrascolastiche.
125
Come si può osservare dalla scheda, per gli operatori dell’accoglienza
è risultato fondamentale adottare un criterio temporale che distingue tra una
prima fase in cui viene introdotta una nuova tipologia, l’emergenza, ed una
seconda fase, l’informazione, all’interno della quale si trovano accorpati
anche l’orientamento e la mediazione che diventerebbero percorribili solo
quando è già praticabile un progetto di autonomia guidata.
Nella fase di emergenza, infatti, le attività di informazione e di mediazione
sono prioritariamente finalizzate a non perdere il contatto con il migrante e a
comprendere quindi risorse immediate che riguardano sia i bisogni di prima
necessità (vitto, alloggio, igiene e regolarizzazione) sia la ricerca di primi
inserimenti che non si possono però ancora fondare su un vero e proprio
progetto. Tale priorità viene spiegata anche sulla base della salvaguardia
dell’identità professionale: sottovalutando questo ordine di priorità, si
rischierebbe di delegittimare il servizio e l’operatore.
Nella seconda fase invece il gruppo vede una funzione prevalente di
informazione che si articola in una attività di orientamento alla conoscenza
delle risorse esistenti e nella costruzione di un progetto di autonomia guidata
che mira a sfociare, nei casi riusciti, in un inserimento in un corso di
formazione o borsa lavoro o tutoraggio.
Si osserva quindi che non tutte le voci del modello sono state ritenute
pertinenti, mentre l’aggiunta della voce “emergenza”, nella categoria delle
tipologie, sta ad indicare che nel lavoro di prima accoglienza con i migranti
questa condizione comporta una sua durata che deve essere prevista e che
richiede un approccio professionale suo proprio, fondato sulla costruzione di
fiducia, pena la perdita dell’aggancio con il minore ed il probabile rischio della
sua uscita dalla legalità75.
Viene indicato come nodo critico l’inadeguatezza della politica d’intervento
nei servizi territoriali; da un lato c’è una delega che non tiene conto della
scarsezza delle risorse umane: un operatore di strada può occuparsi anche di
più di trecento minori non accompagnati; dall’altro alcuni servizi pubblici o le
convenzioni con le cooperative che seguono i minori possono essere chiusi o
sospese all’improvviso, senza tener conto degli effetti disastrosi di tali
discontinuità. Alcune cooperative sono state fondate dagli operatori stessi per
non abbandonare i ragazzi con cui, a fatica, avevano costruito un rapporto
di fiducia.
75 Si veda l’esempio 2, capitolo 5.
126
6.4.2. La scuola
Utenti: MINORE STRANIERO; fasce d’età 11-15 anni, 15-18.
Corsi: Alfabetizzazione (livello elementare), 150 h.
Sedi coinvolte: Polo elementare-media 150 h per stranieri (Parini-Braccini),
Cooperazione nella scuola media Manzoni (Associazione Solidea).
Definizione delle tipologie di servizi
Informazione: insieme di nozioni utili al migrante in relazione a servizi e
opportunità che offre il territorio. L’insegnante è un punto di riferimento
fondamentale per la distribuzione di informazioni.
Mediazione: definita dal gruppo come gestione delle interazioni, in quanto
la scuola gestisce, come punto nodale di convergenza le interazioni con
strutture differenti e eterogenee. Distinguiamo una interazione interna alla
scuola e una esterna.
Orientamento: definito come “accompagnamento” e guida nel percorso
scolastico e formativo successivo (corsi professionali, diploma ecc.) e nella
scelta lavorativa nel caso di un Centro di Formazione Professionale.
Formazione: attività tesa a fornire al minore “il sapere”, “il saper fare” e
“il saper essere”.
Tutore: figura ampliata nel ruolo che si occupa della presa in carico
del minore.
Inserimento sociale: servizio non previsto ma ritenuto fondamentale dal
gruppo per una formazione completa del “saper essere” del minore migrante.
127
TIPOLOGIE
DI SERVIZIO
INTERVENTI
(attività, ruoli,
relazioni)
UTENTE
FINALE
SERVIZI
TERRITORIALI
COINVOLTI
Informazione
Risposte sul servizio
stesso e sui servizi
collegati all'accoglienza
e all'inserimento
Minore
Famiglia
Referente
Scuola
Altri insegnanti
Referenti
Scuola, Servizi di
Tutoraggio
Gestione della
interazione
a) interna
Colloqui e incontri
b) esterna
Segnalazioni di tutele al
tribunale dei minori;
Accompagnamento ad
uffici comunali;
richiesta di interventi
specializzati
(vaccinazioni, Centro
Franz Fanon)
Minore
Genitore o
parente
Tribunale
Questura
Servizi territoriali
Inps, Asl, C.F.P.,
Comunità
Orientamento
Bilancio di competenze
per il passaggio al livello
di scolarizzazione
successivo (scuola
professionale o diploma);
Bilancio di competenze
per inserimento
lavorativo
Minore
Scuola
Istituti di scuola
superiore
C.F.P.
Aziende
Formazione
Sapere;
Saper fare:
alfabetizzazione e abilità
pratiche;
Saper essere: sviluppo
della consapevolezza di
sé, crescita psicologica e
relazionale
Minore
Scuola
C.F.P.
Tutorato
Presa in carico di tutti i
problemi extra-scolastici
dei minori;
Accompagnamento e
informazione
Minore
Scuola
C.F.P. Asl, Ufficio
Minori,
Tribunale Minori
Isi
Inserim. sociale
(non previsto)
Informazioni utili
Minore
Associazioni varie
Oratorio
Volontariato
128
NODI CRITICI
•
Inserimento sociale: aspetto indispensabile per completare la formazione del minore
e garantire una reale integrazione. Questo servizio oggi non è riconosciuto
istituzionalmente, ma è sicuramente una necessità sentita dagli insegnanti.
•
È indispensabile il riconoscimento di una figura specifica per l’alfabetizzazione di
minori stranieri all’interno della scuola dell’obbligo.
•
È necessario il riconoscimento di una figura di Mediatore culturale nei corsi di
alfabetizzazione e 150h per stranieri.
•
Deficit comunicativo sui servizi esistenti che si occupano di migranti sia all’interno del
sistema scolastico sia a livello di macrosistema di rete. Scarsa ed insufficiente
conoscenza reciproca dei compiti di ogni nodo della rete.
Il gruppo SCUOLA, qui rappresentato dalle scuole di alfabetizzazione e
dalle 150 h per stranieri, ha ritenuto opportuno sostituire il termine mediazione
con “gestione delle interazioni” per segnalare il vuoto attuale di questa
specifica figura nella scuola. Sono state compilate tutte le voci del modello
indicando una fitta articolazione di interventi e di collegamenti territoriali per
ogni voce. Vale la pena sottolineare che, al di là dello specifico compito
relativo all’educazione ed all’insegnamento della lingua seconda, il personale
di queste scuole ha costruito un nuovo know-how che lo vede impegnato
nell’orientamento, attraverso i bilanci di competenze per il passaggio alla
scuola professionale o al diploma, nell’inserimento lavorativo, spesso
attraverso opere volontarie di monitoraggio e di collegamento e in una
funzione di tutoraggio consistente nella presa in carico della maggior parte dei
problemi extrascolastici dei minori migranti (segnalazione di tutela al tribunale,
vaccinazioni) e nell’accompagnamento agli uffici comunali, o ad altri centri
specializzati).
Viene indicato come nodo critico la mancanza di un mediatore culturale nei
corsi di alfabetizzazione e di 150 ore e di una figura specifica per
l’alfabetizzazione di minori stranieri all’interno della scuola dell’obbligo76.
Viene inoltre denunciato un deficit comunicativo sui servizi che si occupano
di migranti sia all’interno del sistema scolastico, che del macrosistema e viene
ritenuta insufficiente la conoscenza reciproca dei compiti dei diversi attori
della rete 77.
Infine il gruppo inserisce una nuova tipologia, l’inserimento sociale
presso oratori e/o altre associazioni culturali e ricreative che, pur non essendo
ancora fattuale, potrebbe svolgere un ruolo utilissimo per evitare che la
socialità sia sempre abbinata ad una logica assistenziale o limitata alla
microcomunità etnica; sperimentare momenti di autentica apertura ai luoghi
normalmente frequentati da altri coetanei viene visto come un potenziatore
significativo dell’inserimento.
76 Si veda l’esempio 4 all’interno del capitolo 5.
77 Si veda l’esempio 3 all’interno del capitolo 5.
129
6.4.3. La formazione professionale regionale
Utenti: minori e adulti stranieri, donne straniere
Sedi coinvolte: CFP, aziende, scuole di alfabetizzazione
Definizione delle tipologie di servizi:
Informazione: attività che prevede la raccolta, il trattamento, l’offerta e la
manutenzione di informazioni in rapporto a specifici utenti migranti.
Mediazione: attività che prevede l’intervento di facilitazione della
comunicazione tra i migranti e le strutture del territorio per:
1) la soluzione di problemi procedurali/legislativi a ridosso della prima
accoglienza;
2) per l’invio presso servizi istituzionali territoriali del Comune, della
Provincia, della Regione, del Ministero del Lavoro, Del Ministero di Grazia
e Giustizia, del Ministero degli Interni.
Orientamento: attività finalizzata a favorire la scelta formativo-lavorativa,
ovvero: analisi della situazione personale (propensioni, attitudini,
vocazione,...), bilancio di competenza, elaborazione di un progetto personale,
accompagnamento nel percorso del migrante, secondo le varie Direttive.
Formazione: attività tesa a fornire il “Sapere”, il “Saper fare” e il “Saper essere”
in termini di competenze spendibili nei contesti organizzativi (di lavoro, stage...).
Inserimento lavorativo: attività consistente nella rilevazione organizzativa e
professionale, nella progettazione dello stage con l’impresa, finalizzata
all’inserimento del migrante.
Tutorato: accompagnamento dei migranti in forma di tutoring congiunta
(formativo-lavorativa, counselor “tutor interno” e mentor “tutor esterno”
dell’azienda, in coordinamento con il tutor interno del centro).
130
TIPOLOGIE
DI SERVIZIO
INTERVENTI
(attività, ruoli,
relazioni)
UTENTE
FINALE
SERVIZI
TERRITORIALI
COINVOLTI
Informazione
Raccogliere ed erogare
Informazioni creando un
collegamento tra il singolo e le
strutture territoriali, sia
attraverso lo sportello, sia
durante corsi di formazione.
Modalità di attuazione: faccia a
faccia, e a distanza:
telefonate e volantini
Necessaria la presenza del
mediatore culturale
Minore
e strutture
territoriali
Referenti istituzionali:
Comune e Provincia
Attori della rete:
(vd. Grafico 6,
capitolo 2.5.2)
Orientamento
(interno allo
Definizione di percorsi
d'inserimento lavorativo in base
alle scelte professionali, stando
attenti al rischio di anticipare i
bisogni dell’utente.
Predisporre unità didattiche in
lingua d’origine. Ri-orientare
dopo il corso professionale e
l’esperienza di stage
Necessaria la presenza del
mediatore culturale almeno
saltuariamente
Migranti
CFP, scuole, aziende,
Comune
Non è presente nessun
referente istituzionale, al
momento
Formazione
Corsi professionali di media
(600 ore) e lunga durata
(1200ore) ed unità minime di
formazione, moduli di 30 ore,
interni o propedeutici al
percorso formativo realizzati da
docenti e staff direttivo che
cercano di coinvolgere anche
altre istanze.
Utile la presenza del mediatore
culturale nei corsi
Migranti
Referente Istituzionale:
la Regione come Ente di
certificazione dei crediti
formativi. Collegamento
con la scuola per i
requisiti di accesso ai
corsi. Inserimento dei
rappresentanti della rete
cittadina nelle docenze
dei corsi .
Inserimento
lavorativo
Predisposizione di tutti i
dispositivi per l’inserimento:
attività burocratiche, contatti
con le aziende, affiancamento
per la preparazione dei
curricula, monitoraggio
Migranti e
aziende
Non è presente nessun
referente istituzionale,
ma sono previsti
incentivi e sovvenzioni
occasionali per favorire
l'inserimento lavorativo
Tutorato
Accompagnamento e
orientamento durante il percorso
formativo da diversi tipi di tutor,
che vanno distinti dal docente
frontale.
negoziazione interistituzionale
condotta dai Tutors per le
pratiche burocratiche
Migranti
CFP
Azienda
Sportello
Strutture
territoriali
Collegamenti con la rete
sia per pratiche a
ridosso della prima
accoglienza, sia per
l'inserimento in azienda
sportello e
nella
formazione
professionale)
131
Nodi critici:
•
•
•
•
•
•
dovrebbe essere valorizzato il lavoro di rete, per l'attribuzione dei crediti formativi
dovrebbero essere migliorate le procedure per la tutela dei minori, con apposite
convenzioni
sarebbe necessario un dispositivo di accompagnamento, orientamento, formazione
che vedesse una collaborazione tra le diverse istanze dell'accoglienza, della scuola,
della formazione professionale regionale per evitare che i migranti arrivino ai corsi
troppo a ridosso della prima accoglienza, ed al tempo stesso per favorire una
maggiore condivisione, tra gli attori della rete, rispetto all'obiettivo dell'inserimento
lavorativo
sarebbe necessaria una maggiore collaborazione con le aziende e questo sarebbe
facilitato se le aziende prevedessero di avere un tutor interno che tenesse i
collegamenti con il tutor interno del Centro di .formazione professionale
sarebbe necessario, anche per i migranti, poter monitorare l'inserimento lavorativo,
dopo i primi sei mesi
divergenza di vedute sui criteri di pagamento della diaria ai corsisti.
Il gruppo FORMAZIONE ha ulteriormente specificato le voci relative agli
interventi, indicando anche chi li fa e dove, secondo quali modalità
di attuazione e con quali eventuali referenti istituzionali e se è prevista o meno
la presenza del mediatore culturale. È stata inoltre sottolineato il ruolo
della negoziazione interistituzionale, come una delle attività più specifiche
del tutor.
Anche in questo gruppo l’articolazione delle diverse tipologie dimostra che,
nel processo formativo, la docenza di aula, pur essenziale per il rapporto faccia
a faccia con gli utenti, rappresenta ormai solo una delle funzioni che va
rapportata ad un’articolazione plurima di funzioni e di ruoli; ed è la qualità
di questa interconnessione, i significati e le opzioni che essa esprime, che
concorrono alla maggiore o minore “fedeltà” al percorso formativo intrapreso
dal soggetto migrante ed al suo sbocco in un inserimento lavorativo e sociale
più o meno appropriato.
Dal quadro esposto, emerge, inoltre, che la formazione professionale
regionale si trova ad un certo punto del percorso, che spesso, anziché mirare
dritto verso l’inserimento lavorativo, presenta dei zig zag e dei ritorni indietro,
perché l’utenza può essere ancora troppo a ridosso della prima accoglienza
oppure perché, soprattutto per i minori, possono essere studiate strategie in
parallelo tra la formazione professionale, svolta al mattino e la frequenza dei
corsi di lingua, alla sera.
132
Da parte degli attori della Formazione professionale regionale questa
situazione, da un lato viene riconosciuta come un'occasione arricchente per i
contatti di rete che diventano indispensabili, dall'altro testimonia, in alcuni casi,
il verificarsi di una scarsa determinazione da parte delle strutture di prima e
seconda accoglienza a orientare i migranti verso un progetto di inserimento in
un corso professionale.
Tra i nodi critici78 viene segnalata la sottovalutazione del ruolo della
formazione professionale regionale nell’ambito anche nella rete cittadina,
dimostrata dal fatto che essa non è stata inserita ufficialmente nelle strutture di
coordinamento recentemente costituitesi tra Provveditorato e altri servizi.
Si riflette anche sulla carente attenzione da parte degli Enti valutatori
(la Regione) alla complessità dei progetti che tengono conto della rete
territoriale, tale complessità dovrebbe essere riconosciuta con uno specifico
punteggio nella graduatoria.
Viene inoltre segnalata nell’ambito delle procedure legali per i minori la
necessità di una maggiore collaborazione con gli avvocati, che potrebbe essere
conseguita attraverso la stesura di apposite convenzioni.
Un altro nodo riguarda il pagamento dei corsiti (borsa lavoro di £ 4.000
all’ora), che viene normalmente liquidato alla fine del corso. Tale modalità è in
contraddizione con l’esigenza del corsista di potersi mantenere durante il
periodo della frequenza. Infatti molti abbandoni o tensioni nell’ambito del
corso sono dovuti proprio alla necessità di trovare comunque una qualunque
occupazione lavorativa. I formatori sarebbero quindi concordi a modificare
questo vincolo, e propongono che il pagamento liquidato in rate parta già dalla
prima fase di frequenza del corso. A livello di chi dà e gestisce finanziamenti
il vincolo portato a giustificazione dell’impossibilità di operare un cambiamento
è quello di non rischiare un investimento a vuoto e quindi appare ragionevole
il criterio di abbinare il pagamento alla verifica di una quota standar d di
frequenza (attualmente corrispondente ai 2/3 delle ore complessive), verifica
che può essere attuata solo alla fine del corso.
78 Si vedano anche le conclusioni del capitolo 4, in cui si riprendono alcuni di questi nodi critici.
79 Si veda l’esempio n.2 , nel capitolo 5, che tratta l’analisi di questa divergenza, in termini di vincoli
autoreferenziali e di circolarità degli effetti tra micro ed esosistema, oltre a proporre una soluzione
alternativa.
133
Capitolo 7
Interdipendenza tra le tre aree
e nodi critici
Silvia Zabaldano, Laura Bonica, Michele Grisoni
7.1. Premessa
In questo capitolo vorremmo evidenziare i terreni di collaborazione che
potrebbero portare vantaggi a ciascuna di queste tre aree. Analizzando le
incertezze, i nodi critici espressi da ciascuna area ed anche le reciproche
richieste di maggior riconoscimento del proprio specifico ruolo, abbiamo
individuato tre assi principali:
1) Articolare in modo più flessibile la prossimità e la distanza rispetto alle
problematiche connesse alla prima e seconda accoglienza. Come abbiamo
visto la Formazione Professionale e la Scuola si trovano a ricevere utenti
che, spesso, sono ancora a ridosso della prima accoglienza. Le funzioni di
accompagnamento e di orientamento, realizzate in modo individualizzato
da tutor specializzati, possono svolgere un ruolo di collegamento tra questi
tre ambiti verso la promozione di interventi di supporto alla realizzazione
del percorso di inserimento individualizzato e specifico per il singolo
migrante. Il dispositivo presentato dalla Casa di Carità Arti e Mestieri nel
prossimo paragrafo è finalizzato a rendere operativo questo obiettivo.
2) Riflettere in modo coordinato sulla funzione delle figure del tutor e del
mediatore culturale. Una rassegna delle molteplici interpretazioni di questo
ruolo presso gli Enti che hanno partecipato al percorso di autoformazione,
verrà presentata nel paragrafo 7.3.
3) Infine, condividere la consapevolezza della utilità di stabilire criteri di
individuazione dei prerequisiti per l’ammissione ai corsi e di armonizzarli
prendendo in considerazione anche la dimensione della certificazione.
Questo argomento verrà introdotto nel paragrafo 7.4. e sarà ulteriormente
approfondito attraverso il contributo di Gioia Maestro sulla CILS, presentato
nel prossimo capitolo (cap. 8)
7.2. Ipotesi per un dispositivo di
accompagnamento, orientamento e formazione
in forma individualizzata
Presentiamo un progetto che è concretizzabile attraverso il collegamento
tra le diverse istanze della rete. Questo collegamento può essere svolto da tutor
135
esperti, i quali sappiano supportare il migrante nella realizzazione del proprio
progetto personale attraverso la promozione di interventi coerenti tra le risorse
presenti sul territorio (accoglienza, scuola, formazione, lavoro…)
Finalità e obiettivi
L’orientamento formativo e lavorativo con relativo bilancio di competenze
rappresenta un’azione complessa, perché, se condotto in una logica di
“opportunità stabilizzante”, esso dovrebbe valorizzare il “potenziale personale”
delle persone interessate.
Ricordiamo che per opportunità stabilizzante per migranti si intende la
capacità che ha il sistema territoriale di individuare, attraverso un percorso
strutturato di orientamento alla formazione e al lavoro, le conoscenze, le abilità
acquisite dal migrante nel suo paese d’origine o nella sua storia passata; fare
emergere queste competenze significa riconoscere dignità al soggetto,
orientandolo, in un percorso formativo e/o lavorativo il più possibile coerente
con la propria storia.
In altri termini, l’orientamento formativo e lavorativo dovrebbe tendere ad
offrire ai migranti un sistema di opportunità informative, orientative e di
inserimento lavorativo, in una logica che preveda la presa di coscienza del loro
Sapere, Saper fare e Saper Essere e della loro intenzionalità ad intraprendere
percorsi formativi e/o lavorativi rispondenti alle loro aspettative e in sintonia
con le esigenze del mercato del lavoro; occorre comunque uno sforzo affinché
il lavoro sia il più possibile qualificante, cioè concepito come strumento di
valorizzazione della traiettoria evolutiva personale e di promozione sociale.
Il “dispositivo di accompagnamento e di formazione” (grafico n. 8) da un
lato, dovrebbe tendere ad integrare le varie iniziative di riferimento e, dall’altro,
dovrebbe considerare l’importanza della individualizzazione dei percorsi,
introducendo tutor esperti che possano sistematicamente mettere in atto
modalità di accompagnamento ad personam.
Utenza
Le tipologie di migranti con le quali occorre interagire, per attivare le
strategie operative sopra indicate, sono le seguenti:
Minori migranti analfabeti della 1a e 2 a lingua
Adulti migranti analfabeti della 1a e 2 a lingua
Minori migranti analfabeti della 2a lingua
Adulti migranti analfabeti della 2a lingua
Minori migranti con titoli di studio ma non favoriti dai processi di
integrazione e di accoglienza;
• Adulti migranti con titoli di studio ma non favoriti dai processi di
integrazione e di accoglienza;
•
•
•
•
•
136
• Minori migranti in condizioni giudiziarie;
• Adulti migranti in condizioni giudiziarie
• Donne migranti: analfabete, o con titoli di studio, ma
giudiziarie.
in condizioni
Ognuna delle seguenti tipologie necessita di adeguati strumenti, capaci di
incidere nei processi di integrazione sociale, economico e lavorativo.
Principi metodologici
Il dispositivo di accompagnamento dovrebbe possedere queste tre
caratteristiche:
a. Essere flessibile circa gli ingressi, i tempi ed i modi di effettuazione dei
moduli poiché non si definisce sulla base di un cammino standard
“di classe” bensì di un supporto individuale di interfaccia, in grado di
mediare tra utente ed i servizi in modo da consentire una rispondenza
puntuale alle caratteristiche peculiari dello stesso.
b. Coinvolgere un insieme di organismi diversi, che vengono messi in “rete”
in un lavoro realmente cooperativo che richiede pertanto una “filosofia” di
lavoro, un modello organizzativo ed operativo adeguati.
c. Prestarsi ad una molteplicità di utilizzi e di finanziamenti e, per questo
motivo, dovrebbe rispondere alla logica dell’accompagnamento e
formazione piuttosto che unicamente alla filosofia dell’organismo
finanziatore.
Articolazione in fasi sequenziali.
Il dispositivo di accompagnamento e di formazione, cosi delineato,
comporta tre fasi differenti, ognuna corrispondente ad un passaggio chiave
dell'intervento a favore di migranti posti in situazione di disagio o di
emarginazione sociale o lavorativa:
1. Il passaggio relativo alla dimensione soggettiva: esso riguarda il quadro
della rappresentazione di sé, del rapporto con la realtà esterna, degli stili
di comportamento. Questa fase richiede un tutor specializzato.
Si può procedere attraverso una fase di “attivazione personale”, che si
concreta attraverso colloqui in profondità o nel far sperimentare al migrante la
realtà che lo circonda attraverso una simulazione che faccia emergere i vissuti
soggettivi rispetto a:
• Disponibilità personale all’inserimento in un nuovo contesto culturale,
caratterizzato a sua volta da presenze multiculturali
• Disposizione personale all’accompagnamento nel percorso
• Disponibilità e capacità di apprendimento
137
Ad esempio la consapevolezza dell’attraversamento di una fase personale
di transizione evolutiva, che comporta la capacità di elaborazione delle
sofferenze legate all'immigrazione; capacità di entrare in rapporto con gli altri
in una prospettiva di mediazione culturale con il territorio e i soggetti presenti
in esso, capacità autocritica rispetto ad eventuali difficoltà d’inserimento
sociale, e capacità di identificare anche le proprie potenzialità, specie per ciò
che riguarda la dimensione vocazionale; capacità di tener conto dei consigli di
persone più esperte; disponibilità flessibile a cogliere eventuali opportunità
offerte dall'ambiente; riconoscimento dell'importanza del confronto con gli altri
per imparare e consapevolezza della possibilità di incidere sul proprio
apprendimento attraverso diverse modalità (osservare, chiedere spiegazioni,
studiare, provare a sperimentare).
2. Il passaggio relativo alla realizzabilità del progetto personale: questa
fase corrisponde alla capacità di delineare un progetto personale di vita nel
quale possa concretizzarsi l’idea lavorativa di partenza. Per verificare il
realismo del progetto personale si prevedono uno o più colloqui con tutor
formativi o con eventuali esperti dei rami professionali interessati, e anche
la possibilità di svolgere brevi stage orientativi. Si rende necessaria una
verifica delle competenze: con particolare attenzione alle competenze di
base che i migranti si portano dal Paese d’origine; ed un bilancio di
preferenze, con particolare riferimento alle attitudini proprie del gruppo
etnico di riferimento. Questa fase si conclude nel momento in cui la
persona ha elaborato un progetto personale che corrisponde alle sue
caratteristiche personali, alle necessità reali del mercato del lavoro e alla
fattibilità dell'impegno sia come sforzo formativo che come autonomia
finanziaria.
3. Il passaggio al possesso di competenze adeguate: corrisponde alla
presenza nella persona migrante di tutti i requisiti richiesti dalla figura
lavorativo-professionale indicata. Tale verifica può comportare un sostegno
individualizzato volto ad integrare eventuali carenze ed a fornire le basi per
una qualificazione professionale, prevedendo anche l’uso di strumenti
multimediali;
Si rende inoltre necessario coinvolgere soggetti differenti in un reale lavoro
cooperativo di rete:
• La scuola, sia per ciò che concerne il recupero dell’obbligo, sia per
la prosecuzione degli studi. In molti casi è possibile riconoscere, attraverso
una certificazione da parte delle scuole di lingua per stranieri,
la conoscenza della lingua italiana sostitutiva all’obbligo scolastico
(specialmente per i soggetti adulti che comunque non hanno la possibilità
di frequentare sistematicamente, per un lungo periodo dei corsi di
lingua italiana);
138
• La formazione professionale per l’acquisizione di competenze qualificanti.
• Lo stage formativo per i moduli di alternanza.
• Altre opportunità in base ad esigenze diverse
Questa sinergia è importante per concordare eventuali riconoscimenti di
crediti formativi che possono essere utilizzati per il conseguimento della
qualifica, per il completamento dell’obbligo, per la continuazione degli studi.
É da sottolineare l’importanza della collaborazione tra la scuola e la formazione
professionale regionale per la condivisione di criteri comuni riguardo alle
competenze linguistiche che si ritengono, di volta in volta, indispensabili per
la frequenza dei corsi di formazione.
Le opportunità offerte sono vagliate da una fase di bilancio in cui il
migrante vede acquisite le proprie competenze, consentendo al massimo la
valorizzazione dei crediti formativi e la progressione su cammini adeguati alle
caratteristiche personali. Ciò significa che gli utenti migranti potranno usufruire
in modo diversificato di una gamma di opportunità, offerte sulla base di un
progetto che impegna reciprocamente il tutor formativo e gli operatori dei vari
organismi coinvolti.
Questa fase termina con un “bilancio” che prevede la validazione delle
competenze acquisite, e con la consegna di un “portfolio” su cui sono iscritte
tali competenze e le modalità di acquisizione. In coda a questa fase, sono
previste altre due unità: una di inserimento lavorativo e una di monitoraggio e
di “ritorno formativo” durante l’esperienza di lavoro, in una logica di
accompagnamento e di continuità.
Dall’orientamento alla formazione
La metodologia dell’orientamento e dell’analisi di competenze dovrà
sfociare in dispositivi di formazione possibilmente organizzati secondo le
seguenti metodiche:
• alternanza tra scuola e lavoro: si tratta di garantire, in orario scolastico,
un tempo per esplicitare le dinamiche incontrate sul lavoro, che consenta
di chiarire eventuali problemi connessi alle mansioni e ai ruoli, oltre che
alla individuazione di nuove abilità o competenze da acquisire, rinforzare
ed attualizzare. Ciò può essere svolto dal tutor pedagogico in
collaborazione con il formatore tecnico, prevedendo quindi, sia riunioni in
classe con gli allievi, sia riunioni di équipe tra operatori.
• cooperazione con organismi diversi, ed in particolare con le scuole e
con le imprese, al fine di poter progettare una eventuale sinergia di
interventi formativi appropriati, che potranno essere frequentati anche
in parallelo.
139
• monitoraggio e sostegno: si tratta di acquisire, anche per i migranti, gli
stessi strumenti di verifica che vengono utilizzati per l’ottenimento della
qualifica da parte degli allievi italani; ciò è particolarmente importante per
quei migranti che sono ancora a ridosso della Prima accoglienza o che sono
appena passati dallo status di minori a quello di adulti
• valutazione-validazione in itinere ed ex-post dell’intero dispositivo e delle
sue azioni in rapporto ai seguenti ambiti :
*
*
*
*
*
*
*
*
Recupero motivazionale in un contesto interculturale e multiculturale;
Progetto personale ed accompagnamento;
Efficacia formativa nel definire gli obiettivi;
Sbocchi occupazionali;
Continuità del percorso lavorativo;
Vita sociale di integrazione nella diversità;
Sinergie tra operatori e capacità di collaborare in team;
Capacità di diffusione delle innovazioni didattico/formative.
7.3. Le figure del tutor e del mediatore culturale
Il tutor e il mediatore culturale rappresentano due figure chiave per la
possibilità di sperimentare percorsi di collaborazione tra le diverse aree che si
occupano dei soggetti migranti. Il tutor e il mediatore culturale, nei loro
specifici ruoli, di seguito esemplificati, possono svolgere una fondamentale
funzione di collegamento tra i diversi soggetti con i quali il migrante interagisce
(per esempio i docenti della scuola e della formazione, le strutture di
accoglienza e il contesto di inserimento lavorativo). Essi rappresentano così
figure che possono agevolare rapporti di collaborazione coerente tra i soggetti
della rete nell’interesse del migrante stesso.
7.3.1. Il ruolo del tutor secondo diverse prospettive
Il tutor può essere definito come una figura di supporto alla persona che
si trova in una condizione di transizione, di spaesamento o di temporanea
fragilità; esso ricopre il ruolo di accompagnamento in un percorso, all’interno
di un determinato contesto sociale e organizzativo, circoscritto nello spazio e
nel tempo e finalizzato alla ridefinizione dell’autonomia e dell’identità della
persona in difficoltà.
L’etimologia del termine “tutor” riporta a tutus, “sicuro”, con il significato
di “faccio sviluppare”, “rendo sicuro”, “guardo”; si comprende automaticamente
come il nucleo più autentico della parola, è “rappresentato dalla tensione verso
la crescita, l’autonomia, il potenziamento di colui che è stato affidato”
(Quaglino, 1999, pag. 225).
Il ruolo del tutor è particolarmente importante nella formazione e nella
crescita dei minori migranti, cui spesso viene a mancare una figura genitoriale
140
stabile, proprio nella fase adolescenziale, così delicata per la costruzione della
propria identità.
La figura del tutor è comunque un necessario supporto anche per qualsiasi
migrante adulto, perché l’improvvisa mancanza di una rete di riferimento già
consolidata (da quella parentale più prossima a quella più estesa) non consente
al soggetto di muoversi autonomamente per soddisfare le proprie esigenze: in
un certo senso l’immigrato torna a essere bambino e dovrà conoscere nuove
regole e misurarsi con la società di accoglienza.
Attualmente la figura di tutor esiste “di fatto”, ma non è ancora prevista e
regolamentata in modo formale; le funzioni del tutor sono quindi definite in
modo vario dai diversi attori della rete e ogni attore della rete tende a costruirsi
una sua idea di tutor. Tuttavia, l’opinione comune è che il tutor dovrà puntare
all’autonomia del soggetto attraverso un intervento che progressivamnete
tenderà a ridursi.
Oggi prevale quindi il criterio di una centratura sul partecipante,
sottolineando la necessità di attivare progetti formativi articolati e flessibili in
cui il soggetto “possa esercitare ampia autonomia nel dirigere il proprio
percorso di apprendimento, sino a prevedere vere e proprie occasioni di
formazione individualizzata, uno a uno, interamente finalizzate ad esplorare e
affrontare i bisogni specifici di crescita e sviluppo di un particolare discente”
(Quaglino, 1999, pag.223).
Il tutoring consiste nel seguire il soggetto nella sua globalità, facendo
sviluppare tutte le sue dimensioni di sapere (Arenzi, 1996, pag.49).
L’obiettivo principale della missione del tutor è la creazione di un
legame tra il mondo della conoscenza e il mondo dell’esperienza, attraverso
diverse azioni:
• analisi dei bisogni formativi, delle competenze possedute e delle
aspettative di sviluppo del soggetto;
• identificazione delle opportunità di apprendimento presenti nel contesto
(corso, stage..) e congruenti ai bisogni individuali;
• monitoraggio dell’andamento della formazione, senza però mai assumere
un atteggiamento giudicante;
• garantire il funzionamento di sottogruppi, come momenti di
coinvolgimento attivo, di interazione e di clima relazionale;
• collaborazione con i formatori nell’attività di verifica dei risultati, in
particolare nei follow up di medio e lungo periodo (Quaglino 1999,
pag.226).
Queste diverse funzioni possono, in alcuni casi essere svolte da un’unica
persona e in altri casi essere disgiunte, prevedendo diversi tipi di tutor.
Ad esempio Alma Mater distingue da tutor mediatore a tutor formativo; il
Cedritt tra tutor interno detto anche co-docente di mediazione (considerato
utile soprattutto nei corsi professionale più tecnici) e un tutor esterno, detto
anche assistente al placement; la Casa di Carità Arti e Mestieri prevede un tutor
formativo-interno e uno aziendale-esterno…
141
ALMA MATER
Si ricorda che l’Alma Mater80, associazione interculturale di donne, si
occupa di sostenere, attraverso l’incontro e il confronto diretto, donne con
problemi collegati ai bisogni di prima e seconda accoglienza (lavoro, casa,
assistenza ai figli..); il compito del Centro è quello di decodificare i bisogni di
questa specifica, la donna migrante, indirizzandola agli operatori dei servizi
territoriali in base alle esigenze e alle attese.
Proprio in questa direzione il Centro ha sentito la necessità di chiarire la
funzione di un tutor che conoscesse bene la realtà torinese, che capisse i
bisogni delle donne e fosse sentito come figura rassicurante, in grado di
accompagnare e orientare verso la stabilizzazione (problemi familiari, rapporto
con figli/mariti, ricongiungimenti, salute, socializzazione…).
Il tutor ha quindi una funzione di mediatore culturale, di filtro tra utenti
stranieri e servizi della rete.
Esso svolge così un compito orientativo, gestendo l’intero percorso di
orientamento alla scelta, curando i passaggi nelle varie fasi dell’intervento,
attraverso un atteggiamento promozionale nei confronti del soggetto verso il
recupero di motivazioni e dell’autostima.
CEDRITT
Il Cedritt, Centro di Documentazione e di Ricerca sui Trasferimenti di
Tecnologie, vede il tutor come co-docente di mediazione con un ruolo di
supporto per il formatore in aula e per il corsista; infatti la didattica
interculturale non è automatica soprattutto con utenza con grandi difficoltà
linguistiche.
Questa figura del co-docente è formalizzata nella provincia di Savona per
i corsi di formazione rivolti a extracomunitari; è vista come punto di riferimento
necessario per la verifica della buona riuscita del corso a livello di
partecipazione - soddisfazione dell’utenza e di maggiore credibilità dell’ente.
È inoltre fondamentale la presenza di un altro tutor, detto assistente al
placement che affiancherà il migrante alla fine del corso nella ricerca del lavoro
certificando le competenze acquisite. Questa funzione si definisce nella figura
di addetto alla presa in carico, punto di riferimento per informazioni tempestive
e individualizzate, una specie di “sportello personalizzato”.
Questa procedura è prevista ma non formalizzata, si muoverà quindi
cercando da una parte di seguire le normative e dall’altra di rispondere alle
esigenze specifiche del soggetto e alla domanda del territorio.
Anche all’interno di un progetto promosso dal Cedritt e dal Forum
Antirazzista, realizzato a Genova, il corso di formazione professionale per
addetti all’accoglienza con compiti di mediazione culturale era seguito da due
tutor: uno interno al Centro dove si svolgevano le lezioni e uno esterno per la
gestione dello stage.
80 Si veda anche il testo a cura del Centro interculturale delle donne, Progetto Alma Mater (1998).
142
I due tutor, innanzitutto, erano membri della commissione esaminatrice
nella fase di selezione dei corsisti, momento sicuramente importante per
cominciare a conoscere le tipologia dell’utenza. I tutor sono occupati dei
contenuti del corso, della messa a punto degli orari, confrontandosi con i
docenti su contenuti formativi, sul materiale didattico e di consultazione e sulle
modalità di verifica.
Il tutor esterno si è occupato dell’organizzazione dello stage, mantenendo
aggiornato il rapporto con la figura professionale addetta all’affiancamento del
corsista all’interno del servizio previsto.
Il tutor esterno aveva quindi il compito di controllare gli inserimenti,
mantenere i rapporti tra ente, formatore e operatore di servizio. La scelta dei
corsisti inseriti nei servizi non è stata del tutto casuale; infatti si teneva conto
delle attitudini, delle motivazioni personali e della disponibilità del soggetto
unitamente alle esigenze suggerite dagli operatori dei servizi.
Entrambi i tutor hanno cercato di prevedere per tutti i corsisti ampi spazi
di confronto individuale, come momenti per manifestare il proprio assenso e
dissenso riguardo a tutto ciò che accadeva nel corso; hanno privilegiato il
rapporto diretto con i migranti più che il pacchetto di nozioni (conoscenze) da
impartire, puntando più sul “saper essere” che sul “saper fare”.
Il legame che il tutor instaurava con i corsisti era incentrato sulla
sincerità, soprattutto nel chiarimento delle opportunità lavorative reali
alla fine del corso.
CASA DI CARITA’ ARTI E MESTIERI
All’interno della definizione di tutorato sono previste due figure, tutor
formativo e tutor aziendale.
Al tutor formativo sono richieste alcune competenze come la capacità di
condurre un gruppo in formazione di organizzazione e di progettazionevalutazione e di gestione della “rete comunitaria e sociale”.
Le sue funzioni, definibili nell’ambito dell’accoglienza del migrante,
riguardano:
• Il contatto e la creazione di relazioni significative di sostegno alla persona.
• L’orientamento e la valorizzazione della realtà e delle esperienze del soggetto.
• Le indicazioni concernenti il processo di apprendimento acquisito nella
fase formativa conclusa con l’attestato di frequenza.
• Le informazioni essenziali da comunicare inerenti al tirocinio, al
regolamento e agli orari di lavoro, al contributo economico.
• La predisposizione di interventi, come le convenzioni e i contratti di
tirocinio individualizzati e personalizzati, le formalità amministrative, la
visibilità della presa in carico del soggetto migrante.
• Pianificazione degli incontri individualizzati con il corsista, prevedendo
anche eventuali rientri nell’arco dello stage.
143
Nello stesso tempo il tutor formativo si occupa della gestione del tirocinio
in collaborazione con l’impresa: elabora la scheda per ogni allievo, ricerca le
imprese disponibili, predisponendo un percorso individualizzato di stage
formativo, e verifica in itinere il percorso di tirocinio
Come il tutor formativo, anche il tutor aziendale deve avere specifiche qualità
di disponibilità, capacità di ascolto e conoscenza approfondita del mestiere.
Le sue funzioni comprendono i seguenti ambiti:
1. Accoglienza del migrante nell’impresa:
• comunicazione delle informazioni essenziali (depliant dell’impresa,
orari di lavoro, regolamento interno)
• sistemazione e inserimento del soggetto nel posto di lavoro, consegna di
strumenti di lavoro, del vestiario e delle formalità amministrative
• chiarimento del rapporto con il personale (funzioni del singolo addetto o
reparto, pianificazione degli incontri, impiego del tempo di presenza in
impresa)
• gli obiettivi del tirocinio ( presentazione del posto di lavoro, le altre
persone che presidiano lo stesso posto, ciò che il tirocinante dovrà fare
nell’impresa)
2. Trasferimento del saper-fare, soffermandosi sulle difficoltà, sulle priorità
relative all’incarico affidato e sulle misure di sicurezza
3. Valutazione finale delle competenze professionali acquisite dal corsista e
eventuali bisogni formativi, attraverso schede tecniche di valutazione e
auto-valutazione fornite dall’Agenzia formativa (puntualità, spirito di
équipe, autonomia, efficacia, lavoro personale…)
4. Dialogo in itinere con il tutor formativo.
Dai contributi dei vari Enti emerge chiaramente come il tutor sia una figura
essenziale per la riuscita di un percorso formativo.
La conoscenza delle realtà locali (dei vari Servizi per migranti), buone
capacità di mediazione culturale, l’abilità di individuare un percorso in termini
evolutivi, la capacità di orientare senza dirigere la vita altrui risultano
caratteristiche comuni alle diverse funzioni del tutor. Tuttavia, per ogni
progetto, occorre tener conto di alcune specificità, come il genere di utenza
(donne uscite dalla tratta della prostituzione o minori), l’età (Progetto minori,
Progetto al femminile), provenienze etniche (mondo arabo, Africa nera, Est
Europa...) ed i settori di inserimento aziendali (tecnico aziendale, commerciale,
mediazione culturale…).
