Migranti e reciprocità nella rete e nella formazione - casa-di
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Migranti e reciprocità nella rete e nella formazione - casa-di
A cura di: Laura Bonica Migranti e Reciprocità nella Rete e nella Formazione © 2000 Casa di Carità Arti e Mestieri Progetto grafico e impaginazione elettronica: Arcastudio Torino, Settembre 2000 INDICE Prefazione p. 9 Introduzione p. 11 p. 11 p. p. p. p. p. p. p. 13 14 15 16 17 18 19 p. p. p. p. p. 25 26 27 27 28 p. p. p. 31 37 38 p. 40 p. p. 40 40 1. Perché migranti? 2. La Formazione Professionale Regionale come contesto favorevole 3. I.Ter. Integra 3.1. Il corso formazione formatori e il manuale 3.2. Grafico n.1: attività previste dal progetto I.Ter. Integra 4. Il progetto di costruzione del manuale 4.1. Articolazione dei due moduli 4.2. Altri materiali utilizzati per la stesura del manuale 5. Guida alla lettura del manuale Parte prima: IL CONTESTO CAPITOLO 1 PRESENZA DEI MIGRANTI A TORINO E IN PIEMONTE Silvia Zabaldano 1.1. 1.2. 1.3. 1.4. 1.5. Premessa Nicchie settoriali e territoriali Il lavoro La scuola Dati quantitativi sulla presenza e sulle caratteristiche dei gruppi etnici nel territorio torinese CAPITOLO 2 LA CASA DI CARITÀ ARTI E MESTIERI E I MIGRANTI Michele Grisoni e Silvia Zabaldano 2.1. Corsi per migranti alla Casa di Carità Arti e Mestieri 2.2. Lo Sportello di Orientamento al Lavoro: O.L.M. 2.3. Considerazioni sugli esiti del percorso formativo del migrante alla Casa di Carità Arti e Mestieri e situazione attuale dei corsi 2.4. Direttive e linee metodologiche della Casa di Carità Arti e Mestieri 2.4.1. Direttive specifiche 2.4.2. Linee metodologiche 2.4.3. Grafico n.3: Schema di progetto di corso 2.4.4. Grafico n.4: Modello sistemico/ecologico 2.4.5. Grafico n.5 e 5a: rapporto formatore/allievo a e b 2.5. Il rapporto tra la Formazione Professionale e i servizi territoriali di Torino 2.5.1. La rete cittadina dei servizi dal punto di vista della Casa di Carità Arti e Mestieri 2.5.2. Grafico n.6: la rete territoriale per migranti dal punto di vista della Formazione Professionale 2.6. Progetti di azioni integrate per la realizzazione di opportunità stabilizzanti p. p. p. p. 43 44 45 47 p. 47 p. 49 p. 50 Parte seconda: OPZIONI TEORICO-METODOLOGICHE CAPITOLO 3 PER UN MODELLO DI COMUNICAZIONE FONDATO SULLA RECIPROCITÁ’ Laura Bonica 3.1. Premessa 3.2. Qual è la metafora della natura umana che ci ispira? 3.2.1. Meccanicismo e costruttivismo 3.2.2. La prospettiva della complessità 3.3. Concetti utili per una chiave di lettura ispirata alla reciprocità tra persone e tra istituzioni 3.3.1. Autoreferenzialità,vincoli, reciprocità 3.3.2. Ascolto attivo, conflitto, negoziazione 3.3.3. Contratto e gioco 3.3.4. Coevoluzione e co-costruzione 3.3.5. Verso un approccio ecologico-evolutivo al concetto di contesto 3.3.6. Dalle dicotomie verso la complementarietà 3.4. Per concludere… p. p. p. p. p. 53 54 54 58 58 p. p. p. p. p. 58 62 63 66 68 p. p. 70 71 p. p. p. p. 73 74 76 77 p. 81 CAPITOLO 4 UN DISPOSITIVO PER LA COMUNICAZIONE INTEGRATA NEL TERRITORIO Laura Bonica 4.1. Premessa 4.2. Le sequenze del dispositivo 4.2.1. La scelta: mi interessa o no collaborare? 4.2.2. Chi ha fatto la prima mossa e come è stato il primo incontro 4.2.3. Quali sono i rispettivi vincoli istituzionali? Di che cosa mi sento veramente responsabile? 4.2.4. Quali potrebbero essere le incertezze pertinenti, i nodi critici, le buone domande da condividere? 4.2.5. Come potremmo ridefinire i nostri vincoli per rispondere a queste domande? In vista di quali opportunità comuni? 4.2.6. Co-costruzione di un referenziale comune 4.2.7. Ritorno alla propria istituzione e rinegoziazione dei propri vincoli interni in funzione di un progetto interistituzionale 4.3. Discussione 4.4. Allegato: le schede di lavoro proposte ai gruppi. p. 82 p. 84 p. p. 85 86 p. p. 88 91 p. 97 p. 99 CAPITOLO 5 ANALISI DI 4 ESEMPI Laura Bonica 5.1. Esempio 1: Vincoli autoreferenziali e distanza rispetto all’utenza: reciprocità e ruoli asimmetrici. 5.2. Esempio 2: L’importanza della prima mossa: invenzione di una strategia. 5.3. Esempio 3: Autodefinizione all’interno della rete: un minore seguito da tutti, ma in mezzo ad equivoci e fraintendimenti 5.3.1. Finalità e contesto 5.3.2. Descrizione 5.3.3. Commento 5.4. Esempio 4: Collaborazione riuscita tra due soggetti della rete: la Casa di Carità Arti e Mestieri e la Scuola 5.5. Osservazioni conclusive p. 101 p. p. p. p. 101 101 104 104 p. 107 Parte terza: MIGRANTI E COMUNICAZIONE DI RETE CAPITOLO 6 PERCORSI DI RETE ed AREE D’INTERVENTO Laura Bonica, Michele Grisoni, Silvia Zabaldano 6.1. Ricostruzione di percorsi di rete, dal punto di vista di migranti, prima del 1990 6.2. La situazione attuale 6.2.1. Frequenza scolastica e ricongiungimenti familiari 6.2.2. La genitorializzazione dei minori 6.2.3. Commento p. 111 p. p. p. p. 112 116 117 117 6.3. Ricostruzione di percorsi di rete dal punto di vista dei servizi 6.3.1. Il percorso standard del migrante 6.4. Schede di autodefinizione delle aree d’intervento rivolte ad utenza migrante 6.4.1. La prima e seconda accoglienza 6.4.2. La scuola 6.4.3. La formazione professionale p. 118 p. 119 p. 124 p. 124 p. 127 p. 130 CAPITOLO 7 INTERDIPENDENZA TRA LE TRE AREE E NODI CRITICI Laura Bonica, Michele Grisoni, Silvia Zabaldano 7.1. Premessa 7.2. Ipotesi per un dispositivo di accompagnamento, orientamento e formazione 7.3. Le figure del tutor e del mediatore culturale 7.3.1. Il ruolo del tutor secondo diverse prospettive 7.3.2. Organizzazione dello stage 7.3.3. Il ruolo del mediatore culturale 7.4. I criteri di valutazione dei prerequisiti linguistici 7.4.1. Prerequisiti linguistici per la formazione di una classe 7.4.2. Prerequisiti linguistici specifici di accesso ad un corso professionale 7.5. Conclusioni p. 135 p. 135 p. p. p. p. p. p. p. 140 140 144 147 148 148 149 p. 150 CAPITOLO 8 CILS - CERTIFICAZIONE DI ITALIANO COME LINGUA STRANIERA Gioia Maestro 8.1. 8.2. 8.3. 8.4. Premessa Contestualizzazione Una lingua da imparare, una lingua da usare Dimostrare certificare le proprie conoscenze e competenze linguistiche 8.5. Linee guida per la CILS 8.5.1. Il sasso nello stagno: attrazione di una proposta altamente flessibile 8.5.2. Coordinate informative per il conseguimento di un titolo caratterizzato da procedure e meccanismi operativi semplificati p. p. p. p. 151 152 154 156 p. 158 p. 158 p. 162 Parte quarta: MIGRANTI E FORMAZIONE CAPITOLO 9 RECIPROCITÀ e FORMAZIONE Laura Bonica, Simona Negri 9.1. Qualche chiarimento ancora sul concetto di reciprocità 9.2. Storie personali e traiettoria evolutiva 9.2.1. Vincoli spaziali, temporali e sociali 9.2.2. Ambivalenze 9.2.3. I rischi di un adattamento immediato e forzato 9.2.4. Una visione più ottimistica 9.2.5. Riflessioni e proposte 9.3. Suscettibilità rispetto al setting formativo ed ai modelli di apprendimento-insegnamento 9.3.1. Ritornare a scuola: un ulteriore transizione tra presente e futuro 9.3.2. Una motivazione speciale 9.3.3. Le regole del setting formativo 9.3.4. Il rapporto con l’imparare 9.4. Che fare? p. p. p. p. p. p. p. p. 167 170 170 171 172 174 177 179 p. 179 p. p. p. p. 180 182 184 187 p. p. p. p. p. p. p. 189 189 190 191 192 195 196 CAPITOLO 10 SPECIFICITÁ DELLA CLASSE MULTIETNICA Silvia Zabaldano 10.1. Elementi di eterogeneità 10.1.1. L’età 10.1.2. I titoli di studio 10.1.3. La provenienza etnica 10.1.4. Le differenze di genere 10.1.5. La conflittualità interetnica in classe 10.1.6. Richieste individuali dei corsisti esterne all’iter didattico CAPITOLO 11 L’INSEGNAMENTO - APPRENDIMENTO DELLA LINGUA ITALIANA NELLE CLASSI MULTIETNICHE Gioia Maestro, Silvia Zabaldano 11.1. La lingua italiana nel corso professionale (Silvia Zabaldano) 11.1.1. Metodologie di insegnamento 11.2. Per chi vuole saperne di più sulla lingua (Gioia Maestro) 11.2.1. Suggerimenti per la costruzione di un’esercitazione didattica per l’apprendimento della lingua italiana p. 199 p. 200 p. 202 p. 205 Parte quinta: RECIPROCITÀ E VULNERABILITÀ RISPETTO ALL’AUTODEFINIZIONE CAPITOLO 12 VIOLAZIONI DELLA RECIPROCITÀ Laura Bonica 12.1. Definizioni 12.2. Far giocare le differenze 12.2.1. Descrizione dell’esempio 12.2.2. Analisi e commenti 12.3. La moltiplicazione delle cornici p. p. p. p. p. 211 214 215 217 222 CAPITOLO 13 APPRENDERE AD APPRENDERE: RELAZIONI, EMOZIONI E CONTESTI DI APPRENDIMENTO Marianella Sclavi 13.1. Premessa 13.2. Esercizio n.1: il gioco delle premesse implicite 13.3. Esercizio n.2: il gioco della visione binoculare (doppia descrizione) 13.4. Esercizio n.3: nel taccuino dell’antropologa: comportamenti, emozioni e dissonanza di cornici 13.5. Esercizio n.4: il gioco delle narrazioni parallele 13.6. Conclusioni: l’abduzione p. 225 p. 226 p. 232 CONCLUSIONI p. 247 BIBLIOGRAFIA p. 253 p. 234 p. 240 p. 246 Allegato n. 1 Corsi di orientamento di 30 ore rivolti ai minori stranieri p. 257 Allegato n. 2 Esempi di schede di resoconto individuale p. 267 Prefazione Il Progetto Integra I.Ter. ha rappresentato una grande opportunità per la Casa di Carità Arti e Mestieri, consentendo di sistematizzare e formalizzare il lavoro che ormai da più di 10 anni, si stava sviluppando sul tema MIGRANTI. L’occasione è ancora più importante per il periodo storico nel quale si colloca, tra le evidenti difficoltà che le realtà sociali dei paesi della Comunità incontrano nell’accettare e nell’affrontare contestualmente i diversi aspetti di questo problema, la cui rilevanza anche numerica è ormai sotto gli occhi di tutti e non più facilmente eludibile. In qualche modo la ricerca ed il manuale che oggi licenziamo riassumono la storia di una avventura, le cui tappe sono tutte presenti nella realtà complessa dell’oggi; il diario di un percorso che ha conosciuto successi e difficoltà, momenti belli e brusche frenate, accompagnando - spesso anche prevedendo alla luce dell’esperienza via via maturata - le diverse complessità, i cammini contorti, le emergenze che in questi anni si sono succedute. Infatti, gli accadimenti politici e sociali degli ultimi anni di questo secondo millennio hanno indotto trasformazioni profonde dei flussi migratori come erano ancora sul finire degli anni ’80. La Casa di Carità ha sperimentato tutte queste realtà, così diverse e complesse, a partire dai primi corsi finalizzati a immigrati adulti provenienti dalla sponda africana del Mediterraneo (tunisini e marocchini in larga prevalenza) per via via sviluppare attività con i giovani e le donne e affinare il proprio impegno con persone provenienti da realtà sociali, culturali, geografiche e storiche profondamente diverse: la Somalia e il Centro Africa, l’Albania e l’est europeo, il Centro America e le Malaysia. Come dicevo innanzi, il progetto I.Ter. rappresenta dunque una sintesi ragionata di un processo esperienziale di 10 anni in cui confluiscono attività, modalità operative e sensibilità che affondano le loro radici nella storia e nella stessa ragion d’essere della Casa di Carità e che sono espresse nella Proposta Formativa dell’Ente. Questa visione metastorica ha permesso di conciliare formazione culturale, tecnica e professionale in un contesto multiculturale e interculturale; ha sviluppato conseguentemente buone pratiche che hanno influito positivamente nel rapporto con i servizi territoriali; ha reso possibile in un rapporto di stima vicendevole ricadute positive sulle attività dell’Ente e arricchimento e valorizzazione delle conoscenze delle culture “altre”. 9 Infine il processo di integrazione di attività formative così diversificate e con target così vario e multi-culturale ha indotto positivi riscontri anche sulla organizzazione interna dell’Ente, che ha potuto prepararsi ai nuovi scenari di sviluppo organizzativo e produttivo, basati sulla flessibilità, la quale può davvero rappresentare un modello interculturale di interazione di competenze tecnico-professionali e relazionali-comunicative. Questi pochi spunti penso possano rappresentare altrettante chiavi di lettura per seguire il dipanarsi del Progetto I.Ter. della Casa di Carità Arti e Mestieri nei suoi diversi stadi, dalla progettazione, alla attuazione, alle necessarie verifiche e regolazioni. Ringrazio tutti gli attori della Rete, che hanno contribuito alla realizzazione di questo progetto e mi scuso per le eventuali inesattezze e omissioni. I miei complimenti e ringraziamenti a coloro che hanno steso i diversi capitoli nei quali si articola il manuale e la ricerca; in particolare alla prof.ssa Laura Bonica, ed al prof. Maurizio Ambrosini che hanno coordinato i due lavori e che hanno saputo, con dedizione, impegno e grande entusiasmo, affrontare la complessa materia, inquadrandola culturalmente e dando spessore e dignità scientifica al nostro operare. Infine non posso dimenticare la persona che, da dieci anni, con umiltà, profonda convinzione e fiera cocciutaggine, opera alla Casa di Carità nel settore ed ha consentito il realizzarsi di tutto questo: lui, Michele Grisoni, è stato davvero il lievito che ha portato colleghi e direzione ad impegnarsi fattivamente su queste tematiche. Torino, 25 agosto 2000 Il Direttore Generale Ing. Attilio Bondone 10 INTRODUZIONE 1. Perché migranti? Questa guida è rivolta a coloro che, in diversi contesti, si trovano a fare formazione con persone straniere, emigrate - immigrate nel nostro paese. Poiché spesso esse arrivano alla formazione dopo percorsi di emigrazione multipli e con un obiettivo di stabilità futura ancora incerto, le loro problematiche d’inserimento possono essere variamente articolate a seconda dell’età, dello status sociale e scolastico precedente e degli eventuali iter di ricongiungimento familiare. Proprio partendo da queste considerazioni la Casa di Carità Arti e Mestieri ha proposto di definire questa utenza più globalmente come “migrante”. Inoltre questo è il termine utilizzato anche dalla Comunità Europea per definire tale tipologia di soggetti. Ciò non significa volerla relegare in una etichetta di mobilità a vita, o di privarla dell’identità di un luogo caro da cui un giorno è partita, ma più semplicemente evitare di definirla solo dal nostro punto di vista e, al contempo, riconoscerle uno stato attuale di transizione verso una opportunità stabilizzante, che starà all’utenza stessa decidere se e come utilizzare. 2. La Formazione Professionale Regionale come contesto favorevole ad accogliere l’utenza migrante Nel panorama del sistema scolastico italiano la Formazione Professionale Regionale risulta essere uno dei contesti più sensibili rispetto alla instaurazione di un dialogo tra allievi e docenti e più aperti al rapporto tra teoria e pratica, tra educazione e lavoro, tra scuola e imprese, anticipando così alcune delle linee innovative cui è chiamato a rispondere tutto il sistema scolastico nella prospettiva dell’autonomia. Da ricerche, recentemente condotte a livello nazionale, che hanno investigato sia sullo staff di direzione che su 595 operatori, stratificati in sette regioni (Malizia, Borsato, Frisanco, Pieroni, 1996), così come dall’indagine Isfol (1996), che ha raggiunto il parere di 450 allievi, oltre che dei rispettivi docenti e genitori, la Formazione Professionale Regionale emerge come un contesto vivo, efficace nell’opera di reinserimento formativo e sociale dei giovani e di cui si ritengono soddisfatti sia gli operatori che gli utenti. Se ricordiamo che sui 450 allievi intervistati, il 40% era già stato bocciato almeno una volta nella sua carriera scolastica, è plausibile dedurre che nell’ambito della Formazione Professionale Regionale è già presente una 11 disponibilità a considerare la differenza delle traiettorie evolutive degli allievi come una risorsa e che ciò ha consentito di arricchire la professionalità dei docenti di saperi innovativi rispetto alla messa in atto di strategie di ri-motivazione all’apprendimento e di accompagnamento dei giovani alla vita adulta. Tuttavia, più del 40% degli operatori intervistati si lamenta di un certo isolamento, che passa attraverso il disinteresse degli Enti Locali o attraverso lo scollamento tra la scuola, la Formazione Professionale Regionale ed il mondo aziendale. Quindi, se l’inserimento sempre più massiccio di utenza migrante minore e adulta nei diversi livelli del nostro sistema scolastico e formativo trova nella Formazione Professionale Regionale una comunità di pratiche già predisposta ad una cultura dell’accoglienza della diversità, occorre sottolineare che la Formazione Professionale vive, nel confronto con le altre istanze del territorio, anche il senso di una identità incerta e poco compresa. Infatti, come scuola, la Formazione Professionale Regionale viene spesso definita un coraggioso terreno di frontiera, la cui utenza fa un po’ paura; al tempo stesso, il riconoscimento di questo “coraggio” non si traduce in un aumento di interesse allo scambio e si percepisce quindi una definizione della Formazione Professionale Regionale come scuola di serie B, caratterizzata da una sorta di cultura debole, come deboli sono considerate le fasce di utenza di cui si occupa. D’altronde, come luogo di inserimento sociale dei migranti, essa appare invece privilegiata, perché, rispetto alle strutture di prima accoglienza, essa riceve persone che avendo già il permesso di soggiorno dovrebbero avere ormai superato la prima fase di emergenza1. L’avvio di una integrazione più feconda tra scuola, Formazione Professionale Regionale, università e sistema delle imprese è auspicata anche da Besozzi (1998), nella conclusione del suo esauriente saggio sulla Formazione Professionale: l’autrice sottolinea inoltre che tale cambiamento non può poggiare solo sulla buona volontà di singoli centri di Formazione Professionale, ma richiede, piuttosto, interventi di promozione e di coordinamento da parte dell’autorità pubblica a livello nazionale e locale. 1 Ciò è stato confermato anche nell’ambito del nostro corso, soprattutto nelle giornate dedicate al punto di vista della scuola e al punto di vista della prima accoglienza 12 3. I.Ter. Integra I.Ter., Integrare nel Territorio, è un progetto Europeo gestito dalla Casa di Carità Arti e Mestieri che si propone di raccordare gli interventi dei vari servizi che si occupano dell’inserimento lavorativo degli stranieri attraverso la creazione di un modello strutturato di percorso di formazione da realizzarsi nelle agenzie formative e che si esplicita nelle seguenti attività riportate anche nel grafico n.1: Corso di formazione/formatori e di operatori territoriali con la finalità di uniformare ed orientare le conoscenze e le azioni spendibili nel settore di riferimento; Corso di qualifica di mediatore culturale di 900 ore finalizzato all’inserimento lavorativo utilizzando un dispositivo di accoglienza, di inserimento nelle aziende/servizi, attraverso l’azione coordinata di formatori interni ed esterni specializzati nel settori ed appartenenti ad associazioni, professioni, servizi specializzati; Tre corsi di orientamento strutturati in rete: due rivolti a minori migranti soli non accompagnati e uno a donne migranti, propedeutico ad un corso formativo e/o lavorativo; Apertura ed attivazione di uno sportello permanente in grado di assicurare un servizio di informazione/manutenzione e orientamento per le necessità legate all’accoglienza, all’integrazione, alla formazione e agli inserimenti lavorativi; Produzione di un manuale che si pone la finalità di individuare una chiave di lettura per sistematizzare le metodologie formative; Produzione di una ricerca quantitativa/qualitativa su dati recenti nell’ambito teorico (formazione/integrazione/professionalizzazione), operativo (immigrati nelle varie realtà: Torino, Milano, Brescia) e esperienziale (interviste: utenza migrante, operatori di formazione). Per la Casa di Carità Arti e Mestieri il progetto I.Ter. rappresenta anche una preziosa occasione per giungere ad una sintesi ragionata del percorso esperienziale degli ultimi dieci anni, in cui sono nate e si sono concretizzate idee, iniziative, strategie, costruite in un “corpo a corpo” con l’utenza migrante e mirate al progetto di stabilizzazione. 13 3.1. Il Corso di formazione/formatori ed il manuale: uno spazio per pensare e progettare “insieme” Occorre tuttavia ricordare che queste esperienze costituiscono, in gran parte, un sapere sommerso, perché, come spesso capita quando si è impegnati in una innovazione, il tempo per la riflessione e per il confronto tra gli operatori sfugge a favore del “fare”. Ad esempio, anche se la Casa di Carità Arti e Mestieri persegue da anni rapporti con gli altri attori della rete, il più sovente essi sono avvenuti nell’emergenza, sulla base di richieste pressanti formulate dall’una o dall’altra parte, il più delle volte condotti per volontà e passione di singoli operatori, senza che fosse previsto un tempo istituzionale per fermarsi, per confrontare le domande di fondo che guidavano proprio gli interventi, più innovativi, o i dubbi che li accompagnavano. Nell’ambito del progetto I.Ter. Integra, la stesura del manuale ed il corso di formazione/formatori, sono stati visti da subito come due progetti reciprocamente funzionali alla contestualizzazione e concettualizzazione di queste esperienze in vista di più obiettivi: • consolidare i rapporti di rete già esistenti, creando le opportunità per collaborazioni più sistematiche e istituzionalizzate2; • individuare e confrontare con altri attori della rete i nodi critici d’interesse comune; • puntare alla costruzione di una chiave di lettura del rapporto tra operatori e migranti, utilizzabile da attori eterogenei, nella formazione, ma non solo, e trasversale alle diverse tipologie di corsi e di utenza. Lo spazio concesso dal progetto europeo è stato quindi interpretato come un luogo privilegiato per potenziare il riconoscimento reciproco e la comunicazione con i servizi che entrano quasi quotidianamente in contatto con la Formazione Professionale Regionale. L’idea è che l’aumento sempre più massiccio di utenza migrante costituisca un’importante sollecitazione alla collaborazione interistituzionale e che una migliore capacità di comunicazione tra istituzioni favorisca di per sé, in ritorno, la facilitazione dei percorsi di stabilizzazione da parte dei migranti. 2 Si ricorda, ad esempio che a Torino esiste dal 1990 una Convenzione sui problemi scolastici dell’utenza migrante stipulata tra Provveditorato, Comune, Regione, a cui si è aggiunta dal 1999 anche la Provincia, da cui la Formazione Professionale,che intrattiene rapporti continui con la scuole di alfabetizzazione, è stata esclusa almeno sul piano formale. 14 3.2. Grafico n.1: attività previste dal progetto I.Ter. Integra 6. 5. MANUALE Metodologie formative RICERCA Migranti: Formazione Inserimenti Difficoltà Tutor mentor: Competenze Funzioni 2. CORSO MEDIATORE CULTURALE INTEGRA I.TER. 3. 4. ORIENTAMENTO MINORI DONNE ADULTI SPORTELLO di: Accompagnamento Orientamento 1. CORSO FORMAZIONE FORMATORI 15 4. Il progetto di costruzione del Manuale La progettazione e la cura scientifica di queste due iniziative, il Corso per formatori ed il Manuale, è stata affidata a Laura Bonica, docente di Psicologia dello sviluppo e dell’educazione presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università di Torino, in seguito all’interesse dello staff della Casa di Carità Arti e Mestieri verso il modello per la comunicazione integrata sul territorio da lei elaborato e già validato in due esperienze di formazione europea finanziate dalla CEE3. Il corso di formazione è stato, quindi, progettato in modo da coinvolgere diversi attori della rete cittadina e finalizzato alla sperimentazione di una metodologia, ispirata alla reciprocità, che favorisse il confronto fra gli attori della rete sociale in vista della definizione di prassi e di procedure condivise. Il Manuale costituisce al tempo stesso la testimonianza di questo percorso e dei materiali che sono stati prodotti nei diversi gruppi di lavoro, ed una proposta di percorso da effettuare per chi volesse ricostruire, a partire dalla propria posizione specifica, un modello relazionale (fra persone e strutture della rete) fondato sulla reciprocità. Al fine di contestualizzare questo percorso accenniamo all’articolazione dei due moduli del corso di formazione-formatori4. 3 Una, nell’ambito del RIF (Reseau Institutions de Formation) riguardante l’inserimento scolastico degli studenti immigrati (Bonica, Biarnes, 1995) e l’altra nell’ambito di un progetto Socrates-Comenius, riguardante la formazione di responsabili di progetti d’innovazione, centrati sul tema della solidarietà educativa (Mouvet B., Barbosa L., Bonica L. ed altri, 1997; Bonica L., Mouvet B., 1997). 4 Le opzioni teorico-metodologiche ed i risultati del percorso formativo sono riportati rispettivamente nella seconda e nella terza/quarta parte di questo testo. 16 4. l. Articolazione dei due moduli Partecipanti Il gruppo era formato da 24 persone, aventi in comune un impegno professionale-istituzionale o volontario nell’ambito del lavoro con migranti. Gli ambiti di attività coprivano un raggio abbastanza ampio di settori: Settore Prima accoglienza mas fem totale Note 2 2 Un operatore di strada palestinese e un educatore Alfabetizzazione e 150 h 2 2 Insegnati Sostegno scolastico nella scuola dell’obbligo 2 2 Volontari Centro Interculturale del Comune di Torino 1 1 Dirigente 1 1 Assistente sociale 2 4 Docenti in corsi per migranti: minori, donne e uomini adulti, carcere 2 Tutor interni: uno per i corsi di meccanica (minori e Arti e Mestieri adulti uomini), l’altro per donne e per mediatori culturali Consorzio Intercomunale di Susa Formatori della Casa di Carità Arti e Mestieri 2 Tutor della Casa di Carità Arti e Mestieri 2 Sportello orientamento per migranti 1 Progettazione corsi 1 Mediazione culturale 1 Formatore addetto per alcune ore allo sportello 1 2 Uno della Casa di Carità Arti e Mestieri e l’altro Ciofs 2 2 Congo e Albania Consulente aziendale peruviana 1 1 Libera professionista e volontaria alla Caritas Tirocinanti universitarie 4 4 Scienze dell’Educazione e Psicologia 16 24 Totale 8 Tempi e contenuti Nel primo modulo (6 giornate, 42 ore) si è cercato di arrivare alla condivisione di un elenco di questioni comuni, sia attraverso la sperimentazione del modello di comunicazione integrata sul territorio (due giornate e mezzo condotte da Laura Bonica, per un totale di 17 ore), sia attraverso contributi su temi specifici: l’insegnamento della lingua e la CILS (6 ore, Gioia Maestro), reciprocità, transizioni ecologiche e traiettorie evolutive (4 ore, Laura Bonica), i gruppi di ascolto (6 ore, Ines Damilano), la gestione creativa dei conflitti e la comunicazione interculturale (6 ore, Marianella Sclavi) 17 Il secondo modulo è stato progettato, insieme ai partecipanti stessi, come un’occasione di approfondimento, allargato ad altre esperienze ed istanze territoriali, sui nodi critici emersi dal primo modulo. Esso è stato articolato in tre giornate seminariali, ognuna centrata su una specifica area d’intervento: l’accoglienza, la scuola e la formazione professionale regionale. Per ogni area sono stati invitati, in modo mirato, attraverso un’intervista preliminare, rappresentanti significativi delle istituzioni torinesi e di altre città: in particolare, per la prima e seconda accoglienza: don Fredo Olivero della CARITAS5, e Giovanna Zaldini dell’ALMA MATER6, entrambi torinesi; per la scuola: il CIDISS7 di Torino, rappresentato dalla Preside Demo e da un insegnante per ogni ordine di scuola, e la Preside della scuola Media Giovanni Pascoli di Milano; per la formazione professionale: Samia Quoider, sociologa, formatrice ed esperta di fenomeni migratori, e Gianni Daniele e Paola Massignan del CEDRITT8 di Genova. 