7.3.2. Organizzazione dello stage
Per un Centro Professionale si tratta di un compito molto impegnativo, che
comprende diverse fasi di lavoro: la contattazione dei responsabili dei servizi
(sociali, sociosanitari, centri di accoglienza) o di imprese private (nel settore
metalmeccanico, tessile, alimentare ecc. a seconda dei corsi), la definizione
144
dell’iter burocratico-amministrativo per arrivare alla stipula delle convenzioni,
la collaborazione alla definizione dei percorsi formativi, diversificati in base
alla tipologia e all’organizzazione sia dei servizi-aziende sia alle aspettative
dell’utenza81.
I corsisti sono affiancati da diverse figure professionali (tutor aziendali)
presenti all’interno di ogni servizio/azienda secondo tempi e modi che sono
definiti caso per caso all’inizio del periodo di stage.
In questa fase è importante che il tutor formativo (cioè quello interno al
Centro Professionale) segua gli inserimenti e mantenga i rapporti tra Ente
formatore e operatori dei Servizi o aziende (tutor aziendali).
Quale è la specialità di uno stage per un migrante rispetto
ad un italiano? Come cambia la modalità di contatto con l’impresa?
Lo stage per migranti richiede una particolare attenzione sia nella ricerca
dell'azienda sede di stage, sia nel monitoraggio e tutoraggio dello stage stesso.
Nella ricerca dell’azienda si cerca di contattare aziende che possano
presentare le potenzialità per una eventuale assunzione. Per i migranti, ancora
più che per gli italiani, lo stage è un momento in cui farsi conoscere e far
vedere quanto realmente si vale al di là dei luoghi comuni. In secondo luogo
è necessario individuare aziende dove davvero gli allievi saranno affiancati e
seguiti nell'apprendimento. Molto spesso si approfitta della presenza dello
stagista migrante per utilizzarlo in mansioni diverse da quelle previste dallo
stage: ad esempio è capitato che due ragazze del corso di ristorazione siano
state utilizzate esclusivamente per fare le pulizie di primavera dei locali.
Diventa molto importante, quindi, ad inserimento avvenuto, monitorare lo
stage sia attraverso visite periodiche presso le aziende sede di stage, sia
attraverso il rientro settimanale degli allievi presso il Centro formativo,
momento fondamentale per analizzare eventuali problemi e situazioni
conflittuali emersi e stabilire eventuali interventi concordati.
Il rapporto tra stage e corso: lo stage è un bagaglio aggiuntivo
e autonomo rispetto al corso, oppure è solo una messa a fuocodi
ciò che il corso ha proposto? Esiste un ritorno positivo per
il corsista migrante?
L’esperienza di stage è parte integrante del corso; l’allievo nel periodo di
stage può mettere a confronto le conoscenze acquisite durante le lezioni
teoriche con l’esperienza lavorativa diretta trasformando le sue conoscenze in
competenze acquisite. Inoltre lo stage permette all'allievo di confrontarsi con il
mondo del lavoro, e questo per un allievo migrante vuol dire entrare in
contatto con un mondo scandito da orari particolari, ritmi di lavorazione,
relazioni sociali che sono spesso diversi rispetto a quelli proposti nel CFP.
81 Alla Casa di Carità si occupa di tutti questi compiti un tutor interno, specifico per i corsi dei migranti.
145
Come avviene la gestione di aspetti conflittuali legati all’inserimento
nella sede prevista per lo stage, se non coincide con quello voluto
dal corsista?
Quando un corsista chiede di cambiare la sede di stage assegnatagli si cerca
sempre di comprendere quali siano i motivi reali che lo inducono a fare
una richiesta del genere. Molto spesso la vera ragione è la distanza dalla
propria abitazione o il lavoro considerato troppo duro e frenetico. In tal caso
lo si cerca di convincere a proseguire poiché è necessario che impari
ad inserirsi nella realtà lavorativa che offre il territorio; l’obiettivo è anche
aiutarli ad integrarsi entrando in contatto con situazioni lavorative reali
e non addolcite.
Stage individuale/collettivo per migranti: in base a quali criteri si
arriva alla scelta? Quali effetti?
Se l’allievo viene inserito in aziende piccole (è il caso dei ristoranti per
il corso “Servizi di ristorazione di base” e delle sartorie per il corso “Taglio
Cucito - Riparazioni”) generalmente lo stage è individuale in quanto le aziende
di questo tipo, spesso a gestione familiare, non sono in grado di accogliere
e di seguire più di un allievo alla volta. Se l’azienda ha dimensioni maggiori
si chiede di accogliere almeno 2 allievi contemporaneamente: questo permette
di affiancare gli allievi che hanno maggiori problemi con l’italiano, o che
semplicemente incontrano maggiori difficoltà con la nostra cultura,
con allievi più disinvolti che possano guidarli. E’ il caso del corso per
“Mediatori Interculturali” dove la presenza in coppia permette anche di fornire
una varietà di gruppi etnici all’interno della stessa azienda, rendendo più
preziosa la loro presenza.
Quali difficoltà si incontrano durante lo stage per quanto riguarda
gli orari, la puntualità, le assenze nel caso di allievi migranti rispetto
agli italiani?
Molti migranti hanno una concezione del tempo e degli orari molto
diversa dalla nostra, per cui è necessario insistere sul rispetto degli orari e
sulla frequenza assidua del corso fin dall'inizio delle lezioni. Nel momento
dello stage bisogna insistere maggiormente, facendo comprendere che la
serietà del lavoratore si vede anzitutto dal rispetto di queste semplici regole.
Solitamente lo stage avviene dopo almeno 5 mesi di corso, e la maggior
parte degli allievi a quel punto ha imparato a rispettare gli orari. Ciò che
risulta più difficile è abituarli ad avvertire telefonicamente le aziende in caso
di assenze o ritardi. In questo caso negli anni scorsi è risultato efficace
responsabilizzarli, facendo loro comprendere che l’azienda conta su di loro
per proseguire il lavoro, che è importante segnalare tempestivamente
l’eventuale assenza in modo che l'azienda possa organizzarsi per tempo.
146
7.3.3. Il ruolo del mediatore culturale all’interno di un
centro professionale o nella scuola
Il mediatore culturale è ancora un ruolo in una tappa nascente, “debole”,
dai difficili confini. Spesso prevale la visione che ritiene l’intervento di
mediazione legato solo ad una prima fase emergenziale del processo
migratorio, finalizzata ad assicurare allo straniero l’accesso a certi diritti legali e
sociali basilari82.
Il profilo del mediatore culturale risulta quindi essere finalizzato al
miglioramento del rapporto di comunicazione tra istituzioni/servizi e utenti.
In questo senso la funzione corrisponde a quella di intermediazione
linguistico-culturale-comunicativa tra utente e servizio; l’abilità e la competenza
del mediatore sono collegate alla capacità di fungere da filtro dei bisogni
sommersi e visibili dei migranti verso l’elaborazione di strategie d’inserimento
e stabilizzazione nella realtà di accoglienza.
Il mediatore non va inteso solo come interprete della propria cultura: la
cultura d’origine è il punto di partenza da cui si opera un confronto con altre
culture. Si tratta quindi di mettere in relazione differenti identità, attraverso un
sistema di reciprocità e di scambio, che crei le premesse per l’utilizzo e la
comprensione di regole di vita e di organizzazioni sociali differenti.
I mediatori culturali assumono, in questo senso, un ruolo importantissimo
di supporto e consulenza per gli operatori dei servizi o attori istituzionali, dal
settore socio-sanitario a quello assistenziale, legale…
Durante il corso dagli interventi dei formatori e degli insegnanti delle
scuole per stranieri è emersa la necessità di promuovere e estendere all’ambito
della scuola la figura del mediatore culturale non ancora prevista e formalizzata
(come d’altronde anche in molti altri settori), soprattutto nei casi di corsi che
si rivolgono specificamente a utenza migrante.
In questo senso si è mossa la Casa di Carità Arti e Mestieri, inserendo da
alcuni anni 83 due mediatori culturali con alcuni compiti specifici:
• supporto al formatore nella gestione di questioni critiche interne alla classe
con interventi appropriati di mediazione nei casi di conflitti interreligiosi o
interculturali…84;
• sostegno in attività didattiche, soprattutto per i soggetti con maggiori
difficoltà linguistiche (previste alcune ore in lingua d’origine nei corsi per
minori stranieri);
82 Per quanto riguarda il ruolo del mediatore nell’ambito sanitario si veda il testo curato da Franca
Balsamo (1997), che riunisce i contributi di diversi ricercatori torinesi sul tema della maternità delle
donne migranti.
83 All’interno della Casa di Carità lavorano due mediatori culturali (due donne, una Zairese e una
albanese) dall’anno ’98-’99. Inoltre nello Sportello di orientamento al lavoro (O.L.M.) sono state
concordate alcune ore, in cui è prevista la presenza di una mediatrice culturale.
84 Nell’anno scolastico ’98 -’99 nel corso dei Mediatori Culturali era prevista in tutte le ore di docenza
la “co-presenza” in aula delle due mediatrici (alternate una al mattino e una al pomeriggio), come
supporto al docente sia nella funzione di interpretariato linguistico, sia nell’ambito disciplinare in
caso di conflitti interculturali.
147
• collaborazione con il tutor interno nella stipula delle convenzioni di stage
e accompagnamento dei corsisti durante il periodo di stage (seguire gli
inserimenti e lo svolgimento dell’esperienza, mediando nei casi di
incomprensione tra il Servizio/azienda e il migrante);
• guida e eventuale accompagnamento ai servizi territoriali per stranieri in
base alle specifiche richieste del soggetto (regolarizzazione o altri tipi di
documentazione, inserimento abitativo, problemi di ricongiungimenti
familiari, supporto psicologico... );
• ascolto e orientamento nell’inserimento professionale o lavorativo del
singolo migrante: incoraggiare a pensare a progetti, a spazi operativi
possibili, partendo dai bisogni e dalle competenze individuali.
7.4. I criteri di valutazione
dei prerequisiti linguistici
Ricordiamo che nel corso Formazione Formatori è emersa la necessità di
condividere la consapevolezza dell’utilità di stabilire criteri di individuazione
dei prerequisiti linguistici per l’ammissione ai corsi e di armonizzarli prendendo
in considerazione anche la dimensione della certificazione.
Abbiamo già visto che, a questo proposito la Scuola e la Formazione
Professionale, spesso, sono riferite a vincoli differenti. Una ridefinizione della
percezione dei rispettivi vincoli potrebbe condurre quindi ad una soluzione
standard, condivisa a livello locale, che prendesse in considerazione sia le
proposte della CILS 85, sia le proposte elaborate dalle scuole.
Per un Centro professionale la definizione dei prerequisiti di accesso è una
esigenza strettamente connessa alla buona riuscita del percorso formativo; la
conseguente selezione iniziale può portare senz’altro un vantaggio a chi entra,
ma può essere positiva anche per chi è escluso se, a quest’ultimo, vengono
date spiegazioni e proposte delle alternative.
Dovrebbe, infatti, costituire un obiettivo prioritario che il percorso sia
evolutivo, che il migrante migliori la stima di sé, che provi gusto ad imparare
e che possa verificare la possibilità di intraprendere percorsi flessibili, adatti al
suo livello attuale, che non precludano avanzamenti successivi.
7.4.1. Prerequisiti linguistici per la formazione di una classe
Quali criteri bisogna seguire nella formazione della classe che trova al suo
interno soggetti con un diverso livello di conoscenza della lingua seconda? Come
è emerso negli incontri con docenti/esperti nell’insegnamento linguistico in corsi
per stranieri, nella definizione di prerequisiti il criterio considerato non è stato
tanto il livello di alfabetizzazione nella lingua seconda, ma i percorsi di scolarità
pregressa nei paesi d’origine. Due studenti della stessa età, della stessa nazionalità,
85 Si veda il capitolo 8 sulla Cils.
148
con un’identica conoscenza della lingua italiana (arrivati dallo stesso tempo in
Italia), ma con livelli di scolarità differenti (es. analfabeta totale in lingua madre e
diplomato) verranno inseriti in classi totalmente diverse: il materiale proposto, il
linguaggio dell’insegnante, la scelta degli argomenti, e soprattutto la prassi
didattica si adeguano infatti a stili cognitivi completamente diversi.
7.4.2. Prerequisiti linguistici specifici
di accesso ad un corso professionale
Nell’ambito dei corsi professionali per migranti la Casa di Carità Arti e Mestieri
ha definito alcuni prerequisiti minimi di accesso ai corsi per quanto riguarda
l’ambito linguistico: a seconda della tipologia del corso è stato previsto un test
d’ingresso, in cui viene anche valutato (oltre all’aspetto psico-attitudinale) il grado
di alfabetizzazione nella lingua seconda e stabilito un livello minimo di
preparazione necessaria. Ovviamente nel caso di corsi per Mediatori Culturali il
livello di conoscenza dell’italiano richiesto sarà medio-alto (3° livello), mentre in
altri corsi è sufficiente il secondo livello (es. corsi di ristorazione, taglio e cucito,
elementi di officina meccanica).
Ciò che emerge e che differenzia le Scuole di italiano per stranieri da un
Centro Professionale è proprio questo aspetto: il migrante analfabeta nella seconda
lingua può essere inserito in un corso di alfabetizzazione presso un Centro
Territoriale Permanente, mentre nel caso di un corso professionale la non
conoscenza totale della lingua italiana può provocare una comprensione troppo
limitata degli argomenti trattati, soprattutto nell’ambito tecnico/pratico.
Un altro nodo dei corsi professionali è che spesso per esigenze progettuali (le
tipologie e il numero di migranti che hanno richiesto l’iscrizione al corso) in una
stessa classe si trovano diversi gradi di preparazione linguistica (livello basso con
livello medio-alto) oppure diversi livelli di scolarizzazione pregressa (es. 3 anni di
elementari con diplomati). In questo senso va letta la scelta della Casa di Carità
Arti e Mestieri che nel caso di corsi per minori collabora direttamente con le
Scuole per Stranieri (Parini-Braccini e altri C.T.P.) per le scelte di inserimento dei
futuri allievi: nella maggioranza dei casi è iscritto un minore che ha frequentato o
che sta frequentando corsi di alfabetizzazione o di 150h86.
Emerge quindi la necessità di condividere un criterio comune tra tutti gli attori
della rete: Che cosa significa buona conoscenza della lingua per ogni Ente?
È importante stabilire livelli chiari di conoscenza della lingua italiana condivisi
da Provveditorato, Scuole per Stranieri, Formazione professionale regionale e
Servizi Territoriali. Inoltre dovrebbe risolversi il nodo del riconoscimento e
certificazione dei livelli linguistici dei migranti; una risorsa, se valorizzata, potrebbe
essere la certificazione di conoscenza della lingua italiana CILS, che individua
chiaramente 4 livelli 87.
86 Esiste una griglia di 5 livelli di conoscenza della lingua italiana stabilita dalla scuola di lingua per
stranieri (Parini) e accettata dalla Casa di Carità Arti e Mestieri per l’inserimento dei futuri partecipanti
al corso, ma non formalizzata in modo chiaro.
87 Come già detto si veda il capitolo 8 sulla Cils.
149
Un altro grande nodo critico è la mancanza, per la maggioranza degli
immigrati, di titoli di studio riconosciuti in Italia o la frequenza di situazioni di
sotto-scolarizzazione; anche in questo caso è fondamentale che chi si occupa di
formazione valorizzi l’importanza di iscriversi a corsi statali di alfabetizzazione o
150 h, finalizzati al conseguimento del titolo di studio italiano della scuola
dell’obbligo. Il migrante vedrebbe così accresciuta la sua professionalità
“spendibile sul mercato” e le sue abilità linguistiche e scolastiche complessive.
7.5. Conclusioni
È importante che tutti gli attori della rete siano a conoscenza delle
problematiche relative all’accoglienza, per comprendere meglio il percorso del
migrante e la sua situazione di vita attuale, evitando di abituarsi ed abituare il
migrante all’idea di essere un potenziale assistito a tempo indeterminato.
Infatti, come ha ricordato don Fredo Olivero88, un problema molto sentito
dagli operatori dell’accoglienza è che spesso il migrante, inserito stabilmente in
una comunità/alloggio e quindi alleggerito del problema del pagamento di un
affitto, rischia di trovarsi in una situazione di “immobilità”, perdendo lo stimolo
iniziale della ricerca del lavoro.
Anche la formazione professionale tende spesso, almeno nella fase iniziale, a
non essere inserita nel proprio progetto personale; i migranti al limite accettano i
corsi finanziati con le borse lavoro, che permettono un introito orario, anche
se minimo 89.
Come contrastare quindi il rischio di una cultura assistenzialistica? Bisogna
partire con il chiedersi chi sia l’immigrato tipo che arriva in un centro di
accoglienza. Quasi nessuno ha un curriculum con esperienze professionali e
lavorative significative; pochi hanno una conoscenza adeguata della lingua italiana.
In questi casi la rete informale che lega il centro di accoglienza con gli altri
soggetti della rete acquista un’importanza significativa nel progetto di inserimento
del singolo migrante.
Da quanto detto, emerge come la fase dell’accoglienza debba essere una
parentesi a “tempo limitato” per evitare il rischio di promuovere, invece, l’aumento
di assistiti passivi senza un progetto di autonomia e crescita personale.
In questo senso è centrale la funzione della scuola e della formazione
professionale regionale, che possono inserirsi nei momenti di assestamento e di
crisi, con l’obiettivo di favorire l’entrata nel mondo del lavoro a pari titolo
di un italiano.
88 Si veda la relazione - intervista di don Fredo Olivero, responsabile della Caritas, Servizio Migranti di
Torino, presentata al corso di formazione nella giornata sull'accoglienza, riportata nel cap.6, par.6.2.
89 Solo le fasce deboli o marginali, come i minori soli, le donne vittime di sfruttamento o donne con
figli, vedono nella formazione professionale l’unico mezzo per trovare lavoro. Un esempio è il
Progetto al femminile per un gruppo di donne nigeriane, inserite in un corso di 200h di cucina, lavori
domestici e assistenza anziani; questo corso è risultato essere uno strumento indispensabile per
permettere alla donna straniera di acquisire delle competenze professionali specifiche per inserirsi
nel mercato del lavoro.
150
Capitolo 8
CILS - Certificazione di Italiano
come Lingua Straniera 90
Gioia Maestro
8.1. Premessa
Questi appunti sono stati redatti utilizzando le informazioni contenute nelle
linee guida alla CILS, pubblicazione realizzata dall’Università per Stranieri
di Siena, nel giugno del 1998.
Alcuni dati riportati non sono oggi più gli stessi, dal momento che la
riflessione nazionale ed europea intorno ai prodotti certificatori si è da allora
ulteriormente sviluppata, anche in ragione della necessità di accelerare il
processo di uniformazione degli standard formativi all'interno dell’Unione.
Nei nuovi assetti prefigurati, come emerge del resto dal disegno della
riforma Berlinguer, si profila la necessità di introdurre al termine di ogni
itinerario di apprendimento, non soltanto quelli curricolari, la possibilità di
conseguire, previa congrua verifica, un titolo formalmente riconosciuto.
La certificazione del traguardo raggiunto è al contempo test che misura la
conoscenza e la competenza acquisite e titolo eventualmente spendibile con il
suo “alone” di ufficialità, sul mercato del lavoro.
C’è poi un’altra valenza, forse meno immediatamente visibile delle altre,
ma, a mio avviso, altrettanto fondamentale: il certificato è l’esercizio del diritto
al riconoscimento personale e sociale di un pezzo di strada che la persona ha
già comunque percorso.
L’introduzione dell'accreditamento formativo come prassi longitudinale
nella vita dei nuovi cittadini europei, è correlata dunque all’ipotesi di
un’esistenza flessibilmente segmentata nella ricorrente alternanza tra tempo
trascorso nell’ambito del lavoro e tempo speso a “fare altro”; “altro” che, se
intelligentemente impiegato e capitalizzato, è in grado di contribuire alla
possibilità di vivere il proprio essere “cives” in maniera più piena e
consapevole. Il tempo di “non negotium” infatti, non è necessariamente ed
esclusivamente tempo di “otium”, ma anche appunto, occasione per coltivare
talenti, saperi, abilità e conoscenze.
Molte delle istituzioni che erogano formazione nei più diversi ambiti del
sapere e del saper fare, tra cui il Settore Educazione del Comune di Milano per
cui io stessa lavoro come docente dei corsi di lingua italiana agli stranieri,
hanno recepito le nuove indicazioni.
90 Per ottenere la pubblicazione CILS linee guida e ogni altra informazione a riguardo, è possibile
rivolgersi a:
Università per Stranieri di Siena- Centro Certificazione CILS -Via Pantaneto, 105 - 53100 Siena
tel +39. 0577.240467/ 240462 - fax.+39. 0577.240461 e.mail: [email protected]
151
Una parte degli itinerari di apprendimento promossi nelle strutture civiche
deputate alla formazione, viene progressivamente e in parte finalizzata
all’ottenimento delle certificazioni.
La ricerca di partners produttori di titoli certificatori affidabili
(scientificamente costruiti e ben calibrati), è quindi parte integrante dell’attività
degli operatori della formazione.
La collaborazione con il Centro CILS dell’Università per Stranieri di Siena
nasce e si sviluppa in questo contesto. Avviata da circa tre anni, dovrebbe
portare entro il 2000 alla formalizzazione di un’intesa più ampia tra le due
istituzioni, volta a mettere in relazione chi insegna l’italiano con chi costruisce
le prove che misurano la competenza linguistica effettivamente posseduta.
L’intento finale ovviamente è quello di migliorare la qualità dell’offerta
formativa agli adulti stranieri in modo da facilitare il loro percorso di
integrazione.
Il presente contributo ha l’obiettivo di informare sulla CILS e in certa misura
“promuovere” un prodotto certificatorio che personalmente trovo qualificato.
Ho cercato anche di tracciare una sintetica panoramica storica, perché
penso che ogni informazione vada contestualizzata e integrata con
ragionamenti e richiami a punti di attenzione che scelte di questa portata
implicano, sia per chi insegna, sia per chi apprende.
8.2. Contestualizzazione
Un po’ di storia e qualche puntualizzazione di prospettiva
Quando nel 1908 Luigi Rava ministro della Pubblica Istruzione del governo
Giolitti emanava la prima circolare per la diffusione della lingua e della cultura
italiana all’estero, era probabilmente consapevole della marginalità di questo
aspetto nel quadro delle politiche educative di uno Stato tanto giovane e
altrettanto drammaticamente arretrato.
Prioritaria doveva apparirgli l’alfabetizzazione delle ingenti masse rurali e/o
di recente urbanizzazione, la cui precarietà economica e deprivazione culturale
toccavano livelli disastrosi.
Nel 1910 anno della presentazione del progetto di riforma elettorale del
ministero Luzzatti, che escludeva dal voto chi non sapeva leggere e scrivere, la
popolazione analfabeta sopra i sei anni toccava infatti il 37,6% degli italiani.
Peraltro, chi si fosse aspettato che la centralità assunta dalle tematiche
educative, soprattutto nel secondo dopoguerra, avrebbe dato maggiore
impulso alla promozione della lingua e della cultura italiana fuori dai confini
nazionali, sarebbe rimasto deluso: dopo quelle indicazioni, la questione sino
ad oggi è stata affrontata in pochissime altre circostanze: soltanto otto
provvedimenti in totale sino al 1996.
Non si può tuttavia imputare ai governi della prima metà del secolo
l’incapacità di immaginare un evento di rilevante portata storica, le cui reali
dimensioni non sono state colte nemmeno in tempi assai più recenti:
152
il nostro Paese, che a partire dall’unificazione nazionale ha espulso milioni di
persone da un mercato interno incapace di assorbire forza lavoro, verso la fine
del ventesimo secolo è andato compiutamente trasformandosi da terra di
emigrazione in terra di immigrazione.
Con gli inizi degli anni ottanta gli effetti della globalizzazione già avvertibili
a livello internazionale ed europeo, hanno investito pienamente anche l’Italia.
Accanto alla libera circolazione delle informazioni, delle merci e del denaro, i
nuovi assetti politici ed economici hanno determinato un forte incremento
nella mobilità degli esseri umani, mutando il volto delle nostre città, strade,
negozi, mercati e quartieri e, più lentamente, ma non meno profondamente, i
nostri comportamenti, i nostri consumi e le nostre abitudini.
Siamo abituati a considerare da sempre Roma, Firenze e Venezia meta
mondiale di pellegrinaggi religiosi e turistico-culturali ben sapendo che i
pellegrini, che affluiscono a milioni ogni anno, generalmente tengono in tasca
un biglietto di ritorno. In tempi recenti però, anche Torino, Napoli, Milano,
Palermo, Bari, Genova o Bologna si stanno rapidamente trasformando sotto i
nostri occhi in polis piene di cosmos, una quantità di persone la cui
permanenza non si esaurisce in settimane, ma contempla periodi misurabili in
mesi, anni, talvolta decenni.
Contestualmente abbiamo quindi visto crescere una nuova domanda di
apprendimento della lingua, spinta dalle esigenze di chi nel nostro Paese si è
trovato a vivere e/o con l’Italia e gli italiani ha sempre più spesso necessità di
interagire per motivi sociali e professionali.
Nel panorama europeo, del resto, altri hanno maturato significative
esperienze in questo campo, Francia e Gran Bretagna solo per citare gli esempi
più eclatanti. Le vicende coloniali di quei Paesi hanno favorito assai prima che
da noi la messa a punto di una strumentazione teorica e metodologica per
l’insegnamento delle rispettive lingue. La didattica dell’inglese o del francese ai
non anglofoni e ai non francofoni conta di fatto su di una prassi ultra
cinquantennale.
In Italia il fenomeno ha prevalentemente riguardato, sinora, la popolazione
adulta, e quindi non ascrivibile alla fascia scolare. È soprattutto per questo che
i primi segnali di recepimento normativo sono giunti più che dall’ambito
dell’educazione, dalla legislazione in materia di immigrazione, dalla cosiddetta
“legge Martelli” del 1986 al recentissimo regolamento applicativo della legge
40/98, “Disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”.
Naturalmente, in un futuro talmente prossimo da essere in molte realtà già
presente, la questione acquisirà tutt’altra fisionomia e, per l’aspetto che ci
interessa da vicino, ciò che oggi è numericamente ancora periferico diventerà
centrale. Coloro che si saranno stabilizzati economicamente (trovando un
lavoro); giuridicamente (sanando gli aspetti legali relativi ai permessi di
soggiorno); territorialmente (radicandosi in un piccolo, medio o grande centro
urbano); socialmente (accedendo ai servizi previsti per la popolazione
residente), acquisendo insomma i pieni diritti di cittadinanza del Paese
di cui contribuiscono a far crescere la ricchezza, completeranno il loro
153
percorso esistenziale ed affettivo chiamando mogli/mariti e figli nella nuova
patria di adozione.
L’alfabetizzazione in italiano riguarderà a quel punto, in modo massivo,
adolescenti e bambini. Sia quella “stretta” sia, a maggior ragione, quella “larga”:
il quantum di italianità che ogni non italiano sarà disposto a - e capace diassorbire, facendo spazio dentro di sé al diverso abito linguistico e culturale.
La sfida per strutture e agenzie educative deputate all’istruzione e
all’accompagnamento educativo, prima fra tutte la scuola pubblica sarà, a quel
punto, la capacità di favorire questi “neo insediamenti interiori” di pensieri,
logiche e sfumature di sentimenti, che facilitino un'integrazione umana e civile
piena e soddisfacente tutelando, al contempo, il patrimonio linguistico e
culturale originario dei nuovi studenti.
È auspicabile quindi che ai bambini cinesi, maghrebini, peruviani o rumeni,
non accada quanto è successo alla generazione di italiani figli del boom
economico, della televisione e della scuola media unificata, ma anche ai nostri
emigrati all’estero e ai loro discendenti. All’epoca, la messa al bando dei dialetti
e l’infinita ricchezza delle varietà linguistiche regionali, già inutilmente
stigmatizzata da Pier Paolo Pasolini, oltre ad atrofizzare l’attitudine al
bilinguismo potenziale dei parlanti, ha finito col contribuire, nel medio
periodo, ad un deprecabile impoverimento dell’italiano. La maggior
consapevolezza e attenzione a questi temi che si è sviluppata nel frattempo
è certamente in grado di prevenire analoghi errori.
8.3. Una lingua da imparare, una lingua da usare.
Scuola e bottega
In epoca recente91 i primi testi esaustivi per l’insegnamento dell’italiano agli
stranieri (manuali che affrontano le regole grammaticali essenziali, indicano le
poche migliaia di parole più frequentemente utilizzate e forniscono un nutrito
numero di esempi tratti dalla lingua in uso per il vivere quotidiano), vedono la
luce tra i primi anni 70 e la seconda metà degli anni 80.
Sono il frutto del lavoro di équipes di glottologi e ricercatori consapevoli
di dover colmare un vuoto: quello venutosi a creare per la mancanza di una
strumentazione teorica e metodologica adeguata. Tale vuoto appare
chiaramente percepibile dagli osservatori privilegiati in cui le équipes operano,
vale a dire i poli specializzati in didattica della lingua per chi intende accedere
all’istruzione superiore nelle scuole e nelle università italiane, siano esse in
Italia o all’estero.
Tre le postazioni con le antenne più sensibili a livello nazionale,
si distinguono da subito le università per Stranieri di Perugia, Siena e il nucleo
91 Per un approfondimento della prospettiva storica dei temi trattati in questo paragrafo cfr. Vedovelli
M, l'insegnamento /l'apprendimento dell'italiano nel mondo, in stampa in "Master in Italiano lingua
Straniera", Università per Stranieri di Siena ([email protected])
154
di docenti della Prima Università di Roma che, durante gli anni della
cooperazione con la Somalia, l’Eritrea e l’Etiopia, ha preparato i professori
chiamati a fornire l’indispensabile supporto linguistico nelle università e nelle
scuole italiane del Corno d’Africa.
In particolare a Siena lavora l'équipe che ha strutturato all'interno del
curriculum dei docenti di lettere e lingua, una specializzazione formativa, la
DITALS Didattica di Italiano come Lingua Straniera, da testare con apposito
esame ed eventualmente spendere come credito preferenziale per chi abbia
interesse a orientare il proprio profilo professionale in questa direzione.
A Siena si sperimentano soluzioni per i problemi didattici che la pratica
continua e su ampia scala consente di evidenziare.
L’Università per Stranieri è, a tutti gli effetti, un laboratorio di ricerca dal
quale emergono indicazioni teoriche e suggerimenti concreti per insegnanti ed
educatori.
Discipline contigue si contaminano progressivamente mettendo a fuoco
inediti items concettuali:
La dinamica relazionale studente-docente, che da sempre presiede al
rimando sistemico tra Insegnare/Apprendere/Corpus disciplinare, apre la pista,
nel caso della glottodidattica, a nuove nozioni.
Abilità linguistiche integrate compaiono a fianco di quelle primarie,
orali e scritte, storicamente declinate nel repertorio delle quattro abilità
Ascoltare/Leggere - Parlare/Scrivere, relative al binomio antinomico
Comprensione/Produzione.
Si consolida l’idea che non esiste dominio di una lingua a prescindere dalla
consapevolezza linguistica, consapevolezza acquisibile solo esercitando la
competenza glottomatetica (imparare a imparare una lingua).
Dispense e materiali di documentazione si moltiplicano, le bibliografie si
arricchiscono, si apre un confronto con quanto viene prodotto in analoghe sedi
a livello europeo e internazionale. L’esperienza del Centro CILS, Certificazione
di Italiano come Lingua Straniera matura in questo contesto.
L’aumentata sensibilità delle istituzioni dell’Europa comunitaria per la
salvaguardia e la tutela dei patrimoni linguistici e culturali degli Stati membri,
costituisce un valido supporto anche per i ricercatori italiani.
Nel 1997 il Consiglio d’Europa si esprime con due documenti di indirizzo
“Modern Languages: Learning, Teaching, Assessment. A Common European
Framework of Reference” e “Portfolio Européen des Languages”.
Nasce l’ELC European Language Council, associazione permanente
e indipendente finanziata dalla XXIIa Direzione Generale della UE che “(..) ha
come obiettivo l’aumento qualitativo e quantitativo della conoscenza delle
lingue e delle culture dell'Unione Europea”.
Tra i gruppi di lavoro costituitisi all’interno dell’ELC , il Centro CILS aderisce
a quello che si occupa del confronto e della messa in rete dei vari sistemi di
valutazione e verifica per l’unificazione dei parametri certificatori.
La CILS, Certificazione di Italiano come Lingua Straniera, è un documento
rilasciato dall’Università per Stranieri di Siena che, sulla base di un esame
155
specifico, attesta ufficialmente il grado di competenza di italiano posseduto da
quegli stranieri che decidano di sottoporsi alle prove linguistiche previste e
messe a punto dall’équipe di progettazione e valutazione.
Nel luglio del 1998 esce la pubblicazione “CILS, linee guida” a cura
dell’équipe coordinata da Massimo Vedovelli, direttore del Centro di
certificazione dell’ateneo senese.
Il Centro, si legge in apertura della pagina introduttiva “(...) ha sempre
fondato i prodotti certificatori su una base di ricerca scientifica avanzata,
originale nella propria identità, ma anche pronta al dialogo con le altr e
importanti riflessioni italiane e straniere sui problemi della valutazione e
certificazione delle competenze in lingua straniera. ”
Raccogliendo il frutto del lavoro accumulato nel quinquennio precedente,
il documento illustra in modo completo e dettagliato il prodotto certificatorio,
i presupposti teorici, l’articolazione nei quattro livelli delle prove d’esame.
Offre inoltre le indicazioni necessarie per preparare/prepararsi a sostenere i test.
Nella stessa introduzione, in coda alle note informative sulla redazione del
testo, gli autori rispondono alla domanda: A chi sono utili le linee guida
CILS? nei termini seguenti:
• insegnanti : per meglio preparare i propri studenti agli esami CILS
• addetti agli Istituti Italiani di Cultura e, in generale, chi orienta i candidati :
per indirizzare i candidati ai livelli più adeguati alla loro preparazione e ai
loro bisogni di uso della certificazione
• candidati con competenza alta in italiano : possono trovare e capire
le informazioni per prepararsi agli esami.
Dal momento che il testo citato è la migliore e più qualificata fonte per ogni
approfondimento sui vari aspetti della materia, riporteremo integralmente
l’indice delle linee guida, estratti relativi ai titoli delle prove, ai tempi d’esame
e le indicazioni per ottenere la pubblicazione.
Le informazioni saranno trascritte nel quarto paragrafo dopo aver premesso
alcuni spunti di riflessione dedicati a chi con gli adulti stranieri opera oggi in
Italia nelle strutture della formazione.
8.4. Dimostrare/certificare le proprie
conoscenze e competenze linguistiche
In quali casi è conveniente/necessario/indispensabile certificarle?
Le linee guida dunque, secondo l’affermazione dei redattori, sono un utile
strumento per docenti, addetti agli Istituti Italiani di Cultura e i candidati stessi,
sempre che la loro conoscenza della lingua sia sufficiente per orientarsi in un
testo chiaro, ma indubbiamente complesso per la qualità e quantità di input
informativi che contiene.
Tra pagina 41 e pagina 48 della stessa pubblicazione, si fornisce l’elenco
delle sedi in cui è possibile presentarsi per sostenere l’esame.
A fronte di oltre un centinaio di recapiti sparsi in tutto il mondo, gli indirizzi
156
in Italia erano, nel luglio 1998, meno di dieci.
Questo dato, già in movimento nel quinquennio che precede l’uscita delle
linee guida, è sicuramente destinato a modificarsi e le sedi italiane ad
aumentare, innanzitutto per facilitare l’accesso logistico agli stranieri che
vivono nel nostro Paese.
Tralasciando l’ovvia considerazione sulla maggior comodità e
l’abbattimento dei costi che una sede d’esame raggiungibile in dieci minuti di
tram o metropolitana comporta, rispetto al dover affrontare svariate ore di
treno, ciò su cui vorremmo puntare l’attenzione in questo momento è: a chi
può servire un documento che certifichi in modo ufficiale conoscenze e
competenze linguistiche in italiano?
Abbiamo scelto gli aggettivi conveniente, necessario, indispensabile.
La progressione intende suggerire un’articolazione che muove da una
constatazione e da una convinzione.
Due parole in merito alla constatazione:
In un corso di italiano per adulti stranieri è possibile trovarsi davanti a
casalinghe, assistenti domiciliari, baby sitter, autisti, impiegati di multinazionali,
aspiranti cantanti lirici, operai e collaboratori domestici, studenti, operatori
turistici, universitari o perfezionandi di lingua che intendono diventare a loro
volta docenti di italiano nei paesi da cui provengono.
Chi opera in questo settore sa infatti, per esperienza diretta, che una classe
di italiano per stranieri è un insieme di volti assai diversi tra loro che
nascondono storie, progetti di vita e aspettative tutt’altro che omogenee.
È dunque compito del formatore aiutare ogni studente a costruire il proprio
percorso di apprendimento, a capire “di quale e di quanto” italiano può aver
bisogno, a seconda delle sue necessità, intenzioni o desideri, esercitare in
ultima istanza la funzione di orientamento connaturata al mestiere di
insegnante per mettere tutti in grado di conoscere e valutare l’offerta formativa
disponibile e le opportunità ad essa connesse.
La certificazione CILS, in questo senso, contiene indicazioni preziose
proprio a partire dalla molteplicità di situazioni d’uso descritte dalle stesse linee
guida in cui si legge: “Un certificato CILS può essere utilizzato per motivi di
lavoro, di studio, personali o per qualsiasi altro motivo per il quale sia richiesta
una dichiarazione ufficiale e garantita di competenza linguistica. Molte
aziende italiane che operano all’estero o che vogliono assumere personale
straniero, o aziende straniere che hanno rapporti commerciali con l’Italia
richiedono il possesso del certificato CILS in base alle funzioni lavorative che i
dipendenti dovranno svolgere”
Inoltre “...il livello minimo richiesto per iscriversi a una Università italiana
è il livello DUE CILS: gli studenti stranieri che possiedono tale livello possono non
sostenere la prova di conoscenza della lingua italiana nell’università di arrivo.
Lo studente straniero in possesso di un certificato CILS di livello TRE o di livello
QUATTRO può ottenere un punteggio supplementare ai fini dell’inserimento
nelle graduatorie degli idonei.”
157
Per quanto riguarda la convinzione vorremmo sottolineare quanto segue:
Misurare i risultati ottenuti, sottoponendoli a verifica al termine di un
itinerario di apprendimento, è importante e costruttivo non tanto e non solo in
termini utilitaristici immediati.
Coloro che, abitando in Italia vengono esposti ad una sollecitazione
linguistica intensa e costante, sono probabilmente in grado di dimostrare il
possesso degli strumenti comunicativi necessari per collocarsi nel mercato in
una ampia gamma di situazioni lavorative, anche senza una specifica
certificazione. In tutte quelle situazioni, per intenderci, che prevedono
mansionari a bassa qualificazione in cui l’uso della lingua è per l’appunto
limitato e circoscritto a prestazioni linguistiche elementari. Di fatto non esiste
alcuna correlazione automatica tra l’acquisizione della certificazione e la
spendibilità istantanea del titolo. Così come nessun “titolo” inteso in senso lato,
quale riconoscimento e sanzione giuridica esterna, garantisce di per sé il
miglioramento della posizione sociale ed economica di chicchessia né
tantomeno è in grado di dar conto in maniera esaustiva del complesso universo
culturale cognitivo e affettivo che ciascuna persona può esprimere.
Tuttavia, organizzare il proprio percorso finalizzandolo ed esplicitandone
gli obiettivi, contemplare la possibilità di sottoporre a valutazione l’esito di tale
percorso, abituarsi a misurare le tappe per verificare in modo oggettivo l’entità
del cammino intrapreso, è di aiuto per l’acquisizione della sicurezza individuale
e tale sicurezza è senza dubbio una componente fondamentale nella
realizzazione del successo formativo per chiunque.
Last but not least per ciò che ci interessa, l’accuratezza e la solidità
scientifica con cui i test dei quattro livelli CILS, alimentati dalla continua ricerca
per la calibratura, sono costruiti.
Consultare i materiali disponibili, confrontarsi con i sillabi proposti e
utilizzare le prove che annualmente il Centro dell’ateneo senese pubblica,
magari per simulare con la classe una sessione d’esame come gli stessi
ricercatori del Centro suggeriscono, consente comunque ai docenti di lingua di
mettere a punto unità didattiche aggiornate e rigorose.
8.5. Linee guida per la CILS
8.5.1. Il sasso nello stagno:
attrazione di una proposta altamente flessibile
La CILS prevede quattro differenti nuclei di prove, relative alle abilità
linguistico-comunicative che i ricercatori del Centro definiscono livelli di
certificazione.
Recentemente è stata avviata la sperimentazione per la messa a punto di
un test definito PRE-CILS.
“...è una descrizione delle fasi iniziali di apprendimento dell'italiano. E’
158
utile per incentivare e orientare gli studenti all’inizio del loro
apprendimento…”
In qualche misura il PRE-CILS, superato il quale si ottiene un attestato e non
una certificazione, consente di accedere all’acquisizione delle strutture
comunicative che verranno affrontate con il livello UNO che, precisano le linee
guida, è il livello di base, ma non elementare, della competenza in
italiano come lingua straniera.
Tra PRE-CILS e Livello UNO vi è un’intima connessione di carattere
progressivo, tale connessione non è però altrettanto automaticamente
riscontrabile nelle fasi successive.
Il rapporto tra i prodotti certificatori che pure vengono contrassegnati con
i livelli da UNO a QUATTRO, non è cioè di natura lineare.
Studiando le indicazioni, la bibliografia e gli specifici items che ogni esame
di certificazione contiene, rilevando la compiutezza e la relativa autosufficienza
di ciascun livello, abbiamo cercato un’immagine che desse conto di questa
non linearità. La concezione della competenza comunicativa che l’impianto
riflette costituisce, a nostro avviso, uno dei punti di maggior qualificazione
della proposta CILS.
L’ottica con cui affrontare i quattro livelli non è dunque quella con cui si
percorrono i gradini di una scala che conduce dal piano terra all’attico di un
edificio, non si tratta, cioè, di andare solamente più lontano o più in alto.
La maggior conoscenza di una lingua, ha a che fare piuttosto con ampiezza e
profondità perché l’aumento del potenziale comunicativo consente
l’incremento del proprio spazio cognitivo e relazionale.
Diamo di seguito alcuni esempi per ciascun livello tratti dalle linee guida,
che consentono di correlare la competenza linguistica nelle sue articolazioni
con profili professionali e situazioni d’uso ipotizzate:
Area ausiliaria
Autisti
Leggere: eventuali istruzioni o note essenziali
Scrivere: brevi note e formulari
Dialogare (ascoltare; parlare; interagire): inserirsi in brevi essenziali colloqui)
CILS UNO
Punteggio minimo: 55/100
Commessi
Leggere: eventuali istruzioni o note essenziali
Scrivere: brevi note e formulari
Dialogare (ascoltare; parlare; interagire): inserirsi in brevi ed essenziali
colloqui.
CILS UNO
Punteggio minimo: 55/100
159
Personale ausiliario da assumere in loco per speciali esigenze
Leggere: eventuali istruzioni o note essenziali.
Scrivere: brevi note e rapporti
Dialogare (ascoltare; parlare; interagire): inserirsi in facili colloqui con il
pubblico, sia interno agli uffici che esterno, fornire aiuto agli studenti.
CILS UNO
Punteggio minimo: 75/100
Funzioni di assistenza
Personale medico assunto “in loco” nelle scuole italiane
Leggere: eventuale documentazione, o essenziali disposizioni
Scrivere: certificati, ricette, referti, cartelle.
Dialogare (ascoltare; parlare; interagire): sostenere colloqui con essenziali
competenze linguistiche, ma lessicalmente più sicure in alcuni settori specifici.
CILS DUE
Punteggio minimo: 55/100
Assistenti sociali
Leggere: documentazione essenziale
Scrivere: per comunicare con enti, soggetti giuridici, amministrazioni varie.
Dialogare (ascoltare; parlare; interagire): in modo non complesso, ma preciso
in alcuni settori, con soggetti che possono parlare un italiano incerto.
CILS DUE
Punteggio minimo: 55/100
Amministrativo contabili
Leggere: disposizioni varie, in particolare norme contabili.
Scrivere: richieste di spesa a soggetti privati e pubblici, predisporre gli impegni,
redigere i bilanci preventivi e consuntivi, e brevi note
Dialogare (ascoltare; parlare; interagire): con il pubblico, sia degli uffici sia
esterno, a livello medio e medio-alto, coordinando anche altro personale.
CILS TRE
Punteggio minimo: 55/100
Operatori scolastici
Corsi di formazione per mediatore linguistico in classi di scuola di base con
figli di immigrati stranieri in Italia
Leggere: testi di vario tipo.
Scrivere: elaborati, relazioni.
Dialogare (ascoltare; parlare; interagire): comprensione delle lezioni,
partecipazione attiva a lavori seminariali; interazione negli esami; efficacia
comunicativa nel tirocinio.
CILS DUE
Punteggio minimo: 75/100
160
Mediatore linguistico in classi di scuola di base con figli di immigrati
stranieri in Italia
Leggere: testi di vario tipo
Scrivere: elaborati, relazioni.
Dialogare (ascoltare; parlare; interagire): interazione con docenti italiani;
partecipazione attiva ai collegi dei docenti.
CILS TRE
Punteggio minimo: 55/100
Docenti di lingua straniera presso scuole con programmi di bilinguismo
Docenti di lingua straniera presso scuole italiane legalmente riconosciute (in
situazioni di bilinguismo)
Docenti di materie obbligatorie secondo la legislazione locale non previste
nell’ordinamento scolastico italiano
Docenti di discipline tecniche, artistiche, musicali presso scuole con programmi
di bilinguismo
Docenti di discipline scientifiche e tecniche presso le scuole italiane legalmente
riconosciute
Leggere: manuali, programmi, norme essenziali, progetti.
Scrivere: lettere, note e simili, indirizzate anche alla direzione della scuola
Dialogare (ascoltare; parlare; interagire): con la direzione della scuola, con i
genitori degli studenti, con altri docenti negli organi collegiali (sono
particolarmente importanti le operazioni di scrutinio e di valutazione
collegiale)
N.B.: Insegnamento impartito in lingua straniera
CILS TRE
Punteggio minimo: 55/100
Docenti di lingua straniera presso scuole con programmi di bilinguismo
Docenti di lingua straniera presso scuole italiane legalmente riconosciute (in
situazioni di bilinguismo)
Docenti di materie obbligatorie secondo la legislazione locale non previste
nell’ordinamento scolastico italiano
Docenti di discipline tecniche, artistiche, musicali presso scuole con programmi
di bilinguismo
Docenti di discipline scientifiche e tecniche presso le scuole italiane legalmente
riconosciute
N.B.: Insegnamento impartito in lingua italiana
Leggere: manuali, programmi, norme essenziali, progetti.
Scrivere: lettere, note e simili, indirizzate anche alla direzione della scuola.
Dialogare (ascoltare; parlare; interagire): con la direzione della scuola, con i
genitori degli studenti, con altri organi collegiali (sono particolarmente
importanti le operazioni di scrutinio e di valutazione collegiale).
CILS QUATTRO
Punteggio minimo: 75/100
161
Area ausiliare, funzioni di assistenza, area funzionale, operatori scolastici
e docenti. Ma anche profili dirigenziali di vari settori e possibili collocazioni
all'interno dell’Università.
Il lavoro di ricerca del Centro CILS , ha già messo a fuoco altri repertori da
cui gli esempi citati sono stati tratti.
8.5.2. Coordinate informative per il conseguimento
di un titolo caratterizzato da procedure e meccanismi
operativi semplificati
L’indice delle linee guida contiene quindici punti, così articolati:
La CILS - Certificazione di Italiano come Lingua Straniera
A chi serve la CILS?
A cosa serve la CILS?
La CILS e i parametri europei di certificazione
I testi nelle prove CILS
CILS: i livelli di certificazione
Pre-CILS
Il Livello UNO
Il Livello DUE
Il Livello TRE
Il Livello QUATTRO
7. Valutazione
8. Raccomandazioni per la preparazione dei candidati
9. Informazioni generali sulle prove
10. Sedi di esame
11. Date di esame
12. Informazioni e iscrizioni agli esami
13. Pagamento delle tasse di esame
14. I materiali per prepararsi agli esami
15. Elenco degli Istituti Italiani di Cultura e le altre sedi di esame CILS
Livello UNO - durata totale delle prove
3 ore e 30 minuti
Livello DUE - durata totale delle prove
3 ore e 30 minuti
Livello TRE - durata totale delle prove
4 ore e 30 minuti
Livello QUATTRO - durata totale delle prove
5 ore e 20 minuti
1.
2.
3.
4.
5.
6.
circa
circa
circa
circa
Per ciascun livello vengono fornite informazioni dettagliate relative alle
prove secondo i seguenti descrittori:
• Morfosintassi/Pragmatica e usi della lingua/Lessico
• Ascolto
• Comprensione della lettura
• Analisi delle strutture di comunicazione
• Produzione scritta
• Produzione orale.
162
Per ogni punto elencato si dà conto dei tipi di testo e relativa lunghezza,
tipi di prove, loro svolgimento e durata.
In conclusione
Forse un’immagine che può rendere in maniera adeguata, la nozione di
competenza comunicativa, sulla base della quale le prove dei certificati CILS
sono costruiti, è quella del sasso gettato in uno stagno.
Sviluppando l’analogia, dal punto di vista di chi intenda sostenere le prove
di uno qualsiasi dei quattro livelli, si può immaginare che il numero e
l’ampiezza raggiunta dai cerchi disegnati sull’acqua siano correlati alla
grandezza del sasso (= volume e selezione qualitativa mirata di ciò che
occorre sapere per muoversi nell’ambito comunicativo indicato) e all’intensità
della forza impressa nel lancio (= reale motivazione all’apprendere in
relazione a come si potrà effettivamente utilizzare ciò che si è appreso).
163
Parte quarta
MIGRANTI E
FORMAZIONE
165
Capitolo 9
Reciprocità e formazione
Laura Bonica e Simona Negri
9.1. Qualche chiarimento ancora
sul concetto di reciprocità
In che modo i diversi attori della formazione possono creare un clima che
consenta ad ognuno dei partecipanti di autodefinirsi e di sentirsi riconosciuti,
rispetto ai propri vincoli esistenziali, culturali, familiari, religiosi?
Come già detto, una prospettiva di reciprocità comporta un’implicazione
etica, una scelta verso il riconoscimento ed il gioco delle differenze. La strategia
prevalente in una logica di reciprocità, è una strategia contrattualistica; ci si
muove con la fiducia che sia possibile arrivare ad un patto condiviso.
Il concetto di reciprocità, nei rapporti d’insegnamento-apprendimento può
evocare diversi equivoci, in quanto, nella nostra cultura, soprattutto negli
anni ’70, questo termine è stato talvolta usato, in senso critico o a difesa, come
sinonimo di uguaglianza o di reversibilità dei ruoli tra insegnanti e studenti.
Nella interpretazione qui proposta reciprocità non significa abolizione
dell’asimmetria della relazione formatore-discente, né, come abbiamo già
sottolineato nel corso del testo, abolizione delle differenze. Tuttavia è ancora
frequente imbattersi in ragionamenti del tipo:
poiché l’uguaglianza è impossibile per l’asimmetria che caratterizza il rapporto
insegnante-studente, allora non può esservi reciprocità.
La differenza di ruolo tra insegnante e studente e, più in generale, la
capacità di riconoscere che anche un pari possa essere più esperto di noi in
un determinato campo ci sembra, invece, essenziale; infatti una confusione in
questa direzione può condurre a perdere l’oggetto stesso dell’incontro che è
comunque il sapere. Se però la distribuzione del potere di autodefinirsi è anche
essa totalmente ricondotta all’asimmetria sul sapere, ecco che può diventare
mortificante per il discente chiedere, imparare dall’altr o e può diventare
estremamente destabilizzante per l’insegnante accettare, qualche volta, di dire
non so, non ho capito, ad uno studente (Bonica, 1990a).
La reciprocità, in ambito formativo, dovrebbe comportare, da parte del
formatore, un messaggio a due livelli, uno sulle condizioni dell’apprendimento,
in cui viene riconosciuto al discente il potere autoasserente di saper segnalare
quali sarebbero le condizioni di apprendimento per lui ottimali, collegate alla
sua traiettoria evolutiva, e l’altro, sui contenuti, in cui viene assunta e
comunicata la responsabilità di una maggiore competenza, insieme alla
disponibilità a tradurla in strategie didatticamente efficaci. In una prospettiva di
167
reciprocità anche nel processo d’insegnamento-apprendimento, come nei
rapporti tra gli attori della rete, si dovrebbe verificare una sorta di sintonia, di
coevoluzione: ad esempio, mentre l’insegnante aiuta gli studenti ad imparare,
gli studenti aiutano l’insegnante ad insegnare meglio; entrambi imparano
qualcosa l’uno dall’altro pur senza rinunciare ognuno alla specificità del
proprio ruolo (Bonica, op.cit.).
Anche la reciprocità, implicita, nella pratica di reversibilità dei ruoli indica
un concetto diverso da questa tendenza alla co-evoluzione. La reversibilità dei
ruoli era già presente, proprio nell’ambito della formazione professionale, nelle
prime sperimentazioni inglesi di mutuo insegnamento: ognuno insegnava
all’altro quel che sapeva e si verificava un’alternanza tra il ruolo
dell’insegnamento e quello dell’apprendimento; benché questa alternanza
consenta a ciascuno dei partecipanti di accedere ad una maggiore
consapevolezza e distinzione tra i due poli del processo formativo, il modello
comunicativo messo in atto può restare nell’ambiguità, per quanto riguarda la
distinzione tra potere connesso al sapere e potere connesso alla capacità di
autodefinizione, potendo facilmente essere inteso come alternanza di una
relazione fondata sull’unilateralità: “quando insegno comando io, quando
imparo comandi tu” .
La reciprocità nel processo d’insegnamento – apprendimento dovrebbe
prevedere, invece, una sincronia di ruoli diversificati che comprende, al tempo
stesso l’asimmetria, sul piano dei contenuti e la reciprocità, cioè una simmetria,
sul piano dell’autodefinizione personale e rispetto alle condizioni del
setting formativo.
La scelta etica, ancora una volta, consiste nell’atteggiamento assunto verso
l’escludere o l’accettare le differenze.
Labelle (1996) propone uno schema del modello pedagogico di reciprocità
da lei elaborato a partire dalla pratica di insegnamento agli adulti. Il modello
prevede 4 fondamentali atteggiamenti etici nei confronti delle differenze e le
loro potenziali evoluzioni nella gestione della relazione formativa:
1) escludere le differenze: l’insegnante adotta una logica impositiva
attraverso delle strategie di assoggettamento, che nel caso dei migranti,
potrebbero essere definite di obbligo all’omologazione: protagonista
principale è l’insegnante che impone i compiti, l’allievo o si sottomette o si
ribella. Il modello tende ad evolvere verso un’escalation della violenza;
2) abolire le differenze: l’insegnante adotta una logica libertaria attraverso
delle strategie ugualitarie: protagonisti sono gli allievi che impongono
tirannia o indifferenza verso un insegnante che tende a ridurre i vincoli e a
proporsi come simmetrico e vicino. Il modello scivola verso la
manipolazione o l’anarchia e rischia di fallire l’obiettivo dell’apprendimento;
3) attenuare le differenze: l’insegnante adotta una logica di affrancamento
attraverso strategie di tipo liberale: il formatore mostra una flessibilità
ambigua, lo studente mostra compiacenza o rifiuto; il modello scivola verso
la seduzione demagogica, e si rinnova il rischio di fallire l’obiettivo
dell’apprendimento;
168
4) riconoscere le differenze: l’insegnante adotta una logica di promozione
dell’autonomia attraverso strategie contrattuali ed il protagonismo riguarda
il partenariato insegnante/studente caratterizzato da influenza reciproca,
come se un polo non potesse definirsi in mancanza dell’altro, senza però
perdere niente della propria identità. Senza confondersi. Aspetto
essenziale: l’insegnante prevede un tempo per discutere i problemi che
sorgono, e tiene conto dei segnali di insoddisfazione che possono essere
segnalati dagli studenti. Viene data importanza alla motivazione a
conoscere e l’insegnante riesce a creare un clima disteso sul piano
interpersonale ed esigente e rigoroso rispetto all’apprendimento ed
allo studio.
Secondo Labelle mentre i primi due atteggiamenti, pur sembrando opposti
nella scelta etica di fondo, tendono comunque a scivolare verso un modello di
vassallità , il terzo viene, invece, definito di emancipazione ed infine, il quarto,
è quello che risponderebbe ai criteri della reciprocità.
Benché condividiamo che il modello della reciprocità possa essere visto
come alternativo a quelli della vassallità e dell’emancipazione, ci sembra
importante aggiungere qualche considerazione:
• nella pratica pedagogica può verificarsi, talvolta, un’oscillazione tra questi
diversi atteggiamenti, ma riteniamo che una scelta consapevole verso il
modello della reciprocità, basandosi su una logica contrattualistica e di
riconoscimento dell’autodefinizione, può più facilmente consentire un
processo condiviso di correzione in itinere.
• in una classe multietnica, come vedremo nei prossimi paragrafi, ognuno di
questi diversi modelli può, comunque convivere, nell’esperienza pregressa
di alcuni dei partecipanti e può costituire il luogo di osservazione da cui
essi giudicano il modello adottato dall’insegnante. La scelta verso la
reciprocità, come l’abbiamo definita fin qui, ci sembra quella più
congruente con la necessità di riconoscere l’unicità di ogni storia personale
e quindi quella più consona ad autorizzare l’eventuale esplicitazione dei
vincoli connessi alle rispettive traiettorie evolutive.
• il prevedere di dedicare un tempo alla chiarificazione e comprensione dei
feedback forniti dai partecipanti, oltre a favorire quel mutuo processo
di crescita della professionalità degli insegnanti e della capacità di imparare
da parte degli allievi può, in questa fase iniziale della formazione
con migranti, costituire un materiale di ricerca indispensabile per
progredire nella consapevolezza teorica e pratica della formazione con
l’utenza migrante.
Ed ora, come già anticipato, introduciamo alcuni temi che, oltre a
riprendere alcuni dei nodi già accennati, possono aiutarci a riconoscere la
vulnerabilità rispetto all’autodefinizione nei processi formativi.
169
9.2. Storie personali e traiettoria evolutiva92
9.2.1. Vincoli spaziali, temporali e sociali
Riprendendo la definizione di Bronfenbrenner (1979), per traiettoria
evolutiva si intende il modo proprio a ciascun individuo di impegnarsi
(nell’ambito della famiglia e di altri eventuali contesti significativi e duraturi)
nelle attività, nei ruoli e nelle relazioni, acquisendo così degli schemi
motivazionali e di azione, che tenderanno ad essere mantenuti ed a costituire
un riferimento d’identità per l’individuo. L’esperienza di “trovare se stesso” e di
“sentirsi se stesso” non si esaurisce durante la prima infanzia ed esclusivamente
nel rapporto con i genitori, ma ogni fase del ciclo vitale presenta momenti
critici che possono confermare, ridefinire o addirittura destabilizzare il
sentimento di identità. L’identità non è da vedersi come una qualità del
soggetto, quanto come uno schema di relazione tra soggetti (Merenda, 1993).
Questo sentimento d’identità può essere visto anche come il risultato di un
processo d’interazione continua tra tre vincoli di integrazione: spaziale,
temporale e sociale (Grinberg e Grinberg, 1986, trad. it.1990, pag.134), che
possono essere colpiti in maniera diversa in seguito alla esperienza migratoria.
L’esperienza dello sradicamento, la sensazione dello spaesamento, della
perdita del proprio spazio geografico implicano un’alterazione del vincolo
d’integrazione spaziale. Per venire in contro a questo vincolo la direzione
della Casa di Carità Arti e Mestieri ha fatto inserire in tutte le aule una carta
geografica del mondo che viene utilizzata spontaneamente dai migranti e/o su
invito dei docenti per favorire lo scambio sui rispettivi riferimenti geografici.
Questa scelta può essere vista, simbolicamente, come una prova di solidarietà
e di volontà di fornire un collegamento di sostegno.
Il vincolo d’integrazione temporale permette la continuità tra le diverse
rappresentazioni di Sé nel tempo, creando la base del sentimento di “essere se
stessi”. L’individuo ha bisogno di riconoscere una continuità con il passato. Può
capitare che il migrante confonda il passato con il presente, per esempio
attraverso lapsus in cui i luoghi o le persone del presente vengono chiamati
con nomi di luoghi o persone appartenenti al passato. La ricerca di Massa e
collaboratori (1994), che ha indagato sul vissuto dei corsisti migranti in tre
diversi corsi professionali nella regione Lombardia, cita un’interessante
testimonianza a questo proposito:
Una giovane sociologia nigeriana, dovendo disegnare qualcosa che aveva imparato
bene nel corso professionale attualmente frequentato, ha rappresentato l’aula con una
disposizione spaziale non corrispondente alla realtà del corso stesso, bensì identica a quella
sperimentata nella sua prima esperienza scolastica nella propria terra d’origine: più file di
banchi appaiati a due a due gli uni dietro agli altri e una cattedra di fronte, mentre la
disposizione attuale dei tavoli era circolare.
92 Si vedano anche gli esempi riportati nel cap.6 pr.6.1 e 6.2.
170
Come commenta Riva, l’episodio mostra l’incrocio, la sovrapposizione tra
modelli interiorizzati anticamente di che cosa è la scuola e l’andare a scuola e
l’esperienza presente, pur concretamente vissuta nella sua diversità già da tre
mesi (Riva M.G., in Massa e al., 1994, pag. 64).
Può succedere anche che determinati effetti evolutivi della situazione di
provenienza, che non si erano ancora manifestati, detti effetti che dormono
(Bronfenbrenner,1979), possano essere risvegliati dalla nuova situazione e
rivelare quindi, all’individuo, nuovi aspetti del SE’ più intimo, che emergono
dall’incontro tra il suo passato e questo presente.
Il vincolo di integrazione sociale rende possibile il sentimento di
appartenenza ed è quello che viene colpito in modo più manifesto durante
un’emigrazione: tutto nel nuovo ambiente è sconosciuto, come sconosciuto è
per questo ambiente l’immigrato. Il migrante, sentendo di non appartenere più
a nessuno, può finire col sentirsi esso stesso “nessuno”93.
Esemplificative a questo riguardo le espressioni usate da un giovane
migrante per descrivere i suoi vissuti di estraneità ad un anno dalla sua partenza:
Nel mio paese sono un signore, qui non sono nessuno… Ho perso me stesso… Qui la
domenica la passo, come si dice da noi, come un “orfano in un giorno di festa”: aspetto la
notte per dormire (Daniele, in Carlini, 1991, pag. 146)
9.2.2. Ambivalenze
Questi tre vincoli (spazio, tempo, appartenenza sociale) agiscono in modo
interdipendente nel tener insieme l’identità, per cui la ridefinizione di uno solo
di essi comporta necessariamente una ristrutturazione anche negli altri due.
Si comprende quindi come l’individuo che si inserisce in un ambiente nuovo
si trovi ad oscillare tra il desiderio di distinguersi dagli altri, per continuare a
sentirsi se stesso, e il desiderio di confondersi con gli altri per non venire
emarginato. Questa ambivalenza, che può assumere anche dolorosi vissuti
conflittuali, può manifestarsi attraverso comportamenti che ad un osservatore
esterno possono apparire contraddittori, illogici; spesso, invece, essi possono
rispondere al faticoso tentativo di conciliare il cambiamento con il mantenimento
della propria autoorganizzazione, della propria coesione interna (Merenda, 1993).
Da una testimonianza di un assistente sociale francese:
Ho ricevuto recentemente un’amica israeliana. È un’intellettuale e sul piano r e l i g i o s o
non è molto praticante. Ho cercato di rispettare le sue abitudini e ho preparato un pasto senza
maiale. Ho scelto un ottimo formaggio perché sapevo che lei l’amava moltissimo ed ho
p reparato un cosciotto d’agnello. Quando le ho presentato il formaggio lei lo ha rifiutato ed
io sono restata stupefatta. Perché? “Normalmente io non avrei dovuto mangiare la coscia
d’agnello, non dovrei mangiare la parte posteriore degli animali. Ho fatto uno sforzo per farti
p i a c e re. E quindi mi trattengo sul formaggio.” Come mai se non era di osservanza stretta? Lei
ha risposto che per tutelare la sua identità rispettava certi principi in modo molto rigoroso e
che questo era un modo di auto-conservazione. (Emerique Cohen M., 1985 pag.290)
93 Per un approfondimento del concetto di appartenenza, in relazione alla rete , si veda Di Nicola P. (1998).
171
La fedeltà ai modelli di vita originari appare direttamente proporzionale
all’atteggiamento maturato verso la società di accoglienza. Talvolta il rinsaldarsi
di un forte sentimento religioso musulmano può essere una reazione all’ostilità,
alla superficialità e al materialismo della popolazione italiana. Con
l’affermazione Qui in Italia ho cominciato ad essere un buon musulmano , un
maghrebino potrebbe voler dire che tende ad avvicinarsi di più alla sua
religione perché non condivide la superficialità che vede intorno a sé.
La religione diventa un punto di riferimento quando il migrante sente la
mancanza di valori umani (amicizia, solidarietà..); il vero nemico identificato
è l’indifferenza.
Un altro caso che conferma questo atteggiamento è quello di una ragazza
iraniana che - fuggita da un regime clerical-dittatoriale, nonché dichiaratamente
non religiosa - si sente a disagio e si ribella quando l’Islam viene deriso in
maniera superficiale.
9.2.3. I rischi di un adattamento immediato e forzato
Dalla ricerca clinica, viene il suggerimento che il processo d’integrazione
nel nuovo ambiente dovrebbe essere pensato come un processo graduale e,
perché esso possa consentire un rafforzamento del sentimento d’identità,
dovrebbe seguire alcune fasi ricorrenti in ogni elaborazione sana del lutto.
L’elaborazione del lutto prevede che prima del distacco si vivano fasi di
torpore, di protesta, di disperazione nelle quali è fondamentale potersi
appoggiare a persone affidabili, capaci di ascoltare e contenere le confusioni e
contraddizioni che possono emergere nel corso dello sfogo, proprio per dare
alla persona il tempo di rendersi conto, di ritrovare un suo nuovo equilibrio.
È un processo che comporta un movimento dialettico tra regressione e
progressione (Bowlby, 1980). La regressione, se è accettata dall’individuo come
fase transitoria, è funzionale all’integrazione.
Ecco perché sarebbe importante, da una parte, che la comunità ospite
garantisse al migrante buone condizioni di accoglienza che possano soddisfare
il bisogno temporaneo di figure guida e, dall’altra, che il migrante accettasse di
vivere la regressione come una moratoria inevitabile per elaborare il
cambiamento avvenuto nella sua vita. (Merenda ,1993)
Da una rassegna bibliografica (Bolzinger, 1991) che si è occupata delle
patologie connesse all’esperienza migratoria, è emersa la pericolosità di un
adattamento forzato e immediato. Una ricca casistica ha, infatti, dimostrato che
molti immigrati che si sono adattati, apparentemente subito e con successo
alle richieste del nuovo ambiente, hanno, dopo un paio d’anni, manifestato
un crollo fisico o psicologico, talvolta con conseguenze irreparabili per
l’equilibrio personale.
Trouve (1981) riferisce del caso emblematico di un tunisino emigrato in
Francia. Questa sua decisione, osteggiata dai familiari, è stata la causa della fine
del suo matrimonio. In Francia, per vent’anni, si dedica incessantemente al
lavoro: conduce una vita solitaria e torna raramente in Tunisia. Rifiuta molte
172
proposte di matrimonio con donne del suo Paese ed insegue progetti di ritorno
vaghi e difficilmente realizzabili. Un giorno, in seguito ad un lieve incidente sul
lavoro accusa una breve perdita di conoscenza. Riprende l’attività lavorativa
dopo cinque giorni, ma si dimostrerà, d’ora in poi, inabile. Manifesta diversi
sintomi di monoparesi e turbe sensitive, accompagnati da ansia e depressione.
Dopo cinque anni continua ad essere ricoverato in ospedale completamente
disorientato. La sua nevrosi per il lavoro si è ritorta in una incapacità vitale e
diventa impossibile per lui tornare al suo paese, sia per motivi di orgoglio, che
per motivi materiali.
Lo stesso studioso (Trouve, op.cit.) racconta di molti altri casi in cui
immigrati algerini, che in Francia si erano inizialmente dimostrati lavoratori
instancabili ed irreprensibili, dopo aver subito un piccolo incidente sul lavoro,
inaspettatamente accusano uno stato di invalidità. La tesi sostenuta dall’autore
dello studio è che l’ombra della morte avvertita dall’individuo in seguito
all’infortunio, lo abbia improvvisamente messo di fronte al suo passato e alla
sua storia. Si parla, a questo riguardo, di depressione rinviata, che si
verificherebbe quando si esauriscono le difese utilizzate nel primo periodo per
raggiungere e mantenere l’adattamento forzato.
Nei corsi di formazione è quindi importante considerare il modo in cui il
migrante ha lasciato il suo paese. Le differenze possono essere evidenti tra un
migrante che è scappato per motivi politici o ideologici (palestinesi, profughi
del Kossovo o Curdi, Libanesi, Eritrei, Iraniani…) e quindi pensa di non poter
tornare e tra chi ha scelto di partire in base ad un progetto personale.
Talvolta, per chi è riuscito finalmente a laurearsi nel paese di origine,
l’avere studiato può creare una discontinuità con la tradizione dei genitori e dei
nonni e, se poi non è possibile praticare il lavoro per cui si è studiato,
l’allontanamento può essere visto come un’occasione di rivincita sul piano del
diritto ad uno sviluppo personale.
Ho studiato, mi sono laureata, non posso andare in Nigeria a fare un lavoro diverso da
quello per cui ho il titolo (Ronnie)(Rezzara, in Massa e al., 1994, pag. 153)
Non potevo fare il lavoro di mio padre, un lavoro manuale di agricoltore, perché io er
o
studente, ero destinato ad altro (Said) (Rezzara, in Massa e al. op.cit., pag.153)
Mentre nel racconto di chi ha vissuto una parte della vita in un campo
profughi è chiara la sofferenza interiore e una crisi d’identità profonda:
…Io mi sento ovunque vado il nome di straniero sulla faccia, non avendo una patria…
Quando uno è cittadino può scegliere dove andare, ma alla fine sa dove si trova la sua
tomba…(in Carlini,.1991,pag.48)
Un altro aspetto importante da considerare è quello che collega la scelta
migratoria ad una conseguente caduta nella scala sociale. Ci sarà, di
conseguenza, chi si adatta nel paese di arrivo, esprimendo comunque il
desiderio di lavorare, senza guardare alle sfumature e chi, invece, non avendo
173
conosciuto l’oppressione non vede perché dovrebbe sopportarla in un paese
che oltretutto non è il suo. (Carlini, 1991,pag.67)
Proprio a questa problematica va destinata un’attenzione particolare, per aiutare il
formatore a capire certi episodi di rigidità, sfiducia e criticità, apparentemente eccessiva, da
parte del migrante, profondamente deluso nelle sue aspettative.(Una docente)
L’insieme di questi elementi problematici invitano a riflettere sulla
necessità di costruire degli indicatori evolutivi della riuscita degli inserimenti,
ci incoraggiano a cercare confronti con altre situazioni storiche in cui si sono
verificati grossi cambiamenti di questo genere, e conducono a chiederci se i
vincoli di spazio/tempo/appartenenza proposti dalla formazione non
potrebbero costituire il contenitore nel quale si elabora l’inserimento da un
punto di vista psicologico. Cioè, in che modo la formazione può agire da
collegamento di sostegno simbolico e in che modo può evitare di essere
complice di un modello di adattamento troppo forzato?
9.2.4. Una visione più ottimistica
Per inoltrarci in questa riflessione riprenderemo spunto dalla prospettiva,
più ottimistica, delineata da Bronfenbrenner (Bronfenbrenner, op.cit), già
introdotta nel 3° capitolo (p. 69).
Bronfenbrenner, ha indicato una unità di analisi, dal punto di vista del
soggetto, che comprende la qualità delle relazioni che esso sperimenta, il tipo
di attività significative, che esso compie e vede compiere e le aspettative di
ruolo che negozia in questi contesti. Si tratta quindi di una unità di analisi
che privilegia l’interazione nel contesto, il dialogo, lo scambio dei significati
tra le persone, mentre sono impegnate direttamente o indirettamente in
un’attività comune.
Bronfenbrenner definisce tutti gli eventi, che comportano una
trasformazione di ruolo o un cambiamento di ambiente, transizioni ecologiche.
Queste transizioni ecologiche possono essere considerate come degli
esperimenti in natura, che rendono visibili le traiettorie evolutive degli
individui. Bronfenbrenner ipotizza che ogni transizione ecologica sia tanto
conseguenza che fattore di promozione dei processi evolutivi.
Affinché la transizione ecologica abbia un ruolo di promozione dello
sviluppo è necessario che esistano dei collegamenti di sostegno tra le
situazione primarie in cui quegli schemi si sono consolidati e la situazione
nuova, in modo da controbilanciare gli ostacoli dell’inserimento. L’attenzione
dovrebbe essere massima nel caso di bambini piccoli, di ammalati, anziani e
delle minoranze che si inseriscono in un ambiente proprio della maggioranza.
Bronfenbrenner suggerisce che, per indagare sui diversi ambienti implicati in
una transizione ecologica o per trarre conclusioni relative al processo di
adattamento degli stranieri, una volta entrati a far parte di una nuova situazione
ambientale e formativa, occorrerebbe adottare una metodologia longitudinale
174
articolata, basata sull’osservazione e sulle interviste, utilizzando situazioni reali
(come ad esempio lavorare in gruppo ad un progetto di formazione, in
presenza ed in assenza del formatore) ed introducendo sperimentazioni che
favoriscano i collegamenti di rete94.
La prospettiva di Bronfenbrenner parte dal mettere in discussione il
modello del deficit, che è stato a lungo predominante nella politica sociale e
nella ricerca: quando qualcosa non va si comincia a cercare nell’individuo i
segni di apatia, iperattività, difficoltà di apprendimento, meccanismi di difesa;
se non basta ci si rivolge allora alla famiglia, e se no al gruppo etnico o sociale
a cui la famiglia appartiene. Il modello del deficit consiste nel cercare il difetto
e nel cercare di correggerlo, senza sperarci troppo. L’alternativa proposta da
Bronfenbrenner consiste in un rifiuto del modello del deficit, per far sì che la
ricerca, la politica sociale e la pratica psicologica si impegnino in esperimenti
di trasformazione attraverso la creazione di nuovi micro-meso ed esosistemi
che sostengano lo sviluppo umano.
Per sostenere la plausibilità di questo orientamento Bronfenbrenner cita
ampiamente le ricerche di Elder sull’impatto evolutivo dei cambiamenti
innescati dalla grande depressione del 192995.
La difficoltà di prevedere gli esiti delle traiettorie evolutive in queste
situazioni è ricordata da Elder stesso:
In periodi di crisi l’elemento fortuna sembra avere un peso maggiore nell’influire sulle
varie situazioni. In tali momenti è difficile specificare corsi di vita prevedibili al di là
dell’impatto immediato della crisi. Il compito di delineare “effetti a rete” e di descrivere i vari
schemi di impatto, di risposta e di influsso definitivo sembra quasi insuperabile96.
Tuttavia lo stesso Elder si cimentò con una delle poche ricerche
longitudinali sugli effetti degli sconvolgimenti economici e sociali della
depressione del 1929, conducendo due indagini complementari, in tempi
successivi, rispetto alla verifica della variabile età (bambini di scuola elementare
o adolescenti nella fase finale della scolarità medio-superiore). Nella sua ricerca
confrontò il corso dello sviluppo di famiglie, che avevano subito in pieno gli
effetti della depressione e di famiglie che non ne erano state toccate. Furono
considerate disagiate le famiglie che avevano dovuto vendere ciò che
possedevano o comunque ridurre il loro reddito di più del 40%, mentre erano
definite agiate quelle per le quali la diminuzione del reddito non arrivava a
questi valori. Ognuno di questi due gruppi fu, inoltre, suddiviso in base alla
classe sociale della famiglia (media o operaia) a cui apparteneva prima
della depressione.
94 I corsi di formazione possono essere un luogo privilegiato per costruire, insieme ai migranti stessi,
delle piste di conoscenza utili a comprendere meglio la complessità dei risvolti evolutivi del
fenomeno migratorio.
95 Bronfenbrenner, op. cit., pag.397 e seguenti.
96 G.H, Elder, Children of the great depression, Chicago, University of Chicago Press, 1974, p. xv, in
Bronfenbrenner, op.cit. pag.394.
175
Elder poté disporre di un’ampia serie di dati relativi a ciascuna famiglia, tra i
quali lunghe interviste ai genitori, insegnanti e ragazzi, osservazioni e valutazioni
da parte di personale competente relative al comportamento sociale ed emotivo,
questionari autodescrittivi, inventari di personalità, e una valutazione di tipo clinico.
I risultati relativi agli uomini, ancora adolescenti nella fase della grande
depressione, evidenziarono un paradosso: trent’anni dopo, gli adulti appartenenti
alle famiglie agiate, cioè quelle che erano sfuggite alla rovina economica,
risultavano aver avuto meno successo sia nel percorso scolastico che nella
professione; una proporzione maggiore di essi aveva problemi psichiatrici, incluso
l’alcolismo. Elder si è così domandato: perché questi adulti non sono diventati i
membri più sani e più competenti del gruppo di Oakland, mentre furono i figli
delle famiglie colpite più duramente che profittarono di questa esperienza? In che
modo il loro sviluppo fu agevolato dalle difficoltà economiche?
L’economia fortemente basata sul lavoro, come era quella delle famiglie
disagiate negli anni Trenta, portò i figli più grandi ad inserirsi velocemente
all’interno del mondo degli adulti. Questi ragazzi dovettero assumere ruoli
produttivi. Da un punto di vista più generale essi diventavano necessari e,
nell’essere necessari, avevano l’opportunità e la responsabilità di fornire un
contributo reale al benessere degli altri. L’essere necessari determinò quindi un
senso di appartenenza e di adeguatezza, l’essere impegnati in qualcosa di più
vasto del loro sé. È da sottolineare che il loro impegno non richiedeva comunque
sacrificio o sfruttamenti tali da rinunciare all’istruzione o una limitazione dei contatti
sociali con i coetanei.
E per contro Elder, rileggendo sotto questo punto di vista gli esiti possibili della
successiva conquista di prosperità, di crescita economica, di promozione
dell’istruzione (fattori che hanno portato ad un allungamento degli anni di
dipendenza dei figli dai genitori e a una crescente separazione dei giovani dalle
esperienze abituali degli adulti), si chiede: questa società dell’abbondanza può e
deve anche sostenere un’ampia parte di membri non produttivi, essendo
attualmente organizzata in questo modo; ma potrà tollerarne i costi, soprattutto
per quanto riguarda i giovani, i costi del non sentirsi necessari, del vedersi negare
la sfida e le gratificazioni che derivano dal fatto di dare contributi significativi allo
sforzo comune?97
Sembra quindi che una fanciullezza nel corso della quale il giovane è tenuto
al riparo dalle difficoltà della vita, non fa sviluppare o mettere alla prova quelle
capacità adattive che emergono nei momenti di crisi. L’impegnarsi ed il far fronte
a problemi di vita quotidiana (non eccessivi) nella fanciullezza e nell’adolescenza
significa fare una specie di apprendistato per la vita adulta.98
97 Elder,op.cit, pp.291-293, in Bronfenbrenner, op.cit.pag.416.
98 Occorre sottolineare che questi adulti avevano già intorno ai 15 anni, nel 1921; in senso inverso
vanno i dati della replica che Elder fece successivamente, proprio per verificare se esisteva un età
critica. I bambini che erano molto piccoli nel periodo della depressione ebbero conseguenze
negative dall’essersi trovati costretti a subire le tensioni e le insicurezze dei genitori, anziché esserne
coinvolti in modo consapevole e responsabile, come fu per gli adolescenti.
176
Inoltre ulteriori verifiche interne ad altre variabili nei diversi gruppi
considerati, hanno permesso di constatare che tra gruppi di persone
“perdenti” intorno ai 30 anni, quelli provenienti da famiglie disagiate
(che avevano però potuto frequentare l’Università) manifestavano un ulteriore
inversione in senso positivo, intorno ai 50 anni. Il progresso sembrava essere
correlato, oltre che all’entrata all’Università, al matrimonio, al servizio militare
e all’attività lavorativa.99 L’appartenenza ad un ambiente formativo o lavorativo
hanno quindi costituito un fattore protettivo e/o riparativo che si è rivelato
importante, per invertire in senso positivo la traiettoria evolutiva nel proseguo
del tempo.
Bronfenbrenner sottolinea che l’implicazione più innovativa di questi
risultati consiste nel fatto che nei mesosistemi si possono considerare come
ricorrenti nel tempo, non solo gli schemi della continuità e del declino, ma
anche quelli del recupero e della rinascita. Questi risultati, proprio perché
concernono il mesosistema permettono di individuare alcune delle condizioni
ecologiche che possono innescare modificazioni sostanziali nello sviluppo di
una persona, anche dopo gli anni della fanciullezza.
I risultati di Elder mettono quindi in discussione l’ineluttabilità di un
presunto luogo di primarietà e persistenza della fragilità umana: essi
dimostrano come molti ragazzi della Grande Depressione e le loro famiglie,
per quanto avessero subito un evidente danno psichico, lottarono, vinsero e
in qualche caso profittarono, di fatto, di una povertà improvvisa e impararono
che cosa era la mancanza di risorse in un ambiente insensibile. Tuttavia le
potenzialità evolutive di ogni transizione ecologica sono favorite se la
traiettoria evolutiva dei soggetti è riconosciuta, se l’evento è affrontato in
compagnia di una o più persone significative, se esistono dei collegamenti di
sostegno che controbilanciano gli ostacoli dell’inserimento.100
9.2.5. Riflessioni e proposte
Viene da pensare ai nostri minori immigrati arrivati qui attraverso mille
peripezie; ai giovani, quasi laureati nei loro paesi, che qui si accontentano di
fare gli imbianchini; oppure ai piccoli in attesa, per anni e anni, di
ricongiungersi con le loro madri, madri che sono arrivate qui da sole e che
sono disperate quando si rendono conto che, in questo tempo, qualcosa si è
rotto ed il ricongiungimento finisce per fallire per l’incapacità di rincontrarsi.
Queste prove di coraggio nel tentativo di costruire un futuro migliore per sé e
soprattutto per i figli devono essere sostenute e valorizzate nel contesti di
arrivo affinché tutti questi sforzi siano vissuti come utili, come significativi.
99 Elder, op.cit. pp:249-250, in Bronfenbrenner, op.cit. pag. 404-405.
100 Bronfenbrenner, op.cit. pag.426.
177
In che modo la formazione può fornire un contesto protettivo101
e rispettare l’inevitabile ambivalenza che supporta questi complessi processi di
ridefinizione della propria traiettoria evolutiva?