4.2. Altri materiali utilizzati per la stesura del manuale Per la stesura di questo testo, oltre ai materiali inerenti i due moduli, ci si è avvalsi di interviste in profondità rivolte a docenti e coordinatori della Casa di Carità Arti e Mestieri, della documentazione relativa alla progettazione di corsi, a convenzioni interistituzionali e al monitoraggio del percorso degli allievi, e, infine, della consultazione bibliografica. Poiché non è stato possibile, come sarebbe stato nelle intenzioni iniziali, affiancare un progetto di osservazione sistematica in aula, durante lo svolgimento dei corsi, abbiamo fatto ampio riferimento a testimonianze riportate in altre ricerche (soprattutto in Massa e altri, 1994) ed in Carlini (a cura di, 1991), oltre che ad esperienze tratte dai precedenti progetti europei, già citati sopra. 5 La Caritas, associazione cattolica, nella diocesi torinese ha istituito uno specifico Servizio Migranti con un’attenzione alle problematiche di prima accoglienza e dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero. 6 L’Alma Mater, centro interculturale delle donne si occupa di sostenere, attraverso l’incontro diretto, donne con problemi collegati ai bisogni di prima accoglienza come il lavoro, l’assistenza ai figli, l’inserimento abitativo. 7 CIDISS, Centro di Informazione e Documentazione per l’inserimento scolastico degli stranieri (minori e adulti), nato nel 1990 da una convenzione tra Provveditorato agli Studi di Torino, il Comune di Torino e la Regione Piemonte. 8 CEDRITT, Centro di Documentazione e di Ricerca sui Trasferimenti di Tecnologie, si occupa dei rapporti Nord-Sud e di ricerca sulla Cooperazione internazionale. La sua sede è a Genova ed il Direttore attuale è Gianni Daniele, sociologo. 18 5. Guida alla lettura al manuale Il testo risente dell’articolazione del percorso seguito, per cui la seconda parte può essere vista come illustrazione delle opzioni teoriche e della metodologia seguita nel corso, mentre le due parti successive, relative rispettivamente alla Rete e alla Formazione, possono essere viste come i “risultati”. Questi includono sia alcuni dei materiali emersi dai lavori di gruppo e dalle interviste, sia ulteriori documenti ed approfondimenti, che sono stati scelti tenendo presenti i nodi critici ed alcune delle priorità suggerite dai partecipanti durante il corso di Formazione/Formatori. Al di là di questa precisazione, il testo è stato articolato in capitoli e sezioni, pensando a quattro funzioni principali, che possono rispondere ad altrettante esigenze, a cui i lettori possono attingere indipendentemente. Vediamo ora, una per una, queste funzioni ed i relativi capitoli di riferimento: • Una funzione di invito alla riflessione teorico-metodologica, sul duplice versante dello scambio etico-professionale tra attori della rete e della progettazione della formazione. Rientrano in questa finalità i capitoli che presentano il modello di comunicazione ispirato alla reciprocità, come la chiave di lettura che può consentire un isomorfismo nell’analisi dei diversi tipi e livelli di intervento. Il capitolo 3 fornisce alcune coordinate teoriche riguardo ai concetti che sono implicati nella opzione etico-epistemologica verso la reciprocità, in una prospettiva costruttivista e sistemico-ecologica; la terminologia è talora inconsueta e quindi la lettura può risultare impegnativa; il lettore non si preoccupi: l’opzione verso la reciprocità deriva, in definitiva, da una scelta etica personale e non dal padroneggiamento di questi concetti; tuttavia il supporto della teoria può costituire un elemento confortante ed anche utile per avanzare più velocemente verso la costruzione di un referenziale comune. Il capitolo 4 presenta il modello operativo che è stato applicato nei moduli di formazione/formatori; i capitoli 5 e 12 presentano l’analisi di situazioni di comunicazione tra attori della rete e/o nel rapporto con utenza migrante, che possono fungere sia da chiarimento e supporto empirico per il modello teorico, sia da esemplificazione di un metodo di analisi della propria pratica professionale ed infine, per alcuni dei contenuti tematici che emergono, possono arricchire la funzione informativa su alcuni dei nodi critici della comunicazione di rete. Essi rispondono, quindi a più funzioni e potrebbero essere letti in modo indipendente o affiancati ai capitoli informativi. • una funzione informativa, che si sviluppa attraverso le diverse sezioni e che, letta in sequenza, può essere utile ad un operatore o ad un formatore che si occupa per la prima volta di utenza migrante e che voglia contestualizzare meglio la sua posizione. Si può partire da una panoramica della immigrazione torinese (cap.1) per poi entrare nel merito di diverse 19 sfaccettature di tale problematica, che sono state accorpate in due diverse sezioni: - la rete, e quindi: i percorsi di rete che individuano le aree di intervento con cui la Formazione Professionale Regionale è più strettamente collegata, come la prima e seconda accoglienza e la scuola e le diverse tipologie di funzioni svolte in tali aree (cap.6); i nodi critici più condivisi e le tipologie professionali che svolgono un ruolo di ponte tra queste diverse aree, con particolare riferimento alle tipologie di tutor e ai mediatori culturali (cap.7). - la docenza in aula, riferita agli elementi di maggiore eterogeneità che si possono incontrare in una classe multietnica (cap.10), e al problema della comprensione/insegnamento della lingua italiana (cap.11). • una funzione di sensibilizzazione alla riflessione sulle problematiche del cambiamento connesso all’emigrare e alle sfide che questo può comportare nello spazio della formazione. Rientrano in questa finalità i capitoli 9 e 12 che trattano diversi aspetti della suscettibilità rispetto all'autodefinizione dei migranti (traiettorie evolutive, setting formativo, modelli di apprendimento-insegnamento, violazioni di reciprocità) ed il contributo tematico di Marianella Sclavi che, attraverso la proposta di alcuni esercizi/ esempi invita a riflettere, nella prospettiva delineata da Bateson, sui quei livelli di cambiamento che implicano una modifica radicale delle proprie premesse epistemologiche e che sono particolarmente favoriti dalle situazioni di confronto interculturale (cap.13) • una funzione di stimolo al confronto professionale tra responsabili/ formatori/progettatori/coordinatori, di Enti di Formazione Professionale, su alcuni aspetti dell’intervento con utenza migrante. Possono rispondere a questa finalità le parti che presentano dati informativi sulle attività promosse dalla Casa di Carità Arti e Mestieri come il capitolo 2, o che illustrano ipotesi di progetti integrati, come il Dispositivo per l’accompagnamento, l’orientamento e la formazione (cap.7, pr.7.1) o gli allegati che forniscono esempi di documentazione di corsi realizzati. Può rientrare in questa finalità anche il contributo tematico di Gioia Maestro che, illustrando il sistema della CILS, introduce una documentazione utile agli Enti, in sede di progettazione e di definizione dei prerequisiti linguistici (cap. 8) Nella nostra visione, l’elemento coesivo, sta nell’aver proposto una chiave di lettura, l’opzione verso la reciprocità, e di aver cercato di evidenziarne la pertinenza ai diversi livelli di articolazione degli interventi: la comunicazione di rete, la formazione dei formatori, la docenza di aula. In effetti, i riferimenti ad una visione sistemica, alla reciprocità, intesa come il riconoscimento del diritto di ogni migrante e di ogni attore della rete ad autodefinirsi ed alla esplicitazione dei rispettivi vincoli eticoprofessionali e culturali, come base per rendere operativo questo riconoscimento, hanno costituito i concetti base del modello sperimentato nel 20 corso, e sono stati anche il punto di partenza da cui è nato il contratto per la stesura del manuale. Infine, si tratta di un manuale che vuole invitare alla riflessione ed al confronto, senza pretendere di dare ricette. Vogliamo sottolineare due limiti: l’assenza di esempi concreti di rapporto con il mondo imprenditoriale e la carenza di esempi tratti da un’osservazione diretta di situazioni di apprendimento nei laboratori tecnici. Entrambi queste carenze testimoniano che siamo ancora in una fase sperimentale dell’innovazione; così, da un lato, è difficile per gli operatori protagonisti delle esperienze più innovative fermarsi a documentare, riflettere, scrivere essi stessi e dall’altro queste esperienze sono ancora troppo fragili per inglobare anche la collaborazione sistematica con un osservatore esterno. L’entusiasmante sfida di portare alla luce il sapere sommerso della formazione professionale regionale nei confronti dei migranti (in particolare quello realizzato dalla Casa di Carità Arti e Mestieri di Torino) si conclude, quindi, da un lato, con la consapevolezza che il manuale rispecchia una minima parte delle esperienze in atto, dall’altro con la speranza che esso inneschi comunque curiosità e desideri, ed anche un criterio di lettura, per addentrarsi ulteriormente nella comprensione delle concrete situazioni quotidiane. 21 Prima parte IL CONTESTO 23 Capitolo 1 Presenza dei migranti a Torino e in Piemonte Silvia Zabaldano 1.1. Premessa La presenza dei migranti in Piemonte si è andata consolidando negli ultimi 25 anni ed è diventata oggetto di iniziative di accoglienza verso la regolarizzazione già dalla prima metà degli anni Ottanta9. Dagli anni ’90 il numero degli immigrati, il loro inserimento nel mercato del lavoro regolare o irregolare, la loro integrazione sociale, la loro visibilità sono andati aumentando, grazie anche alle varie regolarizzazioni. Esse sono state il principale strumento con cui il governo ha affrontato le problematiche dei migranti, in assenza di norme e regolamenti tali da consentire un accesso graduale e regolare degli immigrati. Questo vale sia per la legge n.40 del 1998 sia per la legge precedente (n.39 Legge Martelli) che sono rimaste sostanzialmente inoperanti, ad eccezione della sanatoria. Quindi in Italia, più che in altri Paesi, il flusso reale dei migranti e il flusso misurabile hanno presumibilmente andamenti molto diversi. Il numero di permessi di soggiorno e quello dei residenti si impennano infatti soprattutto nei periodi di regolarizzazione, quando il grosso degli irregolari diventa regolare e, probabilmente, vari irregolari arrivano con la speranza di una possibile regolarizzazione. Inoltre il numero degli stranieri cresce per i casi di ricongiungimento familiare, fenomeno sempre più diffuso; tale ricongiungimento può essere di vari tipi: ad esempio la madre e i figli che raggiungono il padre che ha ottenuto un lavoro regolare o il padre e i figli che raggiungono la madre (generalmente collaboratrice domestica), o figli soli che raggiungono un genitore o entrambi i genitori, già arrivati in Italia da alcuni anni10. Oggi sono passati circa due anni dall’ultima sanatoria (marzo 1998), si è ormai esaurita la coda delle regolarizzazioni, ma nonostante questo è aumentato il numero degli irregolari, anche se non si sa con esattezza di quanto (da una ricerca della CISL il numero di Somali irregolari è vicino a zero, ma vi sono però moltissimi casi di irregolari rumeni, Est - Europei o Latino Americani)11. Gli irregolari non sono distribuiti uniformemente per provenienza e quindi il loro aumento rende sempre meno soddisfacente qualsiasi ragionamento di carattere generale. 9 Tutti i dati di questo capitolo sono forniti dall’IRES, Piemonte Economico e Sociale. 1997, 1998 e dal Ministero del Lavoro, Piemonte: Indagine statistica trimestrale per autorizzazione al lavor o. settembre 1999-gennaio 2000. 10 Si vedano gli esempi “flash”, capitolo 6 paragrafo 6.2. 11 Si veda la tabella 1.5.4. 25 La presenza degli immigrati in Piemonte è ovviamente concentrata in Torino e provincia. Le varie ondate migratorie sono inizialmente maschili nel caso di senegalesi, marocchini e albanesi o femminili per le etnie somale, filippine o peruviane. I ricongiungimenti familiari tendono con il tempo a riequilibrare tutte le provenienze. Gli uomini sono oggi intorno al 58% del totale a Torino città e in regione, mentre in provincia intorno al 56%. I dati disponibili provengono dalle Questure per i permessi di soggiorno, dai Comuni per le anagrafi, dai Provveditorati per la scuola e dagli Uffici Provinciali del Lavoro per il collocamento. Le varie fonti non riguardano esattamente lo stesso universo, perché non solo tutti i presenti sono regolari, ma non tutti i regolari sono iscritti all’anagrafe, non tutti i minori vanno a scuola e non tutti quelli che vanno a scuola sono regolari e infine non tutti quelli che cercano lavoro lo cercano nel luogo di residenza o nella provincia in cui hanno il permesso di soggiorno. E’ evidente quindi l’insufficiente completezza dei dati12. 1.2. Nicchie settoriali e territoriali Chi si inserisce in un Paese straniero facendo un mestiere particolare, appartenente magari alla tradizione del proprio luogo d’origine, sia pur modernizzato e modificato, generalmente viene seguito da parenti e conoscenti che giungono richiamati dalla possibilità di svolgere quel particolare lavoro. In questo senso vanno viste le nicchie settoriali per alcuni lavori specifici. É una nicchia di provenienza ad esempio quella dei muratori marocchini; sono numerosi, arrivano per catene migratorie, sono spesso anche regolari, con buone retribuzioni e con un rapporto di fiducia stabile con il datore di lavoro. In realtà non sono in senso stretto una nicchia territoriale perché spesso il legame con l’azienda porta a spostamenti anche notevoli. Infatti ci sono piastrellisti e muratori marocchini che da Torino si spostano a Cuneo, entrando così in concorrenza con piastrellisti e muratori cinesi. Nel settore agricolo forte è la presenza di albanesi, inseriti nell’agricoltura avanzata e nella viticoltura dell’astigiano; nello stesso ambito, nella provincia di Cuneo, numerosi sono i macedoni e i montenegrini, soprattutto nel settore della raccolta della frutta. Sono una nicchia i senegalesi nelle fonderie, gli iraniani nel commercio dei tappeti a Torino, i sarti centroafricani, i pakistani e gli indiani per le attività autonome nel campo della compravendita di tessuti, i cuochi e i pizzaioli egiziani, le collaboratrici domestiche filippine, le donne peruviane o somale che assistono gli anziani e infine le mogli tailandesi ed est - europee che, soprattutto nelle valli alpine, svolgono adesso il ruolo che un tempo era proprio delle donne venete o meridionali. 12 Si vedano le tabelle 1.5/ 1.5.1/ 1.5.4. 26 1.3. Il lavoro I lavoratori migranti assunti a livello regionale sono per l’88% circa uomini e solo per il 12% donne. La maggioranza degli avviamenti al lavoro registrati in Piemonte è avvenuta in provincia di Torino, seguita da Cuneo. Il numero più alto di inserimenti avviene nel settore industriale, inclusa l’edilizia e le attività ad essa collegate. Al secondo posto troviamo gli avviamenti al settore terziario, di cui la maggior parte nei pubblici servizi (lavori domestici, assistenza agli anziani o bambini, imprese di pulizia, bar/ristoranti…). All’agricoltura spetta l’ultimo posto, ma forte è la concentrazione in alcune province (Cuneo, Asti e Vercelli). I lavoratori immigrati extracomunitari avviati senza alcun titolo di studio apparente rappresentano quasi l’89% del totale, nel quale sono compresi anche quelli che hanno un titolo ma non lo dichiarano, sia per evitare le prevedibili difficoltà di riconoscimento, sia perché ritenuto sostanzialmente inutile all’inserimento lavorativo, almeno iniziale. I migranti sono consapevoli del fatto che più del percorso di scolarizzazione pregresso nel paese d’origine sia importante il conseguimento di un titolo (es. qualifica professionale o licenza media) in Italia13. Gli avviati al lavoro hanno prevalentemente un’età maggiore di 25 anni. Quelli compresi tra i 25 e i 29 anni rappresentano il 27% del totale, mentre quelli con più di 30 anni costituiscono da soli il 55%. É chiaro quindi che i migranti arrivano al lavoro regolare dopo un periodo abbastanza lungo di irregolarità e di spostamenti geografici in varie regioni italiane. I contratti delle donne hanno maggiore durata rispetto a quelli degli uomini; anche se numericamente le donne avviate sono un decimo degli uomini, il 75% di esse ha un contratto a tempo indeterminato, mentre per gli uomini si tratta solo del 48%14. 1.4. La scuola Il numero di minori stranieri è in aumento più che proporzionale per tutte le provenienze, in tutte le scuole di ogni ordine e grado, sia a causa dei ricongiungimenti familiari sia a causa della maggiore natalità dei migranti rispetto agli italiani. Altri fattori che contribuiscono all’aumento della nuova generazione sono la maggiore percentuale, rispetto alla popolazione residente, di uomini e donne stranieri in età riproduttiva e, nello stesso tempo, le azioni positive per la regolarizzazione, l’accoglienza e l’inserimento scolastico dei minori stranieri, verso i quali si è rivolta una riuscita azione coordinata di Enti locali (Comune di Torino, Provincia, Regione Piemonte), Magistratura, Questura, Provveditorato e Formazione Professionale Regionale. 13 Si vedano le tabelle 1.5.2/1.5.3. 14 Si vedano le tabelle 1.5.5/1.5.6. 27 Grazie a questo coordinamento, i minori irregolari infatti hanno potuto in questi anni iscriversi alle scuole e frequentare i corsi, sia pure in maniera provvisoria. Inoltre per i “minori stranieri non accompagnati” è previsto l’affidamento e la tutela di competenza del Tribunale per i minori, dei servizi locali e del Giudice tutelare, e il successivo rilascio del permesso di soggiorno fino al compimento del 18° anno. Un discorso a parte merita la presenza, in notevole aumento, di giovani e adulti extracomunitari (anche se non si dispongono dati su tutte le province piemontesi) nei corsi di formazione professionale soprattutto per i mestieri tradizionali legati alle attività nel settore industriale. A Torino questo fenomeno è particolarmente accentuato in due centri di Formazione, la Casa di Carità Arti e Mestieri e il Centro di Formazione Mario Enrico15. 1.5. Dati quantitativi relativi alla presenza ed alle caratteristiche dei gruppi etnici nel territorio torinese16 I cittadini migranti presenti a Torino sono così ripartiti: AFRICA AMERICA ASIA AUSTRALIA EUROPA 54,3% 13,2% 15,4% 0,1% 17,0% In particolare i paesi più rappresentati sono i seguenti: Magreb Est Europa Africa Centrale Cina e Filippine Sud America Altri 44% 15% 15% 12% 12% 2% 15 Dati forniti dall’Ires, Piemonte economico sociale 1997. 16 Elaborazione dati dell’IRES di Torino (fonte: Progetto ATLANTE su Internet: http://www.provincia.torino.it/atlante/index.xtm) 28 1.5.1. Gruppi etnici con maggiore difficoltà d’inserimento (1a Accoglienza) Secondo i dati emersi dagli osservatori cittadini17 le etnie bisognose di particolare attenzione e più a rischio per i fenomeni di marginalità e “devianza” risultano essere le seguenti: MAGREB (Marocco, Tunisia, Egitto, Algeria) EUROPA DELL’EST (Albania, Romania, Bosnia, ex Jugoslavia e ex Unione Sovietica) CENTRO AFRICA (Nigeria, Senegal) CINA E FILIPPINE SUD AMERICA (Perù, Brasile) 1.5.2. Grado di istruzione di residenti stranieri a Torino 1996 18 Grado di istruzione 1996 Percentuale Nessun titolo Analfabeta Scuola dell’obbligo Diploma Laurea 3.098 701 7.331 6.706 2.201 15,5 3,5 36,5 33,5 11 20.037 100 Totale 1.5.3. Titoli di studio per nazionalità extra comunitarie 19 Paese Ex Jugoslavia Iran Cina Filippine Egitto Marocco Tunisia Senegal Somalia Brasile Analfabeta 11,6 13.8 31.7 14.8 20 14.1 13.2 7.3 15.7 11.6 Scuola dell’obbligo 0,4 1 2.1 0.4 2.6 7.1 2.6 16.1 2.7 0.4 Diploma Laurea 39,1 61.8 13.2 37.8 40.3 25.4 20.3 9.1 43.9 39.1 16,2 15.5 4.1 6.8 19.9 3.5 1.8 1 6.1 16.2 Nessun titolo riconosciuto 31,7 7.9 48.9 40.2 17.2 49.9 62.1 66.5 31.6 31.7 17 Osservatorio provinciale sull’immigrazione presso la Prefettura di Torino ed integrato nel progetto “Atlante immigrazione”. 18 Reginato, 1997, pag.21 19 Ibidem, pag.22 29 1.5.4. Stima immigrati legali e illegali in Italia20 Paese d’origine Immigrati illegali Marocco Albania Romania Tunisia Ex Jugoslavia Totale Immigrati legali 24.939 19.380 17.232 15.980 14.762 119.381 70.897 29.738 40.592 73.126 235.567 806.036 1.5.5. Avviamenti al lavoro di extracomunitari in Piemonte a tempo determinato (periodo sett.’99-gen.2000)21 Settore Numero avviati Industria Agricoltura Terziario 10 44 8 Totale 62 (di cui 48 uomini, 14 donne) 1.5.6. Avviamenti al lavoro di extracomunitari in Piemonte a tempo indeterminato (periodo sett.99-gen.2000)22 Settore Numero avviati Industria Agricoltura Terziario 164 24 644 Totale 832 (di cui 403 uomini, 429 donne) 20 Dati elaborati nel progetto Atlante su Internet, si veda la nota 15. 21 Ministero del lavoro - Piemonte, Indagine statistica trimestrale per autorizzazioni al lavoro rilasciate ai sensi dell’art.22 D. Lgs 286/98 22 Ibidem. 30 Capitolo 2 La Casa di Carità Arti e Mestieri e i migranti Michele Grisoni, Silvia Zabaldano 2.1. Corsi per migranti alla Casa di Carità Arti e Mestieri Prima del ’90 erano pochissimi gli extracomunitari che si iscrivevano ai corsi della Casa di Carità Arti e Mestieri. Dal ’90 la Direzione ha ritenuto, comunque, importante intraprendere una nuova strada, introducendo corsi specifici per migranti, che tenessero conto delle loro esigenze in modo non generico. La Casa di Carità Arti e Mestieri si è così rivolta all’Ufficio Stranieri del Comune di Torino, che aveva fornito la lista dei primi nominativi di migranti da inserire nei corsi23. Si è arrivati quindi al primo corso preserale nell’anno scolastico 90/91; la tipologia del corso era Elementi di Officina Meccanica, rivolto a quattordici migranti adulti, quasi tutti provenienti dal Marocco, con un grado di formazione medio-alta acquisita nel paese d’origine, o disoccupati o dediti a lavori saltuari non regolari. I soggetti avevano una conoscenza discreta della lingua italiana ma, dai colloqui, emergevano evidenti difficoltà materiali: precarietà residenziale, lavorativa, problemi per l’ottenimento e rinnovo del permesso di soggiorno. L’intuizione dell’Ente è stata quella di collegarsi, già nei mesi precedenti all’inizio del corso, ai Servizi per stranieri presenti sul territorio torinese, in modo da ottenere informazioni per la risoluzione di casi specifici. In questo modo si sono sviluppate quelle sinergie proficue capaci di risolvere e gestire la complessità di un’utenza caratterizzata da un doppio ordine di disagio lavorativo e sociale. Distinzione dei corsi per migranti: minori, adulti e donne. Questa stessa tipologia di corso è stata presentata nei due anni seguenti (92/93-93/94); tra i partecipanti si andava a delineare, in forma sempre più consistente, una presenza eterogenea di minori e di adulti, che spesso rendeva difficile l’intervento formativo e l’attività di tutorato e di accompagnamento durante il percorso. Per i giovani migranti si richiedeva infatti una maggiore attenzione da parte degli operatori, tanto più che si andava a delineare una tipologia di minori del tutto nuova, quella di “minore straniero non accompagnato”, il più delle volte senza una figura di riferimento adulta. 23 Negli anni successivi le iscrizioni sono invece avvenute attraverso il filtro dei Servizi territoriali della Rete o al passaparola tra i migranti stessi. 31 Le specifiche caratteristiche di questa utenza hanno spinto così la Casa di Carità Arti e Mestieri ad approfondire le conoscenze e le risorse presenti sul territorio; ci si è resi conto che altri servizi, come il Comune, l’associazionismo laico e cattolico, il Ministero di Grazia e Giustizia, il Provveditorato, la Prefettura, la Questura, lavoravano su questo target di giovani. L’idea accettata da tutti gli attori della rete era quella della necessità di creare un coordinamento capace di gestire le politiche di integrazione nel tessuto sociale, formativo e lavorativo specifiche per la realtà giovanile24. In questo modo, dal 1992, sono iniziate le collaborazioni tra Casa di Carità Arti e Mestieri, le scuole per stranieri Parini e Braccini, l’Ufficio Stranieri del Comune, i Servizi Sociali e il Tribunale; lo scopo era quello di portare il minore ad ottenere il permesso di soggiorno ed inserirlo in un progetto di crescita e di formazione. Dal 94/95 la Casa di Carità Arti e Mestieri è arrivata ad avviare un corso diurno specifico per minori migranti (in maggioranza non accompagnati) prevedendo un modulo di 1200 ore nell’orario diurno, rivolto a dodici minori25. Tutti i partecipanti, che non avevano la licenza media italiana, avrebbero potuto frequentare i corsi serali delle 150 ore presso le scuole per stranieri Parini e Braccini. L’obiettivo era quello di garantire ai minori che terminavano il corso annuale la possibilità di iscriversi al secondo anno regolare (inseriti in una classe di coetanei italiani) per ottenere l’attestato di qualifica; ma per tale iscrizione era necessaria la licenzia media e quindi il collegamento con le scuole delle 150h doveva essere rafforzato. I minori più meritevoli e con possibilità di mantenimento (accompagnati o che vivevano in comunità) avrebbero potuto iscriversi al secondo anno diurno, mentre gli altri a quello serale26. Attualmente questa procedura è in crisi perché sono avvenute delle modificazioni strutturali del sistema scolastico e formativo (vedi la riforma scolastica, l’apprendistato e gli orientamenti della formazione professionale). Nell’anno 1996 avviene un cambiamento importante per quanto riguarda la durata dei corsi specifici per stranieri: il modulo di 1200 ore viene ridotto a 600 ore sia nei corsi pre-serali sia in quelli diurni, in base alla nuova Direttiva Europea. 24 Si ricorda che nel ’95 nasce la rete territoriale per Minori Stranieri non accompagnati con l’adesione dell’Assessorato ai Servizi Sociali, l’Assessorato al Sistema educativo, il Tribunale dei Minori di Torino, i Giudici Tutelari, il Servizio Migranti della Caritas, le Scuole per Stranieri (Parini/Braccini), la formazione professionale e associazioni di volontariato. 25 Come è precisato in seguito si ricorda che dal 1996 tutti i corsi per migranti vengono ridotti da 1200 a 600 h, anche quelli specifici per minori. 26 Si ricorda che la partecipazione al corso diurno prevede l’inserimento in una classe con coetanei italiani; il corso serale, pur portando alla qualifica, comporta l’iscrizione ad un corso che ha al suo interno una maggioranza di utenza adulta, ma offre la possibilità di lavorare durante il giorno. Inoltre dal 95/96, per il proseguimento al secondo anno nell’orario diurno per i corsisti migranti occorre una procedura di inserimento che giustifichi le 600 ore in meno svolte al primo anno rispetto all’utenza dei corsi ordinari che al primo anno invece di 600 ore frequenta un modulo di 1200 ore. 32 Dal 97/98 la Casa di Carità Arti e Mestieri definisce un altro corso specifico per minori presso la sede di “Città dei Ragazzi”, utilizzando il finanziamento della Legge 216, che aveva permesso l’utilizzo di risorse economiche nell’ambito di progetti rivolti specificatamente al “minore straniero non accompagnato” 27. Per quanto riguarda i corsi specifici per donne straniere la prima tipologia di corso prevista dalla Casa di Carità Arti e Mestieri risale al 1994/95. L’idea iniziale si collega alla lettura di un articolo della Stampa in cui si parlava di un gruppo di nigeriane uscite dalla prostituzione grazie all’intervento della Caritas Sezione Femminile e della Questura che aveva concesso a queste donne il visto di soggiorno. Grazie alla collaborazione tra la Caritas e la Casa di Carità Arti e Mestieri si è arrivati così a elaborare un progetto di corso di formazione, rivolto a questa utenza specifica (donne dell’area del disagio), con l’obiettivo della regolarizzazione attraverso la stabilizzazione professionale. 