Dalla ricerca di Massa e collaboratori (1994) viene una testimonianza
significativa da parte di un migrante.
Il passato è importante per te stesso, che hai vissuto la cosa, ma non per l’istruttor
e,
p e rché lui è lì per un’altra cosa, l’unica cosa che lui ha il dovere di fare è farti seguire dalla
f o rmazione. Non è giusto farsi umiliare per ottenere certe cose. Per cer
c a re un
cambiamento sul passato devo farlo io, con la mia volontà Non è uno che deve farlo al mio
posto, perché se quello lì ci tenta, non riuscirà a farlo. (Riva M.G., in Massa,e al.,
op.cit., pag 97)
Il migrante sembra chiedere alla formazione di aiutarlo a proiettarsi
soprattutto nel futuro, di ascoltare, sì, ma al tempo stesso di sorvolare sui suoi
eventuali drammi, perché essi sono anche la prova del valore della sua capacità
di iniziativa, di una scelta che lo rende vivo e impegnato nel cambiamento che
comporta.
Come sottolinea Riva, il commento di questo migrante sta a significare, in
una chiara polemica antideterministica, che non si vuole rimanere incastrati in
nessuna linea costrittiva ritenuta necessaria sul piano delle conseguenze e dei
rapporti tra passato e presente. Appare chiara la richiesta che il formatore si
occupi della formazione, che è il futuro, senza pretendere d’intrufolarsi in
richiami al passato (Riva, op.cit.,pag. 98)
In una classe multietnica il punto di partenza per un formatore dovrebbe
quindi comportare la consapevolezza che ogni immigrato ha una sua
suscettibilità legata alla specifica traiettoria evolutiva, e, di conseguenza, una
generalizzazione delle problematiche, tutti gli stranieri sono uguali, hanno
fatto le stesse scelte, puntano allo stesso obiettivo
, risulta essere inadeguata.
La volontà di dimostrare una disponibilità al riconoscimento delle diverse
traiettorie evolutive delle persone migranti, può manifestarsi forzando
i partecipanti a parlare del passato, ad autodescriversi, a parlare di sé, della loro
situazione familiare. Occorre trovare forme leggere, discrete, non impositive
per rispondere alla duplice consapevolezza che emerge dai contributi qui
considerati: da un lato è importante che l’elaborazione del cambiamento possa
tradursi in discorsi, in complicità di sguardi, in rispecchiamenti di traiettorie,
dall’altro occorre rispettare una dimensione di solitudine e di riservatezza che
viene rivendicata soggettivamente come uno degli elementi motori che fornisce
uno spessore auto-formativo e dignità a questo cambiamento.
A volte può capitare che il formatore stesso introduca in modo superficiale
alcuni spunti di collegamento con la supposta cultura di origine, pensando che
questa sia una strategia di avvicinamento empatico: per esempio far accenno
101 Il ruolo protettivo della scuola è stato ipotizzato e verificato anche in recenti ricerche che hanno
indagato sui rischi psicosociali in adolescenza. Si vedano i contributi di Bonino S., Cattelino
E.(2000), relativi ad una ampia indagine nelle scuole medie superiori della Provincia di Torino.
178
al Ramadan, alla questione del velo, o portare la cartina di un paese senza aver
controllato i cambiamenti geopolitici.
In questo modo il formatore può cadere in una serie di equivoci possibili:
• assimilare tutti gli stranieri ad un etnia particolare (Ramadan per tutti);
• sottovalutare l’intensità nella storia personale dei conflitti locali geopolitici
e mostrare, attraverso questa disattenzione, la propria distanza emotiva;
• ignorare la conflittualità interpersonale nell’ambito del gruppo e le
ambivalenze potenzialmente presenti in ciascuno.
Il rischio quindi è quello che al posto dell’auspicato avvicinamento si
inneschino invece situazioni esplosive difficili da controllare.
Sarebbe forse meglio evitare di introdurre, per primi, come docenti,
tali argomenti o almeno non prima di aver valutato in modo consapevole
ed informato la complessità dei livelli di suscettibilità che si giocano in
questi ambiti.
9.3. Suscettibilità rispetto al setting formativo
e ai modelli di apprendimento-insegnamento
9.3.1. Ritornare a scuola: un’ulteriore transizione
tra presente e futuro
Si possono individuare tre macro tipologie di migranti, all’interno
delle quali si ritrovano poi le situazioni specifiche; quelli che si fermano per
qualche anno in Italia per poi tornare al paese d’origine (generalmente uomo
o donna adulti soli), quelli che aprono attività in proprio ma vivono in mondi
separati dagli italiani (cinesi, alcuni Centro-Africani legati alle comunità
etniche) e infine chi sceglie la stabilizzazione lavorativa verso l’integrazione.
È tra questi ultimi che si incontrano i casi più numerosi di ricongiungimenti
familiari e le scelte di frequentare corsi di alfabetizzazione o di formazione
professionale regionale.
Il formatore non può quindi dimenticare che il migrante che si iscrive ad
un corso professionale ha già scelto (il più delle volte) come muoversi,
dimostrando di essere intenzionato a intraprendere il cammino verso
l’inserimento sociale nella realtà di arrivo. Il lavoro, in questo senso,
rappresenta la salvaguardia della propria dignità personale e la chiave
dell’inserimento. D’altra parte, anche la qualità della motivazione cambia in
funzione della durata del progetto migratorio. Ciò è importante ai fini di
calibrare l’offerta formativa stessa. Infatti se il migrante pensa comunque di
ritornare al suo paese è meglio che impari qualcosa che sia utile all’evoluzione
del suo paese, piuttosto che ad una stabilizzazione definitiva nel nostro.
179
La maggior parte dei migranti approda alla formazione professionale
regionale nella fase non iniziale, ma solo ad un certo punto del percorso di
inserimento; è interessante considerare che andare o ritornare a scuola
costituisce un altro momento importante di transizione.
La scuola, che sia un corso di alfabetizzazione o un corso professionale,
rappresenta infatti in ogni paese un particolare contesto che da un lato
enfatizza la cultura della società in cui è inserita (per esempio il calendario
scolastico segue le ricorrenze nazionali e locali, il modo in cui l’insegnante
gestisce la disciplina e conduce le lezioni, l’atteggiamento della classe verso
la competizione o la cooperazione possono riflettere delle caratteristiche
tipiche di quel modello culturale), dall’altro questa stessa enfatizzazione
rende l’ambiente della scuola un po’ “artificiale” rispetto alla realtà sociale,
familiare e lavorativa.
Ci sembra quindi che il migrante si trovi ad operare nuovi confronti a più
livelli sia rispetto alla realtà italiana in cui si sta inserendo, sia rispetto
all’esperienza scolastica eventualmente già vissuta nel proprio paese.
Viene in mente l’esperienza descritta da M. Sclavi (1989) sul confronto tra
un liceo americano e un liceo romano: aspetti normali per ciascuna delle due
culture apparivano strani visti con l’occhio dello straniero; ad esempio per un
italiano può far ridere che il professore di matematica americano si presenti a
scuola in tuta e pantaloncini corti, oppure può meravigliare che il copiare
durante un compito in classe sia considerato un gravissimo “reato di plagio” e
che quindi a nessuno studente venga in mente di suggerire o di passare il
compito, mentre in Italia a scuola i professori vestono in modo serio ed il
copiare, anche se scorretto, tutto sommato è considerato meno grave del
comportarsi da secchione che si rifiuta di aiutare un compagno.
Possiamo inoltre ipotizzare che per i migranti questa ulteriore transizione
nel ruolo di studente non fosse sempre prevista nel progetto di partenza,
orientato ad una migliore sistemazione lavorativa, e questo può rendere ancora
più comprensibile che essi, spesso, non vedano la formazione come un fine in
sé, ma come il mezzo per realizzare un progetto di trasformazione che nel loro
immaginario va ben oltre.
Questo passaggio intermedio può diventare, quindi, il luogo in cui si
cerca di bruciare la distanza tra l’immagine di sé attuale e l’immagine di sé
proiettata nel futuro.
9.3.2. Una motivazione speciale
Tener conto di questa dinamica interiore può aiutarci a comprendere la
qualità particolare della loro motivazione e la varietà dei modi attraverso cui
essa tende a manifestarsi ai nostri occhi; è molto probabile incontrare un
atteggiamento di quasi voracità per le materie professionalizzanti e una certa
intolleranza verso ciò che non appare immediatamente spendibile sul piano
dell’inserimento.
180
Questa tendenza è comprensibile, sia per chi aveva già acquisito un titolo
di studio medio alto che non gli viene riconosciuto in Italia, sia per chi non
aveva frequentato un corso “regolare”102 di studi e praticamente si trova
a ritornare a scuola, quasi come fosse la prima volta.
Infatti, per i primi, iscriversi ad un corso professionale per raggiungere un
titolo inferiore a quello già posseduto è vissuto come un’esperienza
mortificante sul piano intellettuale, che è digerita come un passaggio obbligato
per andare oltre.
In un certo senso è come se non ci fosse né il tempo, né la serenità emotiva
per predisporsi intenzionalmente a quel vuoto mentale disinteressato, quasi
ludico, che favorisce l’apprendimento del nuovo. Predisporsi al nuovo può
significare anche provare un disagio verso i propri maestri del paese d’origine,
temere di perdere la propria identità di studente, di soggetto epistemico, così
come si è costruita in quell’altro luogo e in quell’altro tempo. Una voracità
quindi per arrivare al sodo, senza indugiare, divagare…
Nel corso di mediatori, per la materia di sociologia, si è fatto precedere il tema dei
fenomeni migratori attuali da un excursus storico sull’emigrazione degli italiani all’estero o
dal sud al nord Italia nei primi anni del ’900 e nel secondo dopoguerra. Ciò, per far capire
che gli italiani, che oggi si trovano nel ruolo di accogliere gli immigrati, erano stati anche
loro, a loro volta, migranti. Questa scelta, contrariamente alle aspettative, non è stata
apprezzata anzi è stata considerata da alcuni come una perdita di tempo. Questo ci ha
meravigliato vista anche la cultura medio-alta dei partecipanti (una docente di sociologia).
Per i secondi, invece, il bruciare le tappe sembra accompagnato da un
incendio interiore, che si manifesta come una sorta di euforia maldestra, perché
tutto è nuovo e la scuola è già un pezzo di quel futuro sognato: usare la penna,
il quaderno, prendere appunti, toccare con mano gli oggetti della “tecnologia”
è già nel futuro, anche se le condizioni di vita attuali sono ancora all’insegna
dell’emergenza ed a scuola si arriva stanchi, un po’ storditi.
All’inizio dell’anno ero infastidita dalle continue interruzioni di alcune corsiste, che
non aspettavano la fine di un discorso, ma alla prima incomprensione esigevano subito un
chiarimento. Da una parte ero disturbata perché non potevo completare il mio
ragionamento…, dall’altra temevo di essere volutamente interrotta, come se avessero voluto
esprimere qualche forma di ostilità nei miei confronti… Poi, però, mi sono resa conto che la
loro era solo una grande voglia di imparare, quasi una voracità che le portava a volere tutto
e subito. Questa cosa non mi era mai capitata con adulti italiani. Questa sete di
conoscenza…anche su cose che a me sembravano banali. (Una docente di cultura generale
in un corso di taglio e cucito per sole donne)
102 Ricordiamo che dai dati, tratti dall’Osservatorio interistituzionale sull’immigrazione il 60% circa delle
donne e degli uomini risulta analfabeta, mentre circa il 30% diplomato, e circa l’8% laureato. Benché
questi dati vengano spesso smentiti nei corsi a favore di una presenza di titoli più alti rispetto a
quelli dichiarati, sembra invece confermato che la fascia intermedia di scolarizzazione sia meno
rappresentata e che quindi la popolazione studentesca si muova tra un livello basso e un livello
medio-alto.
181
Questi atteggiamenti, così diversi, benché tutti accomunati dalla forte
motivazione a raggiungere il titolo, che forse aprirà le porte del lavoro e della
legittimazione sociale, possono, all’inizio, spiazzare il docente abituato a
insegnare a studenti italiani. Il fatto di non poter dare nulla per scontato, o
perché le aspettative sulle convenzioni sono diverse, o perché addirittura non
c’è un’aspettativa di tipo convenzionale, rende questo lavoro continuamente
imprevedibile e ricco di trasformazioni osservabili di giorno in giorno.
Tuttavia, i docenti si rendono anche conto di vivere un’esperienza
straordinaria, come se il contatto quotidiano con questo mondo così variegato
e così unanimemente coraggioso avesse il potere di un contagio che fa
intravedere nuovi modi possibili di concepire il proprio mondo, il rapporto con
il sapere, con gli studenti, con la scuola e con la vita.
Fino all’anno scorso insegnavo in classi di minori italiani, sì, mi stancavo meno, ero più
tranquilla anche sui programmi, ma ora non vorrei più ritornare a delle classi di soli
italiani. Quest’anno mi sono trovata in mille situazioni difficili, ma sono più contenta, la
differenza è che mi sembra di imparare continuamente tante cose anche io da loro. Ho
imparato a non generalizzare, perché ogni persona mi sembra unica, ho imparato tante cose
nuove, perché le loro domande mi hanno stimolata ad informarmi, ad allargare gli
orizzonti al di là della mia materia, ho imparato a minimizzare i miei problemi perché ogni
giorno ricevo testimonianze di grande coraggio nella vita. (una docente)
9.3.3. Le regole del setting formativo
Si è già accennato sopra che la scuola rappresenta un contesto particolare
di apprendimento in cui sono formalizzati i tempi, gli spazi, certe regole di
comportamento, certe modalità per la trasmissione dei contenuti e per la
gestione dei rapporti tra insegnanti e allievi; benché i modi possano cambiare
da formatore a formatore, ogni centro definisce alcune regole che
contribuiscono a dare stabilità al setting formativo.
Per esempio alla Casa di Carità Arti e Mestieri, all’inizio dell’anno, ogni
formatore richiede che durante le lezioni non si parli in madrelingua e invita a
prendersi cura del materiale consegnato dalla scuola (quaderni, filo e aghi, tuta
o camice da lavoro…).
Anche al rispetto degli orari viene prestata molta attenzione: a partire da un
quarto d’ora di ritardo viene detratta una parte della paga oraria di £ 4.000.
D’altra parte è però indispensabile che ogni centro di formazione cerchi di
conciliare gli orari dei corsi con le esigenze dei diversi utenti: corsi serali per
le persone che lavorano e orari studiati per le donne con figli. Presso la Casa
di Carità Arti e Mestieri questa attenzione è stata particolarmente apprezzata dai
partecipanti.
Nella intenzionalità dei responsabili queste regole costituiscono soprattutto
un punto di arrivo e sono mirate a preparare un atteggiamento affidabile in
vista del successivo inserimento lavorativo. Sono previste però alcune
eccezioni, che tengono conto sia di alcune situazioni personali al limite della
sopravvivenza, sia della difficoltà di aderire ad una cornice istituzionale, per chi
182
non è mai andato a scuola; esse vengono prevalentemente gestite dai docenti
(che chiudono un occhio) in accordo con i responsabili (che fanno finta di non
sapere), in modo che, comunque, sia mantenuta una certa congruenza rispetto
al comportamento richiesto ai corsisti.
Il setting si compone anche dei luoghi in cui si svolgono le attività. Occorre
ricordare che in alcuni dei paesi d’origine dei migranti i luoghi della
formazione non coincidono solo con la scuola ma possono essere anche altri
“ambienti” di vita, nei quali si condividono regolarmente certe pratiche rituali,
considerate indispensabili per la crescita e la preparazione dell’individuo (le
preghiere, gli esercizi di yoga e di concentrazione).
Abbiamo osservato che nel centro di formazione alcuni luoghi sono
preferiti: diventano, in alcuni casi, la propria casa, perché è qui che i migranti
vivono gli aspetti più costruttivi e promettenti del cambiamento in cui sono
ormai avviati. Ad esempio, alla Casa di Carità Arti e Mestieri, le lezioni teoriche
si svolgono in aule diverse rispetto ai laboratori di pratica: a volte lo
spostamento dal laboratorio all’aula è vissuto male da alcuni migranti, come si
trattasse di allontanarsi da un luogo in cui è più chiara la loro identità. Inoltre
il laboratorio in alcuni corsi, come quello di Taglio e Cucito, è frequentato solo
da quella certa classe di migranti e questo probabilmente favorisce una
maggiore identificazione con questo spazio.
P e rché non rimaniamo qui anche a fare italiano?
Taglio e Cucito)
(una corsista nigeriana di
Un buon setting formativo richiede anche che gli spazi delle aule siano
protetti da eventuali viavai, siano riscaldati bene, poiché condizioni disagevoli
possono pregiudicare l’attenzione e la costruzione di un clima adatto
all’apprendimento.
Per quanto possa sembrare banale, anche la collocazione dei servizi igienici
può influire sulla serenità dei rapporti, creando eventualmente un disagio
quando la struttura non permette di differenziare tra bagni per maschi e per
femmine. Alla Casa di Carità Arti e Mestieri si è tenuto conto di questa esigenza
e dove non si disponeva di locali differenziati si è predisposto un piano, solo
per i corsi con un utenza prevalentemente femminile (es. Taglio e Cucito,
Ristorazione e Adest).
Al di là di questi aspetti strutturali, sono anche altri e diversi i modi in cui si
può prestare attenzione alla costruzione di un setting formativo adeguato e
flessibile. Un elemento prioritario rispetto alla progettazione è, ad esempio, il
fornire informazioni chiare, all’inizio dei corsi, sul profilo professionale e sulle
realistiche opportunità di sbocco lavorativo. Una mancata chiarezza in tal senso
può infatti provocare la ricorrenza di malumori, un calo della frequenza, tutti
fattori che possono causare un disturbo di fondo allo svolgimento dell’attività
formativa.
In ogni caso l’insieme di questi aspetti contribuisce a creare un clima nel
quale ogni migrante si inserisce con il suo bagaglio di idee e di vissuti su che
183
cosa significa imparare, da chi si può imparare, sui metodi più opportuni
maturati attraverso la propria specifica traiettoria evolutiva.
Occorre quindi avere presente la necessità di riferirsi a diversi potenziali
modelli di scuola e al continuo interferire di presente e passato nell’esperienza
dei corsisti.
9.3.4. Il rapporto con l’imparare
Prendiamo ora in considerazione l’autodefinizione in relazione ad alcuni
aspetti già sottolineati in precedenza, tra i più importanti nella relazione
d’insegnamento: il rapporto con il processo dell’imparare e con il sapere e la
concezione della relazione asimmetrica docente/discente.103
Questi aspetti sono profondamente radicati nelle prime esperienze di
socializzazione infantile e riflettono aspetti peculiari della cultura più ampia in
cui sono stati vissuti.
Si può avvertire un’ambivalenza, una specie di contraddizione rispetto al
modello europeo, tra aspettative di rigidità sulla divisione asimmetrica dei ruoli
e sulle regole scolastiche e aspettative di disponibilità affettiva diffusa da parte
dei docenti. Ciò può essere spiegato, non solo sulla base di particolari condizioni
di bisogno e di solitudine connesse alle prime fasi di inserimento, ma anche ad
un diverso modo di concepire il rapporto tra istruzione ed educazione e tra
istituzioni e comunità informale, in culture diverse dalla nostra.
Ad esempio, a differenza dell’istruzione scolastica, più tecnica, l’educazione
può avere una connotazione globale, affettiva, meno rigida, in cui è
fondamentale il ruolo dell’esperienza e dell’attenzione condivisa. Così gli
anziani sono considerati una fonte importante di educazione perché hanno
imparato tante cose, e quindi sono saggi, anche se magari non sono andati a
scuola. La ricerca di Massa e collaboratori (1994, op. cit. pag.140 e seg.) riporta
diverse testimonianze di migranti a questo proposito.
Mio nonno non sapeva leggere né scrivere, tutti e due, però ci aveva una educazione che
ci ha dato e che fino ad ora è quella che ci è servita a tutti.(Riva, op.cit.,pag. 141)
L’esperienza vera di imparare che ho avuto è con mio padre… mi insegnava molto tutti
i giorni perché anche lui ha fatto tanta esperienza (Abdillah) (Riva, op.cit., pag.140)
Dopo mio padre la persona più importante nella mia vita per diventare così è la mia
famiglia; non la famiglia come si intende in Europa, la famiglia per noi sono i nonni, gli zii
e tutti i parenti. Siamo una grande famiglia che non è noiosa, dove c’è l’attenzione di tutti,
in diversi gradi per tutti ma c’è. (Niki) (Riva, op.cit., pag. 140)
Forse alcuni di noi meno giovani ricorderanno quando i nostri genitori
raccontavano che ai loro tempi i genitori erano più rispettati, al punto che si
103 Per questa parte siamo riconoscenti alla pubblicazione di Massa e collaboratori (1994), dalla quale
abbiamo tratto gran parte degli esempi ed alcuni dei commenti.
184
dava loro il “voi” o che imparare era una cosa seria e difficile che doveva
essere affrontata con grande dedizione per ottenere delle soddisfazioni; cercare
delle scorciatoie o addolcire la pillola con premi e giochetti pareva loro
illusorio e deresponsabilizzante, perché l’idea era che comunque la vita si
sarebbe poi vendicata con prove ben più dure e che l’educazione e la scuola
dovevano preparare per la vita.
Ascoltando i commenti di molti migranti si respira un po’ quest’aria: a volte
essi restano meravigliati che l’asimmetria tra insegnante e discente sia poco
sottolineata, che i figli rispondano male ai propri genitori, che i genitori
chiedano consigli per l’educazione dei propri figli, come se si fosse perso, da
noi, il senso del rispetto, della responsabilità, della differenza di ruolo tra chi
ha più esperienza e chi ne ha meno.
Ancora dalle testimonianze riportate nella ricerca di Massa (Rezzara,
pag.139 e seg.)
Quello che impariamo più di tutto noi è di avere rispetto, rispetto per chi è maggiore, per
chi è vecchio, i genitori, i parenti, a scuola. (Atta)
C’è una grossa diversità tra la cultura senegalese e quella europea.. qui da voi non c’è
la differenza… la differenza di età c’è però tra una persona e l’altra, per esempio tra sorella
e fratello, potete dire tra di voi quello che volete dire. Invece da noi è diverso. Se è tua sorella
maggiore per esempio devi limitare le tue parole… e se la donna anche è maggiore, deve dar
e
rispetto all’uomo… è l’uomo che deve decidere… così impariamo.
Non come qui… qui l’insegnante con l’allievo non c’è una differenza. Per esempio il
ragazzo qui gioca, non paura degli insegnanti. …Per esempio se vedi il professore fuori della
scuola, devo scappare, perché magari… domani una domanda, e se non riesci a farla lui ti
picchia, perché ti ha visto giocare, o cose… hai capito? (Sadik)
Questa è una grande differenza tra la nostra e la vostra società. Perché là nessuno
rifiuta gli ordini dei genitori, anche se sbagliano.
Massa (e al., 1994.) commenta queste testimonianze rilevando che il polo
educativo della formazione nei paesi di provenienza tende a riprodurre e far
assimilare valori, norme, codici culturali tradizionali, collocandosi più nella
dimensione del dover essere, del controllo, della normatività, della
subordinazione che in quella della soggettività e del cambiamento.
Lì, in Tailandia, quando l’insegnante spiega qualcosa, e noi non capiamo qualcosa, noi
non possiamo dire “quello io non capisco, io voglio spiegare di questo” L’insegnante subito:
‘tu zitto’ . Tutto così, tutto tempo, ogni anno gli studenti solo zitto. (Acciaro)(Rezzara, op.cit.,
pag.156)
Non è che puoi dire quello che pensi… anche se pensi qualcosa devi tenerlo dentro (Atta)
(Rezzara, op.cit., pag.156)
Il bastone sempre in mano è sempre una cosa necessaria… è l’autorità, non sempre
picchiarlo con il bastone proprio fisicamente. In Nigeria la scuola è disciplina, regole,
punizioni di lavoro. (Ronnie) (Rezzara,op.cit. pag.155)
185
D’altra parte, ancora dalla stessa ricerca, emerge anche la solidarietà tra gli
adulti che determina delle potenti sinergie formative tra le diverse istanze
spontanee e formali dell’educazione. (Rezzara, op.cit. pag.162 e seguenti)
I maestri somali abitano nello stesso quartiere, li ho conosciuti bene, come i genitori,
sempre c’erano il maestro e i genitori, c’era una sequenza (Abdukaldir)
C’era un patto no, un patto forte tra i nostri genitori e la scuola (Malko)
Se tu devii dalla tua vita, là sempre qualcuno ti controlla, i genitori, il maestro, i vicini
e ti dicono che devi tornare sul binario giusto.
Nel confronto con un’altra cultura ogni regola perde l’elemento di necessità
che aveva, e l’esempio stesso delle generazioni che ci hanno preceduto ci
conduce a considerare che non sono tanto importanti i contenuti di ognuna
delle regole, quanto la solidarietà sociale su cui era fondata la convinzione
della proposta e la sincerità dell’affetto che l’accompagnava. Cosicché modelli
di educazione e di apprendimento occidentali, pur certamente diversi da quelli
odierni, non hanno impedito che si formassero persone mature, umane e
competenti che, a loro volta sono diventate genitori e insegnanti disponibili a
nuove aperture.
I migranti, però, si trovano in una particolare situazione proprio per lo
sradicamento dal contesto culturale in cui sono state assimilate le loro
convinzioni. Come dicono loro stessi: Come ero non lo sono più. E come sono
ora non lo so.
Cercare di rispettare il loro diritto ad autodefinirsi significa quindi rispettare
questa transizione di identità, che li porta ad oscillare tra la fedeltà alle proprie
tradizioni e la spinta a buttarle vie per omologarsi il più in fretta possibile.
Nelle testimonianze sulla propria esperienza di formazione appare una
discontinuità tra un “là” dove si sono seguiti itinerari prescritti, finalizzati alla
continuità del sistema e un “qui”, ispirato, invece, ad un cambiamento che
comporta anche l’esposizione alla casualità, all’improvvisazione. (Massa e altri,
op.cit.1994)
Le discussioni sull’educazione e sul ruolo diffuso della genitorialità sono
molto accese, forse perché inconsapevolmente evocano un confronto tra
passato e presente, che corrisponde anche a due visioni del mondo e a due
stati esistenziali profondamente diversi: il passato, in cui era prevalente una
visione deterministica, ma al tempo stesso convinta e carica di condivisioni
affettive ed il presente che rappresenta, invece, la sperimentazione, in
solitudine, di una visione più probabilistica, dove anche la casualità, lo spirito
d’iniziativa, l’avventura possono giocare un ruolo decisivo.
Sempre nella ricerca già citata (Massa e altri, op.cit.1994) si sottolinea la
consapevolezza che questo salto verso l’ignoto, da soli, sia una specie di
autoformazione e sembra quindi plausibile l’ipotesi che esso rappresenti, non
solo il coraggio della sfera volitiva, ma anche un processo cognitivo di
profonda ristrutturazione epistemologica... Si può dire che la gran parte dei
186
corsisti migranti si trovi tendenzialmente scisso tra due visioni del mondo e che
stia elaborando una sintesi i cui costi emotivi e identitari possono essere, in
certi momenti, molto profondi e rischiosi per il proprio equilibrio.
Lasciando il tuo paese d’origine, la tua propria terra, i tuoi genitori, i tuoi fratelli,
l’ambiente dove hai proprio vissuto, tutto quello che è anche una forma di solitudine è anche
un’autoformazione….Sei solo e devi imparare tutto. (Rezzara, op.cit., pag.142)
Ci sembra quindi più prudente e saggio avviarci a concludere questo
paragrafo ricordando il presupposto di partenza che ogni corsista abbia una
sua idea particolarmente complessa sui modelli d’insegnamento
apprendimento e sui percorsi possibili di cambiamento che, probabilmente
non è riducibile né a quella tipica della sua cultura di origine né a quella che
può emergere dalle aspettative dei formatori. D’altra parte è frequente rilevare
la difficoltà dei migranti a esprimere la propria soggettività, la reticenza a
parlare di sé, ad autodefinirsi nel percorso presente.
Al limite ciò che essi sembrano chiedere è di non essere obbligati a definirsi
o a controdefinirsi troppo in fretta, o meglio, a non pagare con un senso di
non esistenza, di non riconoscimento della propria complessità esistenziale,
quella che è, invece, una transizione, una riorganizzazione della
propria identità.
9.4. Che fare?
La letteratura antropologica e la psicologia crossculturale possono darci
molte informazioni sulla dimensione etnica dei diversi modelli di
apprendimento e di educazione e ciò può aiutarci ad ampliare i nostri punti di
vista e ad aumentare la nostra curiosità verso “l’altro”.104
Tuttavia riteniamo, insieme ad alcuni antropologi che si sono occupati di
analisi culturale e contesto scolastico (Callari Galli, 1993, 2000), che questo
approccio sia insufficiente, se esso viene utilizzato esclusivamente nella
prospettiva fiduciosa di poter anticipare i comportamenti dell’altro.
Sappiamo bene che anche all’interno di una stessa cultura l’anticipazione
ci espone al rischio di scavalcare, di fraintendere la definizione che l’altro sta
dando di sé. D’altra parte, come suggerisce Tentori (1989), anche un testo
antropologico non deve tanto avere l’obiettivo di descrivere la diversità, ma
piuttosto di spingere i suoi fruitori a riconoscersi e a rispecchiarsi, quindi, in
quella diversità.
Inoltre la provenienza etnica è ormai sempre più varia, le classi sono molto
eterogenee, ed è quindi impensabile entrare nel merito delle tradizioni di tante
e diverse culture, se non attraverso un’infarinatura che, da un lato rischia di
assumere i tratti del folklore e dall’altro di non identificare la situazione del
104 Si vedano, ad esempio, i contributi classici di F.Remotti (1990, 1992) e Geertz,1987.
187
migrante: egli, infatti, è arrivato fin qui, sta comunicando con noi faccia a
faccia, ma nello stesso tempo sta ridefinendo la sua cultura alla luce della sua
esperienza qui.
Un formatore intenzionato a riconoscere e far giocare le differenze
dovrebbe, quindi, ispirarsi anche ad un modello fondato sull’ascolto attivo e
sull’attesa. Il modello dell’attesa parte dal presupposto che nessuna
conoscenza sull’altro potrà mai salvaguardarci dalla imprevedibilità dei
comportamenti altrui e nostri, nel contesto concreto dell’incontro.105 E questa
imprevedibilità fonda la sostanziale similarità tra noi e l’altr o.
Abbiamo ritenuto quindi prioritario, in questa sede, aiutare il formatore ad
assumere un atteggiamento di autoosservazione e di decentramento culturale
rispetto ai modelli cognitivi ed ai giudizi di valore che costituiscono la struttura
del suo modello didattico. Ciò può comportare anche l’esercitarsi a non
considerare “naturali” le suddivisioni dello spazio, le successioni temporali,
le abitudini che sorreggono i comportamenti preferenziali, nel corso
dell’esercizio didattico quotidiano. (Callari Galli, 2000)
Nel prossimo capitolo, prenderemo in considerazione i diversi ambiti di
eterogeneità che un formatore può incontrare accettando di insegnare in una
classe multietnica.
105 In questo senso sono molto interessanti i suggerimenti di Duccio Demetrio ed i suoi lavori sulle
narrazioni autobiografiche (1992)
188
Capitolo 10
Specificità della classe multietnica
Silvia Zabaldano
10.1. Elementi di eterogeneità
in una classe multietnica
Per trattare questa parte ci siamo messi dal punto di vista di un formatore
più esperto che fornisce ad un formatore novizio alcune informazioni iniziali
sulle caratteristiche di eterogeneità di una classe multietnica e
sull’insegnamento della lingua seconda in tale contesto.
Preferiamo partire da alcuni flash sulle caratteristiche di eterogeneità di un
corso di migranti, in quanto tener conto di questo aspetto è forse quello che
più può aiutare un formatore novizio nella fase iniziale del corso.
Anche se la tentazione di considerare i migranti come una categoria unitaria
al suo interno è ricorrente sia nel confronto con le classi di italiani, sia perché
essa usufruisce di progetti ad hoc, è importante ricordare che al di là della
comune motivazione all’inserimento lavorativo ogni straniero ha una storia
unica e irrepetibile.
Nella composizione della classe gli elementi di eterogeneità di cui tener
conto a priori sono: l’età (adulti e minori), il titolo di studio, il sesso oltre che
la provenienza etnica e la tipologia del corso. Quest’ultima può rappresentare
un elemento di omogeneità quando il corso è rivolto ad una particolare utenza
migrante, ad esempio corsi di Officina Meccanica per minori o corsi di taglio e
cucito per donne disoccupate. Bisogna infine considerare la possibilità che il
formatore venga coinvolto in richieste individuali specifiche del migrante,
connesse alla situazione di vita quotidiana in una realtà poco conosciuta e
spesso diffidente.
Affrontiamo ora ognuno di questi aspetti.
10.1.1. L’età
Le differenze d’età sono un elemento caratteristico nei corsi professionali
serali e nei corsi di alfabetizzazione e delle 150 h, che sono infatti frequentati
sia da minori che da adulti.
Nella formazione professionale questo è stato un nodo critico: da un lato
la tendenza all’indisciplina degli adolescenti era mal tollerata dagli altri studenti
adulti e dall’altro la velocità di apprendimento più rapida dei minori creava al
formatore problemi di differenziazione della didattica.
189
All’inizio del corso, all’interno della classe, si creava una netta separazione tra i due
gruppi d’età; i ragazzi finivano prima la consegna e cominciavano a disturbare, allora gli
adulti si infastidivano e li riprendevano in lingua araba o francese, mettendomi in difficoltà .
(un formatore di un corso professionale serale)
Durante l’anno, il più delle volte, questa problematica andava risolvendosi
da sola (attraverso la conoscenza graduale interna alla classe) e gli stessi
corsisti adulti diventavano una risorsa per il formatore, che finiva con
l’attribuire loro una funzione di “freno” nei casi di indisciplina più evidenti.
Inoltre è importante sottolineare che la partecipazione dei giovani migranti
nell’orario preserale risultava essere saltuaria per le problematiche collegate
alla prima accoglienza: i minori spesso non avevano tutele regolari
e di conseguenza la priorità per loro era quella di assicurarsi vitto e
alloggio stabili.106
Proprio per rispondere alle diverse esigenze in base all’età e per
fronteggiare i casi di abbandono la Casa di Carità Arti e Mestieri ha previsto
una tipologia di corso specifica per minori nell’orario diurno, differenziata dai
moduli destinati agli adulti.107
10.1.2. I titoli di studio
Nei corsi di alfabetizzazione e nella formazione professionale regionale
(soprattutto nel caso di adulti) i corsisti possono provenire da percorsi
scolastici differenziati. Tale eterogeneità varia in relazione ai criteri adottati per
l’inserimento dei partecipanti ai corsi: la definizione dei prerequisiti e la
tipologia d’utenza prevista nel progetto.
Un punto discriminante è sicuramente il rapporto tra titolo di studio,
maturato nel proprio paese, e la conoscenza della lingua seconda. Rispetto ai
prerequisiti, nella formazione professionale la priorità viene data al livello di
comprensione linguistica dell’italiano (quasi impossibile inserire analfabeti)
e non al titolo di studio. Un’eccezione riguarda i minori per i quali è necessaria
la licenza media conseguita in Italia e i mediatori culturali per i quali è richiesto
un titolo medio alto nel paese d’origine.
Dare la priorità alla conoscenza della lingua italiana può determinare però
che all’interno della classe si trovino persone con bassa scolarizzazione insieme
a persone diplomate o laureate. Viceversa, privilegiando il criterio opposto
(è il caso dei corsi di alfabetizzazione o 150 h per stranieri), si trovano utenti
con un livello di scolarizzazione simile ma con una diversa conoscenza della
lingua seconda.
Questo criterio di definizione dei prerequisiti può costituire un problema,
il formatore può infatti dare per scontata l’avvenuta acquisizione di un
contenuto scolastico o di conoscenze di metodo.
106 Si può in questo senso leggere la tipologia di corsi per migranti alla Casa di Carità Arti e Mestieri,
cap.3, par.3.1.
107 Ibidem.
190
…Magari conoscono il verbo mangiare, per esempio dicono “io mangiare tanto pane”,
ma non sanno che mangiare è un verbo e che i verbi si coniugano, lo stesso per i generi dei
nomi. Il problema è che chi è andato a scuola si aspetta di avere informazioni sulla
grammatica e sulla sintassi, mentre chi non c’è andato ha difficoltà a capire …
Le strategie di apprendimento, i metodi di studio e l’approccio didattico al
materiale proposto saranno completamente diversi se destinati a uno studente
analfabeta in lingua madre o un altro scolarizzato nel paese d’origine.
È importante, per una buona riuscita del corso, che il formatore,
indipendentemente dalla materia che insegna, tenga conto della presenza di
prestazioni cognitive molto differenziate e modifichi di conseguenza la prassi
didattica, la scelta dei termini e il materiale proposto.
Alcuni suggerimenti in questo senso saranno dati nel paragrafo che tratterà
più in dettaglio l’insegnamento della lingua.108
10.1.3. La provenienza etnica
Generalmente le richieste di iscrizione rispecchiano la distribuzione delle
presenze delle diverse etnie sul territorio locale.
Per esempio nell’anno ’98-’99 la classe dei mediatori culturali era formata
in maggioranza da magrebini (Marocco, Tunisia, Egitto, Algeria) e da
est- europei (albanesi), e a seguire da centro-africani (Nigeria, Costa D’Avorio,
Congo), e infine, in misura decisamente inferiore, i cinesi e sud-americani
(Perù, Brasile e per ultimi Messico, Colombia). 109 La stessa situazione si ritrova
anche negli altri corsi della Casa di Carità Arti e Mestieri.110
Questa convivenza multietnica comporta una situazione di criticità almeno
iniziale; i corsisti tendono infatti a dividersi nei vari gruppi etnici, a parlare solo
con chi sentono “più vicino” e a mostrare una certa diffidenza verso l’altro che
proviene da un paese non conosciuto e da un percorso di vita differente.
Per evitare la nascita di possibili tensioni le prime settimane lascio la libertà ai corsisti
di sedersi dove preferiscono e di solito si mettono vicino ai compagni del proprio paese
.
(un formatore)
A volte possono verificarsi episodi che richiedono l’intervento immediato
del formatore, eventualmente coadiuvato da un mediatore culturale.
Due minori albanesi, con una buona conoscenza dell’italiano, nonostante i richiami
continuavano a ridacchiare tra loro, a interrompere la lezione, disturbandomi e prendendo
in giro i compagni marocchini e algerini con più difficoltà di comprensione; con il sostegno
del mediatore li ho ripresi individualmente e li ho separati di banco. (un formatore)
108 Vedi capitolo 11 sull’insegnamento della lingua italiana.
109 Ibidem.
110 Nei corsi per minori i frequentanti sono in maggioranza marocchini e albanesi; invece nei corsi per
donne sono prevalentemente marocchine e centro africane e lo stesso vale nei corsi per uomini adulti.
L’unica particolarità è che le etnie cinesi e sudamericane sono quasi assenti nei corsi della Casa di
Carità e vengono preferite altre tipologie di corso (es. assistenza domiciliare, lavori domestici...).
191
Dalle esperienze dei formatori si è visto però come, con il procedere del
corso, la diffidenza iniziale tra allievi va progressivamente diminuendo; nella
classe si verifica un progressivo “mescolamento” e una curiosità di scambio e
confronto interculturale. L’altro, da estraneo e possibile “concorrente”, diventa
un soggetto identificato con la propria storia (simile per sofferenza e scelte di
vita), con le proprie difficoltà di inserimento e di accettazione da parte della
realtà di arrivo e, il più delle volte, con progetto simile di stabilizzazione
lavorativa e di miglioramento sociale.
Interessante in questo senso può essere l’analisi di un caso, in cui si è
verificata proprio la situazione sopra descritta: il passaggio da una netta
divisione tra gruppi etnici a una vicinanza sentita con l’altro (condivisione). In
un corso di taglio e cucito, formato da donne adulte in maggioranza
marocchine musulmane (con velo) e nigeriane (di cui alcune uscite dalla tratta
della prostituzione), inizialmente i docenti percepivano un forte distacco tra le
due etnie. Le donne marocchine non capivano infatti l’atteggiamento ritenuto
troppo “disinvolto e provocatorio” delle nigeriane, sia nell’abbigliamento, sia
nel rapporto con i formatori donne/uomini, sia nel comportamento in classe
(risate e importanza del contatto fisico); le nigeriane, dal canto loro, non
comprendevano perché delle donne giovani e belle dovessero portare il velo
(nascondendo capelli lunghi, neri e lisci…), abiti troppo lunghi e informi,
nessun tipo di trucco. Solo attraverso il confronto quotidiano durante il corso
e soprattutto nell’ora di taglio e cucito (in cui dovevano “misurarsi” a vicenda),
nelle donne si è creato un sentimento di accettazione reciproca e anche di
curiosità per le tradizioni culturali delle altre compagne.
È quindi fondamentale per il formatore, che si trova ad insegnare in un contesto
multiculturale, partire dalle esperienze e dai percorsi di vita dei singoli corsisti,
valorizzandoli all’interno della classe, come momento di confronto e crescita complessiva
del gruppo. (una formatrice di taglio e cucito)
In ogni lezione, non importa quale sia la materia, può essere opportuno ritagliare un
momento di intercultura quando emergono incomprensioni o diffidenze che potrebbero
compromettere la riuscita del corso e creare un senso di “disagio” o di esclusione di alcuni
corsisti. Sicuramente in questi casi è importante l’utilizzo di un mediatore culturale, che può
supportare il formatore e, eventualmente, intervenire direttamente in classe. (un formatore
di materie tecniche)
10.1.4. Le differenze di genere
La percezione della differenza tra i ruoli sessuali è molto più marcata in
altre culture e soprattutto in quella araba. Di conseguenza rispetto alle offerte
dei corsi professionali vi è una diversità di aspirazioni e aspettative a seconda
che si tratti di un migrante uomo o di una migrante donna.