27 I servizi di sostegno al “minore straniero non accompagnato” prevedevano: 1. frequentare il corso “Elementi operativi di Officina meccanica” propedeutico ad un primo inserimento lavorativo ed all’ottenimento, con la frequenza di ulteriori corsi, della qualifica professionale. Tale corso può essere frequentato sia in orario diurno sia in orario preserale; 2. usufruire della ristorazione self-service interno alla scuola e partecipare a tutte le attività ludiche e ricreative che vengono normalmente organizzate; 3. essere seguiti da un servizio di dopo-scuola, organizzato in collaborazione con i volontari e finalizzato alla assistenza, al sostegno ed al recupero delle situazioni più difficili; 4. seguire i corsi di alfabetizzazione e delle “150 h” per il conseguimento della Licenza Media nelle strutture tradizionalmente preposte, con i docenti della Pubblica Istruzione e del Comune. Questi corsi possono essere svolti, più utilmente, presso il Centro di formazione professionale: in questo caso si risponde in modo organico alle esigenze di migliore funzionalità ed interscambio degli attori nel processo educativo-formativo nell’ambito dell’educazione Scolastica e dell’educazione al lavoro (docenti del Centro, volontari, docenti del Comune e della Pubblica Istruzione); 5. ottenere l’intervento tempestivo dei formatori, coordinati dai diversi attori di rete (uffici comunali, comunità, volontari, mediatori, educatori di strada, assistenti sociali...), per le soluzioni dei problemi che possono emergere, quali ad esempio: - l’accompagnamento e l’assistenza presso vari uffici (comunali, consolari...) per regolarizzare la posizione del giovane in riferimento alla sua condizione giuridica (ottenimento del permesso di soggiorno); - le situazioni difficili che possono richiedere anche assistenza legale; 6. partecipare e contribuire a realizzare gite e incontri di tipo ricreativo, culturale e inter-culturale volti ad approfondire le tematiche delle specificità culturali e della necessaria integrazione nel Paese ospitante; 7. frequentare un secondo anno preserale con attività lavorativa diurna utilizzando la Borsa lavoro predisposta dal Comune e/o da Associazioni di imprese al fine di traghettare il giovane verso la qualifica professionale; 8. frequentare un terzo anno preserale con attività lavorativa diurna utilizzando la Borsa lavoro in collaborazione con il Comune oppure avere un inserimento lavorativo presso un’azienda metalmeccanica. Nel terzo anno si concluderà il ciclo formativo con il conseguimento della Qualifica professionale. In seguito il giovane avrà la possibilità di continuare la Formazione di un ulteriore anno nei corsi di Secondo livello di Specializzazione con relativo inserimento lavorativo; 9. utilizzare un mezzo di trasporto privato per accompagnare gli utenti presso il Centro formativo collocato nel Comune di Torino se la zona è sprovvista di mezzi pubblici. 33 Questo corso, nell’ambito della ristorazione, era di 600 ore diurne, prevedeva quattordici corsiste, scelte grazie al filtro della Rete territoriale (Caritas, Questura…). Dal 97/98 oltre al corso di cucina è stato introdotto un altro corso diurno (sempre di 600 ore) di taglio e cucito per donne straniere senza lavoro; anche per questi corsi si utilizzava il finanziamento della direttiva 331 per migranti che prevedeva una borsa lavoro di 4.000 £ orarie. Un’altra tipologia di corso è quella del Mediatore Culturale, destinata a migranti con una conoscenza medio-alta dell’italiano ed una elevata scolarizzazione pregressa nel paese d’origine. I corsi di Mediatore Culturale sono iniziati nel 96/97, grazie all’intervento di un soggetto esterno alla Casa di Carità Arti e Mestieri. L’associazione Nova Familia aveva preso contatti con la Direzione del nostro Centro per richiedere la presentazione e attuazione di un corso per Mediatori Culturali; questa richiesta dimostrava come il territorio ritenesse cruciale la formazione di questa nuova figura professionale. La Casa di Carità Arti e Mestieri recepì questa esigenza e definì un corso per Mediatori Culturali di 900 ore rivolto a sedici corsisti che avrebbero conseguito una qualifica regionale riconosciuta: era il primo corso per migranti che prevedeva un esame finale con una Commissione Regionale. Per la buona riuscita del corso la Casa di Carità Arti e Mestieri aveva elaborato il progetto insieme all’associazione Nova Familia, caratterizzato da una preparazione soprattutto in ambito sanitario. Alcuni formatori della Casa di Carità Arti e Mestieri si erano così occupati di contattare l’Ufficio d’Igiene di Torino e l’Ospedale Amedeo di Savoia, per richiedere una collaborazione di medici preparati che partecipassero come docenti al corso. Tutti i servizi convocati per le ore di docenza dimostrarono una disponibilità totale, rafforzando in questo modo i rapporti tra il Centro e la rete territoriale (alcuni interventi del giudice Giannone, dell’avv. Pastore dell’Asgi e di Kivar della CISL, Ufficio Stranieri). Dopo il successo del primo anno il corso si è ripetuto negli anni seguenti grazie ai finanziamenti del Progetto Integra I.Ter. che prevedeva, tra le varie iniziative, anche un corso per mediatore culturale28. Rispetto al modulo precedente la Casa di Carità Arti e Mestieri ha privilegiato un rapporto integrato con i servizi territoriali, inserendo nel suddetto corso, una docenza specializzata che rappresentasse l’associazione di appartenenza29. Questa linea di condotta avrebbe determinato infatti un salto di qualità nella fase di stage dei corsisti e una eventuale facilitazione nel loro futuro inserimento lavorativo. 28 Si veda il grafico 1 all’interno dell’Introduzione. 29 Si veda il grafico n.2, schema formatore/docenza nel corso di mediatore culturale. 34 Per questa tipologia di corso, nella scelta dei partecipanti, la Casa di Carità Arti e Mestieri ha dovuto considerare da una parte la percentuale di presenza nel territorio torinese dei diversi gruppi etnici, con una particolare attenzione a quelli con maggiore difficoltà d’inserimento (problemi relativi alla 1a Accoglienza)30 e dall’altra le richieste dei servizi territoriali, interessati all’inserimento di mediatori culturali di certe etnie e non di altre. Non va infine dimenticato che, sempre all’interno del progetto I.Ter. Integra, i corsisti qualificati nel secondo modulo di Mediatore Culturale sono stati inseriti in attività lavorative presso i servizi territoriali, con un salario part-time in Borsa Lavoro della durata di 6 mesi per un totale di 480 ore. Questa esperienza ha avuto tre funzioni: • abituare i servizi territoriali a questa nuova figura professionale; • affinare le abilità e le competenze professionali dei mediatori; • facilitare l’inserimento lavorativo. 30 Gruppi con maggiore difficoltà di inserimento: Magreb (Marocco, Tunisia, Egitto, Algeria), Europa dell'Est (Albania, Romania, Bosnia, ex Jugoslavia e ex Russia), Centro Africa (Nigeria, Senegal), CinaFilippine e Sud America (Perù, Brasile). Elaborazione dati dell’Ires, su Internet Progetto Atlante, si veda nota 15. 35 Grafico n.2 SCHEMA DI FORMAZIONE/DOCENZA NEL CORSO DI MEDIATORE CULTURALE MODULO LINGUISTICO MODULO INFORMATICO MODULO INTERCULTURA E LAVORO MODULO ANALISI CASI (Mediatore Culturale) SCHEMA DOCENZA ESTERNA MODULO ANTROPOLOGICO (Alma Mater) MODULO PSICOLOGICO (Franz Fanon) MODULO SOCIOLOGICO (Caritas/IRES) MODULO LEGISLAZIONE ASGI; I.S.I.-A.S.L. 1 (Uff. Stranieri del Comune) 36 MODULO SOCIO-SANITARIO (ISI-A.S.L.1) MODULO ASSISTENZIALE E SCOLASTICO (Uff. Stranieri Minori del Comune e C.T.P. Parini) MODULO MEDICINA E PUERICULTURA (Amedeo di Savoia, Camminare Insieme) MODULO IGIENE (Ufficio d’igiene) 2.2. Lo Sportello di Orientamento al Lavoro: O.L.M. Grazie alla esperienza dei corsi per migranti alla Casa di Carità Arti e Mestieri in questi anni, è emersa con forza l’idea di offrire ai cittadini migranti un luogo dove poter essere informati e guidati nella scelta formativa e nella ricerca del lavoro, anche perché in questo ambito specifico le risorse del territorio sono ancora molto limitate: attualmente Informagiovani e Cilo31 non sono ancora in grado di offrire risposte complete per questo tipo di utenza; le sole azioni specifiche sono condotte dalla Caritas, dai sindacati e da alcuni sportelli che possono vantare contatti diretti con le aziende. La Casa di Carità Arti e Mestieri ha così scelto di aprire uno Sportello per stranieri l’“O.L.M.”, in cui lavorano attualmente (seconda fase dic. ‘99 – giu.2000) un operatore italiano e un operatore algerino32. Lo sportello apre tre giorni alla settimana per un totale di 12 ore, disposte su tre fasce giornaliere (mattino, pomeriggio, sera); l’attività è quella di accogliere i migranti, registrando su scheda individualizzata i dati anagrafici, le esperienze scolastiche e professionali, in una prospettiva di counseling, efficace per “scoprire capacità e attitudini nascoste” relativamente ad esperienze che gli stessi utenti sono spesso restii a comunicare. In base alle informazioni ricavate dal primo incontro (schede raccolta dati utenti), l’operatore passa ad una trasposizione dei dati in forma computerizzata, verso la creazione di apposite banche dati, dalle quali attingere eventuali “risorse umane” in relazione alle offerte di lavoro pubblicate (ed accuratamente vagliate!) su riviste specializzate. Un’attenta analisi delle richieste di manodopera ha permesso quindi di effettuare una ricerca precisa, sulla base della disponibilità di nominativi degli utenti, classificati per categorie professionali (adulti donne, adulti uomini, minori; con o senza permesso di soggiorno). Il Centro ha ritenuto importante dare la possibilità al migrante di esprimersi liberamente nella propria lingua attraverso il confronto con un operatore straniero; è stata quindi una risorsa il fatto che tra gli operatori del servizio operassero anche migranti a testimonianza di un clima di disponibilità e di accoglienza reale. L’insieme di problematiche che uno Sportello si trova ad affrontare è vastissimo. Le persone che si presentano al servizio spesso non solo cercano lavoro ma non sanno dove dormire o mangiare, non hanno il permesso di soggiorno e non sanno dove rivolgersi per un’eventuale assistenza sanitaria. 31 Il Cilo è il centro di iniziativa locale per l’occupazione, con la funzione di favorire l’incontro domanda/offerta di lavoro, promuovendo e o pubblicizzando occasioni di orientamento e formazione. 32 Nella prima fase (febbraio - giugno ‘99) erano stati inseriti anche un obiettore di coscienza e alcuni mediatori culturali in stage. 37 Per questo fondamentale è l’azione coordinata con le strutture territoriali; la rete è formata da attori istituzionali (ospedali, circoscrizioni, scuole, servizi assistenziali e culturali del comune e servizi giudiziari), volontariato (Caritas, Camminare insieme, Coop. Sociali...) e mondo del lavoro (sindacati, enti di formazione, aziende, agenzie di lavoro interinale). Le persone che vengono allo sportello sono quasi sempre disposte a svolgere qualsiasi lavoro. É difficile far emergere la professionalità che molti di loro possiedono, soprattutto se questa è stata acquisita nel paese d’origine. Gli stranieri tendono a ritenere le esperienze pregresse poco importanti, quasi fossero da cancellare nel momento dell’arrivo in Italia. Così i laureati cercano posti da diplomati o qualificati e sono disposti a svolgere quelle professioni che noi italiani non abbiamo più intenzione di fare. Alcune volte ci si trova di fronte a datori di lavoro che hanno scarsa conoscenza delle potenzialità e delle competenze lavorative degli stranieri perché ancora ostacolati da stereotipi che frenano il processo di inserimento. Un primo fattore discriminante è la lingua: lo straniero non capisce quello che deve fare e quindi spesso non fa immediatamente ciò che gli viene assegnato . Per questo è importante far capire ai migranti che uno dei passaggi obbligati per trovare lavoro si collega alla buona conoscenza della lingua italiana. Un’altra difficoltà è quella del lavoro sommerso e dello sfruttamento, soprattutto per le donne: le addette all’assistenza alla persona o ai lavori domestici sono, nella maggioranza dei casi, irregolari. Lo stesso vale per gli operai, inseriti nelle imprese edili o nelle piccole aziende, che raramente sono a norma con i libretti. Una risorsa dello sportello è quella di conoscere una serie di aziende, con le quali la Casa di Carità Arti e Mestieri ha rapporti di collaborazione pluriennali, potendo offrire in alcuni casi garanzie essenziali per la tutela dei diritti e la regolarità nell’assunzione. Un nodo critico emerge quando, accompagnando/orientando un migrante ad un lavoro al di fuori dalla rete delle professioni collegate al comparto meccanico o informatico (ambiti specifici dei corsi tradizionali della Casa di Carità Arti e Mestieri), esiste il rischio di inserire in un’attività in cui è possibile il rischio di sfruttamento o di “lavoro in nero”, ad esempio nel campo della ristorazione o dell’edilizia. 2.3. Considerazioni sugli esiti del percorso formativo del migrante alla Casa di Carità Arti e Mestieri e situazione attuale dei corsi. Per quanto riguarda la dispersione formativa, minimo è stato il numero degli stranieri che non hanno concluso il corso per superamento del tetto massimo di assenze previste; i casi verificati sono tutti collegati a motivi di lavoro (dispersione massima di uno o due allievi per corso) o di salute (nel caso di donne adulte nel periodo della maternità). 38 Tutti i minori stranieri che hanno finito il secondo anno, conseguendo la qualifica, sono stati assunti in azienda e hanno visto riconosciuta la loro professionalità; lo stesso vale per gli adulti stranieri che, concluso il primo corso di 600 ore e la seconda annualità (corso serale regolare con italiani), hanno tutti trovato un lavoro. Nell’anno formativo 1999/2000 la domanda da parte dei migranti è stata superiore rispetto all’offerta di corsi da parte della Casa di Carità Arti e Mestieri. Il numero di migranti, in confronto all’anno formativo 1998/1999, risulta superiore di 28 unità anche se si avverte una flessione nei corsi preserali perché molti di questi non sono stati approvati. La situazione attuale risulta quindi costituita da 169 frequentanti33 (100 in riserva) così distribuiti: • Donne 38 • Uomini 81 • Minori 50 (di cui 24 nati nel 1982, 18 nel 1983 e 8 nel 1984) Complessivamente i corsi che sono stati approvati e finanziati dalla Regione Piemonte nell’anno 1999/2000 sono: • Mediatore interculturale (600 ore) 1 • Servizi di ristorazione di base (600 ore) 1 • Taglio e cucito (600 ore) 1 • Costruzioni alle Macchine Utensili (600 ore) 4 • Orientamento di 30 ore all’interno del progetto Integra - I.Ter. 3 (2 per minori e 1 per donne) • Orientamento di 50 ore dei C.T.P. 2 La positività di questi risultati può essere ricondotta all’azione centrale del tutorato realizzata durante il percorso del migrante, soprattutto con i minori non accompagnati; questa azione si è realizzata attraverso una raccolta dati sui migranti frequentanti, che ha permesso di rendere efficaci eventuali interventi degli organi territoriali (giudiziari e socio-assistenziali) preposti a valutare e riconoscere la legalità dello straniero e di produrre una ricostruzione attendibile della sua storia personale. Infatti questi dati34, raccolti in schede personali, riportano le condizioni di arrivo e quelle di vita attuali e, nel caso di minori soli, l’indicazione del tutor referente. 33 I migranti sono così ripartiti nei vari centri della Casa di Carità Arti e Mestieri: • Torino, Corso Benedetto Brin, 26 49 • Torino1, Corso Trapani, 25 40 • Grugliasco (TO), V. Generale Perotti, 94 8 • Città dei Ragazzi, Torino, Strada al Traforo di Pino, 6 35 • Ivrea (TO), V. Piave, 11 7 • Susa (TO), V. Madonna delle Grazie, 4 19 • Ovada (AL), V. Gramsci, 9 11 34 Si vedano, nella documentazione allegata, gli esempi delle schede compilate dalla Casa di Carità Arti e Mestieri per ciascuno degli iscritti ai diversi corsi. Da queste si può constatare che le iscrizioni dei minori sono state gestite in stretta collaborazione con le scuole di alfabetizzazione e 150 ore. 39 Tutto questo risulta prezioso per la formazione professionale regionale perché riduce l’abbandono ai corsi e permette di svolgere una formazione di qualità come è richiesta dalle aziende nel momento degli stage, dei tirocini, delle borse lavoro, e delle future assunzioni35. 2.4. Direttive e linee metodologiche della Casa di Carità Arti e Mestieri 2.4.1. Direttive specifiche Dal 1990 il documento che vincola è la DIRETTIVA ANNUALE SULLA FORMAZIONE PROFESSIONALE FINALIZZATA ALLA LOTTA CONTRO LA DISOCCUPAZIONE dell’obiettivo, asse, sub asse 3.3.1. OBIETTIVO 3: “Lotta contro la disoccupazione di lunga durata, inserimento professionale dei giovani, integrazione delle persone minacciate di esclusione dal mercato del Lavoro” Asse 3: “Integrazione per migranti, immigrati e nomadi” Sub-Asse 1: Formazione per migranti, immigrati e nomadi Beneficiari: immigrati, migranti o nomadi privi di titoli di studio o con titoli di studio non adeguati, per i quali sono necessari interventi formativi di qualificazione o di specializzazione. Durata massima: 600 ore per ogni tipologia di corso Reddito allievi: massimo £ 4.000 per ora allievo. 2.4.2. Linee metodologiche della Casa di Carità Arti e Mestieri Cogliendo lo spirito di Cresson e Flynn (1996) l’intervento formativo della Casa di Carità Arti e Mestieri cerca di confrontarsi con il nuovo modo di operare, auspicato tra i soggetti del mondo del lavoro. In particolare vengono considerati gli aspetti che più qualificano oggi un'azienda moderna: la concorrenza di tutti i partecipanti all’evento produttivo per il perseguimento della Qualità Totale, la flessibilità delle persone e delle strutture, la ricerca e la valorizzazione di un rapporto di collaborazione che conduca ad una soddisfazione tra tutte le parti. 35 Si veda l’ipotesi di Dispositivo per l’orientamento, l’accompagnamento e la formazione, presentato nel capitolo 7, pr.7.2. 40 Per progettare l’intervento formativo secondo questi criteri di qualità, è stato considerato opportuno procedere secondo un approccio sistemico, il quale richiede una scuola integrata , non solo nelle sue variabili interne, ma anche in relazione al territorio circostante. Ciò comporta la tensione a costruire una coerenza tra piano educativo, programma di attuazione e progetto operativo. Più in particolare, per attivare corsi di formazione in grado di assorbire utenza migrante capace di terminare i corsi e di inserirsi nel mondo del lavoro, viene ritenuto necessario promuovere una mentalità nuova che consiste nell’integrare nel territorio la formazione professionale, i servizi di accoglienza e di alfabetizzazione e le aziende . Si tratta di un agire locale che tende a riconoscere il ruolo della molteplicità di protagonismi che concorrono alla formazione professionale. D’altra parte per lavorare in rete occorre un coordinamento e collegamento a livello territoriale con un approccio culturale che viene definito, ad un tempo “del limite” e “dell’estremo”. Sviluppando la cultura del limite, si pone come obiettivo quello di esplicitare i propri vincoli e di riconoscere quelli altrui, mentre con la cultura dell’estremo, si ricerca un’apertura ad una interpretazione innovativa, creativa, di tali vincoli anche in funzione della negoziazione con gli altri attori istituzionali36. Rifugiandosi solo in una o nell’altra di queste culture si rischierebbe invece o di rimanere immobilizzati dai limiti, o di restare isolati dalla eccessiva volontà di espansione e di indipendenza. Lo scopo quindi è quello di superare immobilismi e isolamenti. Il territorio diventa un ambiente innovator e nel quale anche i corsi possono trovare nuove forme di gestione e di monitoraggio. C’è, inoltre, la forte convinzione che l’integrazione nella diversità multiculturale è un’acquisizione che ha bisogno di politiche e di strategie d’interazione. Un primo obiettivo può essere quello di sostituire alla materia, intesa come costrutto unitario individuale, l’area delle materie. Ad esempio: • l’area tecnico operativa • l’area tecnico scientifica • l’area culturale/multiculturale/interculturale Un secondo obiettivo può essere quello di concretizzare l’invito contenuto ancora in Cresson e Flynn (1996), attraverso un maggiore coinvolgimento dello straniero, evidenziando, cioè, il suo ruolo centrale e co-progettuale rispetto al percorso formativo proposto. 36 In questa prospettiva si pone il Dispositivo per la comunicazione integrata sul territorio , presentato nel capitolo 4. 41 La missione fondamentale dell’istruzione è di aiutare ogni individuo a diventare un essere umano completo e non uno strumento per l’economia; l’acquisizione delle conoscenze e delle competenze deve essere accompagnato da un’educazione del carattere, da un’apertura culturale e da un interessamento alla responsabilità sociale. Alla luce di queste opzioni lo strumento operativo adottato dalla Casa di Carità Arti e Mestieri, è caratterizzato dalla sigla P.D.C.A37, uno strumento nato per guidare le politiche di miglioramento continuo in azienda, ma perfettamente applicabile nel campo dell’innovazione formativa. Cosa vuol dire? • P. sta per PLAN e si riferisce alla pianificazione accurata che parte da una buona individuazione delle esigenze, in un'ottica sistemica ed evolutiva. • D. sta per DO e si riferisce alla esecuzione operativa, che riguarda i contenuti, l’attrezzatura, la produzione e più in generale comprende il motivare e l’incentivare a produrre bene. • C. sta per CHECK e si riferisce al controllo della qualità rispetto a ciò che si è pianificato, e comporta il fissare gli standard e garantirne il rispetto. • A. sta per ACTION e si riferisce al mantenere o correggere, cioè fare il follow-up; adottare quindi le misure correttive indicate dalla funzione qualità, indirizzare gli allievi verso strutture che rispondano alla formazione acquisita, assistere gli allievi e raccoglierne le indicazioni. Dall’Action, la volta successiva, si determinerà un miglioramento nel successivo P.D.C.A. 37 Si veda nei GRAFICI n.3,4, 5a e 5b il funzionamento del P.D.C.A. nell’azione della Casa di Carità. 42 2.4.3. Grafico n. 3: schema di progetto in corso Milieu innovateur è definibile come area territoriale limitata in cui grazie alla presenza di: • prossimità spaziale fra imprese (servizi); • facile circolazione dell’informazione • forte senso di appartenenza a una comunità territoriale. • comuni radici socio-culturali nelle diversità (multiculturalità e interculturalità) P C D A RACCOLTA DATI Si realizzano rapidi processi di confronto e di imitazione che fondano l’“apprendimento collettivo”. In definitiva occorre cogliere le caratteristiche e le potenzialità del territorio. PROGETTAZIONE ATTIVAZIONE DEL PERCORSO COINVOLGIMENTO DEI SERVIZI In questo schema si evidenzia che l’innovazione non riguarda la singola istituzione ma il territorio di partenza. Nel momento in cui si progetta un corso occorre tenere conto che si è parte di un contesto di rete. La progettazione non avviene quindi in un contesto concettuale di isolamento ma si cerca il più possibile di far riferimento al territorio. Punti di vista differenti possono prodursi reciprocamente attraverso uno scambio di significati tra gli attori della rete. Questo territorio diventa innovatore se le risorse di ognuno vengono riconosciute dagli altri e se c’è la disponibilità a raggiungere accordi condivisi. Ogni istituzione (scuola, formazione, azienda, sanità, giustizia) ha una sua cultura e vincoli propri e il milieu innovateur si riferisce proprio alla possibilità di rendere fruibili reciprocamente le iniziative, le innovazioni che possono prodursi nei diversi punti della rete. 43 2.4.4. Grafico n. 4: modello sistemico/ecologico MILIEU INNOVATEUR ORGANIGRAMMA DEL CENTRO PROFESSIONALE A/B TEAM A/B FORMATORE/I A/B PROPOSTA FORMATIVA dell’ENTE A/B A: materiale B: immateriale Competenze tecniche, indicatori risultati Idee, esperienze, comunicazione, relazioni, creatività, abilità Competenze trasversali Intese come “un insieme di abilità di ampio spessore, che sono implicate in numerosi tipi di compiti dai più elementari ai più complessi e che si esplicano in situazioni tra loro diverse e quindi ampiamente generalizzabili” 44 2.4.5. Grafico n. 5: rapporto formatore/allievo FORMATORE (fornitore) ALLIEVO (utente/cliente) COSTRUZIONE DI UN CONTESTO FAVOREVOLE ALL’AZIONE ESPERIENZA FOCALIZZAZIONE ATTENZIONE ESEMPLIFICAZIONE RIPRODUZIONE SPIEGAZIONE DOMANDA SOSTEGNO ALLA COSTRUZIONE RAPPRESENTAZIONE CHIARIFICAZIONE/SEMPLIFICAZIONE/ PROBLEMATIZZAZIONE RIFORMULAZIONE RISPECCHIAMENTO/RINFORZO IPOTIZZARE SOLUZIONE AUTONOMA Anche nella relazione diretta docente/discente utilizzare il PDCA significa optare per un ruolo di sostegno e promozione che può essere identificato con il tutoring descritto dagli approcci che si rifanno alla scuola storico – culturale di Vygotskji (Pontecorvo, 1999, Pontecorvo, Ajello, Zucchermaglio, 1995)38 38 Si vedano il paragrafo 3.3. sulla coevoluzione e la co-costruzione, all’interno del capitolo 3. 45 Grafico n.5a FORMAZIONE CONTINUA (Il mondo della vita entra nel mondo del lavoro) RAPPRESENTAZIONE SOLUZIONE AUTONOMA PROBLEMATIZZAZIONE DOMANDA ESPERIENZA ATTENZIONE RIPRODUZIONE IPOTIZZARE Nel grafico si vede come questo processo che parte dell’esperienza dell’allievo (utente/cliente), in un contesto favorevole preparato dal formatore, abbia un andamento circolare in cui le diverse componenti contribuiscono all’esito formativo, attraverso processi di costruzione, chiarificazione e riformulazione del problema. 46 2.5. Il rapporto tra la Formazione Professionale e i servizi territoriali di Torino In tema di Migranti posti in situazione di “Disagio” sono state realizzate a Torino iniziative diverse, che si sono collocate soprattutto nell’ambito del contenimento e della prevenzione a carattere giudiziario, dell’ordine pubblico, dell’emergenza. Ultimamente si assiste ad un salto di qualità ed il nuovo orientamento è quello di traghettare il migrante verso l’integrazione nel tessuto sociale torinese attraverso gli inserimenti scolastici, formativi, lavorativi, culturali che coinvolgono tutte le istituzioni pubbliche, private ed il volontariato cittadino. Sono state, ad esempio, realizzate iniziative di coordinamento degli apparati giudiziari, dei servizi sociali, dell’alfabetizzazione e 150 h, del volontariato, della Formazione Professionale Regionale, della Prefettura e del Ministero degli Affari Sociali. Ma tali esperienze, pur dimostrando un notevole potenziale di efficacia, sono state centrate unicamente sulle risorse dei “corsi”, e si sono potute rivolgere, quindi, ad una quota estremamente limitata di popolazione interessata. In ogni caso, difficilmente esse hanno potuto operare in modo da sviluppare un reale “percorso virtuoso”, tale da favorire per i migranti implicati un effettivo itinerario volto all’inserimento nella realtà sociale e lavorativa. Ciò a causa della mancanza di una prospettiva programmata e strutturata a monte, capace, quindi, di dare continuità interattiva ed interfacciale ai vari interventi, ed in particolare in relazione ai tre sistemi quali: • Servizi sociali • Istruzione-educazione • Formazione e lavoro Occorre, tuttavia, valorizzare al massimo tali esperienze, e quant’altro è stato sviluppato in quest’ambito (accoglienza, modelli di orientamento, di counselling, progetti di prevenzione...). Tale valorizzazione può avvenire attraverso un progetto sperimentale centrato sulla creazione di un vero e proprio sistema individualizzato ed integrato di interventi fondati sulla logica delle “opportunità stabilizzanti per migranti” coerente con le indicazioni provenienti dall'Unione Europea e con le spinte e gli orientamenti innovativi della città di Torino attenta ad un forte coordinamento operativo di servizio all’utenza migrante. 