Contrariamente all’emigrazione tradizionale oggi esiste anche
un’emigrazione femminile che arriva in Italia sola, lasciando figli e marito nel
paese di provenienza: è il caso soprattutto delle filippine, somale, rumene e
peruviane. Raramente queste categorie sono interessate a frequentare corsi
192
professionali (se non qualche ora di lingua italiana o corsi brevi per i lavori
domestici nell’ambito della prima accoglienza e del volontariato) poiché grazie
alle forti e radicate comunità di appartenenza e alla maggiore disponibilità
delle famiglie italiane ad accoglierle trovano facilmente alloggio e lavoro
(anche se nella maggioranza dei casi non regolare) nella collaborazione
domestica e nell’assistenza ai malati e anziani.
L’influenza della variabile sessuale incide soprattutto sotto due aspetti: la
varietà delle motivazioni di iscrizione al corso (anche in relazione al titolo di
studio) e le problematiche esistenziali e familiari che possono influenzare la
riuscita e il completamento del modulo (soprattutto nel caso delle donne).
Mi sono capitati molti casi di donne che da troppi mesi non vedevano il loro bambino,
lasciato lontano con i nonni. Volevano un lavoro sicuro, una casa per portare finalmente il
figlio in Italia. (una formatricedel corso di taglio e cucito)
In Italia mi trattano bene; non mi posso lamentare del mio lavoro nelle famiglie, anche
se sono diplomata alla scuola commerciale. L’unica cosa che mi fa piangere ogni mattina è
sapere mio figlio lontano… Forse con questo corso potrò riavere mio figlio con me…
(una
corsista peruviana del corso per Mediatori Culturali)
Molte donne straniere che scelgono un corso di formazione vivono quindi
il problema del ricongiungimento come priorità e come spinta a migliorare
professionalmente la propria condizione lavorativa.
Anche altri fattori culturali, legati al ruolo di donna, emergono di sovente
in un corso professionale destinato ad utenza femminile adulta: la maternità
frequente per le musulmane, i condizionamenti familiari per gli orari (il
problema dell’accompagnamento dei bambini a scuola al mattino) o la scelta
della sede in cui fare lo stage. Infatti numerosi sono stati gli episodi di ritiro di
donne dal corso per le gravidanze o per le malattie dei figli. In questo senso
vanno anche letti i momenti di “incomprensione” tra il Centro e alcuni mariti,
contrari al fatto che la moglie svolgesse lo stage in un ambiente di lavoro
maschile.
Ho notato nei miei corsi il fatto che almeno i 2/3 delle donne magrebine erano in stato
di gravidanza; di conseguenza moltissimi erano i giorni di assenza e molte le difficoltà a
r estare tante ore in piedi in cucina. Come avrebbero potuto sopportare la fatica dello stage
in un ristorante? Mi chiedevo quante sarebbero riuscite a finire il corso…(una formatrice del
corso di Ristorazione)
Finalmente avevo capito il motivo delle frequenti gravidanze; è un disonore per la
famiglia non avere un bambino entro il primo anno di matrimonio… (il tutor dei corsi per
migranti di Ristorazione e Taglio e Cucito)
Mia moglie non può fare lo stage da due uomini; piuttosto va via dal corso…(un marito
marocchino)
A questi aspetti si può collegare anche il fatto che alcune donne migranti
non aspirino ad una crescita professionale, ma sembrino unicamente
193
interessate ad acquisire conoscenze utili all’interno della sfera domestica.
È il caso di alcune donne che frequentano i corsi di Lavori Domestici o di
Cucitrice Industriale:
La verità è che ho scelto il corso perché c’è cucito che mi serve anche nella mia vita, e la
cucina italiana…non per lavorare in un ristorante, no per questo no… più per me stessa che
per un lavoro. (una corsista del corso di Taglio e Cucito)
In questi casi il corso soddisfa una funzione di integrazione socio culturale,
anche perché spesso rappresenta un motivo per uscire di casa e per
confrontarsi con donne della stessa età e con problemi simili.
Al corso ho imparato di più la lingua italiana e ho conosciuto meglio la città dove vivo
con la mia famiglia… (una corsista di Ristorazione)
Un secondo gruppo di donne sembra invece interessato a acquisire,
attraverso il corso, qualifiche elevate, che permettano di recuperare la
condizione culturale e economica perduta con l’esperienza dell’emigrazione. Si
tratta di donne con un percorso di scolarità pregressa medio - alto, che vivono
come un’esperienza umiliante l’essere relegate a lavori domestici o assistenziali.
La volontà di trovare occasioni lavorative qualificanti assume quindi il carattere
di desiderio e aspirazione profonda; inoltre il raggiungere una professionalità
medio-alta (ad esempio nel settore dell’informatica) rappresenta un modo per
liberarsi dal doppio vincolo rappresentato da predefiniti ruoli di genere e di
etichetta di straniera. 111
Conosco tre lingue, arabo, francese e italiano, sono laureata in Economia e calcolo, so
usare bene il computer e internet…ma con tutto questo non posso lo stesso trovare un lavor
o
gratificante perché sono straniera senza la cittadinanza… Io mi sogno qualcosa di più di
fare le pulizie o di andare nelle pizzerie a lavorare…(una corsista zairese del corso di
Mediatori Culturali).
Per quanto riguarda invece le aspettative dell’utenza migrante maschile nei
confronti dei corsi professionali possiamo rilevare due tipologie, collegate al
titolo di studio conseguito nel paese di origine.
Un primo gruppo è costituito da uomini con qualifiche elevate ma non
spendibili sul mercato italiano che si ritrova inserito ai livelli più bassi o
addirittura disoccupato. Questi adulti vedono la loro esperienza migratoria
come fallimentare e affrontano il corso quasi rassegnati all’idea di avere solo
un “pezzo di carta” in più; l’offerta formativa diventa quindi una risorsa sociale
finalizzata più che altro all’integrazione socio-culturale.112
111 Si veda la mazione professio, curata per la Casa di Carità (in corso di stampa), al
capitolo 3 “Domanda di formazione e esiti formativi a Torino: il punto di vista degli immigrati” ,
pag. 51-52-53.
112 Ibidem. Cap. 3, p.49-50.
194
Sono a Torino da trenta mesi…in Marocco stavo bene, facevo il meccanico di
aerei…Qui non trovo niente per il mio titolo, non riesco a aiutare la mia famiglia e far venir
qui mia moglie…adesso faccio questo corso, non per avere la qualifica tanto so già che non
serve a niente, ma per non stare senza far niente…e poi con queste 4.000 £ un po’ mi aiuto.
(un corsista marocchino del corso di Elementi di Officina Meccanica)
Il secondo gruppo, più numeroso, invece è molto motivato a ottenere una
qualifica. Si tratta di uomini con un percorso di scolarizzazione pregressa basso
che intendono migliorare la loro professionalità e credono nell’utilità del corso
come strumento per inserirsi meglio nella realtà lavorativa italiana o per
ritornare nel paese di origine con qualifiche più appetibili.
…Io ho iniziato a fare il corso per i soldi, il rimborso di £ 4.000 all’ora…dopo i primi
due mesi di scuola ho visto che c’era qualcosa di più dei soldi e mi è venuta voglia di
imparare… (un albanese del corso di Attrezzista stampista)
…Con questo corso il mio lavoro è migliorato molto…mi ha insegnato ad essere più
autonomo come mentalità invece che dipendere da altre persone anche sul lavoro…mi ha
maturato in quella parte in cui non ero maturato. (un tunisino del corso di Elementi di
Officina Meccanica)
10.1.5. Conflittualità interetnica in classe:
le identità religiose e politiche
All’interno di una classe multietnica è scontata la presenza di una pluralità
di credi religiosi.
Dalle interviste con i formatori è emerso come gli episodi di maggiore
tensione siano collegati proprio a questa dimensione; i casi più rilevanti
avvengono all’interno dello stesso credo religioso, tra i soggetti più rigidi, che
seguono scrupolosamente i precetti, e quelli meno osservanti. Ad esempio nel
periodo del Ramadan in diversi corsi si è arrivati ad uno scontro tra alcuni
albanesi, che non seguivano le regole previste dal Corano (il digiuno, le
preghiere individuali in orari stabiliti, le regole di comportamento…) e alcuni
marocchini che invece osservavano alla lettera tutti i dettami. I primi si
sentivano attaccati dagli altri in modo ingiustificato su valori personali (la
religione e il come viverla sono scelte individuali), gli altri si sentivano colpiti
nell’animo (questo è un attacco all’Islam e all’identità d’origine), e si
ancoravano ancora di più alle proprie posizioni, accusando gli albanesi
di assimilazione forzata alla realtà italiana attraverso la negazione della
cultura di partenza.
In questi casi di “pregiudizio” la maggior parte dei formatori intervistati ha
affrontato il problema individualmente e al di fuori del contesto della classe,
coinvolgendo il più possibile il mediatore culturale.
Tra gruppi religiosi diversi (ad esempio tra cattolici rumeni e musulmani)
lo scambio invece avviene con maggiore tolleranza; dopo la diffidenza iniziale
verso l’altro che non si conosce (e così la sua cultura e i suoi costumi), il
gruppo-classe arriva, con la frequentazione progressiva, ad un’accettazione
195
reciproca e una curiosità verso le diverse tradizioni culturali: raramente si
verificano casi di critica accesa o incomprensioni offensive.
Un altro esempio di conflitto tra stranieri si ricollega a motivi di politica
locale tra partecipanti di paesi vicini, ad esempio tra africani francofoni e
anglofoni o tra africani neri e bianchi. Anche in questo caso può essere
opportuno l’intervento del mediatore culturale per poter arrivare ad un
chiarimento, condiviso dalle due parti.
Un problema, in questo senso, può nascere quando il mediatore culturale
è della stessa nazionalità di una delle due parti in conflitto: durante il corso di
Mediatore Culturale, seguito in codocenza da una mediatrice zairese, un allievo
zairese ha litigato con una compagna della Costa d’Avorio. Quest’ultima ha
rifiutato un possibile aiuto da parte della mediatrice, attribuendole a priori una
posizione di parte e si è invece difesa da sola, minacciando di appellarsi ad
un’autorità alternativa, che in questo caso era il marito:
“Tu sei la mediatrice del Congo. Io chiamo mio marito che gli darà uno schiaffo
a quello lì”.
In questo caso la mediatrice congolese è stata capace di non entrare nel
conflitto, cioè nella cornice proposta dai litiganti e, attraverso la calma ed il
silenzio, ha rimandato ad un momento successivo la creazione di un nuovo
scenario in cui le è stato possibile assumere un atteggiamento al di sopra
delle parti.
10.1.6. Richieste individuali dei corsisti esterne all’iter
didattico, collegate ai bisogni specifici del migrante.
Occorre ricordare che alcuni corsisti stanno ancora vivendo una fase di
emergenza che li può portare a non riposare, a mangiare male, a non avere
punti di riferimento stabili e non ci si deve quindi meravigliare se qualcuno si
addormenta sul banco o sembra “altrove”.
Il docente può quindi trovarsi di fronte a richieste individuali di supporto
e di consulenza per problematiche esterne alla didattica vera e propria: il
lavoro, l’inserimento abitativo, le pratiche di regolarizzazione,
l’accompagnamento ai servizi territoriali, l’assistenza sociale e sanitaria, gli
eventuali corsi di lingua…
Più volte mi è capitato di entrare in classe e di trovare uno studente in lacrime perché
lo avevano sfrattato. Oppure mi ricordo di una donna della Costa D’Avorio che mi si è
aggrappata piangendo, chiedendomi di trovarle un lavoro, perché non riusciva ad avere la
regolarizzazione e questo significava non poter far venire qui il suo bambino. (una
formatrice)
Non è importante che il formatore sia in grado di esaudire tutte le richieste,
ma che sappia, intanto, ascoltare e capire che nella maggioranza dei casi la
motivazione stessa all’apprendimento è intrecciata con i problemi di
196
sopravvivenza; nello stesso tempo è necessario che egli abbia la certezza di
poter condividere il carico di responsabilità che gli viene attribuito con altri
interlocutori a cui eventualmente indirizzare la persona.
Il formatore alla Casa di Carità Arti e Mestieri può contare ad esempio su
diverse risorse disponibili: creare un collegamento con lo Sportello
d’orientamento al Lavoro, confrontarsi con il tutor interno dei corsi per migranti
oppure con i mediatori culturali che lavorano presso il Centro.
In ogni caso il formatore non può sottrarsi a una diffusa aspettativa di
disponibilità e nello stesso tempo è importante che non crei illusioni, anche
perché qualunque impegno o promessa non mantenuti tendono ad essere
vissuti come un tradimento.
197
Capitolo 11
L’insegnamento - apprendimento della
lingua italiana nelle classi multietniche
Gioia Maestro, Silvia Zabaldano
11.1. La lingua italiana nel corso professionale
(a cura di Silvia Zabaldano)
I problemi linguistici non devono far pensare che l’altro non sia complesso
e strutturato da un suo percorso ben definito (cultura d’origine e cultura di
accoglienza); la didattica deve tener conto del migrante come persona ancora
più ricca, più complessa, perché si porta dietro due vissuti, due mondi.
L’italiano per uno straniero che vive in Italia non è una lingua straniera, ma
la lingua seconda, cioè la lingua parlata nel paese di arrivo, elemento
indispensabile per un reale inserimento.
Le motivazioni all’apprendimento sono quindi molto forti; i migranti vedono
nell’apprendimento della lingua uno strumento per non essere emarginati nella
società ospitante e per migliorare la propria situazione lavorativa.
Il bilinguismo dei soggetti migranti può essere di due tipi: aggiuntivo
e sottrattivo.113
Il bilinguismo aggiuntivo indica il sistema linguistico di uno straniero che ha
sviluppato una buona competenza nella lingua seconda, fortemente valorizzata
nell’ambiente sociale d’arrivo (scuola, tempo libero, incontro con conoscenti o
istituzioni), mantenendo però vivo il suo repertorio linguistico precedente.
Questo processo di apprendimento avviene in modo tale che nessuno dei due
sistemi di conoscenza sia messo in pericolo. Lo straniero bilingue sviluppa, in
questo caso, delle competenze pari a quelle di un parlante nativo in tutte e due
paesi; ciascuna lingua corrisponde ad un sistema di comunicazione completo,
permettendo al soggetto di contare su due registri linguistici e culturali,
intercambiabili in rapporto alla situazione e all’interlocutore.
Il bilinguismo sottrattivo indica invece il caso di un soggetto migrante, la
cui lingua d’origine non è valorizzata e che si trova a dover acquisire una
lingua seconda, mettendo completamente da parte il bagaglio di conoscenze
precedenti. Questo processo potrebbe portare il migrante ad una padronanza
ridotta delle due lingue, al cosiddetto fenomeno del semilinguismo, visto come
“comprensione mancante” dei due codici linguistici.
La definizione dei prerequisiti linguistici è sicuramente un nodo critico sia
per il formatore che si troverà ad insegnare in una classe eterogenea nei livelli
di conoscenza della lingua seconda, sia all’interno della rete nel collegamento
tra scuola e formazione.114
113 Dispensa di Cultura Generale per Migranti a cura della Casa di Carità. (materiale interno).
114 Vedi capitolo 7, paragrafo 7.4.
199
11.1.1. Metodologie di insegnamento: risorse e strategie
I formatori non dovranno spaventarsi di fronte alle diversità linguistiche dei
corsisti; la multietnicità diventa un valore, un arricchimento, una risorsa se
valorizzata dal punto di vista comunicativo-relazionale. Non va dimenticato che
il disagio è solo un pezzo dell’emigrazione e che i migranti, cercando una
stabilizzazione professionale e un riconoscimento sociale, puntano a migliorare
la conoscenza della lingua seconda.
È comunque evidente come la preparazione linguistica condizioni
l’apprendimento; in una classe multietnica ogni parola dovrà essere
decodificata insieme ai corsisti. La comprensione è ufficializzata solo attraverso
il coinvolgimento diretto dei migranti, che metteranno ogni volta in gioco il
loro background di conoscenze culturali e linguistiche; solo in un secondo
momento il formatore potrà arrivare ad una corretta specificazione tecnica.
In questo senso anche l’errore grammaticale diventa un elemento su cui
soffermarsi; sull’inesattezza linguistica è importante ragionare con l’intera
classe. Lo sbaglio può infatti essere ricollegato alla struttura linguistica o fonica
di un certo paese o area geografica (Magreb o Cina) e quindi può essere utile
a tutto il gruppo un approfondimento: anche un particolare accento o una
particolare struttura sintattica possono costituire elementi di valorizzazione
della realtà interculturale.
Come emerge dalle interviste dei formatori, di fronte alla pluralità di
preparazione linguistica dei corsisti inseriti in una stessa classe, la strategia
adottata è quella di rivolgersi alla soglia più bassa, seguendola più da vicino.
Ai soggetti più preparati si possono affidare anche compiti individuali, che
verranno messi poi in comune e discussi collettivamente, valorizzando i
contributi interattivi dell’intero gruppo-classe.
Gli studenti scolarizzati sono infatti consapevoli che le parole sono
elementi che si combinano in certi modi (grammatica) e con uno stesso
linguaggio (metalinguaggio). Nell’apprendimento della lingua seconda
essi utilizzeranno sempre la struttura della loro lingua madre e procederanno
operando un confronto tra il proprio codice linguistico e quello di
acquisizione.
Al contrario gli studenti scarsamente scolarizzati non utilizzano queste
strategie di apprendimento, ma necessitano di stimoli didattici totalmente privi
di riferimenti grammaticali convenzionali (imparati normalmente nella scuola
elementare); non possiedono il codice scritto della propria lingua madre e
quindi non possono ricorrere all’ausilio del dizionario o a schede bilingue. Gli
argomenti proposti dovranno quindi essere concreti e calati nella realtà,
altrimenti non verrebbero recepiti e quindi sarebbero rifiutati come inutili e
incongruenti. (W.Ong 1986, Gardner H. 1984, Elias N. 1986, Massa e altri op.cit).
Una frequente situazione critica si collega al fatto che i corsisti della stessa
etnia, almeno all’inizio del corso, tendono a comunicare tra loro in lingua
d’origine, escludendo in questo modo gli altri compagni e mettendo in
difficoltà il formatore.
200
Questo problema può essere risolto predisponendo alcune ore di
conversazione in lingua d’origine con i mediatori culturali. Nello stesso tempo,
già dalle prime lezioni, è importante invitare la classe a sforzarsi
nell’esposizione nella lingua seconda, responsabilizzando i singoli soggetti
sull’utilità di una corretta preparazione per il futuro inserimento.
Un’altra risorsa implicita può essere quella della conoscenza della lingua
francese per l’area del Magreb o le ex colonie francesi o inglese per nigeriani
e cinesi. Una strategia vincente, già sperimentata in alcuni corsi per stranieri
della Casa di Carità Arti e Mestieri, è stata quella di realizzare, con il contributo
della classe un “minivocabolario”, che contenesse la spiegazione dei termini
tecnici più frequenti e la traduzione in arabo, francese o inglese.
Nodo critico è anche quello della fossilizzazione linguistica , intesa come
facilità dello straniero a apprendere velocemente il vocabolario di base in
risposta ai bisogni immediati e a fermarsi a questo livello manifestando una
indisponibilità ad un approfondimento ulteriore della conoscenza linguistica.115
Quali sono quindi i reali bisogni linguistici (peso di una corretta
esposizione orale o di una corretta produzione scritta) degli stranieri?
Spesso i docenti si costruiscono una visione riduttiva, esclusivamente
pragmatica della lingua e ciò frena la capacità di motivare i corsisti stranieri ad
un apprendimento avanzato della lingua italiana, una volta raggiunto il livello
standar d, cioè quello che permette di ottenere una risposta ai bisogni primari.
Sicuramente in un corso di formazione professionale una spinta per i
migranti a migliorare la conoscenza della lingua seconda è legata allo sbocco
lavorativo futuro; soprattutto alcune professionalità richiedono precisi requisiti
linguistici e l’utilizzo appropriato di terminologie tecniche specifiche (ad
esempio nel corso per mediatori culturali la conoscenza di termini relativi ai
settore sanitario, legislativo, antropologico…).
Una possibile soluzione può essere quella di spingere il migrante, che
frequenta il corso professionale, a intraprendere un percorso di
alfabetizzazione o di formazione linguistica nelle strutture del Provveditorato o
degli Enti Locali.
Nella formazione professionale regionale l’obiettivo è infatti quello di
portare tutti i corsisti ad un livello di conoscenza linguistica funzionale
all’inserimento lavorativo e sociale (L2).116
In questo senso si è mossa la Casa di Carità Arti e Mestieri, che ha ricercato
una soluzione a questo problema attraverso una collaborazione con i Centri
Territoriali Permanenti, Parini e Braccini che hanno aiutato nella preselezione
dei futuri iscritti nei corsi per minori; questa strategia sperimentale non è stata
però ancora formalizzata ufficialmente dall’Ente, e sarebbe opportuno
estenderla a tutti i corsi per stranieri.
115 Si può ipotizzare che questa indisponibilità possa avere diverse radici, emotive o cognitive, e
sarebbe interessante svolgere in questo senso delle ricerche che aiutino a individuare dei sostegni
appropriati.
116 Criterio di riferimento adottato dai Centri Territoriali Permanenti per indicare i migranti con una
conoscenza medio-bassa della lingua seconda.
201
Un altro aspetto rilevante nell’insegnamento della lingua è che un buon
metodo didattico parta dal mondo interiore degli allievi, dalla loro matrice
cognitiva, dalla personale visione del mondo, dai percorsi vissuti. Un
apprendimento può risultare significativo quando riesce a collegare nuovi
contenuti alla cultura d’origine di ogni corsista.
L’approccio nell’insegnamento della lingua seconda sarà sempre quindi di
tipo comunicativo-funzionale , sia per l’apprendimento degli automatismi di
lettura e di scrittura, sia per lo sviluppo di competenze strumentali. Anche le
stesse situazioni comunicative saranno selezionate a partire dalle esigenze
concrete della vita quotidiana dello straniero: i documenti, il lavoro, la
conoscenza del territorio e dei servizi per stranieri nella città, la salute, la casa,
i bisogni culturali e sociali… Ovviamente a ciascun livello preparatorio viene
presentato materiale adeguato alle capacità dei corsisti, con particolare
attenzione al lessico.
In un corso multietnico un momento centrale è sicuramente la ricostruzione
della mappa geografica della classe, strumento indispensabile per non
disperdere il patrimonio culturale/linguistico di ogni soggetto e il suo percorso
individuale.
11.2. Per chi vuol saperne di più sulla lingua
(a cura di Gioia Maestro )
Vorrei offrire sulla base di un’esperienza maturata sul campo nell’arco di un
quinquennio, (corsi liberi per stranieri nel Comune di Milano) qualche
suggerimento a quanti si trovano, nelle situazioni più disparate, ad insegnare
la lingua italiana agli stranieri.
Nella Formazione professionale, nei corsi di alfabetizzazione all’interno dei
centri di prima o seconda accoglienza, nelle iniziative di solidarietà promosse
dagli operatori del volontariato o nei percorsi finalizzati all’integrazione sociale
e culturale degli stranieri, gestiti dai Servizi delle amministrazioni locali spesso
l’insegnamento della lingua riveste un carattere pre e transdisciplinare trovando
posto al lato di altre attività educative; talvolta chi generosamente si cimenta
in questa pratica, non dispone di una specifica formazione come docente
di lingua.
Dunque la modesta arte del consiglio che nulla ha a che vedere con
l’ignobile tentazione della ricetta, può forse essere concretamente di aiuto.
Il primo quesito è ovviamente “ma che italiano insegnare?”
Il problema è aperto al dibattito e al confronto permanente di ricercatori e
specialisti dal momento che la nostra, come ogni altra lingua usata da una
comunità di parlanti è un organismo vivo in continua evoluzione. La riflessione
sull’italiano standard ha comunque prodotto negli ultimi anni una letteratura
sufficientemente ricca e aggiornata. Oltre ai centri universitari117 è possibile
117 Vedi capitolo 8. sulla CISL.
202
per chi cerca bibliografia sui corsi base, intermedio e avanzato di italiano,
rivolgersi a una libreria specializzata: manuali, eserciziari, metodi corredati di
supporti audiovisuali, unità didattiche integrate da repertori lessicali e
morfosintattici, l’offerta è decisamente sovrabbondante.
A mio avviso i prodotti, generalmente di qualità accettabile, si equivalgono;
il criterio con cui scegliere non è quindi così diverso da quello che adotterebbe
un qualsiasi consumatore accorto, dotato di buon senso e mediamente capace
di orientarsi nel mercato.
A questo proposito una sola avvertenza: un testo, un manuale, un insieme
di esercizi o un set didattico provvisto di video o cassette, per quanto ben
confezionato sia, è e rimane uno strumento a disposizione del formatore e
degli studenti. Come tale va quindi utilizzato e proposto. Ciò che nessuno
strumento sarà mai in grado di fare è sostituirsi né in tutto né in parte alla
dinamica interattiva all’interno del gruppo classe. Affidare/affidarsi per tutta la
lezione o per molte lezioni allo strumento tout court può dare un ingannevole
e provvisorio senso di sicurezza a chi insegna, ma i risultati rischiano di essere
deludenti. Personalmente diffido di ogni pacchetto “precotto” con pretesa di
esaustività, che finisce col togliere spazio, perché il tempo si sa, è quello che
è, alle energie cognitive e creative che circolano in ogni gruppo classe, solo
che si abbia voglia di coglierle e farle emergere.
Seguire pedissequamente vignette dal tratto infantile che propongono
situazioni ovvie o ripetere all’infinito l’ascolto di scambi di battute banali può
generare una noia mortale e chi si annoia porta i suoi pensieri e i suoi desideri
altrove, magari dalla fidanzata, sul luogo di lavoro, su una notizia di cronaca
che riguarda il proprio Paese, sul sogno di una bella vacanza o più banalmente
su una commissione da fare o sul piatto da cucinare appena terminata la
lezione. Ovunque insomma, meno che lì dove occorrerebbe trattenerli per
imparare qualcosa.
Quindi ben venga un buon testo didattico, ciò che serve è in definitiva un
nutrito eserciziario nel quale sia chiaramente leggibile la corrispondenza tra
strutture morfosintattiche, funzioni comunicative e test proposti, purché non si
pensi che da solo sia in grado di produrre efficaci occasioni di apprendimento;
meglio poi se il testo non è dei più cari o destinati a “scadere” in un lasso di
tempo troppo breve. Le insidie in proposito sono molte: materiali del tutto
autosufficienti che per essere utilizzati richiedono il collegamento con ulteriori
segmenti, fascicoli, quaderni o supporti d’altra natura. A volte il costo
complessivo è tale da equivalere a quello per l’acquisto di un ragionevole
numero di l i b r i - l i b r i(o libri veri) in edizione economica. Collodi, Rodari, Calvino,
o Scerbanenco, ma anche Stefano Benni, Carlo Lucarelli, Rosetta Loy, Antonio
Tabucchi, e Renato Olivieri se si cercano brani di scrittori contemporanei.
Una decina di anni fa, Pap Khouma, un giovane senegalese immigrato a
Milano nei primi anni ottanta, ha raccontato a Oreste Pivetta, un giornalista
all’epoca responsabile dell’inserto libri del quotidiano “L’Unità”, l’avventurosa
odissea del suo percorso migratorio. Ne è uscito un volume, “IO VENDITORE DI
ELEFANTI” pubblicato da Garzanti (quinta edizione 1996, costo lire ventunomila)
203
nella collana “memorie documenti biografie”, ricco di spunti interessanti e al
tempo stesso semplice ed essenziale come riesce esserlo un buon testo
giornalistico. In un corso intermedio o avanzato può essere adottato e utilizzato
in modo proficuo, sia sul piano dei contenuti, sia ovviamente su quello
dell’analisi linguistica118. E soprattutto, finito il corso ed esaurito l’utilizzo
funzionale, questo come altri libri-libri , potranno prendere posto in casa,
vicino agli oggetti più familiari di cui si ama circondarsi perché prima o poi,
magari tra qualche anno, si ha voglia di riprenderli in mano.
L’adulto che investe economicamente nell’incremento del proprio sapere
compie una scelta troppo importante perché chi si assume la responsabilità di
sollecitarla non valuti a fondo questo aspetto del problema.
Anche un dizionario in lingua di medie proporzioni (minimo
sessantacinquemila voci) e uno dei sinonimi e dei contrari altrettanto ricco,
sono da questo punto di vista beni durevoli, spesso in appendice sono presenti
anche compendi morfosintattici sintetici, ma completi.
Se a scuola, per ampliare lessico e conoscenze ortografiche, si apprende
l’uso dei dizionari e gli studenti vengono aiutati a decifrarne il complesso
sistema di segni e abbreviazioni, potranno continuare a consultarli in caso di
necessità, ben oltre il termine del corso stesso. Dizionario in lingua, dizionario
dei sinonimi e contrari dunque, come dotazione personale di ogni studente.
Nelle unità di apprendimento in classe però, è anche utile procurarsi
dizionari bilingue almeno per i tre principali idiomi veicolari occidentali:
inglese, francese e spagnolo. Il dizionario si presta infatti sia alla consultazione
individuale, sia al lavoro di coppia o di un gruppo ristretto. Durante la lezione
sarà possibile predisporre una grande varietà di giochi linguistici (ricerca di
definizioni rispetto a termini dati, equivalenti semantici di proverbi e modi di
dire in altre lingue e culture, espressioni idiomatiche, individuazioni delle
parentele etimologiche, ecc.).
Quanto all’insegnante, il consiglio è di cercare quei materiali che si
prestano a manipolazione cominciando magari con introdurre piccole varianti
a misura del gruppo classe, in ciascuna delle unità tematiche presenti nel testo
che si è adottato. Costruire materiali didattici e prove di lingua utilizzando
tecniche e procedure consolidate, (completamento, scelta multipla,
individuazione di coppie sinonimiche o contrastive in una lista data, ecc.)
diventa, anche per il formatore, un’insostituibile occasione di apprendimento.
Adattando temi ed esercizi alla situazione reale del gruppo classe si possono
verificare con più immediatezza i punti deboli di ciascuno (se la complessità
del nostro sistema verbale o la tortuosità insidiosa delle forme pronominali
combinate sono tra gli scogli più ardui per chiunque, è vero che provenienze
linguistiche disomogenee producono una gamma di errori molto variegata:
118 Scegliendo brani da dettare si potranno proporre esercitazioni di ortografia; leggendolo ad alta voce
si potrà intervenire sulla fonetica; chiedendo di riassumere oralmente qualcuno degli episodi narrati
si potrà verificare il livello di comprensione e sviluppare la capacità di espressione; l’incontro con
un participio anomalo o con una forma verbale complessa stimolerà la riflessione sulle strutture
sintattiche più evolute, ecc.
204
sbagliando per interferenza un ispanofono dirà “ieri il tale ha venuto a
trovarmi” e un anglofono faticherà ad assimilare la concordanza, nel caso
dell'aggettivo possessivo, con l’oggetto posseduto invece che con il soggetto
possessore). Infine, oltre a facilitare la messa a fuoco delle lacune dei singoli,
somministrare materiali di lavoro originalmente rielaborati facilita la
restituzione dell’indispensabile feed back sull’efficacia delle proprie strategie
educative e didattiche e consente quindi al formatore di correggersi,
aggiustando progressivamente il tiro.
Un volume che non può essere adottato dalla classe, ma che mi sento di
suggerire come strumento di consultazione agli insegnanti, perché dubbi e
quesiti linguistici di italiano vi trovano spiegazioni esaurienti e approfondite è:
GRAMMATICA ITALIANA con nozioni di linguistica (terza edizione, lire
cinquantamila) di Maurizio Dardano e Pietro Trifone edito da Zanichelli.
Per concludere alcune domande che ritengo dovrebbe preliminarmente
porsi chi intende tenere un corso di italiano. Soprattutto, ma non solo, se
manca di una specifica formazione professionale in questo senso:
Capisci e/o parli qualche parola del tuo dialetto?
Hai mai studiato (almeno un po’) una lingua straniera?
Ti piace leggere?
Ti piace scrivere?
Va da sé che, per intraprendere l’avventura nel modo giusto e contare su
buone possibilità di ricavarne adeguata soddisfazione, le risposte dovrebbero
essere positive.
11.2.1. Suggerimenti per la costruzione di un’esercitazione
didattica per l’apprendimento della lingua italiana
(Una modesta proposta)
L’esercitazione qui riprodotta è stralciata da “Conosci Milano, Milano in
Giallo e Nero” un set didattico multimediale edito dal Coordinamento dei CEP
- Centri Educazione Permanente- del Comune di Milano, nel giugno 1997.
L’idea di produrre questo materiale didattico è nata all’interno dei Centri di
Educazione Permanente ai quali, ormai da qualche tempo, e con dati
numericamente sempre più consistenti, si presentavano adulti stranieri già
alfabetizzati in italiano.
Studenti e Studentesse, provenienti come spesso accade da ogni parte del
mondo, non erano dunque ‘principianti’, bensì persone che avendo già
assimilato i rudimenti della lingua (per la verità buona parte di loro la capiva
e la parlava già discretamente), si rivolgevano alle nostre strutture formative
chiedendo “altro e di più”.
Ma altro cosa e di più che?
Alla nuova domanda “non solo lingua!”, peraltro assai genericamente
espressa, si era già iniziato a rispondere attivando corsi di livello intermedio ed
avanzato e, dopo la seconda metà degli anni novanta, strutturando delle unità
di apprendimento più brevi e flessibili denominate “club di cultura in lingua”.
205
È stato a questo punto che abbiamo deciso in via del tutto sperimentale di
provare a confezionare del materiale ad hoc da utilizzare nei club.
Così è nato il progetto per la costruzione del set didattico “Conosci Milano,
Milano in giallo e nero” grazie soprattutto a chi ci ha creduto, a chi ci ha messo
tempo e lavoro, a chi (gli autori delle novelle) ha deciso di regalargli il
“frutto dell'opera dell'ingegno” e a chi gli ha dedicato una notevole dose di
paziente determinazione. E, naturalmente, grazie alla Giunta Comunale che, su
proposta dell’Assessore all’Educazione, ha deliberato lo stanziamento dei fondi:
tredici milioni di lire per produrre cinquecento copie del set. Questo materiale
è stato poi ampiamente utilizzato nei corsi di lingua e cultura italiana
per stranieri, anche al di fuori dei Centri di Educazione Permanente in cui era
stato progettato.
Agli studenti che intendevano acquisirlo, (la scelta era assolutamente
opzionale) è stato consegnato alla somma di trentamila lire, nella forma di
contributo-rimborso spese per dispense, pagabile con la stessa modalità
dell’accesso ai corsi, tramite bollettino di conto corrente postale.
Il set, un box in cartonato lucido (ovviamente di colore giallo con le scritte
in nero) chiuso da un elastico verticale e con la riproduzione del Duomo
ambrosiano in copertina, contiene:
• Quattro cassette audio con dieci sceneggiati di piccole storie poliziesche
ambientate a Milano, recitate da giovani attori, allievi del 3° corso della
civica scuola di arte drammatica “Paolo Grassi”.
• Un volumetto che raccoglie i dieci racconti da cui sono tratti gli sceneggiati.
• Una piantina con la quale gli studenti stranieri, soli o accompagnati dagli
insegnanti, possono girare la città visitando i luoghi in cui sono ambientate
le vicende narrate, ma anche ri-conoscere piazze, angoli e vie della loro
stessa geografia quotidiana.
• Un quaderno diviso in due parti: la prima in cui vi sono gli esercizi
linguistici sui testi, la seconda contenente schede su Milano, i suoi edifici,
i suoi monumenti, le sue strade con le trasformazioni e gli stratificati assetti
urbanistici, portato del gusto e delle decisioni del potere nelle diverse
epoche storiche.
Abbiamo cercato cioè di costruire uno strumento utile per orientarsi nella
lingua, ma anche nel complesso intreccio di connessioni tra cronaca,
commercio, gastronomia, vetrine di lusso, odor di Navigli e guglie gotiche,
residui di archeologia industriale, nuove e antiche povertà.
Forme idiomatiche allora, passati remoti irregolari e ridondanze
pronominali, ma anche storia, arte, politica e dinamiche sociali in cui è radicato
il cuore della città che i destinatari della proposta didattica abitano.
Una chiave insomma, o meglio un mazzo di chiavi per aprire le porte della
comprensione di testi e contesti umani e relazionali in cui i testi sono prodotti;
con l’obiettivo di aiutare i nuovi arrivati a compiere il faticoso cammino
che porta dalla sopravvivenza all'integrazione, da essere straniero
a sentirsi cittadino.
La realizzazione del set didattico multimediale è opera di un’équipe di
206
professionisti con esperienze e competenze differenti: Carlo Oliva, lo
sceneggiatore che ha curato il trattamento dei racconti, Maura Molteni, la
docente del corso attori che ha guidato e diretto le performances recitative
degli studenti, Enrico Venturelli, l’esperto di storia dell’arte.
Io mi sono occupata degli esercizi linguistici sui testi; riporto qui, a titolo
esemplificativo, la parte relativa alla comprensione della lettura di uno dei
racconti. Questo in assenza della cassetta audio che, contenendo lo
sceneggiato recitato tratto dalla stessa storia, consente di lavorare pure sulla
comprensione all’ascolto.
Il racconto utilizzato è:
“CHE COSA NON SI FA PER TROVARE LAVORO” di Tea Vergani.
L’unico asterisco, accanto al grado di difficoltà, indica che siamo in
presenza di un testo relativamente “semplice”. I racconti più complessi, vuoi
per trama e impianto narrativo, vuoi per articolazione della sintassi, vuoi per la
ricchezza del lessico e delle forme idiomatiche o per la sovrabbondanza dei
riferimenti extralinguistici, sono contrassegnati con due o addirittura tre
asterischi.
Semplice non significa di accesso immediato e gli esercizi sicuramente non
lo sono. Le istruzioni, per esempio, utilizzano intenzionalmente una
terminologia da professor “Grammaticus”.
Questo non è volto a disorientare gli studenti, ma piuttosto, a indurre i
docenti ad accompagnare gli studenti nella corretta comprensione di ciò che ci
si aspetta da loro.
Troppe volte per la fretta di fare, non ci si ferma a pensare.
Spiegare cosa sia un’equivalenza semantica, sollecitare la riflessione su
analogie e differenze, stimolare la caccia al sinonimo o richiedere di cimentarsi
con l’umile esercizio della parafrasi aiuta lo studente a sviluppare la
consapevolezza metalinguistica, il difficile rapporto tra l’insieme di regole della
lingua da apprendere e l’ecosistema linguistico del parlante.
Oltre al racconto di Tea Vergani e ai relativi esercizi, ho pensato di
aggiungere gli spunti riepilogativi che chiudono il quaderno degli esercizi.
Pur riferendosi a testi che qui non sono riportati, ritengo possano essere
di una qualche utilità a livello metodologico, secondo il noto
proverbio, sicuramente inventato da un pedagogista-pescatore o da un
pescatore-pedagogista, che tanto tempo fa sosteneva: se vuoi aiutare qualcuno
che ha fame, non dargli pesci, ma insegnagli a pescare.
207
Parte quinta
RECIPROCITÁ E VULNERABILITÁ
RISPETTO ALL’AUTODEFINIZIONE
209
Capitolo 12
Violazioni della reciprocità
Laura Bonica
12.1. Definizioni
Preferirei essere insultato piuttosto che ignorato o deriso di nascosto.
(In Carlini,1991, pag. 22)
Gli aspetti di eterogeneità appena considerati possono aiutarci a intuire
quanto sia facile provocare la suscettibilità di uno o dell’altro partecipante
e come sia importante, invece, riuscire a creare un clima di fiducia e di
attenzione condivisa.
In questa parte vorremmo presentare alcune forme ricorrenti di violazione
della reciprocità che possono occorrere nella situazione formativa e mettere
l’accento sull’importanza di allenarci ad un atteggiamento di ascolto, di
negoziazione, e anche di gioco.
Possiamo considerare violazioni della reciprocità quelle situazioni
comunicative, in cui “l’altro” o uno dei partecipanti è ignorato o frainteso o
scavalcato rispetto alla propria capacità di autodefinirsi in quel dato contesto.
(Bonica 1990a, 1991)
In altri termini l’altro si sente disconfermato o non è d’accordo, e per farsi
riconoscere dovrebbe, a sua volta, smontare il messaggio ricevuto ed assumere
lui l’iniziativa di ricostruire la cornice della comunicazione. Ciò non è sempre
facile, soprattutto se la lingua nella quale ci si deve esprimere è una lingua
straniera. Da parte dei corsisti migranti il chiedere o il contrapporsi o lo
spiegare meglio cosa si voleva dire è reso più problematico dalla difficoltà di
esprimere pensieri complessi, in cui può giocare l’interferenza tra passato
e presente, in un’altra lingua:
Un amico del corso ogni tanto trova sbagliato quello che viene detto, avendo fatto il
biologo, ma non lo dice e si morde la penna perché dice: ma se magari io so ancora più
italiano, magari posso protestare di più. Ma anche uno che dice che non è d’accordo con
quello che ha detto: allora spiegami. Ed è proprio la spiegazione che mi è difficile dopo e
allora diventa un casino. Comincia a spiegare, poi a un certo punto si ferma perché nella
sua mente, facendo la traduzione fra arabo, francese e italiano… un blocco… allora si
accontenta di quello che ha detto (il docente) e basta.(Riva , in Massa, op.cit., pag. 69)
Comune a queste modalità comunicative è un atteggiamento di
presupposizione unilaterale: anche se il più delle volte in buona fede, si
presume che l’altro non reagirà, perché sarà d’accordo, e viene considerato
inutile verificarne il consenso sulle definizioni attribuite. La bontà della
presunzione tende inoltre ad essere confermata ogni volta che l’altro non
reagisce immediatamente in modo esplicito; allora il malessere, il disagio che
211
pure viene avvertito, tende ad essere interpretato con altre presupposizioni
unilaterali.