2.5.1. La rete cittadina dei servizi dal punto di vista della Casa di Carità Arti e Mestieri La struttura della rete cambia a seconda dell’Ente di riferimento, del tipo di progetto (es. minori/adulti stranieri, uomo/donna migrante) e del criterio di 47 accorpamento degli interlocutori con cui si stabiliscono i rapporti (contatti frequenti/rari, primari/secondari). Nel grafico 6, si intuisce subito come la rete territoriale di un Centro professionale sia ampia e articolata in diversi livelli. Partendo dal centro, il primo livello comprende i Centri con cui la formazione professionale ha contatti molto frequenti, quasi quotidiani. Essi sono prevalentemente i servizi che si occupano della prima e seconda accoglienza (Uffici pubblici, Servizi socio-assistenziali, Servizi sanitari pubblici e privati, Servizi educativi e scolastici, Servizi culturali e Associazioni di volontariato). Il secondo livello comprende invece contatti che possono nascere o da un progetto mirato (per esempio il progetto Lia, finalizzato alla creazione di una guida ai Servizi della città) o dalla partecipazione a strutture di coordinamento che si incontrano regolarmente, ma una tantum (es. Coordinamento volontari del Comune). Il terzo livello comprende il contatto con gli Enti locali o con Centri nazionali di ricerca ed è caratterizzato da un lato da una maggiore distanza rispetto alle emergenze quotidiane, dall’altro da un collegamento ai problemi di gestione (finanziamenti, leggi) o di progettazione/pianificazione (commissionamento di ricerche o utilizzazione di ricerche svolte). All’interno del centro professionale chi gestisce questo livello è prevalentemente lo staff direzionale che, a sua volta, ha un rapporto meno diretto con l’utenza migrante, in confronto ai tutor e ai formatori. Complessivamente i diversi livelli di contatto consentono al Centro di ricevere contributi concreti per la risoluzione di problemi di funzionamento interni ai corsi (stage, selezione dei corsisti, referenti per i minori soli, ricerche sulle opportunità occupazionali per migranti…) o risposte ai bisogni specifici degli utenti (permesso di soggiorno, inserimento abitativo, supporto psicologico…). D’altra parte anche gli altri attori della rete sono interessati a entrare in contatto con il Centro di formazione professionale per esigenze specifiche interne; ad esempio le Scuole per stranieri possono indirizzare i minori verso i corsi professionali e alcuni Servizi territoriali richiedono mediatori culturali al Centro professionale. Ogni struttura avrà quindi un suo modello di rete di riferimento specifica, in base ai settori di intervento e al ruolo ricoperto nel contesto di attività. 48 2.5.2. Grafico n. 6: Rete territoriale per migranti IRES Enti locali CICSENE Coordinamento volontari del Comune ASGI Centri per l’impiego Tribunale dei minori Pretura e Giudici Tutelari Prefettura di Torino Ufficio stranieri del Comune Centro interculturale Direzione provinciale del Lavoro Camminare insieme ISI Ospedali Ferrante Aporti Assistenti sociali Centro Frantz Fanon CENTRO DI FORMAZIONE PROFESSIONALE Consultori OIRM Consulta Educatori di Strada Comunità di accoglienza e alloggio Servizio migranti Caritas Ufficio stranieri della Questura Scuole di alfabetizzazione e 150 ore Associazione ALMA MATER Associazioni di volontariato privato CIDISS Centro Interculturale Progetti mirati 49 2.6. Progetti di azioni integrate per la realizzazione di opportunità stabilizzanti Per opportunità stabilizzante per migranti si intende la capacità che ha il sistema territoriale di individuare, attraverso un percorso strutturato di orientamento alla formazione e al lavoro, le conoscenze, le abilità acquisite dal migrante nel suo paese d’origine o nella sua storia passata; fare emergere queste competenze significa riconoscere al soggetto dignità, orientandolo, in un percorso formativo e/o lavorativo il più possibile coerente con la propria storia. Tale opzione ripropone, verso l’utenza migrante, lo stesso orientamento che la Casa di Carità Arti e Mestieri ha assunto nei confronti dei minori italiani, e cioè un orientamento ispirato alla Pedagogia del successo. Esso consiste nel cercare di entrare in contatto con le componenti vitali, adattive della persona e nel selezionare le difficoltà dei compiti e degli obiettivi in funzione della possibilità, da parte della persona stessa, di sperimentarli e superarli con successo. Tutto ciò nell’intento di favorire l’aumento del senso di padronanza degli strumenti conoscitivi e della stima di sé. Le principali strategie operative per un’azione di questo tipo potrebbero essere: 1) Formare operatori specializzati (tutor) nella conduzione di progetti individualizzati per migranti in situazione di disagio, secondo la logica della valorizzazione e promozione personale, soggetti che siano quindi in grado di sfruttare le leve della prima accoglienza, dell'orientamento, della formazione e del lavoro. 2) Consolidare le sinergie esistenti, ed eventualmente attuarne di nuove , tra gli operatori pubblici e privati presenti sul territorio al fine di massimizzare le opportunità per i migranti in situazione di disagio e di evitare incongruenze e sovrapposizioni indesiderate, quali, ad esempio, la non approvazione di corsi considerati strategici ed innovativi per tali soggetti. 50 Parte seconda OPZIONI TEORICO-METODOLOGICHE 51 Capitolo 3 Per un modello di comunicazione fondato sulla reciprocità Laura Bonica 3.1. Premessa Muoviamo dalla consapevolezza che il fenomeno migratorio, soprattutto nelle sue forme così diffuse come nella fase attuale, sia un evento di straordinaria complessità che coinvolge/stravolge contemporaneamente la vita dei singoli migranti ed i mondi che ne sono toccati, sia quello di partenza che quello di accoglienza. Sia l’uno che l’altro non saranno mai più gli stessi, perché saranno ora descritti, nominati, sentiti sulla base di un confronto che porterà alla luce proprio le caratteristiche più ordinarie, più primarie, dell’uno e dell’altro, quelle che stanno alla base della condivisione di ciascuna cultura; queste non risulterebbero forse mai visibili se non avvenisse questa transizione, questo passaggio che apre un nuovo spazio mentale di ridefinizione di ciò che “era” familiare e di ciò che è “nuovo”, di ciò che si era nel passato e di ciò che si potrà essere nel futuro. Nell’ambito della rete territoriale e dei processi formativi questa complessità conduce ad assumere una prospettiva teorica abbastanza articolata che ci aiuti, sostanzialmente, a riconoscere le difficoltà ed i vantaggi della comunicazione interculturale: che renda conto perciò del diritto di ogni individuo, cultura e istituzione ad autodefinirsi nelle situazioni, che ci consenta di scorgere, nell’intreccio delle storie personali, delle culture e delle istituzioni coinvolte, il potenziale evolutivo e riorganizzatore delle fasi di transizione e di disequilibrio, e che ci predisponga a riconoscere, nelle dinamiche connesse ai processi di insegnamento – apprendimento, quegli spunti che possono renderci consapevoli del “nuovo” che sta accadendo attraverso l’incontro tra le nostre menti e quelle dei migranti. Il modello proposto è fondato su alcune ipotesi principali: • che il cambiamento umano sia fondamentalmente il frutto di un processo di comunicazione/negoziazione che avviene in concrete situazioni sociali • che per comunicare produttivamente sia necessario avere reciproca fiducia e riferirsi allo stesso dominio descrittivo, allo stesso problema • che le istituzioni possano essere considerate come sistemi autoorganizzati, dotati di caratteristiche affini a quelle dei sistemi viventi • che, soprattutto nelle situazioni di eterogeneità, la collaborazione possa essere facilitata se l’atteggiamento che guida l’incontro con l’altro è improntato ad una specie di paradosso: aspettarsi differenze ed imprevisti, 53 come l’evento più probabile e, al contempo, sentirsi sicuri di poter sempre ricondurre questa differenza ad una profonda similarità di base con l’altro: siamo tutti esseri viventi complessi, capaci di autodefinirci, di avere sentimenti, idee e progetti e tutti abbiamo dei vincoli. Il supporto empirico deriva da ricerche condotte nell’ambito dell’educazione e della formazione, svolte nella prospettiva sistemicocostruttivista (Bonica, 1984, 1989, 1990a, 1990b, 1991, 1992, 1999; Merenda,1993; Parrinello, 1993; Negri S., 1999) Più in dettaglio, l’ispirazione principale per la costruzione di questo modello mi è stata suggerita dall’intreccio tra due esperienze. Da un lato l’attività di ricerca sulla risoluzione autonoma dei conflitti tra bambini piccoli: la loro immediata reazione al non sentirsi considerati dall’altro e le svariate strategie messe in atto per ricostruire una forma basilare di reciprocità, nonostante la loro giovane età, mi hanno spinto ad utilizzare, anche nelle negoziazioni tra adulti e tra istituzioni, i concetti di autoreferenzialità, vincolo, reciprocità, negoziazione e gioco delle differenze. Dall’altro il coordinamento della formazione continua e della sperimentazione didattica delle strutture socioeducative del Comune di Genova, da cui ho tratto la convinzione che un sistema sociale organizzato funzioni come un sistema vivente e che qualsiasi cambiamento venga proposto o pretenda di essere imposto dall’esterno debba tener conto del sapere agito degli operatori e cioè della capacità di autoorganizzazione del servizio stesso e dei vincoli che ne costituiscono l’identità . Di conseguenza, l’opzione verso la reciprocità verrà fondata principalmente sul riconoscimento dell’autodefinizione e sulla esplicitazione dei vincoli tra sistema che osserva e sistema che è osservato. Procederemo in due fasi. Dapprima, cercherò di supportare l’opzione verso la reciprocità anche sul piano teorico. In seguito presenterò il modello operativo, un dispositivo per la comunicazione integrata sul territorio, che è stato utilizzato nel corso Formazione Formatori, affinchè il lettore stesso possa provare a rispondere attivamente alle diverse proposte ed eventualmente utilizzarlo, a sua volta, per favorire la comunicazione di rete. 3.2. Qual è la metafora della natura umana che ci ispira? 3.2.1. Meccanicismo e costruttivismo Pensiamo all’attimo che precede il nostro primo incontro con “l’altro immigrato - sconosciuto”, persona o gruppo o istituzione, in funzione del quale si giustifica il nostro ruolo professionale di quel momento: formatore, 54 educatore, insegnante, tutor, dirigente amministrativo, assistente sociale, ecc. Qual è la metafora della natura umana che ci ispira? Nel modo di rappresentarci l’altro, più o meno attivo/passivo, più o meno capace di autodefinirsi, noi, non solo esprimiamo una prima definizione del nostro ruolo e di quello che attribuiamo all’altro, ma anche la nostra visione della natura umana e del tipo di comunicazione che riteniamo opportuna tra esseri viventi. Pur con diverse sfumature, nella storia del mondo occidentale si possono individuare due principali metafore o concezioni dell’essere umano che hanno trovato supporto anche nella letteratura scientifica: a) macchina ALLOPOIETICA (visione comportamentista- meccanicistica) b) macchina AUTOPOIETICA (visione organismica - costruttivista) a) La concezione meccanicistica vede l’essere umano come una “macchina” composta di parti, alle quali possono essere applicate delle forze che provocano una reazione a catena, per cui la macchina si muove da uno stato all’altro. In teoria diventa così possibile avere una capacità predittiva profonda, in quanto la conoscenza completa che possediamo sullo stato della macchina e sulle forze che agiscono in un dato momento ci permette di fare inferenze sullo stato successivo (Miller, 1994, p. 28). Questa macchina può essere definita “allopoietica” nel senso che, per funzionare, dipende da input esterni (Maturana e Varela, 1980). Secondo questo paradigma un determinato sistema A (ad es. un docente, un operatore, ecc.) può agire su un altro sistema B (ad es. una classe di studenti, un gruppo di migranti) secondo un rapporto causale di stimolo-risposta da cui derivano i concetti di condizionamento e di istruzione. Una concezione allopoietica dell’essere umano implica, quindi: • un rapporto di non reciprocità tra la persona/istituzione/sistema A e la persona /istituzione/sistema B Ad esempio, A osserva, definisce ed istruisce B, in base a presupposti unilaterali, mentre B, l’osservato, deve applicare più o meno passivamente le istruzioni, senza che venga tenuto conto della sua capacità di definirsi o di pensare altrimenti. • una prospettiva semplificatrice di prevedibilità oggettiva Il sistema A, che istruisce, presume che la sua descrizione delle caratteristiche del sistema B possa coincidere con le caratteristiche reali di B, o con quelle che B dà di se stesso e che, quindi, certi comportamenti di B possano essere causati dalle istruzioni di A e studiati - valutati - misurati oggettivamente. 55 • la sottovalutazione o la mancanza dell’analisi dei vincoli dell’osservatore: La presunta oggettività, sopra citata, spesso induce il sistema che istruisce a dimenticare che i propri vincoli incidono sulle proprie definizioni del sistema B. Applicando questa prospettiva al rapporto con utenza migrante e al mondo della formazione, un centro professionale potrebbe definire i “bisogni” dell’utenza migrante da formare, e costruire e valutare il setting formativo corrispondente, misurando gli esiti in funzione della deviazione dal modello di risposte previste, senza aver tenuto conto né della definizione che i migranti avrebbero dato dei propri bisogni, né delle loro eventuali definizioni del setting formativo stesso39. Tale semplificazione occulterebbe tutta la dinamica comunicativa delle rispettive attribuzioni di significato rispetto al setting, e rischierebbe di vanificare la validità della procedura di valutazione, in quanto diventerebbe molto difficile stabilire che cosa realmente quei risultati hanno misurato. Oppure, noi occidentali potremo tendere a giudicare i bisogni ed i comportamenti degli extracomunitari, dimenticando che anche i nostri giudizi sono, a loro volta, inseriti in una storia di vincoli sociali, storici e culturali, oltre che personali. L’occultazione dei vincoli del sistema che osserva/definisce/istruisce è spesso favorita da una condizione di maggior potere, e questo favorisce la tendenza a radicalizzare le rispettive posizioni e differenze. Infatti, se i vincoli del sistema che ha maggior potere, non sono esplicitati, e vengono mascherati dietro al ruolo istruttivo, essi tenderanno ad essere percepiti dal sistema istruito, solo come i “privilegi”; mentre i vincoli del sistema istruito, mascherati dietro il bisogno o il “deficit”, tenderanno ad essere percepiti solo come gli ostacoli da rimuovere. In questo modo, chi ha più potere appare, in qualche modo, senza vincoli, mentre chi ha meno potere appare, in qualche modo, senza risorse40. A partire dalla fine degli anni ’50, questa visione è stata criticata per il riduttivismo e l’inadeguatezza a spiegare fenomeni complessi come le strategie cognitive innovative, la comunicazione umana ed i cambiamenti psicologici che comportano delle trasformazioni profonde del sistema di credenze personali. Tuttavia possiamo constatare che il modello del deficit ha caratterizzato per lungo tempo la politica sociale nei confronti delle fasce deboli (Bronfenbrenner, 1979) e che nella vita quotidiana, soprattutto 39 Si veda il capitolo 9 paragrafo 3 sulla suscettibilità rispetto al setting formativo e ai modelli di apprendimento-insegnamento e la parte quinta, capitolo 12 e 13 sulla reciprocità e vulnerabilità rispetto all’autodefinizione. 40 Si veda esercizio n.1 all’interno del capitolo 5, paragrafo 5.1. 56 quando esiste un’asimmetria sul piano dei ruoli e del potere, o una differenza di cultura, la tendenza a considerare “l’altro” come se fosse una macchina semplice, cioè più prevedibile e meno complessa, per esempio di quanto siamo noi stessi, è tuttora presente in molte situazioni di apprendimento e di rapporto tra istituzioni. b) La concezione organismica e costruttivista si è andata affermando, nel corso degli anni ’60 in alternativa alla visione meccanicistica, assumendo come metafora l’essere vivente stesso. Essa mette in primo piano la qualità “vivente e attiva” dell’essere umano e lo vede come una macchina autopoietica, cioè come un’unità attiva ed autoorganizzata in continuo cambiamento. Un ecosistema autopoietico non può essere istruito meccanicamente dall’esterno in quanto esso seleziona autonomamente ciò che gli serve. S. H. White descrive così un organismo attivo: Definiamo attivo un organismo che dà forma alla propria esperienza, mentre è passivo un organismo che prende forma dalla propria esperienza. Gli organismi attivi sono dotati di scopi e sanno prestare attenzione, ragionare e percepire in maniera selettiva. Tutto questo fa sì che l’organismo attivo sia in grado di selezionare, modificare o respingere influenze provenienti dall’ambiente che premono su di esso (White, 1976, in Miller, 1994, p. 28). Piaget può essere considerato il primo teorizzatore sistematico di una concezione autopoietica dello sviluppo umano. Secondo Piaget (1936), ad ogni età ed in ogni interazione con l’ambiente, fisico e sociale, l’autoorganizzazione si manifesterebbe attraverso vincoli biologici, detti invarianti funzionali (l’assimilazione, l’accomodamento e l’equilibrazione), che fonderebbero un rapporto bidirezionale tra le strutture cognitive dell’individuo e le sollecitazioni, presupposte come indispensabili, dell’ambiente. Le sollecitazioni dell’ambiente vengono chiamate “perturbazioni” per distinguerle dal concetto di stimolo, utilizzato dalle teorie comportamentiste; la loro funzione non è quella di “causare” delle risposte determinate e prevedibili, al contrario è quella di attivare processi di interpretazione e di riorganizzazione delle conoscenze che dovranno sempre essere ipotizzati come originali e parzialmente imprevedibili; infatti sarà lo stesso soggetto a costruire la realtà, inserendola in un sistema di significati in funzione del mantenimento della sua autoorganizzazione e secondo livelli di complessità compatibili con l’organizzazione attuale delle sue strutture mentali. 57 3.2.2. La prospettiva della complessità La prospettiva costruttivista di Piaget è stata ripresa dalla fase più recente di evoluzione del pensiero sistemico, che va sotto il nome di prospettiva della complessità. Essa prende le sue mosse, già negli anni ’60, dalle ricerche dell'antropologo Gregory Bateson41 sull’ecologia della mente e si sviluppa negli anni ’80 e ’90 attraverso le ricerche dei biologi Maturana e Varela (1980), diffondendosi in svariati ambiti di ricerca come un paradigma alternativo alla concezione meccanicistica e deterministica degli eventi e trovando, in ambito evolutivo-educativo, punti di convergenza anche con il filone della psicologia storico-culturale di Vygotskij e di Bruner. I principali nodi affrontati in questa prospettiva, riguardano: il ruolo dell’osservatore ed il ruolo del contesto socio-culturale. (Bocchi, Cerruti 1987) Il prendere sempre più coscienza del ruolo dei vincoli dell’osservatore umano, sia quando osserva i fenomeni fisici, sia, e soprattutto, quando osserva un altro sistema vivente, ha condotto, da un lato a ritenere che la descrizione scientifica dell’universo richieda sempre anche una descrizione di colui che descrive e dall'altro a fondare un principio metodologico di RECIPROCITÀ tra il sistema che osserva ed il sistema che è osservato. Questa maggiore attenzione al ruolo dell’osservatore ha condotto a rivedere molti degli assunti della scienza classica ed a costruire una sorta di nuovo vocabolario. Nel prossimo paragrafo verranno illustrati i concetti ritenuti più utili a progredire nella costruzione della chiave di lettura, qui proposta, per facilitare la comunicazione tra attori del territorio e nei rapporti di insegnamento-apprendimento. 3.3. Concetti utili per una chiave di lettura ispirata alla reciprocità tra persone e tra istituzioni In questo paragrafo verranno approfonditi i concetti ritenuti utili, sia per una migliore comprensione dei risvolti teorici del Dispositivo presentato nel capitolo 4, sia per operativizzare, anche ad un altro livello di elaborazione, alcune delle opzioni principali della Casa di Carità Arti e Mestieri rispetto al percorso dei migranti: opportunità stabilizzanti, pedagogia del successo, impegno etico-professionale, da parte degli operatori. 3.3.1. Autoreferenzialità, vincoli, reciprocità Maturana e Varela si sono posti l’obiettivo di approfondire la visione autopoietica della natura umana. Nel loro libro, “Autopoiesi e cognizione” (1980), essi hanno proposto una descrizione dei sistemi viventi complessi, 58 come organismi dotati di un carattere unitario. L’unitarietà è da riferirsi alla integrazione tra il ruolo di attore e di osservatore che caratterizza ogni essere umano, in quanto organismo vivente cognitivamente complesso. Il ruolo di attore è riferito all’organismo vivente in senso ontologico, che, come tale fa parte dell’universo vivente, e quello di osservatore è riferito alla capacità cognitiva di questo stesso organismo nel descrivere i fenomeni ontologici e quindi anche se stesso, all’interno di particolari vincoli neurobiologici ed evolutivi. Questi autori definiscono autoreferenzialità la capacità di ogni organismo vivente di subordinare tutti i cambiamenti al mantenimento dell’autoorganizzazione. L’autoorganizzazione, cioè la capacità di selezionare autonomamente ciò che è favorevole o nocivo alla sopravvivenza, sarebbe specificata dai vincoli. I vincoli sono definiti come i fattori invarianti che specificano l’organizzazione di sopravvivenza di un dato sistema vivente e che ne costituiscono l’identità, indipendentemente dalla varietà di trasformazioni della sua struttura, connesse ai cicli di riorganizzazione interna o alle interazioni (perturbazioni) con altri sistemi . L’autoreferenzialità ed i vincoli sarebbero quindi da intendersi come caratteristiche proprie dell’essere vivente, e sarebbero proprio queste le caratteristiche che fondano, al tempo stesso, un principio di unitarietà nello stesso soggetto, in quanto attore e potenziale osservatore di se stesso e la reciprocità tra attori/osservatori; infatti, se l’osservatore è un sistema vivente, esso non può essere privo di vincoli, sia quando osserva/definisce se stesso sia quando osserva/definisce l’altro, perché tutto ciò che si applica ai sistemi viventi, si applica anche a lui (Maturana e Varela, 1980). Quando due persone discutono, esse agiscono nel dominio linguistico, descrittivo, che è condizionato dai rispettivi vincoli ontologici, e, quindi, ciò che viene detto non va confuso con la realtà ontologica. In altri termini, quando formuliamo un’asserzione sulla realtà, dovremo chiederci sempre “Chi l’ha detto?, Quali sono i criteri che l’hanno guidato? In che relazione di accordo/disaccordo sta con i miei criteri?” Detto ancora in altri termini, gli osservatori non possono essere responsabili degli aspetti ontologici della vita/della realtà di cui sono parte, ma possono e dovrebbero essere responsabili dei criteri che adottano per interpretare questa realtà. Sarebbe, quindi opportuno, se si desidera fare delle azioni insieme, esplicitare i criteri che le guidano e costruire un dominio descrittivo comune, cioè un referenziale condiviso. A loro volta, questi criteri, queste teorie agiscono sulla realtà orientando i concreti comportamenti degli attori e diventando quindi suscettibili di produrre trasformazioni più o meno favorevoli al mantenimento dell’autoorganizzazione. Secondo questa visione, l’organismo vivente tende al mantenimento dell’autoorganizzazione, ma le teorie che il soggetto assume, nel ruolo di 59 osservatore, potrebbero essere più o meno adatte all’autoconservazione, così da orientare comportamenti più o meno vitali, che possono mettere in pericolo o rompere questo equilibrio, oppure trasformarlo in senso positivo. É infatti interessante sottolineare che, nella nuova prospettiva considerata, il concetto di vincolo viene coniato in alternativa al concetto di legge proprio per riferirsi ad un limite che non viene più visto con le caratteristiche di necessità di una legge e, quindi, la nozione di invarianza che esso implica è da intendersi soprattutto come funzionale all’osservatore (per avere un parametro da cui progettare il cambiamento), piuttosto che da riferirsi ad una legge esterna data come immutabile. (Cerruti, 1986) Il modello di comunicazione, qui proposto si fonda, per una buona parte, su una elaborazione di questi concetti, anche in chiave educativa ed inter-istituzionale. (Bonica, 1992) I vincoli, oltre che biologici ed esistenziali, possono essere storici, culturali, istituzionali, professionali. Nella interpretazione che proponiamo, essi segnalerebbero ad un tempo l’identità del sistema considerato, soggetto umano o istituzione e la prospettiva del cambiamento possibile in quel momento. Nel caso degli attori territoriali i vincoli potrebbero corrispondere alle invarianti istituzionali. Per invarianti istituzionali si potrebbero intendere quelle caratteristiche che specificano l’identità del servizio e che possono essere riconosciute come stabili nonostante i cambiamenti che possono essere innescati da riforme strutturali (per esempio l’attuale riforma della autonomia scolastica) o da iniziative innovative che partono dall’interno, o ancora dall’incontro con altri sistemi. I vincoli possono quindi rappresentare il luogo in cui il cambiamento si manifesta prevalentemente come capacità di salvaguardare la sopravvivenza del servizio a cui è legato il proprio posto di lavoro ed il ruolo professionale; questo cambiamento è inerente a due dimensioni principali: la vivibilità del soggetto stesso all’interno dell’istituzione, ed il consenso dell’utenza diretta; quando sono in pericolo questi due fattori, può manifestarsi, in modo più visibile, la capacità degli attori di esercitare un potere soggettivo di reinterpretazione dei vincoli, che fino ad allora potevano essere stati vissuti come invarianti immutabili dotate di un potere coercitivo proveniente dall’“alto” o, comunque, dall’“esterno”. La soggettiva percezione dei vincoli può comportare un margine di opzionalità che può oscillare attraverso un continuum che va da comportamenti mirati alla conservazione dello status quo, a comportamenti che, in nome della buona conservazione dell’identità del sistema, implicano trasgressioni o innovazioni. In questa chiave di lettura la cosiddetta “resistenza al cambiamento” delle istituzioni, spesso imputata dall’“esterno”, dovrebbe essere ogni volta riletta dal punto di vista interno all’istituzione: ciò che dall’esterno appare come conservazione potrebbe costituire, invece una scelta innovativa, o viceversa. Può risultare quindi più chiaro che, in questa prospettiva, 60 autoreferenzialità non significa automaticamente corporativismo o chiusura persistente nei confronti dell’altro, o egoismo, ma la tendenza di ogni sistema vivente/istituzione a subordinare tutti i cambiamenti al mantenimento della sua identità, intesa come capacità di autoorganizzazione. Come abbiamo detto sopra, questa capacità di autoconservazione non sarebbe da vedersi opposta od alternativa alla capacità di modificarsi o di entrare in interazione con un altro sistema autopoietico, proprio perché i vincoli che fonderebbero le rispettive autopoiesi non opererebbero come costrizioni esterne, al contrario entrerebbero a far parte del processo coevolutivo. Sul processo di co-evoluzione e di co-costruzione delle conoscenze, ritorneremo successivamente. Ora vorrei sottolineare come la natura dei cambiamenti strutturali possa essere compatibile con la conservazione dell’identità. Riprendiamo l’esempio delle riforme scolastiche o pensiamo a certi processi d’innovazione educativa partenti dal basso: essi innescano cambiamenti a livello strutturale che rimangono peraltro compatibili con la salvaguardia dell’identità della scuola. Ad esempio, uno dei vincoli indispensabili, almeno al momento storico attuale, per la sopravvivenza delle istituzioni scolastiche, può essere la dimensione collettiva dell’apprendere-insegnare, rispetto ad altri sistemi che, invece, prevedevano un rapporto diadico, come per esempio l’istituzione del precettore a domicilio. Occorrerebbe, quindi, che il cambiamento non comportasse una perdita drastica delle iscrizioni degli studenti. D’altra parte questo livello d’identità è compatibile con la differenza, perché ogni istituzione scolastica, pur condividendo con le altre lo stesso vincolo di base, può interpretarlo in modi diversificati. Dietro ad ognuno di questi modi c’è una quota di rischio assunto soggettivamente ed una storia di negoziazioni e condivisioni con gli utenti ed i colleghi. Vincoli, opportunità, unità di analisi e sapere agito Possiamo constatare che questo stesso vincolo, non solo segnala il punto di partenza ed il limite entro cui può essere affrontato un cambiamento, ma segnala anche l’opportunità di costruire un sapere specifico, che, riprendendo l’esempio di prima, riguarda “l’apprendimento-insegnamento in situazione collettiva”. Ciò significa che questo vincolo indica anche qual è l’unità di analisi minima utilizzata dai docenti nelle concrete situazioni e suggerisce, quindi, uno dei criteri autoreferenziali, identitari, per esplicitare e confrontare questo sapere con altre figure professionali, ed anche per migliorarlo in modo creativo. Se, però, questo sapere non viene assunto come una specifica opportunità offerta dai propri vincoli istituzionali perché questi ultimi vengono considerati solo come un ostacolo, “malgrado” il quale si realizza il processo di insegnamento-apprendimento, rispetto, per esempio, al “privilegio” di chi può permettersi di trattare con un utente per volta, c’è il rischio che il confronto avvenga al’insegna di un equivoco e che questo sapere resti sommerso. D’altra parte questo equivoco può scattare anche nella fase di formazione degli insegnanti, quando le unità di analisi proposte, in sede di formazione, sono riduttive o, comunque non rappresentative, della complessità dei vincoli delle 61 situazioni professionali. In ogni caso il sapere agito e costruito in situazione, grazie alle strategie di negoziazione dei rispetti vincoli con gli utenti diretti ed i colleghi, costituirà sempre una componente “viva” della professionalità. É infatti universalmente riconosciuto che in fase di stage, di tirocinio, di apprendistato si ha l’opportunità di apprendere qualcosa in più e di diverso, rispetto al setting scolastico, perché ci si rapporta con esperti che traducono il sapere tecnico in azioni e decisioni negoziate all’interno di una comunità di pratiche. In questo senso i vincoli possono anche essere visti, più complessivamente, come luoghi di sintesi tra la dimensione tecnico-scientifica e la dimensione etico-professionale del proprio lavoro. In questa prospettiva l’opzione verso la reciprocità si fonderebbe quindi su un assunto di similarità di base fondata sull’autoreferenzialità e sui vincoli, e si manifesterebbe attraverso il riconoscimento reciproco di questo potere autoasserente. 3.3.2. Ascolto attivo, conflitto, negoziazione Il tener conto che anche l’altro ha sempre un suo punto di vista e quindi anche una sua capacità di definire sé stesso e l’altro, comporta che l'atteggiamento conseguente per la costruzione di un accordo consensuale sia un atteggiamento di cautela, di domanda, di ascolto, di attesa, di negoziazione in alternativa ad un atteggiamento di presupposizione unilaterale . Ciò presuppone, da un lato un atteggiamento di fiducia, dall’altro la disponibilità ad assumersi il rischio del rifiuto, del conflitto, della rottura, dell’insuccesso. Come abbiamo appena accennato sopra, l’opzione nei confronti della reciprocità diviene più evidente nelle situazioni di conflitto, di asimmetria di potere e, più in generale, di differenza. Infatti, non ci può essere né conflitto né negoziazione tra persone che non si riconoscono reciprocamente il diritto ad avere sentimenti, pensieri, opinioni personali. In un modello d’interazione fondato sulla reciprocità il conflitto può rappresentare un momento importante di crescita del rapporto tra individui e/o istituzioni, in quanto esso presuppone un riconoscimento dell’altro come persona capace di autodefinirsi, in alternativa ad un atteggiamento di svalutazione o di disconferma che, rispetto ai migranti, può rivolgersi alla loro stessa presenza nel qui ed ora. D’altra parte, perché la negoziazione sia possibile occorre condividere un dominio di descrizioni, vale a dire, riferirsi allo stesso problema e quindi parlare lo stesso linguaggio. Spesso si resta invece nel fraintendimento e nel conflitto “non detto”, perché la differenza delle rispettive posizioni di partenza (i vincoli) fa sì che ognuno attribuisca un suo e diverso significato alla stessa cosa e quindi, pur parlando apparentemente della stessa cosa, non si condivide lo stesso problema. 62 La ricerca scientifica sulle prime fasi di sviluppo infantile ci suggerisce che questa specie di Torre di Babele va considerata come un fenomeno normale, intrinseco alla complessità della mente umana; per quanto possa meravigliarci, stiamo scoprendo che il modo in cui un bambino di tre anni comunica con un coetaneo è in un certo senso più consono alla complessità della mente umana di quanto non lo sia il modo di un adulto che utilizza la sua maggiore esperienza per “sostituirsi” al bambino nella definizione di sé. I bambini, infatti, non potendosi ancora muovere all’interno di una sapiente logica di giustificazioni razionali a supporto dei propri comportamenti, si muovono secondo una epistemologia più dinamica e flessibile: la loro prevedibilità è quasi totalmente basata sull’ascolto attento ed attivo di ciò che avviene intorno e pur non disponendo di una astratta teoria della comunicazione, riescono a comunicare e arrivano a condividere attività di gioco complesse. Come mai? Forse perché trovano normale che l’altro sia imprevedibile, e quindi non scappano dalle difficoltà; ciò li porta ad affrontare via via i conflitti o i malintesi che nascono nella relazione con l’altro. Quando riescono a superare un momento d’impasse sembrano molto contenti e, nel loro gioco immediatamente successivo, sembrano divertirsi a rimettere in scena quegli equivoci, come se attraverso le provocazioni sui reciproci modi di essere potessero al tempo stesso rassicurarsi sull’accettazione dei rispettivi limiti ed inoltrarsi verso la scoperta di nuove parti di sé e dell’altro. La loro epistemologia, per quanto rudimentale e intuitiva, sembra improntata al paradigma della complessità, perché sembrerebbe fondarsi sulla inevitabilità dell’interdipendenza e su una quota di imprevedibilità della natura umana (Bonica, 1990 b). 3.3.3. Contratto e gioco Secondo Cerruti il reinserimento del soggetto e dell’osservatore nel processo di conoscenza prospetta un mutamento epistemologico nel pensiero scientifico che si può definire come passaggio da una scienza della necessità a una scienza del gioco. (Cerruti,1986) La strategia che è prevalente in una logica di reciprocità è una strategia contrattualistica; ci si muove con la fiducia che sia possibile arrivare ad un patto condiviso. L’obiettivo non dovrebbe essere tanto quello di convincere l’altro attraverso la seduzione o l’estorsione o la forza,come se quella che proponiamo fosse la realtà o l’unica interpretazione possibile, quanto quello, appunto, di confrontare le rispettive autoreferenzialità, i rispettivi vincoli,per riuscire a raggiungere un accordo consensuale sui criteri. Il termine gioco è allora molto appropriato. É giocando a “far finta” che i bambini di tre anni apprendono i vincoli interni delle relazioni interpersonali, cioè la necessità di arrivare ad un consenso condiviso. Proprio la mancanza di vincoli esterni rispetto al contenuto del gioco (si può infatti far finta che esistano anche due soli, o due mamme), 63 mette maggiormente in evidenza la necessità che i giocatori si accordino sulla cornice (è per finta), sui significati (ad esempio “questo bambolotto è il nostro bambino”) e sui ruoli interpersonali nelle decisioni che riguardano la trasformazione del gioco. Facendo questo, spontaneamente, i bambini cocostruiscono un copione fantastico ricco di temi che si trasformano in modi coerenti. Come ci arrivano? Per arrivarci, scoprono e costruiscono via via un sistema di norme di validità della comunicazione, fondato sulla reciprocità. Paradossalmente i rispettivi egocentrismi fanno sì che, da un lato, ognuno tenda inizialmente a trattare l’altro come se fosse facilmente manipolabile, e dall’altro che ognuno reagisca prontamente a tali violazioni. Ognuno è così costretto a inoltrarsi al di là del suo progetto iniziale, a scoprire che l’altro non è trasparente, ma complesso, a ritornare su battute precedenti, a fare una specie di bilancio retroattivo, a modificare i propri comportamenti e ad esigere modifiche da parte dell’altro, fino ad arrivare ad un accordo consensuale. Rispetto alla reciprocità, il momento più significativo di questo processo è quello in cui ogni bambino sembra arrivare autonomamente alla comprensione che occorre una rinuncia attiva, che occorre trovare un equilibrio tra strategie di persuasione e strategie di concessione, per continuare a giocare insieme. Da parte dei bambini, la voglia di continuare a giocare insieme e l’accettazione dell’interdipendenza come di un fatto normale sembrano i fattori determinanti che li aiutano a inoltrarsi nella differenza dell’altro, a inventare strategie creative di risoluzione dei conflitti e, così facendo, a scoprire e costruire nuove parti di sé oltre che ad inventare nuovi mondi condivisi (Bonica, 1989 e 1990 b). Noi adulti siamo senz’altro più capaci di anticipare mentalmente lo svolgimento di un incontro, di attribuire caratteristiche psicologiche e culturali all’altro, ma questo succede anche in virtù del fatto che siamo più cristallizzati nelle norme di riferimento della nostra cultura e più abituati a fidarci della razionalità ed a diffidare delle emozioni; diventa così, paradossalmente, più difficile per noi uscire dalla cornice abituale ed aprirci alla scoperta di nuovi modi di vivere o attribuire nuovi significati agli eventi e, più in generale, essere disposti ad osservare con interesse e curiosità ciò che può capitarci se ci inoltriamo a riconoscere, ad ascoltare davvero la differenza dell’altro. Per noi adulti occorre quindi una scelta consapevole: vogliamo partecipare a questo gioco? Siamo motivati a vivere il rischio di esserne un po’ trasformati? Riteniamo che si possa arrivare a condividere delle norme di validità della comunicazione, pur partendo da professioni diverse o da culture diverse? La scelta della metafora del gioco e della reciprocità come norma di validità della comunicazione non è quindi da confondersi con una logica libertaria ed egualitaria o con una logica di compiacenza e di seduzione volta all’affrancamento dell’altro per omologarlo alla nostra cultura. (Labelle, 1996) Né si tratta di un ottimismo utopistico esclusivamente rivolto alla “accettazione incondizionata dell’altro”. 64 Giocare le differenze comporta spesso confrontarsi anche con problemi spinosi: forse, nessuno di noi europei si sentirebbe disposto ad ammettere pratiche che consideriamo lesive e violente come quella dell’infibulazione, oppure vorrebbe trovarsi personalmente costretto a subire un’atmosfera chiassosa durante una veglia funebre42. Anche noi abbiamo i nostri vincoli di vivibilità, d’identità culturale che devono essere riconosciuti. Ma è proprio il confronto, la partecipazione al gioco che può farci rispettivamente comprendere quali sono i vincoli che veramente possono ledere la nostra traiettoria evolutiva, la nostra capacità di autoregolazione, la nostra identità di base e quali quelli che, invece, possono essere rinegoziati senza costi troppo esosi per la nostra sopravvivenza. Per esempio, la decisione dello stato francese di impedire il chador era poi così indispensabile? Occorre anche riconoscere che la logica contrattualistica non può sempre essere esplicita e razionalmente verbalizzata: le nostre ed altrui reazioni sono spesso imprevedibili, la loro base è inconscia e si manifestano attraverso indicatori emotivi e non verbali come il senso d’imbarazzo, il senso del ridicolo o il disgusto e lo spaesamento. I lavori di Gregory Bateson e gli esempi riportati da Marianella Sclavi ci indicano una via originale, interessante e preziosa per non negare queste emozioni, senza peraltro subirle solo in modo passivo43. Questi indicatori possono infatti diventare i nostri alleati che ci aiutano a riconoscere i nostri vincoli culturali. Questo riconoscimento autoreferenziale può essere già un passo per entrare o per restare nel gioco. Il gioco rappresenta per G.Bateson (1979) un esempio paradigmatico della comunicazione a più livelli. Infatti per giocare bisogna comunicare contemporaneamente che questa è la realtà, ma anche che questa non è la realtà e tuttavia il gioco sta proprio nell’impegno a fare “come se” quella fosse davvero la realtà. L’umorismo, ad esempio, può permetterci di comunicare contemporaneamente l’accettazione ed il disagio. Anni fa ho collaborato con quindici scuole genovesi in una ricerca interculturale sugli indicatori di reciprocità. Una classe di quinta elementare si è interrogata sulla differenza che c’è tra il “prendere in giro” offensivo ed il prendere in giro scherzoso e bonario; i bambini e le bambine hanno convenuto che la differenza è molto sottile perché sta nel tono della voce, nello sguardo e spesso nell’accompagnare le parole ad una pacca sulla spalla, al toccare l’altro… La classe si è impegnata e divertita a giocare anche con quelle differenze che sono generalmente considerate “i difetti”. Un bambino si è espresso così: …è una specie di liberazione poter scherzare senza offendere perché puoi dire al tuo compagno che è ciccione o fargli il verso di come sbaglia le parole 42 Si veda l’esempio n.3 riportato da M. Sclavi nel capitolo 13. 43 Si veda M. Sclavi, capitolo 13. 65 italiane, ma fargli anche capire che ti è simpatico così… ma se non glielo dici finisce che ci pensi da solo a queste cose un po’ difettose e poi ti diventa antipatico davvero. 3.3.4. Coevoluzione e co-costruzione Nei contesti finalizzati ad un compito, come la scuola, la rete territoriale o la formazione, come sono visti i processi che sottostanno alla condivisione dei significati ed alla trasmissione delle conoscenze? Riprendendo i fondamenti del costruttivismo, le perturbazioni esterne, come un corso di formazione, un ciclo di incontri di rete, la spiegazione di una nozione, l’esemplificazione di un comportamento, l’azione congiunta con un collega, possono innescare un disequilibrio che ogni soggetto/istituzione, tratterà in modo autoreferenziale, cioè, come già detto, filtrandolo e rielaborandolo cognitivamente, in modo tale da non perdere la propria identità. Questo adattamento, che avviene per compensazioni attive, può (non “deve”) innescare un potenziale processo co-evolutivo tra i soggetti protagonisti dello scambio. In questa prospettiva l’attenzione è posta sul come la reciproca influenza può portare ognuno a interpretare in modo originale gli spunti colti nell’altro o intenzionalmente forniti dall’altro, di modo che l’esito di questo processo non può più essere ricondotto solo alla mente di uno o dell’altro , ma allo stesso processo di co-costruzione. L’aspetto interessante del cambiamento riguarda, quindi, il “come” punti di vista diversi o nuovi possano prodursi reciprocamente. Riconducendo questo principio coevolutivo alla tematica di cui ci stiamo occupando, sorge l’esigenza di individuare quali potrebbero essere i criteri di facilitazione della comunicazione in gruppi eterogenei, come quelli costituiti dai diversi attori della rete, o da una classe multietnica. Nell’ambito di una concezione autopoietica dell’essere umano, disponiamo principalmente di due modelli di facilitazione della comunicazione centrata su un compito: il modello del conflitto socio-cognitivo, che è stato elaborato all’interno del costruttivismo neopiagetiano (Doise e Mugny, 1981) ed il modello del tutoring, che si è sviluppato a partire dalla psicologia storicoculturale, che fa capo a Vygotskij. (Vygotskij, 1974) Il primo è maggiormente interessato allo sviluppo spontaneo delle acquisizioni, cioè a quelle trasformazioni delle strutture cognitive che avvengono indipendentemente da una finalità pedagogica istituzionale, e sembrerebbe, quindi, più adatto a facilitare i processi di co-costruzione che avvengono tra partner eterogenei e simmetrici, come, potrebbe essere l’interazione di gioco tra coetanei, o il gruppo di formazione-formatori del nostro corso. In questo caso l’elemento facilitatore del processo co-costruttivo sarebbe rappresentato dall’asserzione dei diversi punti vista, e dal conseguente potenziale conflitto cognitivo che, costringendo ognuno dei partner ad esplicitare ed argomentare il proprio punto di vista, innescherebbe una dinamica interattiva favorevole, sia a sviluppare le strutture cognitive di tutti i 66 partecipanti (sia quelli più avanzati che quelli meno avanzati, purchè la distanza tra i loro livelli non sia troppo ampia), sia a costruire nuove ipotesi, nuove definizioni della realtà considerata. Il secondo si sviluppa a partire da domande che riguardano l’educabilità dell’essere umano, dentro ad una cultura di riferimento; sembrerebbe, quindi, più adatto a spiegare i processi di co-costruzione che possono avvenire tra generazioni di età diverse o tra un partner esperto ed un novizio, o nei processi di apprendimento-insegnamento, cioè in situazioni sociali caratterizzate da asimmetria e relativa omogeneità culturale. Il tutoring non è da intendersi come un insieme di mosse lineari e unidirezionali che vanno dall’esperto alla mente del novizio, ma come un processo complesso situato in un preciso contesto culturale, che si fonda su diverse strategie che sono considerate efficaci, nella misura in cui si ancorano allo sviluppo autopoietico attuale dell’altro, consentendo una condivisione reciproca di significati e tendono a spostare l’equilibrio di potere a favore della persona che sta ricevendo l’aiuto. Equilibrio di potere non significa uguale potere, ma significa, appunto, accettazione di una asimmetria in cui chi ha più potere in quel momento non ostacola, anzi favorisce che l’altro assuma sempre maggiori responsabilità. Tali strategie possono essere: l’esempio dimostrativo, la spiegazione, il rispecchiamento della frase o del comportamento, il fornire una impalcatura che aiuti a restare focalizzati sul compito. Dal punto di vista del discente o del novizio questo processo viene definito di “appropriazione culturale”, cioè il fare “proprio”, in modo selettivo, secondo criteri compatibili con la propria autoorganizzazione, i contenuti e gli strumenti di una professione, di una disciplina, di una cultura. Entrambi questi modelli possono essere tenuti presenti da un formatore, e integrati, a seconda dello svolgimento in itinere della situazione interattiva44. Analogamente, lo spazio interculturale può essere visto come uno spazio di cocostruzione tra soggetti eterogenei e può fondarsi sia su processi di confronto tra le culture, sia su processi di progressiva appropriazione dei significati della cultura ospite, nel corso della condivisione di esperienze significative, connotate dal reciproco riconoscimento della propria autopoiesi. Il concetto stesso di INTERCULTURA differisce dal concetto di multicultura o di acculturazione, perché si riferisce al processo di co-costruzione, guarda, cioè, a quella dimensione nuova, da considerarsi sempre parzialmente imprevedibile, che può nascere solo in seguito a catene circolari di reciproche perturbazioni in cui vengono, ogni volta, ridefiniti i rispettivi vincoli ed i significati ad essi attribuiti. 44 Una proposta di integrazione tra questi due modelli, e ricerche sull’apprendimento, in una prospettiva storico culturale sono presentate dal gruppo di ricerca diretto da C.Pontecorvo in diversi testi. Si segnala qui: Pontecorvo 1999 e Pontecorvo, Ajello, Zucchermaglio, 1995. 67 3.3.5. Verso un approccio ecologico/evolutivo del concetto di contesto Nella prospettiva co-costruttiva, appena delineata, il contesto, non viene più visto come una variabile indipendente che circonda l’individuo, e incombe come una realtà a lui esterna, ma come qualcosa nel quale l’individuo è immerso fin dalla nascita, ed i cui confini vengono di volta in volta ridefiniti dalle pratiche culturali, educative e lavorative condivise, dai significati scambiati nelle relazioni, e tra generazioni, che sono, si, radicate nella storia e nella cultura, ma che sono esse stesse produzione di nuova storia e di nuova cultura, attraverso un’oscillazione continua tra sfera della canonicità (i vincoli, le invarianti che sono espresse attraverso il diritto, le leggi che sistematizzano la cultura) e sfera delle possibilità cui l’individuo partecipa attivamente, attraverso l’esercizio delle sue potenzialità e nell’incontro con gli altri soggetti. Il contesto è, di conseguenza, inteso in modo ampio, al di là dei rapporti più immediati, faccia a faccia, anche se non può non prescindere da questi. Bronfenbrenner (1979) descrive i cambiamenti inerenti allo sviluppo umano come cambiamenti che interessano sia le percezioni che i soggetti traggono dalle interazioni reciproche con i diversi ambienti nei quali essi si sviluppano, sia il rapporto che questi ambienti intrattengono tra di loro. Egli distingue quattro livelli ambientali: il microsistema, la cui caratteristica sono i rapporti faccia a faccia (la famiglia, la scuola, il posto di lavoro, ecc.,); il mesosistema che costituisce il collegamento tra i diversi microsistemi e che si estende ogni volta che l’individuo entra a far parte di una nuova situazione ambientale: esso può comprendere legami intermedi all’interno di una rete sociale, comunicazioni formali e informali tra situazioni ambientali diverse; l’esosistema che si riferisce agli ambienti di cui l’individuo non fa parte direttamente ma che influenzano la qualità delle attività, dei ruoli e delle relazioni nell’ambito dei microsistemi (per esempio l’esistenza di élite che mediano tra l’individuo ed il potere istituzionale, come potrebbero essere le associazioni di volontariato per una famiglia che ha un bambino handicappato, oppure le associazioni etniche per un migrante, o ancora le associazioni professionali degli insegnanti, la direzione di un centro professionale, ecc.) ed il macrosistema, che costituisce il livello della cultura, dei programmi nazionali, delle leggi e delle congruenze che possono essere osservate a livello dei microsistemi. Infatti, benché culture e subculture possano differire l’una dall’altra, come si nota confrontando, per esempio, istituzioni diverse, possiamo aspettarci che esse siano relativamente omogenee, nel loro interno. Questa omogeneità, che specifica le caratteristiche culturali di questi microsistemi, emergerà con più chiarezza nelle fasi di grande cambiamento politico – economico - sociale, oppure quando si osservano gli ambienti di vita dal punto di vista di un’altra cultura. 68 L’unità minima di analisi presa in considerazione per descrivere il funzionamento ed il cambiamento, in ognuno di questi livelli ambientali, comprende: • le attività molari, cioè quelle attività che hanno una dimensione progettuale e si fondano sulla motivazione intrinseca e che l’individuo svolge e vede svolgere da altre persone per lui significative; • i ruoli, cioè le reciproche aspettative in termini di funzioni svolte e di distribuzione del potere e • la qualità delle relazioni affettive, con particolare riferimento alle pratiche che fondano fiducia e reciprocità tra i soggetti. L’omogeneità di una cultura può riguardare, quindi, i tipi di situazioni ambientali di cui la persona entra a far parte in momenti successivi della vita, il contenuto e l’organizzazione delle attività progettuali, dei ruoli e delle relazioni riscontrabili all’interno di ciascun tipo di situazione, il grado e la natura delle connessioni esistenti tra le situazioni ambientali di cui la persona che cresce fa parte o che influiscono sulla sua vita. In questa prospettiva lo sviluppo dell’individuo è visto in funzione della progressiva partecipazione a nuove situazioni ambientali, ed ognuno di questi passaggi viene definito transizione ecologica, cioè un evento che comporta una trasformazione di ambiente e di ruolo. Esempi di transizione ecologica si manifestano nell’arco di tutta la vita: sposarsi, avere un bambino; tornare a casa dall’ospedale; trovare lavoro, perderlo, cambiarlo; andare in pensione, e naturalmente, emigrare. L’emigrazione può essere definita, quindi, come una transizione ecologica a livello di macrosistema. Quando un soggetto si inserisce in un nuovo ambiente è sollecitato a modificare lo schema di attività, ruoli e relazioni che ha consolidato fino a quel momento. Bronfenbrenner definisce traiettoria evolutiva questa modalità propria a ciascun individuo di impegnarsi, nell’ambito della famiglia e di altri eventuali contesti significativi e duraturi, nelle attività, nei ruoli e nelle relazioni. Affinché la transizione ecologica abbia un ruolo di promozione dello sviluppo è necessario che esistano dei collegamenti di sostegno tra le situazione primarie in cui quegli schemi si sono consolidati e la situazione nuova, in modo da controbilanciare gli ostacoli dell’inserimento. Diventa quindi fondamentale, per il soggetto migrante, la funzione di accoglienza svolta dalle comunità etniche e le funzioni di sostegno, orientamento e accompagnamento che implicano anche iniziative di politica sociale a livello del mesosistema e dell’esosistema per favorire la comunicazione tra le diverse situazioni ambientali. Inoltre il potenziale evolutivo delle situazioni ambientali risulta incrementato nella misura in cui le modalità di comunicazione tra di esse sono di tipo personale, quindi in ordine discendente: comunicazione faccia a faccia, lettera o nota personale, lettera ufficiale, avviso. La condizione meno favorevole allo sviluppo, quindi, è quella in cui i collegamenti supplementari o non danno alcun sostegno, o mancano del tutto, cioè quando il mesosistema, la rete, è scarsamente collegata. 