Alcuni tra i più frequenti messaggi di violazione di reciprocità osservati
anche nelle situazioni scolastiche con classi di italiani e nel gioco tra bambini,
(Bonica 1990a, 1990b ) potrebbero essere:
•
•
•
•
•
Tu non esisti;
Tu non dovresti nemmeno essere qui;
Io so già come sei;
Io so già che cosa sai;
Io ti disconfermo su ciò per cui ti chiedo aiuto.
Di solito la persona che riceve questi messaggi manifesta espressioni di
perplessità e di disagio emotivo e avvia un processo più o meno esplicito per
cercare di ristabilire il diritto a definirsi in quella situazione; infatti ciò è
indispensabile anche per poter poi negoziare l’eventuale disaccordo sulla
definizione stessa. (Bonica, 1990 b)
I primi due messaggi corrispondono spesso a comportamenti di
ignoramento o “scavalcamento” dell’altro; per esempio se alla presenza di una
persona straniera si parla sempre e solo la propria lingua in modo spedito
oppure quando si definisce l’altro, rivolgendosi a un terzo, dando per scontato
che l’altro sia d’accordo su questa definizione.
Il terzo e il quarto si riferiscono spesso ad un atteggiamento di
anticipazione unilaterale sul comportamento o sulle competenze che l’altro sta
mettendo o metterà in atto nella situazione. Aspettarsi, per esempio, che
qualunque migrante accetti di essere chiamato con il “tu” oppure trattarlo come
analfabeta senza tener conto che può essere già alfabetizzato e magari avere
conseguito un diploma nel proprio paese d’origine.
L’ultimo messaggio è più complesso, già nella formulazione, perché
maschera con una dichiarazione una richiesta di aiuto; ciò è frequente quando
la persona che ha bisogno d’aiuto non vuole ammetterlo o teme che,
ammettendolo, perderebbe la propria dignità personale, e quindi cerca di
ottenerlo, attraverso una modalità comunicativa che mette l’altro in posizione
di debolezza. Ma quando l’altro accetta questa definizione di debolezza o di
incompetenza, diventa contraddittorio o paradossale fornire l’aiuto che è stato
implicitamente richiesto. Può innescarsi, così, un vissuto di disagio e di
fraintendimento che spesso tende ad essere ignorato sul piano delle
conseguenze interpersonali della relazione, ed ad essere invece risolto
rifugiandosi nello stereotipo dei rispettivi ruoli.
Nella formazione e nella mediazione culturale questa modalità di
comunicazione può servire a mascherare uno squilibrio di potere non
accettato, che può riferirsi al ruolo asimmetrico, ad esempio discentedocente/mediatore/tutor, ma più di frequente ad un ambito puntuale in cui
occorre accettare che l’altro ha più competenza o più strumenti, anche se è un
proprio pari, ad esempio, nel rapporto tra docenti o tra extracomunitari della
212
stessa etnia. Il discorso sotteso a questa modalità di comunicazione è del tipo:
è vero che tu ne sai di più e potresti aiutarmi, ma io non voglio imparare da te,
non voglio mettermi nella posizione di chiederti l’aiuto; i perché possono esser
e
diversi perché non ti stimo, oppure perché dovrei rinunciare all’immagine
autonoma di me stesso, oppure perché ho maturato una premessa implicita di
sfiducia nella possibilità di un altro ad insegnarmi qualcosa, oppure perché mi
vergogno di essere ignorante o di avere bisogno in questo specifico campo,
quindi se mi trovo a dipendere da te per un aiuto, se posso, cerco di ottenerlo
senza fartelo capir e (estorsione), oppure cerco di indebolire il tuo poter
e
(calunnia), oppure lo rifiuto esplicitamente. Per contro la persona che riceve
questo messaggio può sentirsi raggirata, oppure confusa, oppure impotente,
oppure può negare il disagio enfatizzando il proprio ruolo di maggior potere,
esponendosi, così, a sua volta, a mettere in atto una violazione della reciprocità
nei confronti dell’altro. (Bonica, 1990a)
Vediamo ora qualche esempio.
Se scelgo l’interruzione di gravidanza una mediatrice della mia cultura non
mi può aiutare.
Con questa affermazione una donna extracomunitaria esprime la
convinzione che sia più doloroso ammettere una trasgressione con una
persona della propria cultura che con un’estranea, pur desiderando avere
accanto una persona familiare. Da parte della mediatrice culturale in questione
si sviluppa il senso di impotenza ad aiutare una propria connazionale in
difficoltà.
Non mi ha nemmeno ringraziato!
Sono una mediatrice culturale rumena e insegno intercultura nel corso per mediator e
culturale. Mi sono data da fare per un’allieva della Costa d’Avorio che mi aveva fatto capir e
di avere bisogno di trovare lavoro. Poiché questa ragazza sapeva il francese, e io, come
mediatrice, sapevo che cercavano delle donne che sapessero bene il francese per poche ore di
interpretariato ben pagato e rinnovabile, ho pensato di proporlo a lei. Ed infatti le ho parlato,
le ho dato indirizzo, telefono e tutto e lei, contenta, mi promette che andrà a presentarsi. Che
cosa mi ha ferito? il fatto che l’hanno assunta e lei non mi ha detto niente. Ha continuato a
venire a scuola, ho continuato a vederla, ma l’ho saputo per caso dai suoi compagni che
l’avevano assunta. Con una insegnate italiana non si sarebbe certo comportata così. Non me
lo aspettavo proprio e ci sono rimasta davvero male!
Sempre la stessa formatrice, che parla benissimo italiano:
Mi sto rendendo conto che da una formatrice extracomunitaria i corsisti
extracomunitari pretendono di più, sono più contestatari, pretendono di correggermi anche
sulla lingua. Certe volte sembra che non vogliano o che non abbiano quel bisogno
d’imparare che invece c’è, come è stato per me, anche se ero già un ingegnere nel mio paese.
Questi esempi evidenziano la difficoltà a gestire la distribuzione del potere
in una relazione. Se qualcuno è ritenuto un pari, un simile, relativamente ad
una sfera soggettivamente molto significativa, può diventare più difficile
213
accettare di vederlo in un ruolo superiore rispetto ad un problema che è
inerente a quella stessa sfera.
Tuttavia, nel mondo della formazione, si avrebbe tutto l’interesse a cercare
di affrontare e superare tali difficoltà, perché, solo accettando di imparare
anche da un pari più preparato, si può favorire un processo di trasmissione
delle competenze dagli esperti ai novizi e nello stesso tempo si possono
sperimentate forme di autoformazione tra i diversi attori della rete.
Inoltre l’inserimento di migranti come docenti, oltre che nella funzione di
mediatori co-docenti, potrebbe essere utilissimo, ai fini di progredire
nell’approfondimento della conoscenza delle modalità di apprendimento nelle
fasi di transizione, come quella che stiamo vivendo.
12.2. Far giocare le differenze
Vorremmo concludere questa parte con l’analisi di un episodio che, oltre a
fornire una serie di spunti, che potremo considerare riassuntivi delle diverse
forme di violazione di reciprocità evocate, può, a nostro avviso, essere preso
anche come esempio di un modo di riflettere e di fare ricerca, tra formatori,
sulla formazione stessa.
L’episodio nasce all’interno di un’esercitazione-gioco che , nella formazione
professionale per migranti, in Francia, è frequentemente utilizzata per simulare
situazioni di conflitto che possono verificarsi nel confronto tra etnie diverse.
Descrizione del gioco
Lo scopo di questo gioco dovrebbe essere quello di allenarsi ad affrontare
queste situazioni e diventare più consapevoli dei meccanismi all’opera e delle
diverse strategie di cui si può disporre.
Dopo aver diviso il gruppo in due sottogruppi, gli osservatori e gli attori,
la proposta consiste nel mettere il gruppo degli attori di fronte ad una
affermazione provocatoria e nel costringere (questa sarebbe la regola del
gioco) ogni membro a schierarsi a favore o contro. Si invitano quindi i due
schieramenti ad assumere anche una posizione spaziale frontale. Nello stesso
tempo si chiede agli osservatori di disporsi ai margini dello spazio e di ascoltare
attivamente, registrando le proprie reazioni emotive e cognitive. Dopo un
tempo stabilito per il confronto, il formatore blocca la discussione e si passa
alla restituzione da parte degli osservatori e ai commenti da parte del gruppo.
Alcune delle affermazioni provocatorie, tradotte per il nostro paese,
potrebbero essere le seguenti:
• Anche se siamo in Italia tra di noi dobbiamo parlare sempre con la nostra
lingua.
• Uno straniero nel paese d’arrivo diventa più integralista.
• Nel tempo libero lo straniero incontra solo i connazionali, gli unici di cui
può fidarsi.
• Se chiedo aiuto certo non mi risponde un italiano.
214
• Una donna musulmana in Italia non deve vestirsi all’occidentale.
• Un musulmano non può accettare inviti da italiani perché mangiano
cibi proibiti.
• Non diventerò mai come gli italiani con cui lavoro.
Lo scenario che va costruendosi è quindi formato da tre vertici: i due
gruppi schierati e l’osservatore.
Un esempio non riuscito
In questa sede preferiamo analizzare un esempio non riuscito, che ci è
stato raccontato da colleghi francesi e riguarda principalmente
l’incomprensione venutasi a creare tra la formatrice di origine algerina,
residente da qualche anno a Parigi, e unanimemente riconosciuta come
particolarmente competente, e un partecipante, che chiameremo MO, anche
esso di origine algerina.
Questo esempio si presta ad una analisi su più livelli, che sembra
interessante sia per mettere in luce alcune ambiguità insite nelle regole stesse
del gioco, sia per evidenziare quanto complessa possa essere la dinamica delle
premesse culturali implicite e della vulnerabilità all’autodefinizione in
situazione di formazione.
12.2.1. Descrizione dell’esempio
Il contesto
L’esempio si svolge a Marsiglia, nell’ambito di un corso per mediatori
culturali frequentato da 13 persone (11 F, 2 M) di differenti nazionalità
(Albania, Congo, Magreb ecc.) di avanzata scolarizzazione (diplomati, laureati).
Si forma un sottogruppo di 3 osservatrici.
In questo caso la frase provocatoria era: “un islamico nel paese d’arrivo
diventa più integralista”.
Lo svolgimento della comunicazione
Immediatamente quasi tutto il gruppo si schiera contro questa posizione
e solo una ragazza si schiera dall’inizio a favore.
Il problema che si vuole qui discutere é portato da uno dei partecipanti,
anche esso algerino (studente MO), il quale esprime subito la sua difficoltà a
schierarsi, in quanto quello che lui pensa non é identificabile in nessuno di
questi due schieramenti.
Io non posso, io penso che un po’ sì e un po’ no, c’è tanto da dire…
La formatrice ribadisce allora che si tratta di un “gioco” in cui la regola é
schierarsi, anche facendo finta di recitare un ruolo. MO, un po’ perplesso,
decide allora di schierarsi contro.
Il primo intervento é quello di una partecipante bosniaca che porta se
stessa come esempio di integrazione riuscita, citando situazioni in cui è
215
evidente la possibilità di convivere mantenendo le proprie tradizioni e al tempo
stesso rispettando quelle altrui:
Quando vado a trovare un occidentale non mi tolgo le scarpe e sono disposta anche a
mangiare qualche alimento proibito, ma quando invito a casa mia sono gli altri che si
tolgono le scarpe e non mangiano maiale.
Questo entusiasmo suscita, anche all’interno dello stesso schieramento
“contro”, delle perplessità che conducono il gruppo a non sottovalutare le
difficoltà dell’inserimento e a discutere su che cosa significa davvero integrazione.
Nel corso della discussione alcuni membri dello schieramento “contro” si
spostano dal loro posto quasi a voler raggiungere anche spazialmente la
ragazza restata sola nell’altro schieramento.
MO assume l’atteggiamento di chi sta aspettando qualcuno al varco: molto
attento a ciò che viene detto, si inserisce a singhiozzo nella discussione
assentendo di volta in volta verso posizioni contrastanti ed esibendo, con la
postura e la voce, l’intenzione di comunicare qualcosa di più, come se fosse
importante per lui introdurre una sua visione differente. Il suo volgere lo
sguardo alternativamente verso la formatrice, come a dire hai visto, lo sapevo,
non funziona , lo fa apparire critico nei confronti della regola stessa del gioco.
Dopo 30 minuti, il tempo è scaduto; è il momento della restituzione e della
discussione nel gruppo. La formatrice avvisa che bisogna fare un po’ in fretta
perché il programma della giornata prevede ancora una unità didattica, e
subito volge la domanda agli osservatori.
Il primo commento delle tre osservatrici riguarda la loro ammirazione per il
ruolo coraggioso della corsista che ha assunto, da sola, lo schieramento “a favore”.
MO non ascolta, è già in piedi, con il busto proteso e con il braccio levato,
il viso rilassato, quasi sorridente, pronto a parlare come se fosse convinto che
può finalmente dire la sua idea.
Viene immediatamente bloccato dalla formatrice che avanza verso di lui
dicendo: lo so, lo so che voi non siete abituati alla didattica attiva, ma queste
cose vi serviranno.
MO, visibilmente contrariato e deluso: ma io volevo dire che…
La formatrice lo interrompe, contrariata a sua volta: Sì, sì ma adesso non è
il momento…
MO: Ma perché io pensato…che…
Formatrice, con tono ammonitivo: Insomma, sono io che decido
dell’organizzazione del tempo, sono io che so dove dobbiamo arrivare oggi;
adesso dobbiamo passare ad un altro esercizio.
La discussione viene quindi chiusa anche nei confronti degli altri partecipanti;
la formatrice appare immediatamente rilassata mentre prende il materiale per lo
scenario successivo e si rivolge di nuovo al gruppo con voce calma e suadente.
MO dapprima le lancia occhiate fulminee, poi sembra cercare consensi di
sguardi in giro e infine si semisdraia sulla seggiola assumendo una postura
visibilmente passiva e disinteressata fino alla fine della giornata di corso.
216
Successivamente:
MO non ha più voluto frequentare questa materia del corso.
Nella riunione periodica dell’équipe francese la formatrice ha, dapprima,
attribuito le difficoltà incontrate con MO, esclusivamente alla non disponibilità
degli extracomunitari verso i giochi e le forme di didattica attiva; poi però,
rendendosi conto della sua eccessiva predeterminazione durante la seconda
parte del dialogo con l’allievo, ha individuato, nell’incrocio tra differenza di
sesso, asimmetria della relazione docente/discente, e nella comune
provenienza etnica (formatore e allievo, entrambi algerini) il motivo principale
della sua indisponibilità ad un atteggiamento più flessibile.
12.2.2. Analisi e commento
Questo esempio ci sembra particolarmente interessante perché evidenzia
più dimensioni della vulnerabilità rispetto all’autodefinizione e soprattutto
come, nella realtà, esse possano coesistere e intrecciarsi in modo da concorrere
a creare una incomprensione quasi irreversibile tra docenti e studenti migranti.
Alcune di queste dimensioni potrebbero essere:
a. Natura del setting proposto e delicatezza della conduzione (la pertinenza
delle regole e della natura dei compiti).
b. Disaccordo epistemologico da parte dei corsisti sulla cornice del compito
e sottovalutazione del feedback fornito dai partecipanti (violazione
di reciprocità).
c. Presenza di componenti interculturali che possono alterare lo scambio dei
significati tra i partecipanti: (1) premesse sul setting, (2) premesse sulla
variabile sessuale, (3) premesse sull’inserimento del migrante.
d. Ansia del formatore di gestire il setting secondo il programma e nei tempi
previsti.
e. Sottovalutazione di materiali interessanti e non previsti, emergenti in
itinere, dalla dinamica stessa del gruppo.
Rispetto al punto a., è interessante interrogarsi sulla pertinenza e
sull’ambiguità delle regole dei giochi che si propongono ad una utenza
migrante. In questo caso, la natura della proposta, incitando a bipolarizzare le
posizioni, sembrerebbe in contraddizione con la costruzione di un
atteggiamento interculturale, almeno come abbiamo cercato di comprenderlo
in questa sede, soprattutto attraverso i contributi di Bateson e gli esempi
proposti da M. Sclavi119. In questa ottica, infatti, la comunicazione interculturale
richiede piuttosto la capacità di procedere secondo doppie descrizioni o di
acquisire quel tocco di humour che consente di entrare ed uscire dagli
schieramenti, senza abdicare peraltro alla propria visione del mondo.
Si può inoltre ricordare qui tutta la problematica dell’ambivalenza che emerge
119 Si veda il contributo di M.Sclavi, nel capitolo 13.
217
nel rapporto tra transizione ecologica ed autodefinizione120 e che potrebbe
rendere particolarmente difficile o semplicemente inutile per un migrante
arrivato di recente lo sforzarsi di assumere uno schieramento pro o contro,
anche se per finta.
Inoltre il contenuto provocatorio delle frasi rispecchia forse troppo da
vicino la realtà immediata del migrante, e rende di per sé più difficile quel
distacco dalla realtà che è necessario per mettere in scena il gioco. Come
abbiamo visto, alcuni migranti possono presentare una ritrosia iniziale a
schierarsi, come nel caso di MO; oppure la natura della provocazione può
suscitare schieramenti immediati da una sola parte, come è successo per la
maggioranza del gruppo qui considerato; oppure alcuni partecipanti possono
sentirsi coinvolti in modo diretto, come sembrerebbe essere il caso della
partecipante bosniaca, che si pone quasi trionfalmente ad esempio di una
integrazione riuscita, suscitando l’irritazione degli altri partecipanti del suo
stesso schieramento.
Il ruolo del conduttore appare quindi molto delicato, già nella fase iniziale,
perché se la proposta di giocare deve essere difesa e rilanciata con insistenza,
da un lato si può ingenerare una specie di paradosso (ti ordino di giocare),
dall’altro può nascere un conflitto tra il formatore ed il gruppo, sul setting
formativo stesso. In questi casi è presumibile che il conduttore sia portato a
privilegiare la comunicazione con il gruppo degli attori, trascurando così il
terzo vertice, quello degli osservatori, che potrebbe essere la risorsa principe
per introdurre nuovi significati nell’interpretazione del gioco. Trascurando
questo terzo vertice, la proposta provocatoria di schierarsi pro o contro tende
ad assumere, effettivamente, un carattere di costrizione bipolare, da cui può
diventare poi difficile uscire.
D’altra parte, considerando che il partire da una posizione bipolare coglie
il tipo di incomunicabilità più frequente, si sarebbe potuto ipotizzare una
finalizzazione catartica della simulazione; in questo caso questa esercitazione
avrebbe potuto diventare uno spunto di partenza per constatare che entrambi
gli atteggiamenti pro e contro potevano essere legittimati e che la chiave stava
proprio nella verifica della complessità dell’incontro tra più punti di vista, e non
solo due, a conferma dell’importanza delle specifiche traiettorie evolutive
personali, al di là della etichetta etnica. Tanto più che, nel caso considerato, i
comportamenti dei partecipanti del gruppo “contro” e gli spunti più
consapevoli introdotti da MO sembravano avvalorare proprio questa tesi.
Rispetto ai punti b.c.d.e., vorremmo procedere nell’analisi dell’episodio
con una doppia descrizione/interpretazione che evidenzi il possibile
cambiamento di significato delle strategie della formatrice, a seconda che la
componente culturale sessuale (c2) sia mantenuta sullo sfondo o venga portata
in primo piano.
120 Si veda anche il capitolo 9, par.9.2.3..
218
Prima descrizione/interpretazione
Se mettiamo in primo piano le violazioni di reciprocità (b), senza tener
conto delle premesse culturali implicite riguardo al ruolo della asimmetria di
potere tra sesso maschile e femminile (c2), la nostra attenzione tende ad essere
catturata quasi esclusivamente dalla delusione di MO, che ci appare vittima di
una grave e ripetuta violazione di reciprocità da parte della formatrice.
Utilizzando i dati del protocollo, il comportamento della formatrice appare
improntato ad un atteggiamento eccessivamente rigido: sembra esservi una
presupposizione unilaterale che porta la formatrice a presumere di sapere già
come l’altro dovrebbe essere e che viene autoconfermata dall'interpretazione
delle difficoltà incontrate. È da notare che nel corso dell’episodio ed anche
nella prima fase della discussione le difficoltà rilevate vengono attribuite
esclusivamente alla indisponibilità degli studenti extracomunitari ad accogliere
forme di didattica attiva.
In base a questi dati il commento potrebbe mettere in primo piano
due ipotesi:
1. l’appartenenza alla stessa etnia ha favorito nella formatrice un
atteggiamento di maggiore certezza, riguardo alla supposta ritrosia nei
confronti della didattica attiva, e quindi questa è stata data per scontata e
non negoziata con MO;
2. l’ansia, nota a tutti i formatori, di rispettare il programma, potrebbe averle
fatto sottovalutare i feedback forniti dai partecipanti.
Ciò potrebbe farci riflettere sul fatto che anche quando le nostre
anticipazioni (presupposizioni) hanno una maggiore probabilità di essere
corrette (perché conosciamo già la lingua, la cultura, o abbiamo vissuto la
stessa esperienza), a maggior ragione dovremmo evitare di utilizzarle per
scavalcare il punto di vista dell’altro. Anche una convinzione plausibile come
quella in gioco nell’esempio citato (ci sono numerose testimonianze che il
sistema scolastico dei paesi arabi sia improntato a una didattica più autoritaria
e passiva di quella occidentale) può diventare un ostacolo alla reciprocità se
non viene rinegoziata nella singola situazione interpersonale.
Anche quando pensiamo, a ragione, che un bambino abbia freddo o fame,
coprirlo o imboccarlo senza chiedergli nulla, costituisce sul piano
interpersonale, una violazione di reciprocità.
Ciò é tanto più necessario quando i partecipanti sono adulti e dotati di
riferimenti scolastici, culturali e ideologici ampiamente organizzati. In questo
caso la violazione di reciprocità, sul piano cognitivo (ti impedisco di esprimere
o non mi interessa confrontarmi con le tue premesse epistemologiche
) può
essere particolarmente mortificante e provocare una chiusura che si estende
alla possibilità di apprendere poiché, quest’apprendimento risulta troppo
costoso sul piano della dignità personale.
Riguardo alle giustificazioni apportate nelle battute finali, come la
mancanza di tempo e la necessità di passare all’unità didattica successiva, si
sarebbe potuto rimediare con una scelta più opportuna mettendo tra parentesi
219
il programma e dando allo studente la possibilità di esplicitare il suo evidente
desiderio di parlare, almeno nella fase del commento conclusivo.
Probabilmente questa sospensione e passaggio di responsabilità all’altro
avrebbe permesso alla formatrice stessa di rivedere mentalmente l'intera
sequenza e di trovare nella verbalizzazione dello studente e nel ruolo degli
osservatori anche degli spunti per una valorizzazione dell’insieme del materiale
prodotto dal gruppo.
È probabile che su questa strada sarebbero emersi nuovi stimoli alla
riflessione, anche in relazione alle potenziali strategie creative di soluzione
dei conflitti.
Si potrebbe concludere dicendo che, al di là della cura nella scelta delle
esercitazioni e della precisione nell’articolazione dei tempi e dei contenuti, è
altrettanto fondamentale una sensibilità al feedback, in modo da assicurarsi che
i partecipanti mantengano o costruiscano le condizioni di autostima e di curiosità
mentale indispensabili a rendere la loro partecipazione attiva e motivata.
Il dubbio
Tuttavia questa interpretazione, che penalizzerebbe la formatrice, non ci
soddisfa del tutto.
L’indicatore principale che ci avverte che qualcosa non va è la ridondanza
e l’esagerazione. Infatti una persona non ritorna più volte su ciò che ha già
espresso o detto se ha ottenuto la risposta che cercava. Questo è vero per MO
rispetto alla formatrice ma è vero anche per la formatrice rispetto a MO. Il suo
tono determinato appare esagerato rispetto alla richiesta di MO e ridondanti
sembrano le giustificazioni, quasi a farci venire il dubbio... che questo sia il
meno-peggio che essa possa fare, rispetto alla sua lettura della situazione.
Trattandosi inoltre di una professionista competente e di una situazione
interculturale, è quasi d’obbligo ipotizzare che ci sia ancora un’altra
spiegazione, meno esplicita, meno immediatamente visibile per un occidentale.
Seconda descrizione/interpretazione
Possiamo allora decidere di mettere in primo piano l’elemento culturale
della differenza di genere, rimasto finora solo sullo sfondo, e scoprire un
ulteriore livello di complessità di questa situazione: il confronto tra MO e la
docente è un confronto tra due persone di sesso diverso e della stessa cultura
che si incontrano sul comune terreno di emigrazione; i loro ruoli sono ribaltati
rispetto a quelli previsti nella cultura d’origine, ed entrambi sanno che l’altro
ne è consapevole.
Questa complicità culturale implicita può sfuggire ad un osservatore di una
cultura esterna, ed inoltre non si conoscono le rispettive traiettorie evolutive e
l’eventuale impatto di esperienze simili precedentemente vissute dai
partecipanti: quindi non è facile valutare il peso della minaccia che ognuno dei
due soggetti coinvolti può avere avvertito.
Questa seconda premessa, relativa alla variabile sessuale, è rimasta
implicita, forse inconscia, sullo sfondo, fino a quando non si è presentata alla
220
formatrice la possibilità di ritornare con un certo distacco sull’episodio. Se
adottiamo questa premessa culturale il comportamento della formatrice nella
fase finale acquista un nuovo spessore; infatti si può ipotizzare che essa
interpreti la ritrosia iniziale di MO a schierarsi, non solo come una conferma
della premessa c1, ma soprattutto come un atteggiamento di insofferenza nei
confronti della propria posizione asimmetrica di potere; in coerenza con questa
interpretazione, la docente potrebbe sentirsi essa stessa in una posizione
vulnerabile rispetto all’autodefinizione e diventerebbe quindi comprensibile il
suo sottrarsi alla negoziazione, a favore, invece, dell’assunzione di un
atteggiamento fermo di controdefinizione rispetto al ruolo, attraverso la difesa
del setting proposto. La controdefinizione rispetto al ruolo, in questa
situazione, significherebbe, quindi, ribadire all’altro e forse anche a se stessa,
“qui siamo in Europa e non in Algeria” .
A questo punto, se si ipotizza che la docente abbia individuato nella
premessa c2 il principale rischio di disturbo per la buona evoluzione del
setting, appare nuovamente più comprensibile che i suoi interventi siano stati
prioritariamente indirizzati a prevenire un eventuale escalation critica da parte
di MO, e che questo l’abbia portata, da un lato, a sottovalutare le potenziali
risorse creative emergenti dall’evoluzione del setting, e, dall’altro, traendo
spunto dalla conferma dell’idea che la didattica attiva sia comunque poco
apprezzata dall’utenza extracomunitaria, a passare il prima possibile alla
successiva unità didattica prevista. Questa nostra interpretazione acquista una
sua plausibilità nel corso dello scambio successivo di battute, in cui
sembrerebbe che ognuna delle parti in gioco abbia trovato conferma ad una
sua premessa e quindi abbia radicalizzato il proprio arroccamento sulla
premessa iniziale.
Infatti gli ammiccamenti critici esibiti da MO, nel corso dell’esercizio
possono essere interpretati dalla docente come conferma della sua insofferenza
al fatto di aver ricevuto un ordine (quello di giocare e, quindi di schierarsi) da
parte di una donna, e quindi essere visti già come una minaccia incombente
sulla fase della restituzione nel gruppo.
Non meraviglierebbe, allora, che, in questa fase, la docente blocchi subito
l’intervento di MO, dapprima attribuendogli anticipatamente una forma di
dissenso che utilizza in modo esplicito la premessa c1 (lo so, lo so che voi non
siete abituati alla didattica attiva, ma queste cose vi serviranno ) e subito dopo
adducendo giustificazioni sulla necessità di completare il programma della
giornata, in modo che risulti di nuovo chiaro che la responsabilità della
conduzione è la sua. Rispetto alla preoccupazione prioritaria ipotizzata, questa
strategia avrebbe il merito di evitare uno scivolamento del confronto con MO
su un terreno interpersonale particolarmente bruciante rispetto alle comuni
tradizioni culturali, ed al tempo stesso di mantenere il contenuto esplicito dello
scambio su un terreno razionale e pertinente rispetto al setting proposto ed al
proprio ruolo di docente, che andava oltre la responsabilità della conduzione
di questo specifico gioco. Mantenendosi su questo piano la formatrice evita
l’eventuale rischio di scatenare un contagio incontrollabile nel gruppo e
221
comunica indirettamente a tutto il gruppo il suo non abdicare al proprio ruolo,
che viene, infatti immediatamente ripreso in modo sicuro, calmo e suadente,
nel passaggio all’unità didattica successiva.
Da questo secondo punto di vista possiamo imparare che la vulnerabilità
rispetto all’autodefinizione, in situazione interculturale, è sempre in agguato e
può strutturarsi a diversi livelli ed in entrambe le direzioni della relazione
docente/discente.
L’aver individuato una nuova lettura non elimina la delusione osservata in
MO, il suo avere abbandonato questa parte del corso. Occorre inevitabilmente
accettare che qualche insuccesso fa parte della complessità del mestiere e
disporsi a considerare questi episodi circoscritti come spunti da cui si può
imparare qualcosa di nuovo.
Molto spesso non siamo consapevoli della unilateralità delle nostre
presupposizioni e delle emozioni che esse suscitano nel corso della
comunicazione con l’altro, oppure dell’ansia connessa al rispettare il
programma che ci eravamo dati. Abbiamo però l’opportunità di accorgerci che
qualcosa non va se diamo la dovuta importanza ai feedback che ci inviano i
partecipanti.
In questo caso le segnalazioni relative ad un disagio e ad un probabile
disaccordo epistemologico sono state ridondanti e visibili, ma proprio la
premessa c2 premeva nella direzione di sorvolare, per evitare un chiarimento
che, forse, avrebbe comportato un rischio ancora più grave.
Darsi degli spazi e dei tempi di riflessione e discussione che vadano oltre
la gestione dell’aula appare quindi un’esigenza irrinunciabile. Potere osservare
con maggiore serenità il sistema di alternative entro il quale ci muoviamo
permette di utilizzare anche le emozioni spiacevoli per considerare una nuova
cornice; in questo modo possiamo allenarci alla complessità della formazione
in situazione interculturale.
12.3. La moltiplicazione delle cornici
Potremo chiederci, anche adesso, se vediamo, rispetto a questo episodio,
altre alternative compatibili con l’insieme delle premesse ipotizzate, e al tempo
stesso più favorevoli ad un esito positivo rispetto al riconoscimento delle
richieste di MO.
Forse si potrebbe rispondere alle prime battute di MO formulando in modo
umoristico quell’invito a “giocare comunque”: Guarda che cosa ti capita! Ti
tocca obbedire, giocare e per di più è una donna a dirtelo!! Cosa ne dite di
un’altra frase provocatoria del tipo: “Nella formazione non si dovrebbe giocare
e gli insegnanti dovrebbero essere maschi.”?
222
Oppure..... (spazio libero per il lettore)
Naturalmente, le cornici non si possono moltiplicare indipendentemente
dai vincoli storico-esistenziali e dal radicamento delle nostre premesse
implicite; non si tratta, infatti, di prepararsi un repertorio di battute, ma di non
dimenticare che il gioco, l’umorismo possono salvarci, con un paradosso
leggero, da un pasticcio pesante.
Nella cornice del gioco si può essere d’accordo e in disaccordo
contemporaneamente, la leggerezza sta nella libertà lasciata anche all’altro di
controdefinirsi, senza che questo debba essere interpretato come un attacco al
setting o al ruolo reale, che il soggetto sta ricoprendo.121
121 Invitiamo il lettore che volesse approfondire, a leggere il prossimo capitolo redatto da Marianella
Sclavi, (cap.13), che tratta proprio del come allenarsi in questa direzione.
223
Capitolo 13
Apprendere ed apprendere: relazioni,
emozioni e contesti di apprendimento
Marianella Sclavi
13.1. Premessa
“L’unico modo per risalire al sistema di premesse implicite in base a cui l’organismo
opera è metterlo in condizione di sbagliare e osservare come corregge le proprie azioni e i
propri sistemi di autocorrezione” (Gregory Bateson)
I quattro esempi che userò in questo scritto sono degli esercizi di
fenomenologia sperimentale e di ermeneutica pratica e hanno lo scopo
di mettere gli interlocutori che avranno la pazienza di seguirli/eseguirli
in grado di riflettere su cosa fanno quando praticano l’apprendimento
dell’apprendimento.122
Vedremo la differenza fra:
1. muoversi dentro delle premesse che diamo per scontate (“premesse
implicite”)
2. imparare a cambiare la premesse che davamo per scontate (processo che
Gregory Bateson ha chiamato “apprendere ad apprendere” o
“deutero-apprendimento”)
3. essere in grado di spiegare come “abbiamo fatto” a cambiare queste
premesse e a renderle esplicite e consapevoli.
“Apprendere ad apprendere” o “deutero-apprendimento” è un savoir
faire che mettiamo in atto quando riusciamo ad affrontare con successo dei
cambiamenti sistemici: lo svezzamento dal seno materno non solo come
frustrante sottrazione, ma come occasione per nuove affascinanti esperienze,
l’imparare ad allacciarsi le scarpe con rapidità e scioltezza o ad annodarsi il
cravattino a farfalla, o ancora imparare la nostra lingua natia o una lingua
straniera, riuscire a risolvere un indovinello, inventare una barzelletta,
a ff ro n t a re un conflitto intraculturale o interculturale in termini di
riconoscimento e rispetto reciproco, sconfiggere la dipendenza dell’alcolizzato
o aiutare lo schizofrenico e i suoi interlocutori a metacomunicare in modo non
patologico, suonare il violino, comporre un’opera d’arte o fare un’invenzione
scientifica, diventare un buon osservatore - narratore della vita quotidiana.
Fra muoversi dentro delle premesse che diamo per scontate e cambiare
queste premesse c’è un salto che si manifesta in paradossi logici e nodi
122 Questi esercizi fanno parte di una più vasta batteria che compone il corso di Antropologia culturale
che M.Sclavi tiene da alcuni anni al Politecnico di Milano e sono descritti più ampiamente nel testo:
M.Sclavi, Arte di ascoltare e mondi possibili, Le Vespe, Milano, 2000.
225
emozionali che bisogna saper accogliere e gestire creativamente. Gli esercizi
che vi propongo hanno come scopo di metterci in grado di riconoscere le
contingenze in cui questo salto risulta necessario e come si procede (a quali
trucchi si ricorre, quali resistenze bisogna superare...) per prepararsi a
compierlo.
Sono esercizi pensati apposta per farvi fare delle “brutte figure”, cioè per
rendervi consapevoli di cosa fate quando osservate “male” e per farvi vedere
che questi errori non sono “vostri personali”, ma nascono da una epistemologia
distorta che, spesso, è proprio quella che avete imparato a scuola e che
impregna di sé il senso comune della cultura occidentale.
In compenso avrete l’occasione di fare un’esperienza altamente
intellettuale, forse l’esperienza più pienamente intellettuale che esista. Infatti
avrete l’occasione di mettere in campo non solo una piccola parte della mente,
ma sia la sua parte razionale che quella emotiva, sia l’astrattezza del pensiero
analitico che la concretezza e contingenza del corpo e del pensiero emozionale
e - questa è la novità - di riflettere su quello che state facendo.
Gregory Bateson è uno dei pochi studiosi nel campo delle scienze sociali
che ha dedicato ad entrambi questi temi, umorismo ed emozioni, delle
riflessioni importanti. Nella sua “Ultima conferenza” pronunciata il 28 ottobre
1979 a Londra (il titolo era proprio questo in quanto si chiedeva agli oratori di
attenersi alle cose più vitali ed essenziali apprese nella propria vita “come se”
si stessero impegnando nella loro “Last Lecture”... e per Bateson lo è stata per
davvero...). Gregory Bateson elenca due condizioni per riuscire a mettere in
pratica, anche nel campo educativo, l’ecologia della mente e l’epistemologia
olistica che era andato elaborando nel corso della sua vita.
Primo: “Bisogna prendere le mosse da un universo organizzato e non già
suddiviso” e secondo: “Le risposte devono già essere nella vostra testa e nelle
vostre regole di percezione”.
Gli esercizi che seguono rispondono a queste due condizioni, anche se
trattano di esperienze molto comuni: risolvere un gioco di intelligenza, riuscire
a esprimersi efficacemente in una lingua diversa da quella di origine, saper
descrivere le dissonanze fra forme di vita quando si entra in contatto con una
cultura straniera e saperne venire a capo.
13.2. Esercizio n.1:
Il gioco delle premesse implicite (Giochi proibiti)
13.2.1. Questo specifico esercizio consiste inizialmente in un gioco
abbastanza noto, di quelli che si fanno dopo cena per passare il tempo e
mettere alla prova la reciproca intelligenza e forse alcuni di voi sanno già la
soluzione. Però il problema non è se si sa o no la soluzione, è riflettere, al
rallentatore e al microscopio, sul percorso emotivo e logico, che si compie nel
trovare la soluzione. È questo versante epistemologico che a noi interessa e che
226
nei giochi di società certamente non viene esplorato. Se sapete la soluzione
state lì buoni e tranquilli e aspettate la seconda fase, se invece non la sapete
vi avverto che solitamente su un’ottantina di studenti uno o al massimo due
riescono a trovarla. Inoltre, come vedremo, il più importante contributo alla
comprensione del processo non lo danno i “risolutori”, ma gli “sbagliatori”.
13.2.2. Queste sono le istruzioni. Prendete un foglio di carta e disegnatevi
sopra per almeno tre volte nove punti disposti come segue:
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Fig. 1: “Il disegno dei nove punti” riprodotti tre volte
Quello che dovete fare è provare a unire questi nove punti con quattro
segmenti senza sollevare la matita dal foglio: dove finisce un segmento deve
iniziare l’altro. Vi chiedo di rendere visibili i vari percorsi che vi vengono in
mente disegnando in rapida successione tre tentativi sulle tre riproduzioni dei
nove punti. Fatelo anche se vi rendete conto che quei percorsi non risolvono
il problema e quindi anche se provate un po’ di fastidio a buttarli giù così
perché vi sembrano inutili. Siate consapevoli che questo esercizio è ideato
apposta per farvi fare delle “brutte figure” e che esse si riscatteranno
dimostrandosi utili.
Di nuovo: se avete già fatto in precedenza questo gioco e ne conoscete la
soluzione, statevene tranquilli e attendete che gli altri si sottopongano a questa
prova. L’importante non è “la soluzione”, ma le successive riflessioni sulla
esperienza di trovare questo tipo di soluzioni a questo tipo di problemi. Infine,
dovete sbrigarvi: vi dò solo cinque minuti di tempo.
13.2.3. Sono trascorsi i cinque minuti. Chiedo prima di tutto quanti
sapevano già la soluzione, poi quanti fra quelli che non la conoscevano
l’hanno trovata. Mi congratulo e la/lo invito ad attendere. Prima vediamo come
si sono mossi coloro che non sono riusciti, poi “tu ci dirai come hai fatto”. Vado
a raccogliere in giro un po’ di fogli e riproduco alla lavagna i tentativi falliti.
Aggiungo accanto la soluzione.
Fig. 2: Esempi di tentativi falliti, con soluzione.
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Tentativi falliti
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Soluzione
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13.2.4. Lascio che le esclamazioni di meraviglia si acquietino e adesso
inizia la fase più importante. Dobbiamo ripercorrere riflessivamente questa
esperienza di ascolto/osservazione. Chi ha risolto il problema cos’ha fatto di
diverso? Varie voci: “È uscito fuori..” “È uscito dal limite”. Quale limite? Una
studentessa, timidissima (ma sono tutti molto esitanti, molto timidi) “Il contorno
dei punti”. I vari tentativi falliti sono percorsi diversi, ognuno rappresenta un
cambiamento, una correzione, rispetto al precedente. Però tutti hanno in
comune il muoversi entro un campo di possibilità che ha dei confini precisi.
Abbiamo agito come se fosse insensato o proibito o irrazionale “uscire dal
quadrato”. Forse non ci è neppure passato per la mente di farlo, anche se io
non avevo detto “non uscite dal quadrato” e neppure “guardate questi punti
come un quadrato” (Uso il “noi” perché anch’io non ho risolto questo
problema quando me l’hanno proposto e quindi mi sento accomunata). Nel
cercare la soluzione, non avete pensato “non devo uscire dal quadrato”, l’avete
dato per scontato. Questa è una Premessa Implicita. Le Premesse Implicite si
ricavano chiedendosi: come strutturavo inconsciamente, senza esserne
consapevole, il campo perché questi comportamenti, questi criteri di
correzione mi siano apparsi ovvi, scontati, logici?
13.2.5. Traccio rapidamente delle frecce che rapportano fra loro i vari
tentativi falliti e su ognuna di loro scrivo: “C1” poi un’altra freccia che rapporta
tutti questi con la soluzione e scrivo “C2”. Come segue:
C1
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C1
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C1
C2
Fig. 3: Cambiamento 1 e cambiamento 2
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Ci sono cambiamenti entro un campo, entro una cornice, e cambiamenti di
campo, di quella cornice. I primi li chiamiamo Cambiamenti1, i secondi
Cambiamenti2. Un Cambiamento2 non opera allo stesso livello logico del
Cambiamento1, è un cambiamento delle Premesse Implicite che regolavano i
cambiamenti di ordine inferiore. Chi ha risolto il problema non si è limitato a
cambiare percorso, ha cambiato le Premesse. Ha messo in discussione qualcosa
di cui non era consapevole, che dava per scontato. È una esperienza strana,
che noi vogliamo studiare.
Questo vale per qualsiasi processo conoscitivo e di apprendimento.
Possiamo imparare “nuove cose”, acquisire nuove informazioni dentro un certo
modo di vedere, di inquadrare le cose, entro una certa cornice oppure
possiamo cambiare quel modo di vedere. In tutti i casi in cui non è necessario
mettere in discussione le premesse implicite va bene il primo processo, in tutti
quelli in cui tentiamo e tentiamo e tentiamo e continuiamo a sbattere la testa
contro un muro, dovrebbe nascerci il dubbio: forse devo cambiare le Premesse.
La difficoltà è che non sappiamo quali sono queste Premesse e lo sapremo solo
dopo che abbiamo trovato la “soluzione”! Muoversi dentro una cornice o
cambiare la cornice sono due processi assolutamente differenti, comportano
due diversi modi di rapportarsi a se stessi e al mondo. Imparare l’arte di
ascoltare/osservare (A/O) vuol dire impratichirsi, familiarizzarsi con questi due
diversi modi di rapportarsi a se stessi e al mondo e in particolare con cosa
succede quando si passa dall’uno all’altro, dal Cambiamento1 al Cambiamento2.
Imparare l’arte di A/O e imparare a “vedere fenomenologicamente” sono la
stessa cosa.
13.2.6. Quando in questa sede parliamo di “Premesse Implicite”,
dunque, ci riferiamo alla strutturazione di un campo, a un processo
Gestaltico, a una Gestalt. “Gestalt” in tedesco significa “forma, formare” e
“Gestatten” significa “permettere”. La psicologia della Gestalt ha mostrato che
qualsiasi processo conoscitivo, qualsiasi attribuzione di senso comporta una
strutturazione di campo, un decidere cosa viene messo a fuoco, portato in
primo piano, e cosa lasciato sullo sfondo. Questa strutturazione comporta la
definizione di un ventaglio di possibilità entro il quale ci è consentito
muoverci e uscendo dal quale quella Gestalt, quella forma (o cornice, matrice
percettivo-valutativa, campo, tutti termini che hanno la stessa funzione)
verrebbe messa in discussione. La psicologia della Gestalt ha anche mostrato
che, per così dire “le Gestalt si difendono”. Ogni volta che tendiamo ad
ignorare i confini del campo gestaltico avvertiamo delle precise resistenze,
quel movimento trasgressivo ci appare insensato. Avventurarsi ai confini del
campo gestaltico corrisponde a mettere a fuoco elementi che erano
consegnati allo sfondo. La Gestalt “si difende” in quanto questo movimento
la smentirebbe, la dissolverebbe. È un movimento che prefigura un
Cambiamento2. “La Gestalt si difende” è ovviamente una espressione
metaforica, c’è di mezzo l’intreccio fra dinamiche della conoscenza, della
appartenenza e dell’identità.
229
Questo ha delle implicazioni molto importanti sul valore conoscitivo
delle emozioni, implicazioni che non vengono quasi mai sottolineate.
Ritorneremo in continuazione su questo punto, qui mi interessa incominciare
a mettere a fuoco le emozioni relative alle sensazioni di “insensatezza”. Mentre
tentiamo di collegare tutti e nove i punti l’eventualità di “uscire dal quadrato”
provoca ansia, è come se ci mancasse il terreno sotto i piedi. Questa ansia
possiamo interpretarla come un avvertimento che muoversi in quella direzione
è pericoloso e/o inutile e/o ridicolo. “Ci renderemmo solo ridicoli”. Per placare
l’ansia ci affrettiamo a cercarle una giustificazione, per esempio: “Se esco
dal quadrato è come se aggiungessi altri punti, già è difficile collegarne nove,
immaginiamoci dieci o undici!” Adesso siamo più tranquilli, quel
comportamento che ci provocava ansia era per davvero insensato, irrazionale.
Probabilmente dopo un po’ decideremo che a noi non interessa tanto collegare
tutti e nove i punti, otto bastano e volgiamo l’attenzione a quale punto è
meglio lasciare scoperto. Quello al centro o quello in alto a destra?
Anche coloro che questo problema l’hanno risolto hanno avvertito questo
tipo di ansia e questo senso del ridicolo. Ma hanno gestito l’ansia e interpretato
il senso del ridicolo in modo molto diverso. Intanto hanno avuto una maggiore
tolleranza nei riguardi dell’ansia, non hanno avvertito una urgenza così forte a
liberarsene; sono persone che in qualche modo nella loro vita hanno imparato
a convivere con l’incertezza, l’insensatezza, l’ambiguità, ad affrontare le
situazioni paradossali in un atteggiamento di ricerca e attesa. (O almeno hanno
imparato a gestire in questo modo situazioni di gioco analoghe a questa,
perché non è detto che poi uno si comporti così anche “nella vita” in situazioni
di tensione con la propria ragazza, o con i propri genitori...) Che ne siano
consapevoli o no (e di solito non lo sono..) devono avere interpretato questa
ansia e quel senso di ridicolo non come segnali di pericolo, ma “di ciò che ci
succede di solito quando usciamo da una Gestalt”. In altre parole hanno
associato l’ansia non con un atteggiamento difensivo-aggressivo, ma con un
atteggiamento esplorativo.
Adesso vi faccio un regalo. Vi regalo una piccola preziosa regola che è di
grande aiuto per riuscire a rapportarsi a se stessi e al mondo in modo
disponibile a un Cambiamento2. Quando la adottate vi mettete nel corretto
stato d’animo per osservare in modo fenomenologico. (Dicevano due grandi
filosofi, Nietzsche e Heidegger: “il pensiero è radicato nello stato d’animo, nel
modo di intonarsi, di connettersi”.) Disegno alla lavagna di nuovo i nove punti
e chiedo: “Secondo voi questi punti sono o non sono un quadrato?”
Quando, a questo punto, uno studente afferma : “Possono essere visti
come un quadrato”. Mi viene da rispondere: “Allora, hai capito tutto”.
Scrivo alla lavagna :
“Sì, sono un quadrato” = il senso è là fuori, l’osservatore deve prenderne atto
“Possono essere visti come un quadrato” = il senso è attribuito dall’osservatore
230
Tutti noi all’inizio di questo esercizio di fenomenologia sperimentale
avremmo dato la prima risposta. O almeno avremmo detto “Sono disposti
a quadrato”.
Dopo l’esercizio, ci sembra più corretto dire “Possono essere visti come un
quadrato, ma possono essere visti anche come...” (cosa vi fa venire in mente
la figura della soluzione? Una freccia, un aquilone. Va bene.) “anche come
parte di una freccia, di un aquilone”.
Allora la regola che vi suggerisco è la seguente: se e quando volete adottare
un modo di ascoltare/osservare fenomenologico, eliminate la copula “è” dal
vostro vocabolario. Al limite non dovete pensare: “Questa è una sedia, questo
è un tavolo”, ma “Vedo questa come una sedia, vedo questo come un tavolo”.
Mi rendo conto che sembra ridicolo, ma aiuta usare fin dall’inizio un linguaggio
che non escluda che potremmo vedere le cose anche secondo delle Gestalten
diverse. La copula “è” esclude, irrigidisce. Invece “Adesso lo vedo così, ma...”
ci induce a essere leggeri, flessibili, disponibili alla esplorazione di altri mondi
possibili.
13.2.7. Dobbiamo approfondire meglio l’asserzione “Il senso è attributo
dall’osservatore”. Non è molto chiara né di per se stessa, né nelle sue
implicazioni. Per esempio: se il senso è una costruzione dell’osservatore perché
tutti abbiamo visto un quadrato e non chi un quadrato, chi una farfalla e chi
un elefante? La tentazione sarebbe di rispondere: vediamo tutti la stessa figura
perché quella figura “è” un quadrato. E così ritorneremmo al punto di partenza.
Per capire meglio possiamo immaginare un Paese esotico, una popolazione
della Micronesia nella cui vita sociale abbia molta importanza un simbolo
religioso di questo tipo:
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Fig. 4: Figura immaginaria
Che ne so, la X è il luogo dell’altare e i due tratti sono i confini del villaggio.
Ebbene, possiamo immaginare che della gente per la quale questo simbolo
costituisce parte importante della propria vita, nel guardare i nostri nove punti
vi riconosca immediatamente gli “estremi” di questa specifica forma, di questo
simbolo, e lo faccia con la stessa unanimità con la quale noi vediamo un
quadrato. Per loro vedere un quadrato non sarà “spontaneo”. Però loro forse
potrebbero risolvere il problema di collegare tutti i punti a livello di
Cambiamento1, perché nel loro caso basterebbe collegare fra loro tutte le linee
già presenti. Non hanno bisogno, come noi, di smontare prima il quadrato per
poter costruire un’altra figura.
231
Allora quando diciamo “il senso è attribuito dall’osservatore”, dobbiamo
essere consapevoli che non esistono degli osservatori isolati, che ognuno di noi
è parte di una cultura in senso antropologico e che questa cultura è parte di
noi. Crescendo in una comunità, imparando una certa lingua, facciamo nostre
complesse gerarchie di Premesse Implicite che in quell’ambiente sono date per
scontate e che costituiscono il terreno sicuro che ci consente di capirci.
Crescere in culture diverse, imparare lingue diverse vuol dire acquisire
diverse Gestalten, imparare a dare per scontate Premesse Implicite diverse.
Adesso (dopo una pausa...) passiamo ad un altro esempio, meno astratto.
13.3. Esercizio n. 2.: Il gioco della visione
binoculare (doppia descrizione)
13.3.1. Immaginiamo un dialogo fra un congressista italiano e uno
americano. L’italiano cerca di parlare inglese.
Italiano: “I am going to a committee”
Americano: “ ? ? ?”
Italiano: (in corsivo la pronuncia) : “I am going to a..coomiitiii ”
Americano: “ ? ? ?”
Italiano: “Cooomiiitiii”
Americano: “ ? What ? ?”
Italiano: “Neever maaind !”
E se ne va
Si tratta di un incidente molto comune. L’italiano, accorgendosi di non
essere compreso, cerca di essere più chiaro, ma non ci riesce. Ogni volta si
sente più frustrato, a disagio, spazientito. Al terzo tentativo, pensa : “O io sono
un fallimento o lui è un cretino”.
13.3.2. In realtà quel che è successo può esser compreso attraverso il
concetto di mappa bisociativa.
Mappa bisociativa: “Essere più chiaro” Italiano/Inglese
Italiano
sottolineare
le vocali
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Inglese
“Più
chiaro”
sottolineare
le consonanti
L’italiano nelle successive correzioni si è attenuto a una Premessa Implicita
che vale nella sua cultura di origine e cioè che “essere più chiari” vuol dire
sottolineare maggiormente le vocali. Invece per gli inglesi “essere più chiari”
implica sottolineare meglio le consonanti. Sforzandosi di correggere la propria
pronuncia l’italiano ha continuato a peggiorarla. Avrebbe dovuto correggere il
proprio sistema di autocorrezione, ma non è facile perché non ne è
consapevole. Nel grafico i due cerchi rappresentano due matrici percettivovalutative diverse e incompatibili. La domanda è: cosa deve fare il congressista
per spostare l’attenzione dai comportamenti alla dissonanza fra le matrici?
Prima vediamo cosa non dovrebbe fare.
Non deve farsi prendere dall’ansia di tornare al più presto possibile “in
controllo”, dall’urgenza di “salvare la faccia”, di riaffermare la propria
“competenza”. Di fronte all’esperienza del terreno che manca sotto i piedi la
risposta giusta non è quella di puntarli con maggiore forza, ma di librarsi a
una spanna da terra . Non bisogna diventare più pesanti, ma più leggeri.
Dopo aver provato e sbagliato, provato e sbagliato, provato e sbagliato, deve
smettere di chiedersi “In che cosa sbaglio?” “Perché l’altro non si sforza di
capirmi?” Deve farsi venire il sospetto che in questo caso il conflitto e il
disagio della non riuscita comunicazione non è “colpa” di nessuno; è una
normale questione di dissonanza di matrici percettivo-valutative al cospetto
della quale bisogna prendersela con calma e dirsi: “Sto sbagliando
ripetutamente quindi sono nella condizione ideale per imparare qualcosa sulle
premesse implicite che guidano le mie azioni e pensieri.” Chiedersi “di chi è
la colpa”, “cosa è giusto e cosa è sbagliato” sono domande utili per dare una
spiegazione ai dissensi dentro le cornici, non fra cornici. Sono domande
adatte al Cambiamento1, a cercare comportamenti alternativi dentro delle
comuni Premesse Implicite.
Per spostare l’attenzione dai comportamenti isolati e dall’individuazione
delle colpe alla dissonanza di matrici cognitive, bisogna assumere
l’atteggiamento di quel giudice saggio il quale ascoltato molto attentamente il
primo litigante, commenta: “Hai ragione”; poi, sentito anche il secondo, anche
a lui dichiara: “Hai ragione”. Si alza uno del pubblico: “Ma Eccellenza, non
possono avere ragione entrambi!”. Il giudice ci pensa sopra un attimo e poi,
serafico: “Hai ragione anche tu!” Nell’esercizio che vi ho appena sottoposto è
proprio così: “ha ragione” l’italiano, “ha ragione” l’americano e al tempo stesso
“non possono aver ragione entrambi” dato che non si capiscono. Quel
“al tempo stesso” fa la differenza fra la saggezza del giudice e la ingenuità
epistemologica dei due litiganti. Il senso comune e la logica classica ci dicono
che se tutti hanno ragione non si è più in grado di decidere niente, si rimane
bloccati. Questo è vero quando operiamo in “sistemi semplici” entro i quali
valgono le stesse Premesse Implicite. Invece nel dialogo interculturale e più in
generale nella risoluzione creativa dei conflitti l’assumere che tutti hanno
ragione è la condizione per fare dei passi in avanti. Non si tratta di rinunciare
ai propri giudizi, ma di risalire dai giudizi alle cornici (sia nostre che altrui)
di cui non siamo consapevoli.
233
13.3.3. Quando un bambino impara la propria lingua materna, gioca, e gli
adulti giocano con lui, questo rapporto giocoso non è qualcosa di superfluo,
di aggiuntivo, è un tratto vitale delle dinamiche emozionali/cognitive del
deuteroapprendimento. Se il bambino indica gli occhiali e dice “mela”,
la madre non gli dirà “sbagli” “sei uno stupido”, più facilmente penserà:
“Ma guarda come è intelligente questo bambino che ha associato la forma
rotonda della mela alla forma rotonda delle lenti!” e trasformerà questo “errore”
in un gioco dentro il quale il bambino impara a chiamare “occhiali” gli occhiali,
ma anche lei ha imparato qualcosa di nuovo, ha “giocato” con ciò che prima
dava per scontato. Questo è un esempio di “ascolto attivo”, è già apprendere
ad apprendere, doppia descrizione, visione binoculare (Bateson, Maturana).
Anche le insegnanti delle elementari spesso si comportano così. Di fronte al
bambino che ha scritto “belo” invece di “bello” si chiedono “Come interpretava
questo compito, da quali interessi era “preso” nell’affrontarlo?” Probabilmente
la sua attenzione era centrata sul “tenere la riga”, sulla forma di ogni singola
lettera. Solo se l’insegnante è una esploratrice di mondi possibili, il bambino
imparerà che la differenza tra “belo” e “bello” è essa stessa frutto di una
esplorazione di mondi possibili. Ma guarda: grazie a questo errore, hai
imparato a scrivere due parole (una è una voce del verbo belare..) invece
che una sola!
Nelle scuole di grado superiore il “gioco” dell’imparare/insegnare dovrebbe
diventare più raffinato e sistematico, più consapevole dei suoi fondamenti
epistemologici. A questo livello le dinamiche dell’appartenenza e dell’identità
dentro le quali si incornicia ogni apprendimento diventano più complesse e
non è più sufficiente fare affidamento “sull’istinto materno” e sulla capacità
di gioco e di immaginazione che ancora siamo in grado di esibire nei riguardi
dei bambini.
Più la società diviene complessa, differenziata e interdipendente, e più
l’apprendimento dell’apprendimento, cioè ascolto attivo, autoconsapevolezza
emozionale, gestione creativa dei conflitti (il sapere delle emozioni e il tocco
dell’umorista...) devono diventare competenze di base generalizzate, dotazione
elementare di tutti.
13.4. Esercizio n. 3 : Nel taccuino dell’antropologa:
comportamenti, emozioni e dissonanza di cornici
Il taccuino di Mary Catherine Bateson ci offre lo spunto per seguire al
microscopio e al rallentatore come ci si connette a se stessi, agli altri e
all’ambiente quando si desidera osservare e descrivere le dinamiche di
deuteroapprendimento che rendono possibile comprendere e gestire
felicemente situazioni scolastiche complesse.
Nell’estate del 1967 Mary Catherine Bateson (d’ora in poi M.C.B) era impegnata in una
ricerca sul campo in un quartiere periferico di Manila. Un tardo pomeriggio, quando le
234
strade si erano rianimate dopo la siesta, si era fermata a chiacchierare con una sua vicina di
casa, di nome Ana, quando questa ricevette la visita di una donna più anziana, Aling Binang
di ritorno da un soggiorno nel proprio villaggio, nel retroterra. Ana aveva saputo della morte
del figlio ventenne di Aling Binang e incominciò a farle domande in proposito. Aling Binang
si mise a piangere, ciononostante Ana continuò il suo interrogatorio sui particolari più intimi
e delicati di quell’evento; Aling con le lacrime che le scorrevano sempre più copiose lungo
il viso, continuò a rispondere, rievocando quei momenti e quelle scene.
M.C.B. si tenne in disparte, evitando di interferire in questa penosa e imbarazzante
conversazione che entrambe le donne sembravano desiderose di protrarre, ma dentro
di sé si sentiva indignata per la mancanza di tatto di Ana e profondamente dispiaciuta per
Aling Binang. Al tempo stesso l’antropologa si rendeva conto che le sue reazioni
e sentimenti erano in dissonanza con i sentimenti e le reazioni delle due protagoniste.
Tornata a casa, MCB annotò accuratamente sul proprio taccuino di lavoro la conversazione
alla quale aveva assistito.
13.4.1. Prendo le mosse da questo racconto per affrontare due questioni,
intrecciate tra loro.
Prima: la rilevanza etnografica. Su quali basi MCB ha giudicato questi
comportamenti rilevanti per la riflessione e la generalizzazione.?
Seconda: il taccuino dell’antropologa. Com’è che i diversi livelli di
informazioni che un buon ascoltatore/osservatore della complessità riesce a
ricavare da un evento apparentemente banale come questo, si riflettono nel
modo di prendere gli appunti, nella organizzazione delle annotazioni?
13.4.1.1. La rilevanza etnografica.
“Ogni persona - commenta MCB (Bateson M.C.,1984, pag.17) - è calibrata
dalla esperienza quasi come uno strumento di misurazione delle differenze,
cosicché il disagio è fonte di informazioni, punto di partenza per nuove forme
di comprensione”.
Per capire meglio, vediamo di ripercorrere al microscopio e al rallentatore
il processo di MCB che guarda se stessa come parte della scena che sta
osservando. Dunque, ricominciamo da capo, mettendoci nei panni di MCB.
Ana rivolge ad Aling Binang domande sulla morte del figlio. Aling Binang piange. MCB
prova delle emozioni che la informano che sta interpretando (nel doppio senso di “leggere”
e di “reagire a”) queste domande come dei comportamenti sconvenienti e sconvolgenti, una
inammissibile e crudele intrusione nella privacy altrui. Ma una molteplicità di piccoli segnali
stonano con questa sua intepretazione della situazione. Da un lato vede Ana infierire sulla
povera Aling Binang la quale infatti piange; dall’altro le due donne sono chiaramente
desiderose di protrarre questo tipo di conversazione, nessuna delle loro reazioni indica
allarme/incredulità di fronte a comportamenti reciproci crudeli e spiazzanti. Al contrario, si
rimandano a vicenda una serie di segnali di crescente comunanza. Le stesse lacrime di Aling
Binang hanno questo senso, sono lacrime di sollievo, sfogo, riconoscenza, conforto. Tutto
questo nel New England, da cui proviene MCB, non sarebbe concepibile, se non nella ben
definita cornice di una seduta terapeutica.
Gli atteggiamenti sia di Ana che di Aling Binang (la loro umwelt, direbbe
Goffman...) non indicano che si stanno muovendo su territori inusuali e
inesplorati, pericolosi, ma che quei comportamenti messi in atto tra due
235
conoscenti nel terrazzino della casa di Ana, sono ritenuti del tutto ovvi e
naturali. Nella stessa misura in cui MCB decide di non ignorare, ma anzi di
collezionare tutti questi segnali inquietanti, “marginali e fastidiosi”, sta
preparandosi ad accogliere una bisociazione, una doppia descrizione.
Ha assunto l’atteggiamento di una esploratrice di mondi possibili, di chi
considera “il disagio come punto di partenza per nuove forme di
comprensione”.
13.4.1.2. Il comportamento di Ana (o quello di Aling Binang che le dà
corda) non è “sbagliato” (anche se la nostra prima reazione ci porterebbe a
giudicarlo tale), è al tempo stesso “insensato” (rispetto le nostre cornici) e
“sensato” (rispetto le loro cornici di appartenenza, qualsiasi esse siano). In altre
parole: MCB si rende conto che la propria riprovazione in quel contesto se
espressa apertamente sarebbe stata intesa non come una accusa di insensibilità,
ma come segno di insensibilità da parte sua. “Questa americana vuole
impedirci di esternare la nostra reciproca solidarietà e partecipazione al lutto.
Vorrebbe che fossimo indifferenti e insensibili come loro”. La radice di questi
malintesi non è dovuta a mancanza di informazioni sui comportamenti, ma
sulle cornici, sulle reazioni alle reazioni alle reazioni reciproche. Questo
specifico “senso della differenza” (come lo chiama MCB, ma che preferisco
chiamare “senso della dissonanza”) non è un parto della fantasia, ma il risultato
di un processo di osservazione sperimentale guidato dall’ascolto attivo
(deuteroapprendimento). Ed è precisamente questa osservabile e descrivibile
dissonanza che rende quei comportamenti etnograficamente significativi, degni
di essere annotati.
13.4.1.3. Gregory Bateson ha dato un nome a quei segnali che andiamo
a cercare o mettiamo in evidenza quando, in situazioni di ambivalenza, si sente
la necessità di precisare in quale contesto si opera. Li ha chiamati
segna contesto.
Alcuni esempi sono la stretta di mano dei pugili prima dell’incontro che sta
ad indicare che è vero che si prenderanno a botte, ma lo faranno
“sportivamente”; oppure la cornice del palcoscenico che indica che è vero che
le persone che si muovono in quel contesto si sposeranno, divorzieranno,
daranno in escandescenze e quant’altro, ma stanno “solo” recitando. Oppure
ancora lo studio dello psicoterapeuta dentro il quale le stesse domande che
altrove verrebbero vissute come intrusioni nella privacy altrui, diventano
legittime e acquistano un diverso significato.
Anche tutti i segni e segnali che MCB (nella ricostruzione fenomenologica
che abbiamo fatto) va a cercare per verificare fino a che punto le proprie
cornici siano o no condivise dalle protagoniste della conversazione ed
eventualmente in base a quali altre cornici esse operino, sono dei segna
contesto. L’antropologa è consapevole che “gli stessi comportamenti” possono
avere significati diversi a seconda del tipo di messaggi non verbali ed
emozionali che circolarmente li accompagnano e dei retroterra culturali in cui
236
si collocano. Un unico episodio di dissonanza è già una base sufficiente per
delle prime generalizzazioni sulle matrici percettive-valutative che valgono
nella cultura di origine di chi osserva in quanto sulla base della propria
esperienza MCB può già asserire: “Nel New England comportamenti simili in
circostanze analoghe sarebbero tipicamente interpretati in modo diverso,
opposto”. Non così per risalire alle matrici percettivo-valutative della cultura
locale. Per ricostruire le matrici percettivo-valutative alle quali le due donne
hanno attinto è necessario esplorare il loro più ampio retroterra culturale,
collezionando una serie di esperienze analoghe e cercando di capire come si
connettono fra loro. Ed è quello che MCB, come vedremo, fa.
13.4.2. Il taccuino dell’antropologa.
MCB ci informa che solitamente nel riportare le osservazioni etnografiche
sul proprio taccuino, tiene distinte, collocandole in due colonne diverse, due
tipi di annotazioni: da un lato le descrizioni degli ambienti e dei comportamenti
e dall’altro le descrizioni dei propri personali sentimenti e reazioni.
Leggendo questo suo suggerimento mi sono accorta che anch’io - pur nella
caoticità dei miei appunti - faccio queste distinzioni, anzi appena posso
(e nel caso del racconto sopra riportato si può..) distinguo addirittura tre tipi
di annotazioni :
• le descrizioni degli ambienti e comportamenti,
• quelle dei miei sentimenti e reazioni
• quelle relative alla dissonanza fra matrici percettivo-valutative.
Queste ultime di solito nei miei appunti sono evidenziate anche
graficamente, col disegno delle due (o più di due) matrici percettivo-valutative
parzialmente sovrapposte. Nel caso in esame: “gli stessi comportamenti”
(specifiche domande sui particolari della morte e conseguente pianto) vengono
interpretati da un lato come segni di una intromissione indebita e crudele nella
privacy altrui e dall’altro come manifestazioni di conforto e comunanza nel
dolore. Tali mappe sono work in process, naturalmente, strumenti euristici che
orientano l’indagine. È un modo di comprendere se stessi e il mondo
che procede per “shock culturali” (come li ha chiamati per prima Ruth
Benedict) e di cui Gregory Bateson ha mostrato le ragioni epistemologiche.
Poiché tutti e tre questi tipi di annotazione sono in realtà presenti anche
nei resoconti di MCB, quel che farò adesso è di proseguire il suo racconto sulla
esperienza sul campo nella periferia di Manila, seguendo lo schema da me
proposto. Quindi: non due tipi di annotazioni, ma tre.
13.4.2.1. Alcune settimane più tardi nello stesso vicinato ma in una zona che MCB
non aveva frequentato, ci fu un decesso e la famiglia di cui era ospite la invitò ad andare
con loro alla veglia funebre. MCB molto imbarazzata cercò di premunirsi chiedendo una
quantità di informazioni su come la veglia era organizzata e come doveva comportarsi.
Seppe così che si sarebbe protratta fino a notte tarda e che tutti erano tenuti a dare un piccolo
obolo di meno di un dollaro alla giovane donna rimasta orfana di madre.
237
Anche in questo caso le note scritte in seguito sono di tre tipi.
Un tipo di narrativa riguarda gli ambienti e i comportamenti; come e dove
è disposta la salma, le lampade funerarie, i comportamenti dei parenti e dei
vicini, gli argomenti delle conversazioni. I giovani che giocano e si corteggiano
nel cortile, proprio davanti alla porta di casa e il barbecue e i giochi d’azzardo
allestiti nel cortile, il clima festoso e le risate chiassose che echeggiano dentro
la camera mortuaria sovrapponendosi ai sospiri e alle lacrime.
Il secondo tipo di note concerne i sentimenti dell’antropologa. La sua
riluttanza già a partecipare a questa veglia, ad intromettersi nel dolore di una
famiglia che non aveva mai conosciuto; il suo imbarazzo quasi paralizzante nel
porgere l’obolo. Il senso di sconforto e spaesamento nel trovarsi in mezzo a
gruppi di adolescenti impegnati in rumorosi giochi di parole e imitazioni dei
versi di animali tipo “Nella Vecchia Fattoria” a pochi metri da cadavere e dalla
famiglia in lutto. Poiché era stata informata sapeva come comportarsi, ma i suoi
sentimenti rimanevano in contrasto con i suoi comportamenti. I sentimenti non
sono cambiabili a comando.
Il terzo tipo di annotazioni riguarda le “doppie descrizioni”, le dissonanze.
“Per una americana con un retroterra Protestante e Anglosassone come il
mio - afferma MCB - la morte esige silenzio e decoro, il rispetto della privacy
delle persone in lutto e un certo distacco dalle preoccupazioni più materiali
della vita quotidiana. Più tardi compresi che la mia presenza aveva
rappresentato un onore straordinario reso alla defunta. Che i giochi e
schiamazzi erano considerati necessari per evitare il senso di solitudine ed
efficaci strumenti di conforto, in quanto il conforto è inconcepibile senza
convivialità. Inoltre le veglie sono tradizionalmente considerate delle occasioni
particolarmente adatte ai corteggiamenti” (pag.18). I materiali per le
bisociazioni sono piuttosto evidenti: da un lato la partecipazione al lutto si
esprime col silenzio e decoro, dall’altro con schiamazzi e giochi. Da un lato la
morte e i corteggiamenti vanno tenuti separati, dall’altro è giusto che
coesistano e si sovrappongano. Su ognuno di questi comportamenti potremmo
immaginare il fiorire di malintesi interculturali. Incominciamo anche a vedere
dei fili che connettono i due episodi tra loro: “Il conforto è inconcepibile senza
convivialità; la morte non è un evento privato, ma pubblico, che va celebrato
mostrando che la vita continua”.
13.4.2.2. Quando Mary Catherine afferma: “Per una americana con un
retroterra ecc..” non intende sostenere che ogni americana di fronte agli
schiamazzi della veglia funebre della periferia di Manila si comporterebbe nello
stesso modo. Infatti, alcune potrebbero reagire con sdegno (chiedendo di
“rispettare” in silenzio il dolore dei parenti), altre chiudendosi in un timido
riserbo, altre ancora (certamente una esigua minoranza) cercando di unirsi ai
giochi e canti. La questione non riguarda i comportamenti, ma le cornici. Una
persona cresciuta in New England se decide di unirsi ai giochi e canti tipo
“Nella Vecchia Fattoria” deve comunque gestire un delicato processo di uscita
dalle proprie cornici di origine. E deve cercare di gestirlo nel senso di un
238
arricchimento, una maggiore apertura del ventaglio di scelte e non nel senso
di uno sradicamento. Può farlo in modo patologico oppure creativo, come è
successo a MCB nel seguente episodio. Ma farlo in modo creativo richiede
deuteroapprendimento e metacomunicazione.
13.4.2.3. Mesi più tardi, sempre a Manila, sono MCB e suo marito ad essere colpiti da
un lutto. Il loro bambino nato prematuro, muore. In questa dolorosissima circostanza, sia
Mary Catherine che suo marito di trovarono a dover gestire sia le condoglianze dei colleghi
americani del marito che degli amici filippini della antropologa. I primi si presentavano
scuotendo la testa con l’aria addolorata, privi di parole, si limitavano a una forte stretta di
mano e si ritiravano rapidamente per rispettare la privacy del loro amico e della sua
consorte. I filippini arrivavano sorridendo con aria enfaticamente cordiale: “È così triste che
il vostro bambino sia morto. Lo avete visto? A chi assomigliava? L’avete battezzato? Quanto
pesava? Quanto è durato il parto?” Ecc. ecc.
In questo caso MCB si è trovata in un dilemma: non poteva né voleva
impedire agli amici filippini di comportarsi secondo i loro costumi e d’altra
parte non voleva neppure reagire al dolore che queste domande le evocavano
con un atteggiamento di rigido autocontrollo che sarebbe stato interpretato
come insensibilità. Grazie alla sua precedente esperienza sul campo, decise di
prendere a modello Aling Binang. Mentre imbarazzata rispondeva a queste
domande, si lasciò andare a piangere a calde lacrime e trovò che la spontanea
e non allarmata comprensione dei suoi visitatori le recava un gran conforto.
A posteriori si accorse, per dirlo con le parole del primo esercizio, che invece
di accontentarsi di collegare fra loro solo sei o sette o otto punti, così facendo
usciva dal quadrato e li collegava tutti e nove.
13.4.2.4. Il passaggio dal secondo al terzo tipo di annotazioni del taccuino
della antropologa (cioè dal resoconto delle proprie reazioni ed emozioni
soggettive alle rilevazioni della dissonanza e individuazione di forme di doppia
descrizione e bisociazione) è il ponte dove prendono corpo le dinamiche
dell’ascolto attivo, del coinvolgimento e distacco e della attesa e intesa.
Il prossimo e ultimo esercizio mette a fuoco queste dinamiche del sapere delle
emozioni mostrando come esse siano inseparabili dalla osservazione
e narrazione degli “incidenti di percorso” e di come “l’organismo” (l’osservatore
e/o gli osservati) corregge o no i propri sistemi di autocorrezione. Senza
gestione creativa dei conflitti una epistemologia olistica non ha gambe per
camminare e il raccontare una storia diventa per davvero - come profetizza
l’approccio riduzionista - una narrazione chiusa nei limiti della soggettività dei
giudizi di valore e priva di capacità di generalizzazione. Quando gli incidenti
di percorso e la loro possibilità di trasformarli in risorse non sono più il centro
della descrizione, le emozioni possono al più mantenere un valore informativo
sugli “stati d’animo”, ma perdono ogni valore di guida affidabile per la
conoscenza del mondo esterno.
239
13.5. Esercizio n.4: Il gioco delle narrazioni
parallele (I giochi di prestigio del riduzionismo)
Durante uno dei suoi primi soggiorni in Giappone l’antropologo fondatore
della “prossemica interculturale” Edward Hall si trovò coinvolto in una
sequenza di eventi che lo lasciarono completamente confuso e disorientato.
Solo dopo un notevole lasso di tempo incominciò a venirne a capo.
Il racconto gli egli ne ha fatto costituisce un esempio molto efficace per
riflettere sulle dinamiche della comprensione interculturale. Ci aiuta ad
evidenziare i modi di ascoltare, di osservare, di interpretare le emozioni
tipici di una epistemologia rispettosa della complessità e tesa
all’apprendimento reciproco.
13.5.1. Riassunto del racconto di E. Hall
(Dal libro Beyond Culture, 1976)
Ero da una decina di giorni a Tokio, ospite di un Hotel frequentato prevalentemente da
giapponesi. Un pomeriggio rientrando nella mia stanza avverto qualcosa di sconcertante,
qualcosa che non va. Gli oggetti sul letto, sulla tavola non erano i miei; gli articoli da toilette
nel bagno erano presumibilmente di un ospite giapponese. Il mio primo pensiero è stato:
“E se adesso arriva il legittimo proprietario e mi sorprende qui? Come spiego la mia
presenza?” Allora non sapevo che poche parole di giapponese. Controllo di nuovo le chiavi:
il numero della stanza era quello giusto. Evidentemente l’avevano data a qualcun altro,
senza neppure avvisarmi! E tutta la mia biancheria, i miei appunti, i miei bagagli... Dove li
avranno portati? Ero in uno stato di confusione, di sbalordimento e irritazione. Ormai mi ero
sistemato in quella stanza, ci stavo bene. Come gli era saltato in mente... Riprendo
l’ascensore e ritorno alla Reception. L’impiegato con atteggiamento molto ossequioso (e
imbarazzato?) mi informa che sì, in effetti mi avevano assegnato una nuova stanza perché
la mia era stata riservata in precedenza da un altro cliente . Non dico nulla, ma penso:
“Lo sapevano che mi sarei fermato per circa un mese! Perché trattarmi come una specie di
tappabuchi?” Mi vengono consegnate le chiavi della nuova stanza. Entro e trovo che tutti i
miei effetti personali erano già distribuiti ordinatamente nei cassetti e sugli scaffali quasi
come se li avessi messi io stesso
. Per un momento ho avuto un giramento di testa, una
sensazione di estraneamento. Come era possibile che qualcun altro sapesse disporre tutti
quegli oggetti piccoli e grandi esattamente secondo le mie abitudini e preferenze?
Tre giorni più tardi di nuovo mi cambiarono stanza e poi ancora. Già la seconda volta
lo shock era sparito, sapevo di cosa si trattava, anche se quel comportamento mi risultava
incomprensibile. Avevo deciso di reagire almeno esteriormente come se si trattasse di una
prassi normale. Anzi, ogni volta che ritornavo in albergo per prima cosa mi informavo se
ero ancora nella stessa stanza.
In precedenza avevo soggiornato al Frank Lloyd Wright Imperial Hotel per parecchie
settimane e niente del genere era accaduto né a me né ad altri. Come mai? Cos’era? Ero
vittima di una forma di discriminazione verso gli stranieri ? Non volevo arrivare a conclusioni
affrettate, che sarebbero state legittime nella mia cultura di origine.
Come se non bastasse, qualche mese dopo ero a Kioto con alcuni amici e alloggiavamo
in una deliziosa piccola locanda su una collina con vista sull’intera città. Una sera rientrando
vediamo il direttore venirci incontro con grande sollecitudine e con aria molto imbarazzata .
Capisco al volo.
“Dovete cambiarci stanza. Benissimo, non preoccupatevi comprendiamo perfettamente.
Mostrateci le nuove stanze, per noi va benissimo”.
240
Ma in quel caso l’interprete ci spiegò che non dovevamo cambiare solo stanza, ma
anche albergo. La mia disinvoltura cominciava a tentennare. Un trambusto del genere senza
nemmeno avvertirci?
Il piccolo taxi nel quale ci avevano stipati si avvia verso il centro e si inoltra in stradine
sempre più piccole e affollate, con sempre meno europei in giro. Ci deposita in un
alberghetto di classe chiaramente inferiore a quello di provenienza, nel quale eravamo gli
unici ospiti occidentali.
A questo punto stavo diventando davvero un po’ paranoico, sapevo che è un
sentimento al quale è facile aggrapparsi in terre straniere, ma lo stavo diventando
ugualmente.
“Devono pensare che siamo proprio dei poveracci, di uno status sociale infimo per
trattarci in questo modo!”
Il giorno dopo trovammo che il nuovo quartiere era molto più autentico e interessante
di quelli visti in precedenza, lo visitammo a fondo e a parte alcune difficoltà perché nessuno
parlava inglese, riuscimmo a cavarcela egregiamente e con grande soddisfazione.
Tuttavia questa faccenda di essere presi e spostati come una valigia continuava ad
assillarmi. Pur essendo un osservatore di modelli culturali, non avevo la più pallida idea su
come interpretare questi comportamenti. La risposta finalmente la trovai grazie ad amici
giapponesi i quali erano stupiti anch’essi del trattamento riservatomi, ma per la ragione
opposta alla mia. In realtà mi era stato fatto un grande onore in quanto “ero stato trattato
come un membro della famiglia”. Quando uno viene visto come parte della famiglia, con
lui ci si può permettere di essere “informali, rilassati e privi di cerimoniosità”.
In Giappone una persona o “appartiene” o non ha alcuna vera idendità. Questo vale sia
per la azienda in cui lavora sia per l’hotel in cui soggiorna. L’ospite di un hotel - mi
spiegarono gli amici giapponesi - dal momento della registrazione diviene “membro di
un’ampia famiglia mobile”, il che per esempio dà il diritto-dovere di salutare gli altri ospiti
dell’albergo con un certo calore anche se si incontrano per strada (in effetti era successo
e mi ero chiesto se per caso sapessero chi ero...), inoltre l’appartenenza comporta dei diritti
di anzianità per cui ogni volta che ritorni hai un maggior diritto a prenotare anche con mesi
di anticipo la stessa stanza che occupavi in precedenza. Questo fa sì che i nuovi ospiti siano
effettivamente dei “tappabuchi”, ma è il far parte della stessa famiglia che conta, non in
quale camera dormi o quanto è grande.
Naturalmente gli hotel più turistici adottano un diverso comportamento perché hanno
constatato che gli americani diventano ansiosi, si irritano, “non hanno alcun desiderio di far
parte della famiglia”. Invece nel mio caso, i gestori dovevano aver in qualche modo capito
che “desideravo appartenere” e a questo desiderio avevano corrisposto accogliendomi.
241
13.5.2. Questo racconto è rappresentabile
con il seguente grafico
Mappa bisociativa: “Hotel, cambio di stanza” Usa/Giappone
Premesse implicite
USA
insulto
emarginazione
Giappone
Hotel
cambio
stanza
onore
accoglienza
Negli Stati Uniti spostare qualcuno senza neppure avvisarlo è peggio di un
insulto, significa che vale meno di niente, che è sotto il livello in cui i
sentimenti altrui vengono tenuti in qualche considerazione. Inoltre di solito gli
spostamenti sono visti come segnali di mutamento di status e il passare da una
stanza più grande a una più piccola è un chiaro segno di caduta di prestigio e
probabilmente anche di busta paga. Lo spazio che uno occupa è un importante
simbolo dello status sociale.
Non è così in Inghilterra, dove lo status è interiorizzato e viene comunicato
tramite l’accento, il portamento, il titolo. Una persona importantissima può
lavorare in una stanza piccolissima senza sentirsi affatto diminuita. I
parlamentari inglesi non hanno dei veri e propri uffici, condividono degli spazi
comuni. In America no, lo status è esternalizzato. Gli inglesi tendono a irridere
l’importanza che gli americani assegnano agli spazi che occupano. Lo
considerano un tipico comportamento “da parvenues”; un segnale di mancanza
di radici e scarso senso di sé.
Le emozioni di Hall nel vedersi estromesso dalla sua stanza a Tokio erano
state quelle tipiche “di un americano” e anche se non aveva reagito come
avrebbe fatto in America, una voce (quella che lui chiama “la parte culturale
della mia mente”...) continuava a ripetergli: “Poche storie, qui ti stanno
trattando come una scarpa vecchia”.
13.5.3. Userò questa storia per evidenziare due punti
Il primo riguarda la struttura della narrazione di Hall e il ruolo che in
questa narrazione hanno gli “incidenti di percorso”. A questo fine ricorrerò a
quello che ho chiamato “il gioco delle narrazioni parallele”.
Il secondo punto riguarda il ruolo delle emozioni, le dinamiche del
coinvolgimento e distacco e il loro collegamento con quelle della attesa e intesa.
242
13.5.3.1. Il gioco delle narrazioni parallele
Il gioco consiste nel produrre una serie di narrazioni di situazioni di
malinteso interculturale così caratterizzate:
1. narrazioni nelle quali si afferma la pari legittimità di entrambe le matrici
percettivo-valutative;
2. narrazioni in cui si afferma una sola matrice negando la legittimità o
addirittura l’esistenza dell’altra;
3. narrazioni in cui vengono esposti “i fatti” prescindendo completamente
dalle matrici percettivo-valutative.