69 3.3.6. Dalle dicotomie verso la complementarietà. Per concludere questa rassegna delle opzioni che ci sono sembrate più utili a costruire una chiave di lettura adatta alla complessità del lavoro con utenza migrante, vorremmo sottolineare la tendenza di fondo, in questa prospettiva, a muoversi verso criteri di analisi che privilegiano la complementarietà delle descrizioni, in alternativa a criteri che privilegiano principi dicotomici. Questa opzione comporta diverse conseguenze nell’interpretazione dei fenomeni umani, che, in parte dovrebbero essere emerse dall'elaborazione dei concetti sopra esposti. Va, per esempio, in questa direzione la maggiore considerazione attribuita al ruolo degli stati di disequilibrio del sistema, che vengono visti come fasi complementari e non contrapposte alle fasi di equilibrio; la scienza classica, invece, tendeva a privilegiare lo studio degli stati di equilibrio, considerando quest’ultimo come la meta di tutti i processi evolutivi. Ciò va nella direzione di favorire il superamento di altre dicotomie, per esempio la tendenza a contrapporre il razionale e l’emotivo, la forza e la debolezza, l’attività e la pausa, la necessità ed il caso, la legge ed il fenomeno secondario, evidenziando come anche i momenti di incertezza, di fragilità, di attesa o eventi casuali concorrano alla costruzione dell’equilibrio e dell’autoorganizzazione. (Cerruti, 1986; Fabbri Montesano, Munari 1984, Bonica, 1992). L’interesse per le transizioni tra equilibrio e disequilibrio ha messo in evidenza, per esempio, che è proprio nella transizione che certi fenomeni, che stanno sullo sfondo, che riposano nella consuetudine, possono venire alla luce in modo più visibile. (Bonica, 1990 a) Si veda a questo proposito il concetto di transizione ecologica, in base al quale il fenomeno migratorio è visto come un evento arricchente che rende più visibili le rispettive identità culturali e sollecita nuovi spazi di ridefinizione di queste identità. Anche la tendenza a superare la dicotomia tra particolare e generale riveste un particolare interesse, ad esempio, per quanto concerne la comunicazione di rete. La visione dicotomica portava a considerare l’inclusione dei sistemi più piccoli in quelli più grandi, secondo un’ottica gerarchica che attribuiva al sistema più ampio la funzione esterna di controllo e di omogeneizzazione dei punti di vista. Mentre in una visione che premia la dimensione della complementarietà vi è un interesse più attento all’autodefinizione di ogni attore e allo scambio di significati che possono attraversare i sistemi attraverso i più svariati canali formali ed informali. La domanda più importante, come abbiamo visto, non riguarda tanto la coerenza e l’omogeneizzazione dei punti di vista, quanto il come punti di vista differenti possano prodursi reciprocamente. (Cerruti 1986) 70 3.4. Per concludere Il riconoscere ogni istituzione, ogni soggetto come autoreferenziale, cioè capace di autodefinirsi, a partire da certi vincoli che ne specificano l’identità, è una scelta. È evidente che l’autoreferenzialità può essere esercitata in modo “chiuso ed egoistico” quando è riferita solo a se stessi. L’implicazione etica della prospettiva qui considerata, sta proprio in una scelta cosciente verso la reciprocità. Questa scelta è tanto più libera, quanto più ci troviamo in una posizione di potere che ci consente di occultare o di negare l’autoreferenzialità dell’altro, senza mettere visibilmente a rischio la nostra, almeno nel breve periodo di tempo. Tale scelta acquista una dimensione etica da parte di chi ha più potere, perché occorre un atto volontario e consapevole di rinuncia a utilizzare i vincoli della propria posizione per non occultare l’autoassertività di base dell’altro. Vedere l’altro, individuo o istituzione, come un sistema vivo che non ha bisogno di essere passivamente istruito dall’esterno perché possiede già in sé i criteri per scegliere che cosa è nocivo o buono per il mantenimento della sua sopravvivenza comporta di valorizzare, anche nell’immigrato, tale vitalità autoassertiva. Per esempio, la storia della partenza dal proprio paese raccontata da Mohamed nel carcere delle Vallette di Torino all’insegnante di giardinaggio, testimonia, da un lato, un percorso travagliato che ha richiesto coraggio, attenzione, intelligenza; dall’altro come questo arrivo clandestino sia stato interpretato in modo drasticamente unilaterale; Mohamed non fa in tempo a negoziare una definizione di sé. Nel suo racconto, sembra che ciò che più lo rammarica , non sia tanto l’essere finito in carcere, quanto il fatto che nemmeno la sua nazionalità sia riconosciuta: Mohamed è palestinese, ma la polizia lo prende per marocchino. Io sono salito su un camion che doveva partire per la Francia (Marsiglia) e sono stato 4 giorni chiuso dentro con una bottiglia d’acqua e un po’ di pane. Nessuno dei miei parenti sapeva della mia decisione di partire... Arrivato a Marsiglia ho preso il treno e sono venuto in Italia nella città di Torino. Ho conosciuto dei miei connazionali e mi hanno offerto da bere. Mi sono ubriacato e la polizia mi ha fermato e picchiato. Io mi sono difeso e mi hanno portato in carcere alle Vallette. Io sono Palestinese e la polizia pensa che io sia Marocchino . In Italia avrei voluto lavorare, ma non è possibile. (Mohamed) Il superamento di una visione meccanicistica e deterministica degli eventi sociali, comunicativi e formativi richiede di recuperare, innanzitutto, una profonda consapevolezza dei vincoli dell’osservatore stesso, una maggiore accettazione anche delle sfere d’incertezza e di fragilità, insieme alla 71 convinzione che l’ascolto della complessità - diversità dell’altro sia uno dei modi per inoltrarsi nella scoperta della propria unicità e complessità. In questa visione, il riconoscimento reciproco dell’autodefinizione e l’esplicitazione dei vincoli degli attori sembra diventare il filo rosso che consente ad ogni sistema vivente di mantenere comunque un potere assertivo sulla propria vita pur continuando a tessere la propria identità attraverso la molteplicità delle appartenenze e dei percorsi. Nella nostra prospettiva questa reciprocità di base tra l’osservatore e l’osservato fonda una specie di isomorfismo tra tutti i livelli implicati nell’intervento socio - formativo: nell’accoglienza, nell’orientamento, in classe, tra operatori delle istituzioni, nella formazione dei formatori. La reciprocità tra il sé e l’altro potrebbe essere desunta come una norma di validità della comunicazione, norma che può apparire paradossale: proprio perché siamo così biologicamente simili (tutti dotati di autoorganizzazione e di strutture cognitive complesse) possiamo avere idee, strategie, progetti diversi da renderci unici e potenzialmente sempre imprevedibili. (Bonica,1991, 1999) 72 Capitolo 4 Un dispositivo per la comunicazione integrata sul territorio 45 Laura Bonica 4.1. Premessa Il dispositivo, che presentiamo, oltre a testimoniare il percorso proposto nel corso Formazione Formatori, costituisce un invito al lettore stesso, nel caso volesse, a sua volta utilizzarlo, per favorire la comunicazione di rete. Nella nostra prospettiva, l’interesse è focalizzato sui processi di cocostruzione di un referenziale comune. Il mezzo privilegiato, intorno a cui ruota il percorso, riguarda l’esplicitazione dei rispettivi vincoli e degli episodi in cui essi sono stati soggettivamente percepiti ed affrontati in modo nuovo, attingendo alla propria storia professionale. Nella nostra ipotesi questa esplicitazione può innescare sia meccanismi di confronto autoassertivo, sia meccanismi di appropriazione della cultura dell’altro. L’ipotesi è che questa cornice stabilisca una profonda similarità di base tra i partecipanti, fondata sul riconoscimento reciproco di ognuno, come soggetto situato in uno specifico contesto storico-istituzionale-culturale, in cui è maturata la capacità di stabilire soggettivi criteri di scelta etico-professionali (Bonica, 1989). Ciò dovrebbe rendere più comprensibile il senso soggettivo che ciascuno attribuisce alla responsabilità del suo ruolo e facilitare il disporsi ad una eventuale rinegoziazione dei rispettivi vincoli in funzione di un progetto condiviso46. La verifica del cambiamento è, quindi, operata in direzione della trasformazione della percezione dei propri vincoli, e viene riferita a due momenti: quello epistemologico, nello spazio del gruppo di formazione e, quello decisionale, nell'ambito della propria istituzione (Bonica, Mouvet, 1997). Il percorso promosso sulla base di questo modello si svolge sempre al limite del rapporto tra la formazione e l’agire professionale e del rapporto tra invarianti e cambiamento. Si tratta di un modello operativo che potrebbe essere definito come un tentativo di operazionalizzare la reciprocità tra istituzioni. Come abbiamo già visto, la reciprocità è definita sulla base dell’assunto di 45 Una illustrazione più approfondita di questo Dispositivo sarà reperibile in Bonica L., Reciprocità e negoziazione nella psicologia dello sviluppo, dell’educazione e della formazione, in corso di stampa presso la UTET, Torino. 46 Come vedremo nell’articolazione delle sequenze del dispositivo, l’elemento discriminante di questa facilitazione sta nel favorire l’espressione anche delle rispettive incertezze, e fragilità, che, a loro volta, stanno alla base della possibilità di arrivare a condividere delle “buone domande” e, quindi, a predisporsi a co-costruire un referenziale comune. 73 similarità tra il sistema che osserva ed il sistema che è di volta in volta osservato: entrambi sono considerati sistemi viventi, auotopoietici, dotati di autoorganizzazione, di vincoli e di capacità di autodefinizione. Ciò che si applica all’uno si applica all’altro. Anche in questa, come in tutte le altre situazioni formative in cui questo modello è stato applicato, sono presenti due elementi costanti: l’eterogeneità dei ruoli professionali e la natura progettuale della cornice in cui il modulo di formazione si inserisce; in questo caso si trattava di mettere insieme le esperienze di più attori impegnati nell’attività con un utenza migrante al duplice fine di facilitare una comunicazione più efficace tra gli stessi attori nella rete territoriale locale, e di enucleare nodi critici e spunti di approfondimento da condividere con i futuri lettori di questo manuale. Si tratta quindi di una cornice che invita a fare qualcosa insieme, soprattutto una volta usciti dal corso. E questo invito implica a sua volta l’idea che il corso innescherà dei possibili cambiamenti rispetto ai rapporti attuali. Ma… si può progettare di cambiare qualcuno? Il percorso proposto si fonda sui concetti appena esposti, parte da ciò che è supposto come invariante, dai propri vincoli istituzionali, da ciò che già si è, da ciò che già si fa e si sa. Il cambiamento, se verrà, verrà a partire dall’assunzione di questi vincoli, dalla loro esplicitazione, dal confronto nel gruppo. È un gioco di alternanza tra figura e sfondo. L’idea è che un gruppo eterogeneo possa regalare ad ognuno dei partecipanti innumerevoli occasioni per allenarsi a modificare il rapporto tra figura e sfondo. Ed ogni volta che portiamo in primo piano ciò che non esisteva, dato che non lo vedevamo, essendo relegato sullo sfondo, noi costruiamo un nuovo mondo. Maturana e Varela dicono che la specificità dell’essere vivente è di essere esso stesso un mondo. Marianella Sclavi ci ha affascinato con l’arte di guardare e di costruire mondi possibili. Ma come si comunica tra sistemi autopoietici, tra mondi? Questo è quello che si è cercato di sperimentare. 4.2. Le sequenze del dispositivo Questo dispositivo prevede sette unità didattiche che possono essere viste come altrettante sequenze interattive, che hanno come oggetto le domande e le azioni riportate nella tabella 1 e che riprenderemo punto per punto. 74 Tabella 1 UN DISPOSITIVO PER LA COMUNICAZIONE INTEGRATA SUL TERRITORIO 1) LA SCELTA: MI INTERESSA O NO COLLABORARE? (tab.2) 2) CHI HA FATTO LA PRIMA MOSSA E COME È STATA LA PRIMA MOSSA (tab.3) 3) QUALI SONO I RISPETTIVI VINCOLI ISTITUZIONALI? DI CHE COSA MI SENTO VERAMENTE RESPONSABILE? (materiali: scheda n.1 e n. 2 ) 4) QUALI POTREBBERO ESSERE LE INCERTEZZE PERTINENTI, I NODI CRITICI, LE BUONE DOMANDE DA CONDIVIDERE? (materiali: scheda n. 3 e n. 3 bis) 5) COME POTREMO RI-DEFINIRE I NOSTRI VINCOLI PER RISPONDERE A QUESTE DOMANDE COMUNI? IN VISTA DI QUALI OPPORTUNITÀ COMUNI? (materiali: scheda n.4 e n.5) 6) CO-COSTRUZIONE DI UN REFERENZIALE COMUNE (La messa in comune delle molteplici descrizioni: Es.n.1,2,3 nel capitolo 5 e capitolo 6 par. 6.4) 7) RITORNO ALLA PROPRIA ISTITUZIONE E RINEGOZIAZIONE DEI PROPRI VINCOLI INTERNI IN FUNZIONE DI UN PROGETTO O DI UNA COLLABORAZIONE INTERISTITUZIONALE (Es. n. 4, capitolo 5) 75 4.2.1. La scelta: mi interessa o no collaborare? Soggetti e vincoli Quando è importante l’esplicitazione e il chiarimento dei propri vincoli con gli altri soggetti della rete? Il rapporto tra istituzioni sul territorio può essere letto considerando un continuum che va dall’assenza di ogni rapporto, cioè da una ignoranza reciproca a diversi tipi di rapporto unidirezionale o bidirezionale la cui forma può prevedere gradi diversi di riconoscimento reciproco. Ciò che interessa qui è un modello di rapporti basato sulla reciprocità e sulla collaborazione. Per fare ciò considereremo i soggetti istituzionali in relazione al reciproco riconoscimento e quindi alla potenziale disponibilità a negoziare i rispettivi vincoli istituzionali e professionali. Tabella 2 SOGGETTI E VINCOLI 1. IGNORANZA RECIPROCA: ognuno per conto suo 2. UTILIZZAZIONE UNIDIREZIONALE: chi può cerca di trarre vantaggi dall’altro senza preoccuparsi del punto di vista dell’altro. 3. UTILIZZAZIONE RECIPROCA: ognuno porta acqua al suo mulino. 4. COOPERAZIONE: c’è da parte di entrambi una disponibilità ad esporsi al rischio del cambiamento e/o del fallimento del rapporto: il contratto di cooperazione può comportare la negoziazione di nuovi vincoli rispetto all’organizzazione della propria istituzione, rispetto al sapere, rispetto alla dimensione etico-professionale A quale livello mi interessa o ritengo utile, in questo momento, entrare in rapporto? Osserviamo la tabella 2: nel 1° caso ogni soggetto porta avanti il lavoro per conto suo. Potrebbe essere il caso del rapporto tradizionale tra scuola e impresa. 76 Nel 2° caso si crea un’interdipendenza, la quale però è gestita prevalentemente da uno dei due soggetti che utilizza l’altro per i suoi scopi. Si tratta forse del tipo di relazione più frequente, soprattutto nel rapporto tra territorio e scuola dell’obbligo. La scuola può, ad esempio, prestarsi come contesto adatto a diffondere una certa campagna di prevenzione, o alla raccolta di questionari, oppure ancora a svolgere un certo tipo di ricerca. Essendo la scuola un ente pubblico ed essendo diverse le agenzie interessate ad entrare in contatto con l’utenza infantile o giovanile, è del tutto legittimo che si verifichino tali rapporti. Tale rapporto, però, non prevede di negoziare l’avvio di un progetto comune e quindi lascia intatti i vincoli di ciascuno dei due soggetti. Nel 3° caso, il progetto di utilizzazione è reciproco. Rimanendo ancora intatti i vincoli delle due istituzioni, può esservi un contratto che consente ad ognuno di raggiungere alcuni vantaggi al suo interno. Riprendendo il caso precedente, la scuola, per esempio, potrebbe avere interesse a conoscere e ad utilizzare per sé i risultati del questionario o della ricerca. Il caso della cooperazione parte, invece, dalla dichiarata necessità dell’interdipendenza per risolvere problemi che stanno a cuore a entrambi gli enti o a più enti. In questo caso i membri partecipanti si espongono consapevolmente al rischio di un eventuale fallimento e alla possibilità di modificare qualcosa della propria cultura istituzionale e professionale. É in questo caso che la esplicitazione e negoziazione dei vincoli può essere una strategia comunicativa utile per arrivare a costruire un linguaggio comune che parta da un iniziale riconoscimento delle rispettive identità47. 4.2.2. Chi ha fatto la prima mossa e come è stato il primo incontro? Nel rapporto tra istituzioni, spesso le ambiguità partono proprio dal primo momento in cui un soggetto della rete si attribuisce il ruolo di iniziatore di un progetto e comincia a coinvolgere un altro soggetto cui attribuisce il ruolo dell’“altro”: Nella pragmatica della comunicazione interpersonale, la prima mossa è molto importante perché influenzerà la natura delle strategie immediatamente successive che ognuno dei soggetti intraprenderà per farsi riconoscere dall’altro. Ritornare mentalmente sul primo sguardo posato sull’altro vuol dire cominciare a fare chiarezza sui reciproci criteri di definizione. (Watzlawick e altri, 1971) 47 Si veda l’esercizio 4 nel capitolo 5. 77 Ecco alcune delle domande che un attore della rete potrebbe farsi, quando ritorna sulla sua prima mossa: Tabella 3 LA PRIMA MOSSA Chi è questo “altro”? Come lo sto definendo mentre preparo questo modulo, questo progetto, questa proposta? Dove sono io e dove metto l’altro? Mi considero parte del suo mondo? Mi considero esterno? estraneo? Di che cosa mi sento responsabile? Dove mi porta questa responsabilità? Mi avvicina o mi allontana dall’altro? Come si definisce l’“altro” e dove si pone rispetto alla mia definizione? L’accetterà? Oppure cercherà di farmi capire che vorrebbe essere considerato diversamente? Quali spazi ha l’altro o quali di questi posso concedere io per consentirgli di autodefinirsi diversamente? Che cosa cambia se l’altro non è d’accordo? Come mi sento definito dall’ “altro” e dove lui mi piazza? La definizione che mi sta attribuendo mi va bene? Corrisponde a quella che mi attribuisco io? Quali spazi ho per ridefinirmi? Per condurre a termine questo progetto che cosa è importante che io riesca a salvaguardare e/o ad esplicitare all’altro? Gli indicatori che ci aiutano a individuare che qualcosa non va, quando ritorniamo mentalmente sulla comunicazione con l’altro, sono spesso piccoli particolari, apparentemente banali: un certo tono di voce, un modo brusco di concludere una telefonata, certe frasi ripetute più volte che lasciano un eco di insoddisfazione, o di incompiutezza, il non ricevere un fax o un’informazione al tempo giusto, che lascia il senso di essere stati ignorati o scavalcati, il sentirsi ridicoli o in imbarazzo, o in confusione, tutte sensazioni che creano una sorta di pesantezza, o di paura o di fastidio al pensiero dell’incontro successivo. Per contro un senso di leggerezza, un moto di 78 curiosità, un desiderio che arrivi il momento di informare o di essere informati sull’andamento delle cose che fondano l’incontro, ci rassicura sulla corrispondenza delle reciproche definizioni. Tutto ciò avviene spesso inconsciamente e non sempre ci appare importante accertarci che la comunicazione funzioni. A volte possiamo dare per scontato che vada bene, altre volte possiamo dare per scontato che vada male, per i più svariati motivi. Altre volte si può dare per scontato che ci si ignori. Ma quando c’è una situazione d’interdipendenza e si vuole collaborare da posizioni differenti, allora può essere necessario interrogarsi, chiedere, ascoltare bene, non accontentarsi di dare tutto per scontato. Nel gioco del far finta, tra bambini, chi fa la prima mossa assume, in un certo senso, il ruolo di regista e se la proposta è ambigua o l’altro vuole giocare, ma non è d’accordo sul copione proposto, la discussione oscillerà tra due livelli: cambiare il copione oppure ribaltare i ruoli. In ogni caso chi ha fatto la prima mossa dimostra di comportarsi come se sapesse che il ruolo dell’iniziatore ha uno statuto particolare, e, quindi, se l’altro, vuole proporre una nuova cornice, non è sufficiente che sia convincente sul nuovo contenuto proposto, deve farlo facendo molta attenzione a rispettare la suscettibilità dell’altro sul suo ruolo. Per i bambini passare dalla costruzione del copione al negoziare “chi decide?” è appassionante ed infatti si prendono tutto il tempo che ci vuole, anche a costo di spostarsi su nuovi copioni collaterali, che li aiutino proprio a gestire quest’aspetto: quando i loro giochi possono prolungarsi nel tempo senza interruzioni esterne, il più delle volte, essi arrivano spontaneamente ad una soluzione soddisfacente per entrambi. (Bonica, 1990b) In questa sede ci riferiamo ad un particolare contesto di interdipendenza: quello della progettualità che si può creare tra persone che rivestono ruoli professionali diversi o dentro a istituzioni o associazioni, diverse, che , tuttavia, hanno a che fare con la stessa utenza migrante. Si tratta di contesti complessi, in cui la comunicazione è caratterizzata dal confronto sulle differenze che possono riguardare i vincoli istituzionali, le pratiche professionali, l’asimmetria di ruoli, le provenienze etniche e culturali. I problemi ricorrenti, rispetto a questo punto possono essere tanti e di vario tipo. Proviamo ad elencarne alcuni: • si fa riferimento a qualche istanza di potere che dovrebbe fare la prima mossa, e invece non la fa e quindi chi la fa lo stesso, come , ad esempio, il mondo del volontariato, può coltivare un’aspettativa di risarcimento; • in rapporti più paritari chi ha fatto la prima mossa, si lamenta di essere stato quasi derubato, quando ha l’impressione che quel lavoro in più, inerente all’aver preso l’iniziativa, che spesso significa trovare spazi, inviare posta, far quadrare i calendari, non sia riconosciuto e si finisca pari e patta; • in altri casi sembra che il ruolo dell’iniziativa sia l’unico veramente ambito, o almeno, molto di più che arrivare ad un contratto condiviso; 79 • c’è poi il problema di sentirsi esclusi dalla prima mossa altrui, come è il caso dei protocolli d’intesa e delle convenzioni, che non sempre tengono conto di tutti gli attori attivi nella rete; • ed ancora si può considerare il caso delle strategie di pressione perché qualcun altro, ritenuto più prestigioso, faccia proprio quella prima mossa, che dovrebbe risultare quasi a misura del proprio progetto. Anche questo sommario elenco può essere sufficiente per constatare che il problema del chi e del come viene fatta la prima mossa può rappresentare l’inizio di una serie di fraintendimenti e di ostacoli ad un proseguio produttivo di un progetto di rete. Rispetto alla formazione il problema della prima mossa può essere visto come la necessità di darsi un tempo abbastanza consistente per la fase di progettazione; rispetto al setting formativo, potrebbe invece essere implicato quell’ambito della comunicazione tra docente e discenti, o tra discenti e tra docenti stessi, in cui si giocano le rispettive aspettative e suscettibilità rispetto a chi ha il diritto di insegnare a qualcun altro. In questa sede, ci limitiamo a sottolineare i problemi connessi all’autodefinizione. L’inadeguatezza o il disagio o l’improduttività delle negoziazioni interistituzionali derivano spesso dal fatto che i criteri di definizione degli attori non coincidono, che l’etichetta che viene attribuita non coincide con quella che io o lui si attribuisce. E questo a sua volta succede perché, in diversi modi, non si tiene conto dell’importanza della prima mossa, o si tende a superare frettolosamente la comprensione dei fattori in gioco in questa fase: la comunicazione tende ad essere troppo velocemente spostata solo sugli aspetti realizzativi, quasi a dover carpire consensi per mete prestabilite, prima ancora di essersi dati un tempo ed uno spazio per comprendere che cosa ogni attore sta mettendo in gioco davvero, rispetto alla sua percezione dei propri vincoli istituzionali ed etico-professionali: chi e che cosa ognuno si aspetta di “cambiare” o di non poter cambiare, quali sono i criteri comuni, quelli differenti e quelli non negoziabili. In definitiva, si finisce per fondare la conoscenza reciproca sul parlare molto di “loro”, migranti, allievi o allievi-migranti, e molto poco di “noi”, di quali sono le nostre pratiche professionali quotidiane, le nostre responsabilità, le nostre solitudini, i rischi che ci assumiamo, le strategie che inventiamo, il sapere a cui teniamo, le ambizioni cui aspiriamo, le frustrazioni che temiamo e le paure che nascondiamo. Detto in altri termini, ci si impegna molto, anche litigando appassionatamente, sulle definizioni che riguardano i presunti bisogni del “sistema osservato”, ma ci si interroga e ci si confronta meno sui vincoli e sui criteri che guidano gli osservatori. Ciò, oltre all’eventuale convinzione e buona volontà, richiede effettivamente tempo48. 48 Si veda l’esempio 2 nel capitolo 5. 80 4.2.3. Quali sono i rispettivi vincoli istituzionali? Di che cosa mi sento veramente responsabile? Obiettivi Mentre le prime due unità didattiche, appena esposte, hanno un ruolo prevalentemente introduttivo, questa unità costituisce il perno intorno a cui ruotano tutte le fasi del modello. Il suo scopo è, innanzitutto, quello di favorire la reciprocità nel gruppo intesa come il riconoscimento della capacità di ognuno di autodefinirsi nelle situazioni. Benchè la consegna di riflettere sui vincoli della propria istituzione sia rivolta principalmente alla percezione soggettiva di tali vincoli, di solito, per arrivare a questa, occorre un percorso che va dai criteri più “oggettivi” a quelli più soggettivi; ad esempio, dalle caratteristiche invarianti del servizio, alla visualizzazione di una giornata di lavoro come punto di partenza per identificare le principali caratteristiche dei vincoli, al racconto scritto di particolari episodi in cui si è espressa la decisione di ridefinire, innovare trasgredire l’abituale percezione dei vincoli. La possibilità per ognuno di autopresentarsi, partendo da una riflessione sui propri vincoli istituzionali e sugli aspetti soggettivamente significativi del proprio lavoro, ha inoltre, la finalità di evitare che lo scambio sia “inquinato” da presupposizioni unilaterali sulle rispettive identità etico professionali; queste presupposizioni, potrebbero infatti, ostacolare l’auspicata trasformazione di questo spazio formativo in un percorso di progettazione reale. Materiali Di solito vengono fornite ai partecipanti delle spiegazioni ed alcuni materiali, che hanno lo scopo di aiutarli a individuare le invarianti del proprio servizio e a rientrare in contatto con la propria esperienza e responsabilità professionale quotidiana. • Per rintracciare i fattori invarianti può essere utile chiedersi “quale evento potrebbe fare scomparire il servizio in cui lavoro?”. Il cercare una risposta a questa domanda può evidenziare da subito l’utenza e la maggiore o minore solidità e legittimazione sociale del servizio e quindi anche l’eventuale precarietà o ambiguità del ruolo professionale svolto. • Per favorire il successivo confronto sui rispettivi vincoli si può proporre di visualizzare una giornata lavorativa tipo e di utilizzare una schedapromemoria (scheda allegata n.1) di criteri di analisi, che più possono aiutare a entrare nel merito delle proprie pratiche lavorative. Nella scheda proposta in questa sede, i criteri fanno riferimento all’individuazione e descrizione dei propri utenti, a eventuali oggetti mediatori del rapporto con gli utenti (per esempio una materia disciplinare o una agenda o il telefono), agli spazi privilegiati e/o all’eventuale mobilità, alle modalità di scansione del tempo e alle unità di tempo minime per svolgere un pezzo 81 significativo del lavoro e alle eventuali forme di documentazione richieste. Infine vengono proposte due dimensioni che riguardano le modalità soggettive attraverso cui si valuta la soddisfazione e l’insoddisfazione dopo una giornata di lavoro e la natura della fatica e delle risorse per riposarsi dopo il lavoro o per ricaricarsi durante il lavoro. Questa lista costituisce uno spunto di partenza che viene di solito ampliato e modificato dai partecipanti. • Un altro spunto proposto (scheda allegata n.2) riguarda la richiesta di raccontare episodi che riconducono più direttamente alla soggettiva percezione dei vincoli e l’invito a trovare nella propria esperienza esempi di situazioni in cui vi sono state trasgressioni alla abituale percezione di questi vincoli: “di che cosa mi sento veramente responsabile? Se comandassi io? Quella volta ho fatto di testa mia!” Clima È importante che il clima (modalità di proporre la consegna, organizzazione dello spazio) sia adatto a favorire il predisporsi ad una testimonianza personale, che ciascun soggetto possa considerare valida e significativa, innanzitutto per se stesso. Occorre quindi prevedere la possibilità che ognuno possa pensare e scrivere “a modo suo”: c’è chi pensa passeggiando avanti e indietro e poi si sceglie un angolino protetto per scrivere; c’è chi ha bisogno di raccontare ad un altro per identificare ciò che vorrebbe veramente dire; c’è chi chiede di andare fuori a fumarsi una sigaretta, ecc.; in definitiva sarebbe opportuno concedere più ampia libertà possibile ai rituali personali che accompagnano l’attività del riflettere e dello scrivere “per sé”. Ogni materiale o spunto proposto viene dapprima elaborato individualmente e poi si procede ad una restituzione nel grande gruppo. 