Quella di Edward Hall sopra riportata è una narrazione del primo tipo. In
essa viene affermata progressivamente la pari legittimità di entrambe le matrici
percettivo-valutative, quella del cliente occidentale dell’hotel e quella dei suoi
gestori giapponesi.
Invece di condannare o rimuovere l’incidente che gli è capitato in nome
del fatto che “è imbarazzante” essere stato trattato come una scarpa vecchia,
Hall lo mette al centro dell’attenzione usandolo come un’occasione per
l’esplorazione di altri mondi possibili, come una risorsa conoscitiva.
Un’altra versione dello stesso evento, una versione “del secondo tipo”
potrebbe essere la seguente:
“Negli hotel giapponesi hanno uno strano modo di trattare i clienti. Ti cambiano stanza
ogni tre giorni senza neppure avvisarti. E lo fanno come se fosse una cosa normale. O non
si rendono conto di essere insultanti o fanno finta di non accorgersene. Solo negli hotel
internazionali conoscono le buone maniere”.
Qui viene trasmessa non una esperienza di deutero-apprendimento del
narratore, ma una informazione che riguarda il comportamento dei giapponesi:
sbagliano. Una unica matrice percettivo-valutativa valida. In termini del gioco
dei nove punti, potremmo dire: rimane prigioniero del quadrato, legato alle
mosse del Cambiamento 1.
In questo tipo di resoconto il protagonista ammette di essere stato vittima
di un errore imbarazzante, ma non è questo il centro del racconto, il centro è
cosa è vero e cosa è falso, chi ha ragione e chi ha torto. C’è questa urgenza a
rassicurarsi e rassicurare.
Una versione “del terzo tipo” potrebbe essere:
“Negli hotel giapponesi ti cambiano di stanza ogni tre giorni senza avvertirti, in
compenso pensano loro non solo a trasferire i bagagli, ma anche a riporli nei cassetti e nel
bagno esattamente come li metteresti tu”.
Anche qui non viene trasmessa un’esperienza, si sta ben attenti a dare delle
informazioni evitando i giudizi di valore. Per dimostrare la propria “neutralità”
si fa attenzione a equilibrare aspetti negativi e positivi, valutazione che rimane
implicita: ci si attiene “ai fatti”. Nessuna matrice percettivo-valutativa.
Da questo resoconto ricaviamo delle informazioni che possiamo giudicare
più o meno utili, ma non c’è traccia di come chi parla è arrivato a possederle,
243
né sul diverso significato che “fatti” del genere possono avere in situazioni
concrete e contingenti per persone di culture diverse.
Quando ci limitiamo a “raccontare i fatti” facciamo dei giochi di prestigio
favolosi, anche se spesso non ce ne rendiamo conto. Facciamo scomparire ogni
traccia delle matrici percettivo-valutative.
Dunque, abbiamo queste tre versioni dello stesso evento nelle quali gli
“incidenti di percorso” (l’imbarazzo, lo spiazzamento, il senso del ridicolo,
il conflitto) vengono valorizzati nella prima, edulcorati nella seconda
e totalmente ignorati nella terza.
Da un punto di vista grafico queste tre narrazioni possono essere così
rappresentate:
Il gioco delle narrazioni parallele
Due matrici bisociate
imbarazzo
valozizzato
Mondi
possibili
Ascolto
attivo
Una matrice valida
imbarazzo
edulcorato
Giudizi
di valore
Ascolto
passivo
Nessuna matrice
imbarazzo
rimosso
?
?
Neutralità
La prima versione corrisponde al modo di narrare di chi pratica l’ascolto
attivo. La seconda riflette l’etnocentrismo del senso comune. La terza è quella
a cui tendono le scienze sociali di impostazione positivistica, preoccupate di
evitare le distorsioni dei giudizi di valore eliminandoli, assieme alle cornici e
alle emozioni. Due (o più) matrici, una sola matrice, nessuna matrice. Una
progressiva riduzione delle matrici percettive-valutative ritenute fondamentali
per la comprensione scientifica di quell’evento.
244
13.5.3.2. Passiamo ora al secondo punto, al distacco e coinvolgimento,
cioè al ruolo cognitivo delle emozioni. Prima di tutto vi chiedo di passare
in rassegna le emozioni che percorrono il racconto di Hall. Sono una quantità
notevole. Se è vero che le emozioni distorcono la conoscenza, dovremmo
avere un resoconto completamente distorto. Invece a noi non sembra che sia
così distorto, ci sembra che le emozioni interpretate in questo modo siano
fondamentali per capire.
Nella seconda versione le emozioni distorcono la conoscenza, la rendono
unilaterale, ma nella prima versione no. Come mai? La seconda versione non
consente coinvolgimento e distacco, ma o distacco o coinvolgimento. Una
narrazione del genere è il fondamento della dicotomia soggettivo - oggettivo.
Sconcerto, irritazione, spiazzamento, senso del grottesco. Hall interpreta
questi sentimenti ed emozioni non come informazioni su cosa succede, ma su
come lui, americano, reagisce a una situazione del genere. Né rinuncia al
proprio punto di vista, né lo assume come l’unico possibile. Questo è il
fondamento del coinvolgimento e distacco. Si prepara a uscire dal quadrato.
Assume l’atteggiamento del giudice saggio. Ha ragione lui, avranno ragione
gli altri (se mai riuscirà a capire il loro punto di vista) e non possono aver
ragione entrambi.
Il coinvolgimento e distacco gli consente di mettersi in un atteggiamento di
“attesa e intesa”. “Attesa” di ulteriori indizi che gli consentano di capire come
quelle stesse circostanze possono essere interpretate in modo diverso, “intesa”
perché i migliori collaboratori in questa indagine sono proprio quelli che nella
sua cultura considererebbe come “nemici” e anche perché tutta questa ricerca
è volta verso l’intesa, verso un futuro apprendimento reciproco.
In questo contesto la lettura di quelle circostanze suggerita dalle sue
emozioni lungi dall’essere un ostacolo a una migliore osservazione, ne diventa
uno strumento indispensabile. Essere consapevole che “interpretare” una scena
(sia nel senso di come la si legge, che di quale parte tendiamo a recitare in essa)
equivale a strutturare un campo, consente di valorizzare proprio quei particolari
che “do not fit the frame”, che non vanno d’accordo col resto del quadro.
Nella stesura di questo racconto ho evidenziato in corsivo alcune frasi e
parole. Si riferiscono a dei particolari marginali e fastidiosi, inquietanti. Ottimo
motivo per toglierli dallo sfondo e prenderli in considerazione. Nel caso
specifico questi particolari si possono raggruppare in due insiemi: i segnali di
una mancanza e quelli di un eccesso. I primi: se mi stanno insultando mi
aspetterei dei segnali di irriverenza, di scherno, magari trattenuti, minuscoli, ma
percepibili. Come mai invece hanno un atteggiamento di imbarazzato rispetto?
Anche il fatto che non danno spiegazioni non è accompagnato da supponenza.
I secondi si riferiscono alla cura straordinaria, eccessiva con la quale sono stati
riposti gli oggetti personali nella nuova stanza. Anche qui, se era un insulto,
perché non hanno buttato tutto alla rinfusa nelle valigie e lasciato che poi il
cliente si arrangiasse? Sono segnali misteriosi, da collezionare. Da tenere lì in
attesa che uniti ad altri segnali e future spiegazioni concorrano a formare una
nuova matrice percettivo-valutativa.
245
Questa fase condivide con la versione tre delle narrazioni parallele
(“limitarsi ai fatti”) una esigenza di bilanciamento, di equità; ma le dinamiche
sono molto diverse. Nelle scienze sociali di stampo positivista si cerca di
sfuggire alla partigianeria dei giudizi di valore portandosi verso la neutralità;
giudizi di valore, cornici, emozioni, sono tutti fenomeni che vengono fatti
rientrare nel dominio del soggettivo al quale si oppongono le valutazioni
oggettive basate sui “fatti”. Invece una epistemologia dell’ascolto attivo, una
epistemologia olistica alla Bateson, va nella direzione opposta, verso la
valorizzazione della dissonanza e dello spiazzamento come fonti di conoscenza,
verso la moltiplicazione delle cornici, l’esplorazione di mondi possibili, verso la
metacomunicazione. Il “fatto è” che senza metacomunicazione non c’è né
riconoscimento, né rispetto, né ricerca qualitativa.
13.6. Conclusioni: l’abduzione
Tutti gli esercizi ed esempi che ho proposto in questo scritto procedono
per abduzione. Cioè: risolvi un problema che comporta il superare una
speciale resistenza che corrisponde alla uscita dalle cornici in cui eri assestato
in partenza, riconosci riflessivamente il tipo di dinamiche messe in atto in
quella contingenza (la sua forma dinamica), vai alla ricerca di altri casi, di altre
situazioni contingenti descrivibili con le stesse dinamiche. Questi altri casi si
prestano anche a evidenziare altri aspetti che negli esempi precedenti
rimanevano sullo sfondo o erano assenti. Fra i vari casi raggiunti per via
abduttiva, emergono delle somiglianze di famiglia.
Le riflessioni di Gregory Bateson coprono uno spettro di fenomeni che va
molto al di là degli esempi che qui ho portato. La sua ricerca è guidata dalla
convinzione che la mente umana sia solo un caso particolarmente complesso
delle forme dinamiche che regolano la comunicazione nel più vasto regno
naturale e animale di cui siamo parte. Una comunicazione fondamentalmente
estetica le cui leggi (the laws of form...) vanno esplorate esercitando e
raffinando quella parte della nostra intelligenza che è la capacità di riconoscere
la pertinenza dei contesti ai significati, di cui la logica classica è solo una
preziosa semplificazione, adatta a situazioni particolarmente semplici. Il suo è
un pensiero di riconciliazione, che mostra la via di un dialogo fra la parte
inconscia e quella conscia della nostra mente, pensiero analitico e analogico,
individuo e cultura di appartenenza, fra le diverse culture, fra queste e la
natura. È un pensiero che ci aiuta a “riconoscerci nella primula”, ad apprezzare
the pattern that connects il senso della nostra vita con quella dell’universo.
È il tentativo di separare l’intelletto dall’emozione che è mostruoso e secondo
me è altrettanto mostruoso (e pericoloso) tentare di separare la mente esterna
da quella interna, o la mente dal corpo (Bateson M.C., 1984, pag.482)
246
CONCLUSIONI
Giunti alla conclusione di questo percorso vorremmo riprendere le ipotesi
principali che lo hanno ispirato e le prospettive che ci sembrano più utili per
progredire nella comprensione del fenomeno migratorio, sia rispetto alla
comunicazione di rete tra i servizi, sia rispetto alla formazione professionale.
La principale opzione etico - epistemologica che ha fatto da sfondo al corso
di formazione e che ha ispirato questo manuale riguarda la natura circolare e
reciproca, non solo dei rapporti di rete e d'insegnamento-apprendimento, ma
più globalmente, del rapporto tra il sistema che osserva ed il sistema che
è osservato, elemento centrale della prospettiva della complessità.
Si è cercato di evidenziare come questa prospettiva sembri essere
particolarmente adeguata alla comprensione dei fenomeni interculturali.
Per citare solo due aspetti:
• dirigendo l’attenzione verso i vincoli dell’osservatore e verso la reciprocità
dell’autodefinizione tra sistema che osserva e sistema che è osservato, essa
fornisce una chiave di lettura del rapporto tra culture autoctone e culture
minoritarie che va nella direzione di una trasformazione dei reciproci
vincoli, piuttosto che verso una concezione omologante o ghettizzante
dell’integrazione;
• descrivendo l’incontro di rete tra istituzioni in una prospettiva di
complementarietà tra le diverse istanze territoriali, essa valorizza anche
i livelli informali, quelli intermedi e le strutture meno istituzionalizzate,
come, ad esempio, le associazioni ed i gruppi di volontariato.
Si è voluto inoltre sottolineare che la rete è costituita da più attori e che
ogni attore della rete può, di volta in volta, trovarsi sia nella posizione
dell’osservatore, sia nella posizione dell’osservato.
D’altra parte il sistema che osserva non è costituito solo dai formatori e
dagli operatori della rete, ma anche dalle persone migranti.
L’opzione verso la reciprocità che si è cercato di supportare attraverso
l'illustrazione del Dispositivo di formazione/formatori ed i diversi esempi,
implica, infatti, che i principi inerenti la concezione della natura umana, in
particolare la capacità di autodefinirsi, ma anche la complessità del come si
apprende e del come si comunica, pur nelle varietà dei percorsi e delle
appartenenze culturali, vadano considerati con grande delicatezza, per tutti i
soggetti coinvolti.
Ad un altro livello, potremo constatare anche che la prospettiva della
complessità ripropone, sul piano scientifico, alcuni temi di riflessione della
tradizione cristiana: la parabola della trave e della pagliuzza, invita a tener
conto dei vincoli dell’osservatore e l’imperativo di “non fare all’altro quello che
non vorresti fosse fatto a te stesso” implica un principio di similarità di base tra
tutti gli esseri viventi.
247
La dimensione dell’ascolto attivo, della gestione creativa dei conflitti, della
capacità di chiedere e di attendere è stata richiamata più volte, ma essa trova
soprattutto nel capitolo redatto da Marianella Sclavi, la palestra per provare a
sperimentarli sia a livello intellettuale che emotivo.
Nella prospettiva presentata la formazione professionale con persone
migranti, è vista, innanzitutto, come un'occasione per fornire delle
opportunità stabilizzanti.
L’opportunità stabilizzante può essere infatti uno spazio nel quale acquisire un
modo personalmente/socialmente significativo, qui ed ora, per ri-connettere gli
schemi della propria traiettoria evolutiva, attraverso una ridefinizione appagante
delle attività dei ruoli e delle relazioni sperimentati nella cultura di arrivo.
Si è visto che le figure del tutor e del mediatore culturale rappresentano a
questo proposito, un ruolo di sostegno e di promozione evolutiva, sia per i
singoli migranti, sia per la comunicazione di rete.
L’approfondimento dei nodi critici ci ha portato infatti ad ipotizzare uno
specifico dispositivo di accompagnamento, orientamento e formazione
individualizzato, che vede la collaborazione tra prima accoglienza, scuola e
formazione professionale regionale, allo scopo di facilitare un inserimento
lavorativo, non solo strumentale, ma anche soddisfacente.
Nel quadro di questa collaborazione tra aree il problema della verifica dei
prerequisiti linguistici è stato affrontato a più livelli ed il contributo di Gioia
Maestro sulla CILS, indipendentemente dalla eventuale adozione, potrà essere
utilizzato come uno strumento di dibattito e di confronto, a partire dai sistemi
già elaborati dalle diverse strutture.
Si è inoltre cercato di partecipare al lettore la consapevolezza di essere
all’inizio di questo processo di riflessione collettiva; non disponiamo di una
casistica longitudinale per capire cosa sta davvero succedendo ai migranti ed a
noi, e, soprattutto, quali saranno gli effetti a medio e lungo termine delle
sofferenze che una grande parte di loro vivono accanto a noi. Nel testo
abbiamo cercato di presentare un ventaglio di posizioni, quella della psichiatria
francese relativa alle ricerche sulla prima immigrazione algerina, quella più
ottimistica di Bronfenbrenner, relativa alla crisi del ’29, e quella di alcuni
corsisti che sembrano rivendicare il diritto ad essere proiettati sul futuro, più
che sull’analisi dei possibili danni legati all’esperienza passata.
A questo proposito, le riflessioni possono moltiplicarsi. Pensiamo, per
esempio, al fatto che, da un lato, i processi di globalizzazione ed i fenomeni
migratori stessi, stanno mettendo sempre più in evidenza i fattori
d’interdipendenza umana e gli effetti boomerang delle concezioni unilaterali
del benessere. Questo, non solo per “l’altro più debole”, ma, alla lunga, anche
per il sistema, più potente, che, a suo tempo, ha ritenuto più vantaggioso
gestire la prima mossa in una prospettiva autoreferenziale di “non reciprocità”.
Dall’altro è evidente che la consapevolezza di questa interdipendenza non
sembra essere un motivo sufficiente per innescare conseguenti comportamenti
ispirati alla reciprocità. É come se la maggiore accessibilità delle informazioni
e la vicinanza stessa creasse una nuova alienazione o una specie di
248
assuefazione alla convivenza tra il modernismo spinto e nuove forme di
inciviltà. Da un’intervista di Enzo Biagi a Pino Arlacchi, vice presidente
dell’ONU, responsabile della Commissione contro la Criminalità, sono emerse
delle informazioni agghiaccianti: il fenomeno più preoccupante di questi anni
sarebbe il commercio di persone, soprattutto donne e bambini. Le cifre sono
impressionanti: proprio nel nostro secolo il commercio di schiavi risalirebbe a
30.000 unità, rispetto alle 12.000 dei millenni precedenti123. Di fronte a questi
dati, il nostro impegno e la nostra opzione verso la reciprocità assumono una
dimensione naìf. Eppure verrebbe da chiedersi: nei progetti ufficiali i migranti
sono definiti fasce deboli, ma loro come ci vedono? Il nostro atteggiamento
verso l’altro, verso la salute, verso il denaro, verso il cibo, verso l’educare i
nostri figli, verso la morte, come ci farà apparire? Deboli o forti?
Abbiamo cercato di fare emergere il potenziale ruolo protettivo dello spazio
della formazione professionale, rispetto al processo di stabilizzazione,
evidenziando che essa può fornire sia un luogo di rispetto dell’ambivalenza,
sia un luogo di appartenenza, sia un luogo di attività e di significati condivisi,
sia un collegamento di sostegno rispetto alle altre situazioni ambientali
sperimentate dal migrante nella fase di inserimento.
Ipotizziamo quindi che i diversi percorsi formativi possano rimettere in
moto la vitalità cognitiva e identitaria del soggetto migrante, risollevandolo
dall'impatto dell’emergenza, e offrendogli nuovi e più ampi margini di libertà
per effettuare le sue scelte.
Abbiamo assunto, inoltre, l’ipotesi che il percorso della persona
in formazione sia favorito se i rapporti tra gli attori della rete locale sono
improntati, essi stessi, ad una prospettiva di reciprocità; e se gli eventuali nodi
ed incidenti critici diventano lo spunto per una maggiore consapevolezza dei
rispettivi vincoli e del punto di vista dell'emigrante stesso, una volta entrato nel
circuito assistenziale e/o formativo. Gli esempi di collaborazione riuscita,
tuttora in via di ulteriore sviluppo e consolidamento, sono incoraggianti a
questo proposito.
Tuttavia abbiamo cercato di esplorare anche le ombre, le difficoltà della
cooperazione, o, almeno, di non farla apparire come qualcosa di scontato o di
esclusivamente ideologico. Per questo si richiede una scelta consapevole da
parte dei singoli formatori ed operatori ad osservare anche se stessi ed a
salvaguardare qualche spazio per la riflessione ed il confronto con i colleghi
del territorio.
Il suggerimento di partire dalla esplicitazione dei propri vincoli, nel
confronto eterogeneo, va nella direzione del riconoscimento del potere/sapere
conquistato, da ognuno, nella condivisione quotidiana delle pratiche
professionali, nella propria microcultura istituzionale.
Questo riconoscimento delle potenzialità innovative e non solo costrittive
dei vincoli è stato posto alla base della similarità tra i diversi attori
123 Trasmissione "Il fatto" di E:Biagi, TV1, 26/6/2000.
249
e dell’isomorfismo tra i diversi ambiti esplorati: la formazione formatori, la
comunicazione di rete, la comunicazione in classe.
La presentazione degli elementi di eterogenità di una classe multietnica,
seguita dal problema della vulnerabilità all’autodefinizione, vuol far leva più
sulla importanza di atteggiamenti vigili e flessibili, che sulla somministrazione
di tecniche da usare come ricette. Ognuno troverà le sue, sia ricorrendo ad altri
contributi, sia predisponendosi ad un attegiamento di ricerca e di
collaborazione con colleghi più esperti.
Si sono presentati esempi di violazioni di reciprocità e ci preme qui
riprendere questo discorso ad un livello più ampio di quello assunto nel testo,
a proposito della formazione.
Ricordiamo, ad esempio, la violazione che consiste nello screditare colui
dal quale si vuole o si può riceve un aiuto. Dal punto di vista del rapporto, più
generale, tra europei e migranti extracomunitari, questa modalità comunicativa
può appoggiarsi su rappresentazioni sociali stereotipizzate. Si potrebbe fare
l’esempio dell’atteggiamento diffuso, tra noi italiani, in base al quale lasciamo
ai migranti i lavori che noi non vogliamo più fare (asfaltare le strade, lavorare
nelle acciaierie…) o che non riusciamo a fare (assistere gli anziani, gli
handicappati) e che ci sono comunque necessari, occultando la dimensione
della richiesta d’aiuto a cui questi lavoratori migranti rispondono, e
mascherandola con dichiarazioni generalizzanti (tolgono il lavoro ai nostri
giovani, rubano, si drogano, sono sporchi). Queste dichiarazioni, da un lato,
fanno apparire solo noi come le persone disponibili che forniscono l’aiuto,
e dall’altro disconfermano sia il valore della prestazione dei migranti, spesso
sottopagata e svolta in “nero”, sia il loro più ampio raggio di potenzialità
professionali ed umane, come se fossero solo queste le prestazioni di cui essi
fossero capaci.
Benchè questo esempio evochi problematiche politiche ed economiche di
ben più vasta portata, è comunque interessante per ricordare che la
comunicazione faccia a faccia con i migranti può risentire degli stereotipi
comunicativi ai diversi livelli dell’ambiente.
L’intolleranza razzista spesso nasce proprio quando gruppi di persone si
convincono che gli stranieri siano sporchi, rubino, tolgano il lavoro ai nostri
giovani. Queste rappresentazioni sociali, che sono spesso alla base delle
presupposizioni unilaterali nascono dagli individui e dai gruppi, per le strade,
nei bar, negli uffici, sugli autobus, dove la gente commenta, analizza, scambia
opinioni che influenzano, poi , i comportamenti quotidiani. I corsisti migranti,
soprattutto i futuri mediatori culturali, sono interessati ad affrontare
nell’ambiente della scuola, che appare più protetto e dove il loro ruolo è più
chiaro, il problema dei pregiudizi, degli stereotipi, delle incomprensioni; sono
molto curiosi di avere informazioni dai docenti su che cosa la gente là fuori,
per la strada, sugli autobus, nei posti di lavoro pensa di loro, come migranti.
All’inizio quando una persona sull’autobus stringeva la borsetta o si
scostava io mi sentivo male, accusato, nudo …. La scuola mi ha dato come un
250
vestito, una cosa intorno che mi protegge. Io adesso penso che questa gente lo
fa per pregiudizio , che non si riferisce proprio a me e che io so delle cose che
lui non sa…Da quando vado a scuola, per la strada, in certi momenti mi
scopro che sono tranquillo. (un corsista della Costa D’avorio )
Dice Camilleri (1979, pag.66): “Le minoranze dei migranti in una società
culturalmente antagonista, sono condannate a inventare una denaturazione
calcolata della loro identità, tale che esse continuino a riconoscersi, diventando
sufficientemente altre per vivere con gli altri”.
La prospettiva dell’autodefinizione e della reciprocità rifiuta l’ineluttabilità
di questa condanna perché vede l’incontro tra appartenenti a culture diverse
come una opportunità di scambio e di riorganizzazione delle identità culturali,
senza che nessuna di queste debba snaturarsi in nome dell’altra. La chiusura
monoculturale tende, infatti, a far dimenticare o dare per scontate le proprie
tradizioni, mentre una concezione positiva dello scambio tra culture,
costringendo i protagonisti dello scambio a rivalutare le tradizioni e i riti propri
delle rispettive etnie, può innescare anche una rivitalizzazione degli elementi
della cultura autoctona. (Parrinello, 1993)
In questa ottica sarebbe importante, nei lavori futuri, capire meglio
i microprocessi in cui siamo coinvolti come operatori e come docenti. Passare
cioè a ricerche qualitative sul campo, a progetti di formazione-ricerca, in cui i
migranti possano essere coinvolti in modo attivo, nel modo di documentare la
loro esperienza di stage, nel renderci più consapevoli della ricchezza e dello
sforzo che comporta, anche sul piano cognitivo, l’inevitabile naturalezza della
loro visione b i n o c u l a re; in definitiva, che essi potessero essere più
esplicitamente i nostri partner nella ridefinizione dei setting formativi.
Ciò comporterebbe senz’altro una rivitalizzazione delle nostre concezioni e
nuove idee, nuove percezioni dei vincoli, come lo dimostrano già alcune
ricerche che vanno in questa direzione124.
Per il momento ci siamo limitati a consigliare un atteggiamento di cautela
verso l’adattamento forzato, e un atteggiamento di generica consapevolezza
della complessità dei diversi modelli di insegnamento-apprendimento che
possono fare da filtro tra i migranti e le nostre scuole professionali. Abbiamo
soprattutto invitato a non dimenticare la complessità dell’altro ed a costruire
patti formativi che consentano di fare emergere questa complessità.
Abbiamo sostenuto la opportunità di un atteggiamento che oscilla tra il
mettersi nei panni dell’altro, per aiutare noi stessi a comprendere la complessità
dello scambio in cui siamo coinvolti (allenamento alla doppia descrizione) e
quindi ritornare immediatamente dopo nei propri panni, un po’ trasformati da
questa migrazione nell’altro, per poter collaborare o aiutarlo davvero.
Siamo davvero convinti che sia un modo di partire con il piede giusto.
Ora, il desiderio, è andare oltre questa prima mossa.
124 Si vedano, ad esempio, i già citati: Massa e altri, 1994; Carlini G., 1991; Demetrio D., 1984,1992.
251
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256
Allegato n. 1
CORSI DI ORIENTAMENTO DI 30 ORE
RIVOLTI AI MINORI STRANIERI
Maggio 1999
PROGETTO EUROPEO INTEGRA I.TER
257
CORSO:
rivolto a minori Migranti
MATERIA:
Orientamento al lavoro
DURATA:
30 ore
Obiettivo finale
Si propone ai giovani Migranti, che intendono intraprendere un percorso di
verifica-modifica della rappresentazione del “Sé” nel passaggio dal paese
d’origine all’Italia, di rielaborare le conoscenze, le competenze e le padronanze
acquisite in patria. In una seconda fase l'utenza deve essere in gado di
individuare l’orientamento formativo e professionale fattibile e spendibile nel
paese che li ospita. L’obiettivo finale è rappresentato dall’inserimento del
giovane in un percorso (che preveda la compresenza di più indirizzi) formativo
e/o lavorativo da lui scelto ed accettato con cognizione di causa per il
successivo ingresso nel mercato del lavoro.
Note tecniche
Luogo di svolgimento: Casa Di Carità Arti e Mestieri di Corso B. Brin, 26
Data d’inizio : 4 Maggio 1999 ore 14
Orario : lunedì/martedì/giovedì ore 14 - 17
Partecipanti : Minori Migranti in possesso di un secondo livello (basso) di
alfabetizzazione e di età non superiore ai 18 anni. Per i Minori soli è sufficiente
la presentazione della pratica/o presa in carico per l’ottenimento della tutela.
Si richiede al Centro Interculturale di predisporre l’utilizzo di un Mediatore
Culturale per 8 ore, e di Mediatori che stanno frequentando il corso alla Casa
di Carità Arti e Mestieri e svolgono attività di Stage.
Informazioni e iscrizioni
Sportello Orientamento Lavoro Migranti C. so B. Brin, 26
Tel. 011/258488
Orari:
lun. 15 - 18; mart. 18 - 21;
merc. e ven. 9 - 12.
Sportello Orientamento Migranti della C.d.C. presso il C.T.P.
Parini e Braccini in collaborazione con i referenti scolastici
258
PROGRAMMA DEL CORSO
1.
ARGOMENTI
• Accoglienza e relativa mappa di riferimento
(paese d’origine e paese d’arrivo)
• Contatto e presa in carico dei servizi nel territorio locale
OBIETTIVI
Far emergere le competenze, le abilità acquisite dal Migrante
nel suo Paese d’origine, nella sua storia passata coniugandole
con le opportunità offerte dalla rete territoriale locale
attraverso un percorso strutturato di orientamento alla
formazione e al lavoro.
CONTENUTI DA
TRASMETTERE
a.
b.
c.
d.
SUSSIDI E
STRUMENTI
DIDATTICI
• Brain storming con il sostegno del Mediatore culturale
• Esercizi individuali e di gruppo sostenuti dal Mediatore
culturale
• Decodifica dei messaggi avendo particolare attenzione del
substrato culturale del Migrante
• Schede sinottiche
Il recupero della memori;
Comparazione con il Paese d’arrivo
Raccolta dati personali
Prima definizione della scelta formativa e lavorativa
2.
ARGOMENTI
• Rappresentazioni degli interessi e delle motivazioni
• Presentazione delle risorse - servizi offerti dal territorio ai
cittadini Migranti
• Orientamento e primo bilancio di preferenze
OBIETTIVI
L’allievo dovrà essere in grado di definire: quali sono e
proprie caratteristiche personali, quali sono i suoivincoli in
un contesto monoculturale ed interculturale, quali sono le
sue preferenze nel definire un progetto professionale,
avendo presente le risorse che il territorio offre per
svolgere una proficua attività di ricerca del lavoro.
CONTENUTI DA
TRASMETTERE
a. Analisi del Sé
b. Bilancio di interessi personali e i vari atteggiamenti
culturali
c. I servizi territoriali
SUSSIDI E
STRUMENTI
DIDATTICI
•
•
•
•
•
Scheda personale
Scheda rappresentazione interessi e motivazioni
Bilancio di preferenze e di competenze
Schede servizi territoriali
Brain-Storming
259
3.
ARGOMENTI
•
•
•
•
Presentazione dei profili professionali
Fabbisogni lavorativi richiesti dal territorio locale
Vincoli e prospettive
Carta dei Mestieri
OBIETTIVI
Far emergere i profili professionali previsti dai corsi professionali
al lavoro nei vari Centri associati in rete. Tale attività dovrà
evidenziare i vincoli, i pre-requisiti e le prospettive collegati allo
svolgimento della mansione prevista dal profilo professionale
presentato. Al termine di questa fase ciascun utente effettuerà
una prima scelta cercando di evidenziare le caratteristiche di un
mestiere di sua scelta.
CONTENUTI DA
TRASMETTERE
a. La motivazione e i bisogni umani
b. La motivazione come strategia per il successo
c. I criteri di scelta di un mestiere
d. Figure professionali in crescita e in declino
e. Tendenze del mercato del lavoro in riferimento ai migranti
SUSSIDI E
STRUMENTI
DIDATTICI
• Scheda personale
• Scheda rappresentazione motivazioni
• Repertorio dei profili professionali e delle opportunità
lavorative e formative offerte dal territorio
• Schede servizi territoriali
• Brain-Storming
4.
ARGOMENTI
• Stage orientativo (visita realtà formative, consultive,
lavorative)
OBIETTIVI
Presentare attraverso una serie di visite guidate le reali
opportunità di formazione professionalizzante offerte dal
territorio. Inoltre gli utenti avranno l’opportunità di visitare
centri territoriali che si occupano di mettere in contatto
domanda e offerta di lavoro e una serie di realtà produttive
selezionate in base ai possibili sbocchi professionali
individuati.
CONTENUTI DA
TRASMETTERE
a. Visita guidata presso l’agenzia formativa
b. Visita guidata presso l’Agenzia per l’impiego
SUSSIDI E
STRUMENTI
DIDATTICI
•
•
•
•
260
Scheda personale
Stage orientativo
Autovalutazione orientativa
Brain-Storming
5.
ARGOMENTI
• Nuovo colloquio
• Progetto personale
OBIETTIVI
Formalizzare il livello di orientamento maturato dal Migrante
attraverso un nuovo colloquio fra l’Utente, il tutor orientativo
e il mediatore culturale. Alla luce di quanto emerso dal
percorso di orientamento verrà formulato un progetto
personale o patto formativo che conterrà la scelta di indirizzo
formativo finale da intraprendere.
CONTENUTI DA
TRASMETTERE
a. Raccolta dati personali
b. Definizione della scelta
c. Rinegoziazione del progetto
SUSSIDI E
STRUMENTI
DIDATTICI
•
•
•
•
Scheda personale
Progetto personale
Contratto
Presenza del Mediatore culturale
261
DESCRIZIONE ANALITICA DEL PROGRAMMA
e SOGGETTI REFERENTI
1. DESCRIZIONE DELLE FASI DEL PERCORSO
Accoglienza e contatto con successiva presa in carico
In questa fase l’utente è invitato a prendere conoscenza del percorso di
orientamento proposto e a formalizzare la sua partecipazione a esso.
Modalità : sportello presso la Parini e la Braccini con l’utilizzo di due
mediatori e presentazione e finalità dell'orientamento all'utenza minore.
SCHEDA D’ISCRIZIONE AI CORSI D’ORIENTAMENTO
PER GIOVANI CITTADINI MIGRANTI MINORI
COGNOME E NOME:
INDIRIZZO:
n.
PRESSO:
Tel.
NATO/A A:
il
NAZIONE:
PRATICA DI REGOLARIZZAZIONE:
REFERENTE (eventuale tutela):
ISCRIZIONE AL CORSO DEL:
MATTINO
POMERIGGIO
RICEVUTA D’ISCRIZIONE
COGNOME E NOME:
Data d’iscrizione:
262
CAP
Prov.
Fase 1 : accoglienza
L’utente viene accolto nel centro, vengono presentate le modalità e le
finalità del percorso e, contestualmente, viene effettuata una prima
ricognizione della sua storia personale e delineata una prima mappa dei servizi
con i quali ha avuto contatti.
Fase 2 : primo bilancio di competenze
L’utente, guidato dal tutor orientativo e coadiuvato dal mediatore culturale,
procede ad un’analisi, sia pure approssimativa e provvisoria, delle proprie
competenze conseguite nel paese d’origine e all’estero, interessi, desideri,
potenzialità. Propedeutica a questa fase è il confronto tra usi, costumi,
tradizioni, modi di vita, di organizzazione del sapere e del lavoro nella cultura
d’origine e in quella d’arrivo. In tale fase l’approccio sarà in parte collettivo, in
parte individuale.
Fase 3 : presentazione dei profili professionali
Vengono presentati i profili professionali previsti dai corsi di preparazione
al lavoro nei vari Centri associati in rete. Tale attività dovrà evidenziare i
vincoli, i pre-requisiti e le prospettive collegati allo svolgimento della mansione
prevista dal profilo professionale presentato. Al termine di questa fase ciascun
soggetto effettuerà una prima scelta dell’indirizzo che intende seguire. In
subordine è prevista la possibilità di orientare e accompagnare nella ricerca del
lavoro quei soggetti che presentano già una sufficiente professionalità per
l’entrata nel mondo del lavoro.
Fase 4 : stage orientativo
Vengono presentate attraverso una serie di visite guidate le reali
opportunità di formazione professionalizzante offerte dal territorio. Inoltre gli
utenti avranno l’opportunità di visitare centri territoriali che si occupano di
mettere in contatto domanda e offerta di lavoro (CILO, Orientamento lavoro
Migranti - Sportello O.L.M., Agenzia per l’Impiego…) e una serie di realtà
produttive selezionate in base ai possibili sbocchi professionali individuati.
Fase 5 : progetto personale e contratto
E’ previsto un nuovo colloquio fra l’utente, tutor orientativo e mediatore
culturale. Alla luce di quanto emerso dal percorso di orientamento verrà
formulato un progetto personale o patto formativo che conterrà la scelta di
indirizzo formativo finale da intraprendere.
263
2. ÉQUIPE
E’ composta dai diversi tutor del dispositivo (i tutor orientativi gli insegnanti
che gestiscono le lezioni d’orientamento- quelli dello sportello, il mediatore
culturali), dal coordinatore professionale, e da quanti altri siano coinvolti nella
rete (scuola, servizi orientativi e di politiche del lavoro, sportelli per Migranti,
imprese,...)
3. VERIFICA
• In itiner e:
sarà compito dei tutor orientativi e del mediatore culturale cogliere ed
evidenziare le modificazioni che intervengono nella rappresentazione del
sé, da parte delle diverse agenzie (scuole, F.P., aziende) e registrarle
all’interno della scheda personale.
• Finale :
la valutazione finale sarà rappresentata dalla stesura del progetto personale
di formazione e dalla adesione ad un successivo percorso educativo,
formativo, lavorativo.
4. CONCLUSIONE DELLE ATTIVITÀ DI ORIENTAMENTO
Al termine del corso di Orientamento di 30 ore il corpo docente ha deciso
di consolidare i rapporti di rete dei servizi territoriali che hanno collaborato,
con soddisfazioni delle parti, all’attuazione dei corsi. I formatori considerano
importante organizzare un incontro con i referenti della rete territoriale da
tenersi presso il Ns/C.F.P nel mese di giugno
In questa sede sono stati trattati i seguenti punti:
• i dati raccolti sul corso di Orientamento svolto dai giovani Migranti;
• l’eventuale possibile corso di formazione da svolgere da parte del giovane
Migrante nell’A.F. 1999/2000;
• l’eventuale pre-iscrizione;
• le strategie da attuare per rendere possibile l’ottenimento del Permesso di
Soggiorno.
•
•
•
•
•
•
•
I referenti della rete territoriale sono:
Parini, Braccini;
Cooperativa A.M.M.C;
Ufficio minori stranieri;
Caritas;
Comunità;
I.R.E.S.;
Centro Interculturale;
Si considera utile informare i Giudici tutelari e l’Ufficio stranieri della
Questura.
264
5. GESTIONE DELLA RACCOLTA DATI E LORO
RISERVATEZZA
Tutti i dati personali raccolti, a livello informativo, sull’utenza migrante che ha
frequentato i due corsi di Orientamento di 30 ore, hanno la seguente funzione:
• Comparare i dati all’interno della rete strutturata, attraverso una
collaborazione coordinata e progettata a monte, che permetta di veicolare
i giovani migranti nel doppio binario integrato tra Formazione
professionale e Licenza media rispettivamente nell’anno formativo e
nell’anno scolastico 1999/2000;
• Permettere una più stretta collaborazione tra i servizi sociali del Comune e
le Associazioni private che promuovono le azioni di Assistenza e di
Soggiorno residenziale;
• Rendere visibile agli organi giudiziari competenti il lavoro
professionalizzante messo in atto dai servizi territoriali (tra cui la
formazione professionale), con l’obiettivo di promuovere azioni che
facilitino l'inserimento del giovane migrante nel tessuto sociale.
Tutti i dati personali raccolti sui giovani Migranti sono utilizzati all’interno
della Formazione professionale, della Formazione scolastica e della rete
cittadina che collabora nelle azioni di recupero dei giovani Migranti.
6. FINALITÁ DEI DATI RACCOLTI E INFORMAZIONI
RELATIVE ALLE FREQUENZE
Tutti i dati personali raccolti, a livello informativo, sull’utenza Migrante che ha
frequentato i due corsi di Orientamento di 30 ore, hanno la seguente funzione:
• Comparare i dati all’interno della rete strutturata, attraverso una
collaborazione coordinata e progettata a monte, che permetta di veicolare
i giovani migranti nel doppio binario integrato tra Formazione
Professionale Regionale e Licenza media rispettivamente nell’anno
formativo e nell’anno scolastico 1999/2000;
• Permettere una proficua collaborazione tra i servizi sociali del Comune e le
Associazioni private che promuovono le azioni di Assistenza e di
Soggiorno residenziale ;
• Rendere visibile agli organi giudiziari competenti il lavoro
professionalizzante messo in atto dai servizi territoriali (tra cui la
formazione professionale), con l’obiettivo di promuovere azioni che
facilitino l'inserimento del giovane migrante nel tessuto sociale.
Tutti i dati personali raccolti sui giovani Migranti sono utilizzati all’interno
della Formazione professionale, della Formazione scolastica e della rete
cittadina che collabora nelle azioni di sostegno e di recupero dei giovani
Migranti.
265
Dati quantitativi:
Numero totale allievi orientati dalle scuole:
Numero allievi frequentanti su quelli orientati dalle scuole:
Numero allievi non frequentanti su quelli orientati dalle scuole:
35
30
5
Osservazioni: da questi dati emerge la serietà del lavoro di rete svolto:
intervento dei mediatori all’interno delle scuole; presentazione del corso da
parte degli orientatori; accordo a monte tra CFP e scuole sia in ambito
organizzativo, sia in quello inerente la selezione: 2° livello di alfabetizzazione;
“presa in carico” professionalizzante da parte degli operatori.
Braccini
Parini
Non frequentanti
12
17
1
Anno di nascita dei corsisti:
1980
n: 1
1981
n: 4
1982
n: 19
1983
n: 6
Mesi di presenza in Italia:
5 mesi
6 mesi
8 mesi
9 mesi
10 mesi
11 mesi
12 mesi
dai 13 mesi ai 16 mesi
oltre 24 mesi
n:
n:
n:
n:
n:
n:
n:
n:
n:
2
2
7
3
6
2
3
3
2
Collocazione residenziale:
Camunità stabili (Madiam…)
1a Accoglienza
Con solo padre
fratello, zio, cugino
in famiglia
n:
n:
n:
n:
n:
10
6
1
11
2
Regolarizzazione:
Domanda di tutela/senza tutela n: 22
con tutela
n: 6
con permesso di soggiorno
n: 2
Scelte formative dell’allievo, loro significato e preiscrizioni nei corsi per
Migranti e nei corsi P.A.L.( Preparazione al Lavoro).
266
Allegato n. 2
ESEMPI DI SCHEDE
DI RESOCONTO INDIVIDUALE
a) Al momento dell’iscrizione al Corso di Orientamento
b) Al momento dell’iscrizione al Corso Professionale
c) Esempio di modello operativo
267
268
269
270