4.2.4. Quali potrebbero essere le incertezze pertinenti, i nodi critici, le buone domande da condividere? Obiettivi Questa unità è finalizzata a scegliere, tra le tante possibili, alcune buone domande nell’intento di giungere a un progetto comune. Avendo privilegiato, nella sequenza precedente, il livello dell’attribuzione di significato e dell’esercizio del potere di scelta, su episodi concreti, i soggetti sono invitati a stare a contatto con la propria esperienza , e a non separarsi da essa per inseguire “un dover essere astratto”; quindi anche le debolezze, le incertezze, il senso di solitudine, la paura, il senso del ridicolo, hanno potuto trovare una loro collocazione accettabile nello scambio con gli altri. Esplicitare e condividere incertezze ha una valenza formativa sia perché introduce una legittimazione e rassicurazione rispetto ai momenti di incertezza vissuti individualmente nella propria realtà, sia perché consente di pensare alla formazione anche come ad un luogo di ricerca e di “attesa” e non solo ad un luogo in cui si trasmettono modelli forti e compiuti. 82 La condivisione delle incertezze è, inoltre, un passo importante per arrivare a formulare delle buone domande e per cominciare a costruire un terreno di reciproco riconoscimento, che può facilitare la realizzazione di azioni e progetti comuni. Ricordiamo che, in questo caso, il progetto consisteva nel potenziamento di una comunicazione più efficace tra i soggetti della rete in relazione ai percorsi di inserimento dell’utenza migrante. Scegliere le domande pertinenti, in questo caso, comportava il privilegiare quelle che evidenziavano i fattori d’interdipendenza, cioè quei nodi critici che, per essere affrontati nel maggior interesse dell’utenza migrante, richiedono una collaborazione interistituzionale. Materiali Per favorire l’individuazione dei nodi critici comuni, l’attenzione del gruppo è stata portata sui percorsi d’inserimento dell’utenza migrante. Si è proposto di raccontare un esempio di inserimento lavorativo riuscito, ricostruendo i percorsi di rete effettuati dal migrante a partire dal primo contatto con un attore istituzionale; ai partecipanti stranieri è invece stato proposto di ricostruire lo stesso percorso dal punto di vista del migrante stesso dal momento della partenza dal proprio paese (schede allegate n.3 e 3a). Si è proposto inoltre di descrivere la rete cittadina dei servizi a partire dal punto di vista del proprio servizio, prendendo come spunto di partenza il grafico costruito dalla Casa di Carità Arti e Mestieri, dal punto di vista di un Centro professionale49. Clima e organizzazione dei gruppi Nei piccoli gruppi, i partecipanti, dopo un giro di battute, decidono chi di essi, almeno due, sarà intervistato dagli altri, al fine di ricostruire il percorso. Queste interviste lasciano spazio anche a racconti ed osservazioni personali che, riportati nel grande gruppo, possono innescare interessanti discussioni su aspetti etici ed educativi più generali. Diventa quindi importante, in questa fase, non bloccare il confronto, ma cercare di farlo evolvere verso l’individuazione di nodi critici, che in parte saranno ripresi nella unità successiva, in parte potranno essere rielaborati da ciascuno, anche in altre sedi50. La restituzione di questo lavoro, dal punto di vista dei contenuti, è riportata nel capitolo 6, paragrafo 6.1, 6.2 e 6.3. Dal punto di vista della comunicazione, invece, questa unità didattica mette spesso in evidenza, tra i nodi critici, la difficoltà a riferirsi alle stesse definizioni. L’esigenza di costruire un dominio descrittivo condiviso, in questo caso, ha riguardato le tipologie di servizio e le funzioni che ricorrono nella rete, segnalando l’opportunità di riferirsi a tre principali aree: la prima e seconda accoglienza; la scuola, la formazione professionale regionale. 49 Si tratta del grafico n.6, riportato nel capitolo 2, e commentato nel par.2.5.1. 50 Molti di questi interventi hanno fornito lo spunto per approfondimenti riportati nei capitoli 6 e 9. 83 4.2.5. Come potremo ri-definire i nostri vincoli per rispondere a queste domande? In vista di quali opportunità comuni? Obiettivi Questa unità didattica è strettamente connessa a quella precedente ed alla successiva. Essa è finalizzata a mettere ordine nelle incertezze emerse, sia individuando priorità, sia procedendo ad una ridescrizione del proprio servizio, funzionale alla comunicazione con le altre strutture del territorio e, quindi, realizzata all’interno di una cornice di criteri condivisi. Se la negoziazione appare la forma di comunicazione più adeguata per garantire la tendenza al rispetto della reciprocità, è pur vero che essa diventa produttiva solo quando si è sicuri che si sta parlando della stessa cosa. Materiali ed organizzazione dei gruppi Tenendo conto degli spunti emersi dalla unità didattica precedente, i gruppi sono stati formati sulla base dell’appartenenza ad una delle tre aree affini, la prima e seconda accoglienza; la scuola, la Formazione professionale, e, per ognuna di esse, si è proposto di accordarsi sulla definizione delle seguenti tipologie di funzione/servizio, utilizzando la esperienza professionale dei partecipanti: INFORMAZIONE, MEDIAZIONE, ORIENTAMENTO, FORMAZIONE, INSERIMENTO LAVORATIVO E TUTORATO (scheda allegata n. 4). Si è chiesto inoltre di costruire una mappa dell’area, indicando, per ognuna delle funzioni sopra menzionate, la natura degli interventi svolti, l’utenza finale ed i servizi territoriali coinvolti. Inoltre ogni gruppo è stato invitato ad accordarsi sui nodi critici relativi a quest’area (scheda allegata n. 5). Per la compilazione della scheda, riguardo alla natura degli interventi, si è suggerito di tener conto, mentalmente, di una unità di analisi che non si limitasse alle attività intese solo come prodotti o servizi, ma che tenesse anche conto delle relazioni e dei ruoli più sovente implicati nello svolgimento di tali attività51. Clima La suddivisione per gruppi di area affine, può fare emergere conflittualità più o meno latenti all’interno della stessa istituzione. Tali eventi possono essere colti e diventare spunto per un’analisi collettiva52. 51 Vedi il riferimento alle funzioni A e B del PDCA nel grafico 4 del cap.2. Inoltre i risultati di tale unità didattica sull’autodefinizone da parte delle tre aree è riportato nel capitolo 6, par. 6.3. 52 Si veda l’esempio 1, nel capitolo 5, par.5.1. 84 4.2.6. Co-costruzione di un referenziale comune Obiettivi Questa fase prevede la restituzione di ciascuna area nel grande gruppo ed una discussione plenaria mirata ad accordarsi su un prodotto od un progetto. Il referenziale comune può essere, quindi, visto come l’esito di un percorso di condivisione dello sforzo di lettura della realtà, a diversi livelli di approfondimento, a partire dall’esplicitazione dei propri vincoli e dalla condivisione di buone domande. Dinamica Per ciascuna area questa presentazione comporta una ulteriore presa di distanza dal proprio specifico, in quanto il proprio lavoro viene in un certo senso già riletto alla luce di quello fatto dalle altre aree. L’eterogeneità del gruppo favorisce il processo intellettuale che sottende questa costruzione, perché essa obbliga i diversi attori a esplicitare il loro quadro di riferimento e le scelte che guidano la loro interpretazione dei fatti. L’apertura alla complementarità dei contributi crea un clima di reciprocità intellettuale che può rivelarsi propizio all’apertura verso nuove sperimentazioni e verso nuovi criteri di analisi delle situazioni. Il Progetto In questo caso la capacità propositiva si è indirizzata verso la preparazione del secondo modulo del corso. Sulla base di una ulteriore selezione dei nodi critici prioritari, il gruppo ha ritenuto opportuno progettare un approfondimento di essi, allargando il confronto a nuovi soggetti della rete torinese e di altre regioni. La flessibilità consentita dai dirigenti della Casa di Carità Arti e Mestieri , ha permesso di valorizzare queste richieste per la progettazione del modulo successivo: si è deciso, così, di organizzare tre giornate, ognuna dedicata specificamente a una delle aree, e si è concordato un elenco di “testimoni privilegiati”, da invitare per ogni area. Ognuna di queste giornate ha effettivamente consentito un consolidamento della rete iniziale e l’opportunità di conoscere nuovi modi di rapportarsi all’utenza migrante, maturati anche in altre città. Tra i diversi contributi emersi, riportati nei capitoli successivi, l’attenzione è stata prioritariamente focalizzata sui terreni di collegamento tra le diverse aree; in particolare: l’articolazione dei livelli di distanza dall’emergenza vissuta faccia a faccia con l’utenza, l’interpretazione dei diversi ruoli del tutor ed il tema della certificazione dei livelli linguistici si sono rivelati quelli di maggior interesse per tutte le aree53. Si è deciso inoltre di selezionare dall’insieme delle testimonianze prodotte dai partecipanti, un dispositivo per l’accompagnamento, l’orientamento e la 53 Si veda il capitolo 7. 85 formazione, presentato da un coordinatore della Casa di Carità Arti e Mestieri54 , come esempio di una modalità possibile di collaborazione tra prima accoglienza, scuola e formazione professionale; nello stesso tempo sono state indicate alcune situazioni esemplificative sui principali nodi emersi in relazione alla comunicazione di rete o dentro ai servizi ed interessanti anche per una ulteriore esemplificazione e validazione delle opzioni teoriche sottese al modello adottato 55. 4.2.7. Ritorno alla propria istituzione e rinegoziazione dei propri vincoli interni in funzione di una collaborazione interistituzionale Qualcosa di ciò che è accaduto è stato descritto fin qui. Poi ognuno ritorna nella sua istituzione. E qui è il momento in cui può operarsi un cambiamento di strategia nel sistema di alternative utilizzato finora. Qui può succedere che un elemento di sfondo appaia in primo piano e faccia sorgere una nuova idea “Toh! Perché non ci avevo pensato prima?”. Non si tratta di cercare il rapporto di causa ed effetto tra il corso e quell’idea nuova, ma un rapporto di familiarità, di apparentamento. Per questo si torna “sul luogo del delitto” a vedere, a sentire e tra le tante cose che sono cambiate se ne individuano alcune che sembrano proprio apparentate con il percorso. Probabilmente erano già lì pronte per uscire, chissà? I cambiamenti possono essere apparentemente banali o implicare piccole trasformazioni dei comportamenti consueti: essi sono, comunque riconoscibili perché suscitano sempre una meraviglia nel soggetto, un sorprendersi a modificare qualcosa che fino a quel momento era stato pensato come immodificabile o agito come consuetudine quasi inconsapevole. Un’insegnante di quarta elementare che ha partecipato ad un ciclo di incontri, in un gruppo eterogeneo (insegnanti di asilo nido, scuola materna, e scuola elementare) sull’inserimento di bambini immigrati, e che in seguito all’inserimento di un bambino ceylonese, si era appassionata all’apprendimento della sua lingua, una mattina, entrando in classe, chiede a questo bambino che cosa vuol dire una certa parola. Il bambino risponde che lui non lo sa, ma che sua mamma lo sa senz’altro. Allora l’insegnante con perfetta naturalezza dice “andiamo in segreteria a telefonare a tua mamma”. Tutta la classe la segue, la maestra porge al bambino in questione il telefono e solo quando il bimbo comincia a parlare con la madre, la maestra si sorprende ad avere preso una iniziativa che sconvolge l’idea che lei aveva avuto fino a quel momento dei vincoli rispetto agli spazi della scuola e si preoccupa che la madre stessa del bambino potrebbe allarmarsi per sentirlo telefonare, da scuola, a quell’ora. In realtà la telefonata tra questo bambino e la madre è stata seguita 54 Si veda il capitolo 7 pr 7.2. 55 Si veda il capitolo 5. 86 con grande curiosità dagli altri bambini, non ha provocato nessun disordine nella scuola ed ha, invece, ritornati in classe, suscitato una serie di domande a quel bambino. Quelle domande hanno evidenziato che, trattandosi di un bimbo straniero e di colore, alcuni suoi compagni pensavano che lui non avesse una casa ed un telefono, ma che fosse povero e che vivesse in una capanna insieme alle mucche. Questo bambino ha avuto così l’opportunità di esaudire il desiderio della maestra rispetto al significato della parola ed anche di soddisfare la genuina curiosità dei suoi compagni, assumendo un nuovo status nel gruppo classe. L’insegnante ha ricondotto il comportamento di cui si è sorpresa alle “perturbazioni” innescate dal confronto con la cultura della scuola materna, dai cui racconti e filmati emergeva un differente modo di percepire i vincoli spaziali, caratterizzato dalla tendenza ad “abitare” tutti gli spazi della scuola. (Bonica, 1999) La ridefinizione dei vincoli può quindi poggiarsi, anche, su “trasgressioni” autorizzate dalla cultura dell’“altro”. Queste trasgressioni, che sono tali rispetto ai canoni della propria cultura istituzionale, dal momento in cui sono interiorizzate attraverso il racconto dei vincoli dell’altro, assumono uno spessore etico particolare, in quanto la cultura dell’altro le inserisce in un processo storico di condivisione di valori e di significati, che può renderle profondamente più accettabili (Bonica, 1999) Un gruppo eterogeneo può, quindi, favorire un trasferimento di risorse e strategie che potrà essere utilizzato in forma originale, come ridefinizione dei propri vincoli, in particolari momenti di esercizio del proprio ruolo professionale, e questo può innescare, a sua volta, un nuovo terreno di negoziazione dentro alla propria istituzione. Nel nostro caso, ci si è accordati per scegliere un progetto di collaborazione interistituzionale riuscito, tra la scuola e la formazione professionale, che pur innescandosi su spunti di sperimentazione precedente, ha trovato, nell’ambito del corso, la spinta e la cornice per essere riprogettato su base istituzionale56. 56 Si veda il capitolo 5, esempio n. 4. 87 4.3. Discussione Quando, come insegnanti, formatori, direttori di corso, ricercatori, educatori siamo immersi nella nostra pratica professionale siamo portati a vedere i vincoli del nostro ruolo, della nostra istituzione e della nostra attività come dei limiti che fanno ostacolo allo svolgimento del nostro lavoro; i vincoli sono quelli che ci fanno dire sarebbe bello... ma non si può. Raramente essi vengono visti anche come la fonte del nostro specifico potere/sapere professionale, e quindi, raramente ci si sofferma a interrogarli in positivo, per comprendere quali sono quelli veramente “vitali” e quali quelli che potrebbero, invece, cambiare senza che ci sia perdita d’identità per il nostro ruolo professionale e per la nostra istituzione. Nel nostro corso, la esplicitazione dei rispettivi vincoli ha suscitato confronti produttivi, dai quali i partecipanti stessi hanno selezionato i nodi meritevoli di un approfondimento successivo57; alcuni li riprenderemo subito, a ulteriore esemplificazione degli spunti che possono emergere da un percorso di questo tipo: i livelli di distanza rispetto al rapporto faccia a faccia con gli utenti, la individuazione della utenza diretta e indiretta, l’organizzazione del tempo, i vincoli di obbligatorietà e di opzionalità dei servizi. I livelli di distanza rispetto al rapporto faccia a faccia con gli utenti. In questo campo il coinvolgimento diretto è stato riconosciuto da tutti come fonte di grande umanità ma al tempo stesso sono emerse anche sottolineature e enfatizzazioni della necessaria disponibilità a confrontarsi con la sofferenza altrui, che potevano essere recepite come sottili “accuse di insensibilità o aridità” verso le persone che invece seguono i migranti prevalentemente da un tavolino. D’altra parte il confronto comune con i rispettivi vincoli ha consentito invece di verificare che, al di là della distanza rispetto al rapporto diretto con l’utente, nessuno era solo un privilegiato, e che tutti potevano invece disporre di un margine di flessibilità nell’interpretazione personale di vincolo. Il riferimento al micropotere quotidiano ed al sapere agito consentivano infatti di mettere in primo piano esempi da cui emergeva la creatività e la rilevanza etica dell’assunzione soggettiva di un rischio: intervenire o non intervenire in una situazione, la rapidità o la lentezza in una decisione, interpretare in modo restrittivo e estensivo la propria competenza in quel momento. Così è stato possibile anche mettere sullo stesso piano oggetti mediatori “caldi”, più diretti e fisici (voce e corpo) ed altri, più “freddi”, come il telefono, l’agenda, il computer, evidenziando che invidie e diffidenze reciproche tra questi due mondi potevano essere superate cogliendo ancora una volta gli elementi simili di rischio soggettivo assunto per facilitare comunque la qualità delle risorse offerte agli utenti. 57 Cioè: l’articolazione dei livelli di distanza dall’emergenza vissuta faccia a faccia con l’utenza, l’interpretazione dei diversi ruoli del tutor ed il tema della certificazione dei livelli linguistici, temi sviluppati nel capitolo 7. 88 Utenza diretta e indiretta Riguardo agli utenti indiretti, è emerso, soprattutto per i minori, l’importanza del rapporto con le comunità di residenza e con i servizi sociali, da parte della Formazione professionale regionale. Si possono citare a questo proposito i casi di abbandono dei corsi da parte di minori passati all’età adulta, i quali, non essendo ancora regolarizzati, sono stati espulsi dalle Comunità e riinviati al paese d’origine, senza che la formazione professionale fosse avvisata o potesse intervenire per sollecitare le istanze competenti verso una maggiore flessibilità. La dimensione del tempo Riguardo ai tempi è emersa l’importanza di una rinegoziazione dei rispettivi vincoli rispetto ai diversi calendari, come elemento indispensabile per poter collaborare più facilmente nel territorio, ad esempio tenendo maggiormente in conto le rispettive scadenze burocratiche, come la presentazione dei progetti per i finanziamenti dei corsi. Ma anche le unità di tempo minime sono state discusse, sulla base dell’interesse comune alla progettazione di unità didattiche di poche ore, per favorire le transizioni tra scuola e Formazione Professionale; quindi, ad esempio, brevi corsi di orientamento da svolgersi nell’ambito di sportelli preparati insieme 58. Più in generale Quando i vincoli sono assunti attivamente e riconosciuti anche come fonte della propria creatività professionale, si può aprire un terreno fruttuoso per lo scambio di esperienze che, da un lato vede i partecipanti come protagonisti e, dall’altro può consentire anche l’avvio di un percorso di ridefinizione dei rispettivi vincoli. Per esempio, analizzando la situazione dei partecipanti a questo modulo, si è evidenziato immediatamente che per tutti ciò che farebbe scomparire la specifica utenza qui considerata sarebbe un improvviso blocco dell’immigrazione straniera. Tuttavia si è osservato che tale utenza non specificava l’identità di tutti i servizi rappresentati e inoltre alcuni di questi avevano un vincolo di obbligatorietà (scuola dell’obbligo e minori) mentre altri avevano un vincolo di opzionalità (per esempio il centro di formazione professionale, le cooperative e le associazioni di volontariato). Se questi vincoli vengono concepiti solo come limiti, che incombono dall’esterno e in quanto tali sono solo subiti, la comunicazione tra partecipanti eterogenei da questo punto di vista, può spesso cadere in equivoci o, addirittura in rivalità che non sarebbero produttive ai fini di una ricerca di collaborazione. Per esempio la formazione professionale potrebbe dire alla 58 Si può citare, ancora, il progetto di orientamento nato dalla collaborazione tra scuola e Casa di Carità, riportato nel capitolo 5, esempio n. 4. 89 scuola statale: “Io, se perdo dei frequentanti, perdo anche il finanziamento per l’anno successivo. Tu invece puoi non preoccuparti se a scuola vengono volentieri o meno”. E la scuola potrebbe rispondere, a sua volta: “Noi non abbiamo certo il problema di cercarci gli utenti; ma vorrei vedervi con un utenza sempre più numerosa e eterogenea, in cui prevale il numero degli analfabeti” . Si è potuto quindi constatare come tali differenze agiscano sulla serenità rispetto al proprio ruolo e all’utenza, facendo sì che ognuno sia più o meno interessato, anche individualmente, a mettere in atto strategie volte a costruire un consenso e/o a impegnarsi in progetti innovativi, per reclutare nuova utenza. E come esse possano influenzare anche le rispettive posizioni di fronte a problemi comuni. Si può ricordare l’esempio della verifica dei prerequisiti linguistici: la scuola, proprio per i suoi vincoli di obbligatorietà, si muove in modo più flessibile, nel senso che ogni scuola tende a costruirsi i propri materiali per tale verifica; la Formazione Professionale Regionale, reclutando, invece, i suoi allievi attraverso più canali ed avendo dei vincoli più rigidi riguardo alla continuità della frequenza dei corsi, avrebbe un maggiore interesse all'utilizzo di metodi standardizzati, come la CILS, ed auspicherebbe che essi diventassero un critero condiviso all’interno della rete. D’altra parte il riconoscere tali specificità ha, invece, favorito la complementarietà dei contributi possibili, in alternativa ad un atteggiamento di rivalità o di competizione59. Tralasciamo ora altri spunti che sono emersi per passare invece, con il prossimo capitolo, ad alcuni esempi di interpretazione creativa dei vincoli che sono stati anche oggetto di microanalisi nel gruppo. 59 Si veda, ad esempio, la scelta condivisa di approfondire questo tema (cap.7 par.7.4 e capitolo 8, sui prerequisiti linguistici e la CILS) 90 4.4. Allegato Le schede di lavoro proposte ai gruppi Scheda n.1 ESPLICITAZIONE DEI VINCOLI che costituiscono l’identità professionale. Possibili criteri di individuazione dei vincoli. UTENTI Quali sono i vostri utenti diretti? Presentano caratteristiche di eterogeneità o di omogeneità? Ritenete di avere utenti indiretti? MEDIATORE TECNICO-PROFESSIONALE Per definire la vostra identità professionale fate riferimento ad uno strumento di mediazione tecnico specifico o ad un ambito specifico di obiettivi? In che modo questo mediatore specifica la vostra attività professionale, a differenza di altri mediatori? SPAZIO-LUOGHI In quali spazi si svolgono le vostre attività quotidiane? (spazio unico, diversi spazi, fissi-mobili, interni-esterni) Esiste uno spazio-luogo privilegiato, che specifica la vostra identità professionale? TEMPO-UNITÁ DI ANALISI Il vostro lavoro richiede un’articolazione del tempo in fasi? Se si, riferite un esempio di una fase significativa di lavoro. Il vostro lavoro richiede un’articolazione del tempo in cicli? Se si, riferite un esempio di un ciclo completo di lavoro. Potete indicare una o più unità di tempo minime indispensabili affinché la vostra prestazione assuma un senso compiuto? 91 Qual è l’unità di tempo minima di cui avete bisogno per svolgere un pezzo significativo del vostro lavoro? Riferite un esempio. DOCUMENTAZIONE La vostra attività comporta una qualche documentazione? (per esempio l’iter burocratico) SODDISFAZIONE- INSODDISFAZIONE. Provate a pensare ad una specifica giornata di lavoro che ritenete positiva. Riuscite a individuare da che cosa capite che oggi il lavoro è andato bene oppure è andato male? Quali sono le emozioni positive ( di soddisfazione) o negative (di insoddisfazione) che più vi sembrano collegate alla natura professionale del vostro lavoro? FATICA-RIPOSO Che cosa è che vi affatica di più del vostro lavoro? Quale è il tipo di fatica più connessa alla natura del vostro lavoro? Di che cosa sentite il bisogno appena uscite dal lavoro? Che cosa vi riposa di più appena smesso di lavorare? 92 Scheda n. 2 I vincoli orientano il micropotere quotidiano attraverso comportamenti di conservazione, trasgressione, innovazione e fondano un sapere agito Di che cosa mi sento veramente responsabile? Se comandassi io! Quella volta ho fatto di testa mia! Flashes, in situazione: 93 Scheda n. 3 PERCORSI E RETE DI SERVIZI I partecipanti , a turno, si intervistano. Ripensando ad un inserimento riuscito, cerca di ricostruire i percorsi della rete effettuati dal migrante, a partire dal primo contatto con i servizi. Scheda n. 3 bis PERCORSI DI RETE DAL PUNTO DI VISTA DEL MIGRANTE Interviste ai partecipanti stranieri: Cerca di ricostruire il tuo percorso a partire dal momento della decisione della partenza dal tuo paese. 94 Scheda n. 4 VERSO UN DOMINIO DESCRITTIVO COMUNE I termini riportati sotto indicano delle possibili FUNZIONI o TIPOLOGIE DI SERVIZIO svolte all’interno dell’istituzione in cui lavori. Ripensando agli obiettivi ed ai vincoli della tua istituzione ed alle attività, ruoli, relazioni in cui sei quotidianamente impegnato/a, quali definizioni daresti di questi termini? Ne aggiungeresti altri? Ne elimineresti alcuni? INFORMAZIONE MEDIAZIONE ORIENTAMENTO FORMAZIONE INSERIMENTO LAVORATIVO TUTORATO 95 Scheda n. 5 AUTODEFINIZIONE DI AREA TIPOLOGIE DI SERVIZIO E SPECIFICITA’ DELL’UTENZA Riuniti in gruppo per ognuna delle seguenti aree: Prima e seconda accoglienza Scuola e alfabetizzazione Formazione professionale Accordatevi sull’elenco e sulle definizioni delle diverse tipologie di servizio. Inoltre, per ognuna di esse, indicate: • i principali interventi, tenendo presente non solo l’attività prodotta, ma anche i ruoli e le relazioni che accompagnano la natura di tali interventi • l’utente finale specifico, tenendo presenti sia i migranti, sia altri eventuali interlocutori (servizi, famiglie,ecc.) • gli altri servizi territoriali coinvolti e, se è il caso, i referenti istituzionali per quel tipo di intervento. TIPOLOGIE DI SERVIZIO INTERVENTI Attività, ruoli relazioni UTENTE FINALE TERRITORIALI COINVOLTI Informazione Mediazione Orientamento Formazione Inserimento lavorativo Tutorato NODI CRITICI Infine, accordatevi, sui principali nodi critici che, dal vostro punto di vista, andrebbero affrontati nella vostra area. 96 Capitolo 5 Analisi di 4 esempi Laura Bonica Gli esempi che seguono sono una testimonianza dell’analisi svolta nel gruppo su alcuni dei nodi critici (es. 1 ed es. 3), ma anche del sapere creativo che i vincoli possono suggerire (es. 2 ed anche es. 3) e della possibilità di rinegoziarli, al proprio interno, ai fini di collaborare con un’altra istituzione (es. 4). 5.1. Esempio n.1 Vincoli autoreferenziali e distanza rispetto all’utenza: reciprocità e ruoli asimmetrici Il pagamento della diaria. Riprendiamo il nodo relativo al pagamento dei corsisti60. Ricordiamo che esso ha suscitato un confronto tra il punto di vista dello staff direttivo, in base al quale il pagamento è liquidato alla fine del corso, ed il punto di vista del tutor e del docente, che sarebbero concordi a modificare questo vincolo per favorire la continuità della frequenza, con la proposta di un pagamento liquidato in rate già dalla prima fase di frequenza del corso. A livello di chi dà e gestisce finanziamenti il vincolo portato a giustificazione dell’impossibilità di operare un cambiamento è quello di non rischiare un investimento a vuoto e quindi appare ragionevole il criterio di abbinare il pagamento alla verifica di una quota standar d di frequenza (attualmente corrispondente ai 2/3 delle ore complessive), verifica che può essere attuata solo alla fine del corso. In questo caso emerge un esempio di conflitto tra punti di vista che dipendono dai particolari luoghi di osservazione o vincoli di responsabilità interni alla stessa formazione professionale. Pur trattandosi dello stesso servizio, la diversa distanza dal rapporto faccia a faccia con gli utenti fa sì che sia soprattutto il docente a gestire il disagio e l’eventuale abbandono del corso. In effetti si tratta di un nodo delicato in quanto il paradosso riguarda la sfera della fiducia nella motivazione del migrante: il docente e il tutor si troverebbero così a cercare di fondare motivazione, partecipazione e coesione nel microsistema (gruppo classe), all’interno di una cornice, inerente alle scelte operate a livello di eso e macrosistema che disdicono questa stessa fiducia. D’altra parte se gli abbandoni sono eccessivi, le conseguenze ricadono ugualmente sul bilancio degli investimenti in quanto l’Ente, non solo è tenuto a restituire parte dei finanziamenti ricevuti, ma rischia di non vedere più approvata quella tipologia di corso. 60 Si veda la scheda di autodefinizione della formazione professionale / nodi critici, capitolo 6, pr. 6.3.3. 97 Si è quindi ipotizzata una soluzione che tiene conto di entrambi i punti di vista e, cioè, ripartire la percentuale delle presenze obbligatorie su due o etr periodi, a seconda delle ore complessive del corso , in modo che il principio di c o l l e g a re l’obbligo della frequenza alla diaria venga mantenuto ed, al contempo, si eviti che le eventuali assenze siano concentrate tutte nella fase finale o in un solo periodo. Questa soluzione introduce, quindi, anche una preoccupazione relativa al rapporto tra la distribuzione delle assenze e l’esigenza di non intr o d u r re, comunque, una eccessiva discontinuità nell’apprendimento. Commento Questo esempio suggerisce diverse considerazioni teoriche e pratiche. Innanzitutto si può evidenziare la natura circolare dei fenomeni osservati ; essa impedisce di guardare ai diversi livelli del sistema solo come a cerchi chiusi, inclusi l’uno nell’altro. Sembrerebbe piuttosto, come sostiene Bronfenbrenner (1979), che ciò che succede a livello dei rapporti faccia a faccia (microsistema) non possa essere pienamente compreso se non interrogando anche il contesto più ampio; ma lo stesso succede anche per quest’ultimo. D’altra parte si osserva anche che ognuno degli attori considerati si comporta in modo autopoietico, ognuno dei due punti di vista è ancorato a motivazioni autoreferenziali, in cui è in gioco al tempo stesso la salvaguardia del servizio e l’identità del ruolo professionale. Questo esempio è interessante anche perché consente di affrontare il tema dell’autopoiesi, quando c’è una asimmetria di ruoli di potere. È evidente che chi gestisce i finanziamenti e i bilanci ha più chance di usare il proprio potere per ignorare il punto di vista del docente e di scegliere di trattarlo come se fosse un sistema allopoietico, ma ciò non può impedire al docente né di avere il suo punto di vista sulla questione specifica, né di scegliere, a sua volta, come autodefinirsi rispetto al sistema più ampio. La comunicazione tra attori della rete è spesso ostacolata dal fatto che ognuno o ritiene di subire il punto di vista dell’altro o di dover imporre un punto di vista all’altro. È qui che emerge la responsabilità etica della scelta di come vedere l’altro. A questo proposito Stanford Beer, nella prefazione ad una delle opere di Maturana e Varela proponendo di trasferire il concetto di autopoiesi anche ai sistemi sociali organizzati, fa la seguente considerazione. ...in un’era in cui il rapido cambiamento istituzionale è un prerequisito per la pacifica sopravvivenza, sembrerebbe che gli architetti del cambiamento stiano facendo lo stesso errore in tutto il mondo. Il fatto è che essi percepiscono il sistema al loro proprio livello di ricorsione come autopoietico, e lo fanno perché identificano se stessi con quel sistema e sanno di essere così; ma insistono a trattare i sistemi che sono contenuti nel loro sistema, e quelli entro i quali il loro sistema è contenuto, come allopoietici. (S.Beer, in Maturana e Varela, 1980, pag.122-123) 98 Tornando al nostro esempio, potremmo aggiungere che questa tendenza, quando non è deliberatamente scelta, deriva dalla convinzione che il sistema di alternative entro cui ci si sta muovendo per risolvere un problema sia l’unico possibile e che quindi la soluzione individuata assuma caratteri di necessità tali da farla ritenere immutabile. D’altra parte la rilevazione di paradossi e incomprensioni potrebbe avere un ruolo riorganizzatore e suggerire che è sempre possibile costruire un nuovo sistema di alternative. 5.2. Esempio n.2 L’importanza della prima mossa: invenzione di una strategia Questo esempio riguarda l’individuazione di una strategia di reclutamento del minore elaborata da un operatore di strada e ripresa da tutto il gruppo come una modalità esemplare di rendere operativo il concetto di reciprocità secondo la definizione proposta e condivisa dal gruppo. K. (così chiamiamo l’operatore di strada) sostiene che è possibile coinvolgere un minore straniero in un percorso di inserimento, solo se si riesce, prima, a costruire una relazione significativa individuale con lui. Questo obiettivo, nella sua esperienza, è vanificato se è l’operatore di strada a fare la prima mossa esplicita verso il migrante61. Di solito mi reco nelle strade o nei bar in cui si incontrano questi minori. Sto lì, passo, ripasso negli orari cruciali e a un certo punto creo uno stratagemma perché avvenga l’incontro casuale. Per esempio, faccio cadere gli occhiali per terra, oppure inciampo in uno di loro, insomma faccio in modo che ci sia un pretesto che crei un precedente per il giorno dopo. Dal giorno dopo, infatti, ripasso, fino a quando non rincontro quel minore e viene allora spontaneo salutarlo. Lui non sa nulla di me. Forse per questo, di solito, si meraviglia e attacca per primo a chiedermi cosa faccio, come mai sono lì. Io non rispondo subito in modo del tutto esauriente, ma faccio a mia volta delle domande, esprimo la mia curiosità per la sua vita. Questo dialogo è molto delicato, perché è importante che sia lui ad arrivare a chiedere di utilizzare il mio appoggio. E questo succede quando queste prime battute lo fanno sentire libero ed al tempo stesso accettato per come è. Solo successivamente, dopo il suo interessamento esplicito, prende avvio la vera e propria presa in carico, il contratto formativo fra lui e il servizio (K., educatore di strada). 61 Si veda anche la scheda di autodefinizione del gruppo prima e seconda accoglienza (capitolo 6, pr. 6.3.1.), da cui emerge l’importanza di considerare la fase di emergenza come un momento che richiede un tempo ad hoc e che presenta una sua relativa autonomia sul piano degli obiettivi e del sapere messo in campo dagli operatori. 99 K. ha quindi colto l’importanza della prima mossa con l’utente, inventando diverse strategie per far avvenire l’incontro casualmente, fino a che sarà il minore stesso a fare la prima mossa, chiedendo a K. di presentarsi. Per K. questa è la condizione perché un educatore di strada possa avviare una comunicazione in cui la proposta di assistenza da parte di un Centro di accoglienza diventi per il minore un’ipotesi accettabile. Perché? Ragionando sull’ipotesi contraria possiamo scorgere il principio di reciprocità che sottende questa scelta e la sottile raffinatezza di questa strategia. Se la prima mossa fosse la proposta di assistenza da parte dell’educatore sul piano della relazione interpersonale il messaggio sarebbe “tu devi cambiar e vita, così come sei non va bene. Adesso ci penso io” . Ciò implicherebbe un giudizio negativo a priori sulla realtà esistenziale dell’altro e, quindi, una possibile negazione delle opportunità per l’altro di definirsi altrimenti. Inoltre, ed è questa la conseguenza più interessante, questo giudizio critico precluderebbe o renderebbe più difficoltose le successive ridefinizioni di sé da parte del minore, perché ogni volta egli dovrebbe smontare questa cornice iniziale per dimostrare la sua autopoiesi in questo percorso. L’incontro partirebbe quindi da una violazione della reciprocità di base tra il sistema che osserva (operatore) ed il sistema che è osservato (minore) e ciò creerebbe una stonatura, una contraddizione con il modo di K. di interpretare l’identità del suo ruolo professionale. Il vincolo, alla base del servizio in cui K. lavora, è infatti quello di accompagnare il soggetto verso un percorso di autonomia guidata, che richiede la costruzione di una integrazione tra fiducia nell’altro e fiducia nelle proprie capacità. Questa strategia può essere considerata un esempio raffinato di applicazione del modello dell’attesa, che consente una forma di tutoraggio tanto presente, quanto discreta. Non meraviglia, allora, che il gruppo che aveva lavorato sui vincoli dell’accoglienza, abbia ritenuto opportuno introdurre un vincolo temporale per la prima fase di emergenza come una condizione indispensabile per garantire la qualità e la continuità dell’intervento. Emerge quindi come i vincoli vissuti nell’agire professionale quotidiano possano essere interpretati in modo più o meno restrittivo e siano quindi suscettibili di sollecitare anche la costruzione di un sapere innovativo. La strategia di K. è particolarmente interessante anche da un altro punto di vista teorico, perché essa attribuisce un ruolo importante al caso, invece di fondarsi su un sistema di alternative basato sulla costrizione e sulla necessità. Infine essa ci ricorda che il gioco può essere un importante alleato; la strategia di K. implica il far finta , la messa in atto di diversi stratagemmi per salvaguardare, da una posizione di maggior potere, il diritto del minore ad autodefinirsi e a scegliere il momento per lui ottimale in cui chiedere l’aiuto. 100 5.3. Esempio n. 3 Autodefinizione all’interno della rete: un minore seguito da tutti, ma in mezzo ad equivoci e fraintendimenti 5.3.1. Finalità e contesto Questo esempio, raccontato da un insegnante delle 150h, ha attinenza con il lavoro di rete e riguarda un episodio di comunicazione conflittuale tra i servizi sociali e la scuola. Esso offre anche un esempio di ridefinizione dei propri vincoli da parte della scuola (dall’esercitazione: di che mi sento veramente responsabile? se comandassi io!). Il nodo del conflitto riguardava la valutazione della maggiore o minore gravità dei comportamenti di un ragazzo marocchino, da parte delle diverse istituzioni che, a titoli diversi, si occupavano di lui. In particolare, la scuola riteneva che i servizi sociali sottovalutassero gli improvvisi scoppi d’ira del ragazzo, il suo oscillare tra momenti “buoni” e momenti “devianti”, non considerando, così, anche la responsabilità assunta dalle insegnanti rispetto all’incolumità degli altri ragazzi, e l’importanza della propria incolumità e serenità per poter svolgere proficuamente il proprio mestiere. In questo caso è il ruolo stesso della scuola che sembra essere stato frainteso, non abbastanza valutato. Questo vissuto di sottovalutazione da parte dei servizi sociali, farà scattare negli insegnanti un comportamento di “chiusura autoreferenziale”, volto a difendere l’identità della propria organizzazione, del proprio lavoro. Grazie a questo rientrare in contatto profondo con l’identità professionale, e quindi, con le caratteristiche invarianti che la specificano (ad esempio l’essere responsabili di un gruppo di individui e non di un solo individuo per volta), le insegnanti entrano in contatto anche con il potere connesso a tale senso di responsabilità. Questo potere si esprimerà attraverso la capacità di trovare facilmente un accordo tra di loro, sia per porre alcune condizioni ai servizi sociali, sia per ridefinire, al loro interno, nuovi vincoli per accogliere il ragazzo, creando condizioni apposite, da loro ritenute più adatte a prevenire i rischi che esse avevano colto. 5.3.2. Descrizione anno 1996/97 Un ragazzo marocchino (A) si iscrive al corso di lingua italiana della scuola X. A. vive con la sua famiglia. A detta dell’educatore di territorio il padre viene espulso per reati di delinquenza e lascia al figlio il mandato di tenere sotto controllo la madre e la sorella. Queste hanno interiorizzato usi e costumi occidentali, si truccano e indossano abiti corti, aderenti, ecc. Anche la sorella del ragazzo frequenta la stessa scuola e tra i due esiste uno stato di tensione molto forte, al punto che le insegnanti decidono di inserirli in due classi diverse. A seguito di un litigio in casa la ragazza si butta dal balcone o forse viene spinta dallo 101 stesso fratello, comunque riporta delle lesioni. Dai servizi sociali i due vengono collocati in due comunità diverse e la ragazza viene iscritta in un’altra scuola 62. anno 1997/98 Ottobre Il ragazzo, iscritto per il secondo anno alla stessa scuola, frequenta alcuni giorni e poi non si fa più vedere. Novembre Un’insegnante contatta l’assistente sociale che afferma di averlo invitato più volte a riprendere la frequenza presso la scuola X, perché le sue difficoltà a esprimersi bloccano la comunicazione anche nell’esplicitazione dei bisogni ed i problemi personali. Dicembre Da un incontro con gli insegnanti di un Centro di formazione professionale la stessa insegnante apprende casualmente che il ragazzo (A.) sta frequentando un corso di florovivaismo, che il suo rendimento è buono e che si presta molto ad aiutare un compagno marocchino che ha maggiori difficoltà di lui nell’uso dell’italiano. Marzo A. riprende a frequentare la scuola X. Ha lasciato il corso di F.P. perché non è stato inserito nello stage di formazione (forestazione) come voleva, ma in quello di florovivaismo che a lui non interessa. La scuola di F.P. motiva questa decisione con il fatto che il ragazzo era stato assente alle lezioni sull’utilizzo dei macchinari usati nella forestazione. A. si inserisce bene nella nuova classe (i suoi compagni di ottobre sono passati ad un livello più alto) e stabilisce buoni rapporti sia con le insegnanti che con i compagni. Accetta bene anche eventuali rimproveri degli insegnanti. Una collega viene a sapere da un insegnante della scuola di F.P. che il ragazzo si è reso autore di due episodi di aggressività di una certa gravità nei confronti di due compagni. Nel primo, in refettorio, era andato a cambiarsi le scarpe calzandone un paio di quelle con i chiodi e aveva preso a calci un compagno che una settimana prima aveva dedicato qualche attenzione particolare ad una loro amica. Nel secondo, all’aperto, aveva divelto un paletto metallico e aveva colpito un compagno. È inoltre stato visto ai Murazzi e ha esibito un portafoglio con molti soldi. La scuola X, allarmata, decide di convocare un incontro al quale partecipano tutti i servizi che si occupano del ragazzo per un confronto: • la scuola X esprime la sua preoccupazione anche se il comportamento del ragazzo per il momento è ineccepibile. • il Centro di F.P. ribadisce che questi due episodi di aggressività non sono da sottovalutare • la comunità del Comune che lo ospita non ha da segnalare nulla di rilevante • l’assistente sociale e l’educatore di territorio tengono una posizione in sua difesa e affermano che bisogna lavorare sul positivo che c’è nel ragazzo. Egli ha ammesso di aver spacciato in passato, ma di avere smesso al presente. Gli operatori dei servizi annunciano, inoltre, di avergli trovato un buon lavoro presso un carrozziere. 62 Si veda la genitorializzazione del minore, capitolo 6 pr. 6.2.2. 102 Aprile Una sera, in comunità, il ragazzo ha un violento alterco con una operatrice che lo aveva invitato a cambiare programma alla TV, invece di guardare un film porno. L’operatrice e un altro ragazzo marocchino, che aveva preso le sue difese, vengono aggrediti e feriti. Il ragazzo sfascia anche alcune suppellettili. Il ragazzo viene trasferito in un’altra comunità fuori Torino. Interrogato sull’accaduto, si dimostra tranquillo, sereno perché ritiene che la colpa fosse dell’operatrice. Il servizio sociale, senza fare nessuno sconto sul comportamento del ragazzo, ritiene che il comportamento dell’operatrice sia stato inadeguato. Le insegnanti di classe sono preoccupate dal dover accogliere un soggetto con questi scoppi improvvisi di aggressività e temono di non poter difendere né la propria incolumità né quella degli altri bambini. La scuola X, per stimolare il servizio sociale, decide di prendere questo provvedimento che di fatto è un ricatto: “Riammettere A a scuola solo dopo una visita al centro F. Fanon”. Il servizio sociale non condivide questo procedimento, ma si adegua. Maggio: rinegoziazione dei vincoli interni alla scuola Il ragazzo viene riammesso a scuola dopo che è stata prenotata la visita. Viene inserito in una piccola classe composta da soli minori e selezionati al fine di evitare dinamiche esplosive. Un insegnante uomo ha dato la propria disponibilità come volontario, oltre il suo orario di lavoro, e la frequenza è al mattino, in modo che non possa incontrare il compagno che aveva ferito in comunità. Il ragazzo viene a scuola solo un paio di volte perché apprende che mancandogli il numero minimo di presenze non può sostenere l’esame di licenza elementare. Non è motivato dal fatto che la frequenza attuale costituisca un credito formativo per il prossimo anno scolastico. È deluso perché pensava che la licenza “gli fosse dovuta” e, a detta dell’educatore, questa avrebbe rappresentato una promozione sociale. Il ragazzo perde la borsa di lavoro perché, a detta dell’educatore, ne ha combinata una talmente grossa che non potrà più essere inserito da nessuna parte. Il ragazzo non si presenta alla visita del centro F. Fanon perché quel pomeriggio c’è lo sciopero degli autobus. anno 1998/99 Ottobre-dicembre Il ragazzo, iscritto per il terzo anno alla scuola X, frequenta abbastanza regolarmente. È inserito in una classe normale dove non ci sono altri minori marocchini. Fa riferimento al servizio sociale di un’altra circoscrizione perché sua madre ha cambiato residenza. Viene iscritto in un corso di formazione professionale e chiede il trasferimento ad altra scuola per il corso d'italiano in quanto non gli sarebbe possibile conciliare gli orari dei vari impegni: stage in azienda, corso di italiano, rientro in comunità fuori Torino. Febbraio Un insegnante del corso di italiano riferisce che il ragazzo si è inserito bene e che ha buoni rapporti sia con gli insegnanti che con i compagni. 103 5.3.3. Commento In queste sequenze decisionali traspare la sicurezza professionale degli insegnanti, fondata sulla fiducia nella propria capacità di vedere psicologicamente gli utentie sulla serena accettazione della propria funzione di accoglienza, che le aiuterà a trovare comunque, al loro interno, le condizioni per accogliere il ragazzo, senza tergiversare o nascondersi dietro a presunte responsabilità altrui. Dall’insieme dell’episodio emerge inoltre che intorno al ragazzo c’è una rete, che il suo agire è visto, pensato, discusso, seguito a più livelli: ad esempio, ciascuno dei servizi è, a suo modo, presente e tempestivo nell’individuare nuove alternative ad ogni episodio di crisi. Poiché il racconto è prodotto da uno dei punti della rete, la scuola, nell’ambito della quale non si sono prodotti episodi di violenza da parte del ragazzo, emerge anche la tensione degli insegnanti a ricostruire i pezzi mancanti del percorso del ragazzo, intessendo rapporti di rete con gli altri operatori che permettano loro di acquisire informazioni e di farsi un’idea più complessiva dell’utente come persona sociale e non solo come studente. Tuttavia la rete funziona prevalentemente ad un livello informale: tutte le notizie che segnalano l’evoluzione della storia di questo ragazzo e che fondano l’ipotesi di gravità delle sue condizioni psicologiche, allarmando le insegnanti, sono acquisite casualmente. L’unica riunione di rete “ufficiale” è quella convocata dalle insegnanti stesse. Si può quindi dedurre che, a fronte di una frequente quanto coinvolgente comunicazione tra gli operatori intorno ai ragazzi e agli episodi che per diversi motivi possono creare effetti di choc, manchi, a monte, la progettazione di uno spazio di confronto, in rete, tra le diverse identità professionali che consenta, da un lato di specificare meglio le rispettive responsabilità e identità professionali, e, dall’altro, di imparare dall’esperienza in itinere a meglio raccontarsi e raccordarsi, riducendo i rischi di reciproca sottovalutazione o svalutazione dell'identità professionale. 5.4. Esempio n. 4 Collaborazione riuscita tra due soggetti della rete: la Casa di Carità Arti e Mestieri e la scuola Questa collaborazione tra scuola e formazione si è realizzata nella consapevolezza della necessità dell’interdipendenza per realizzare l’obiettivo comune di favorire il percorso dei minori, verso opportunità stabilizzanti, in alternativa ai rischi di dispersione. Infatti i minori stranieri coinvolti in questa iniziativa hanno beneficiato di un progetto più ampio di continuità educativa e di facilitazione del percorso, avendo potuto interagire nello stesso contesto (scuola), con interlocutori diversi che, insieme, gli hanno proposto opportunità per il suo futuro63. 63 Si ricorda la modalità operativa illustrata nella tabella 1 del Dispositivo per la comunicazione integrata sul territorio all’interno del capitolo 4. 104 Di quale collaborazione si tratta? Due mediatori culturali della Casa di Carità Arti e Mestieri durante il periodo di stage dell’anno ’99-2000 sono stati inviati alla scuola per stranieri Parini con il compito di gestione di uno sportello di orientamento alla formazione professionale; questo sportello è rimasto aperto tre giorni all’interno della scuola stessa, con lo scopo di presentare il progetto di un corso di “orientamento al lavoro” di 30 h rivolto a 30 minori stranieri, che si sarebbe tenuto nel maggio ’99 presso la Casa di Carità Arti e Mestieri64. I mediatori in stage dovevano occuparsi della presentazione delle modalità di svolgimento del corso (dopo la partecipazione al corso il minore avrebbe potuto iscriversi ai corsi professionali per stranieri) e, nello stesso tempo, dell’iscrizione di quei minori, segnalati dagli insegnanti della scuola stessa con il prerequisito minimo del secondo livello di alfabetizzazione. Dopo i tre giorni previsti per le attività di sportello, i mediatori culturali in stage hanno poi seguito quegli stessi minori durante il corso di orientamento. Il loro compito era di supporto sia agli orientatori del corso e sia ai minori stessi, che venivano aiutati nei colloqui individuali e nei casi di difficoltà linguistiche nella compilazione delle schede personali. Come si è arrivati a questa collaborazione tra scuola e formazione professionale? Tra la Casa di Carità Arti e Mestieri e la Parini esisteva una reciprocità di rapporti già dagli anni ’92-’93. L’idea di consolidare questi rapporti, progettando un corso insieme, si è sviluppata perché il progetto Integra I.Ter. prevedeva 3 corsi di orientamento al lavoro, rivolti a utenza migrante. Proprio per la disponibilità di questi finanziamenti il Centro professionale ha proposto alla scuola Parini una collaborazione per la sperimentazione di questo corso di “orientamento al lavoro”, riscuotendo interesse e disponibilità alla collaborazione. L’esito favorevole di questa prima mossa ha visto le due istituzioni impegnate in una serie di negoziazioni produttive per rendere complementari i propri ruoli e per stabilire spazi, tempi, strumenti, orari, compiti dei due mediatori in stage. Alla scuola è stato riconosciuto il compito fondamentale di fungere da “filtro” nella segnalazione dei minori da iscrivere, di conseguenza è stato deciso che lo sportello si aprisse in un’aula della scuola stessa; le due istituzioni si sono quindi accordate sui giorni e sulle modalità di apertura dello Sportello orientativo, tenendo conto sia degli impegni relativi agli spazi ed al tutor della 64 Si veda in allegato il progetto di questo corso di orientamento. (Allegato n. 1) 105 scuola, sia della organizzazione del tempo dei due mediatori della Casa di Carità Arti e Mestieri, in stage, che avrebbero preso in gestione lo sportello presso la scuola. Ciò che è risultato importante, con l’avvio di questa collaborazione interistituzionale è che, su 30 partecipanti al “corso di orientamento al lavoro” (maggio ’99), 18 si sono iscritti l’anno successivo ai corsi rivolti a minori stranieri della Casa di Carità Arti e Mestieri. La positività dell’obiettivo raggiunto risulta ancora più significativa, se si considera che la maggioranza di questi minori erano soli e vivevano in comunità - alloggio. Questo esempio dimostra la volontà dei due soggetti, scuola e formazione, di cooperazione reciproca nel riconoscimento dell’identità e del ruolo dell’altro. I due attori hanno scelto di mettere insieme le esperienze e le competenze acquisite nei rispettivi ambiti di intervento con utenza migrante: insegnamento della lingua seconda nella scuola e insegnamento di un “mestiere” nella formazione professionale 65. Entrambi i soggetti hanno accettato che l’altro entrasse nella propria cornice di attività con il suo specifico statuto etico-professionale e hanno concordato così tempi, spazi, orari… La scuola, attraverso la cooperazione con la formazione professionale regionale ha potuto dare maggiore significato alla propria progettualità rispetto ai minori poiché ha inserito i propri interventi in una prospettiva più ampia, ricavando così vantaggi sia per quanto riguarda i propri obiettivi istituzionali di facilitazione per i minori migranti sia in termini di maggiore soddisfazione per gli operatori. Inoltre, la mancanza di un mediatore culturale nella scuola era uno dei nodi critici lamentato dal gruppo di lavoro sulla scuola e, quindi, l’inserimento di un mediatore culturale ha significato anche una risposta a questa esigenza66. La scuola ha potuto così contare su una presenza fissa di sostegno al docente nella gestione di questioni critiche interne alla classe, con interventi appropriati di mediazione, e nella funzione di interpretariato per i corsisti con maggiori difficoltà linguistiche (previste alcune ore in lingua d’origine). 65 La Casa di Carità Arti e Mestieri ha proposto anche alla scuola Braccini lo stesso modulo di corso di orientamento al lavoro, della durata di 30h. É interessante osservare che, in questo caso, la negoziazione ha condotto ad un’altra formula di sensibilizzazione: invece dell’apertura di uno sportello temporaneo, è stato concordato che un coordinatore del Centro professionale organizzasse due incontri con i ragazzi della scuola, per presentare il corso di orientamento. Accompagnato dalla mediatrice culturale che lavora presso la Casa di Carità Arti e Mestieri, il coordinatore ha potuto così informare e sensibilizzare i futuri partecipanti, che, anche in questo caso erano stati segnalati dalle insegnanti. 66 Si vedano le schede di autodefinizione delle tre aree di intervento (cap.6) ed in particolare quella della scuola, nel paragrafo 6.3.2. 106 Il Centro professionale, dal suo canto, ha visto riconosciuto il proprio modulo di corso (Mediatore Culturale) e la figura professionale che ha “formato”, vedendone valutata positivamente la preparazione e la competenza; infatti, come già detto, nella scuola Parini sono stati proprio i mediatori culturali in stage a gestire lo sportello di ascolto interno, destinato alla presentazione e all’iscrizione dei minori al corso di orientamento al lavoro. Nello stesso tempo la formazione professionale, in prospettiva, potrà contare su un serbatoio di utenza futura, che spesso proviene proprio dalle scuole di alfabetizzazione e dai corsi di 150 h; potrà quindi disporre di una pubblicità in positivo delle proprie proposte formative da parte di un soggetto di primo piano nella rete dei servizi per stranieri: la scuola. Ma ciò che più conta è che la realizzazione di questo progetto di comunicazione integrata tra scuola e formazione professionale porta vantaggi, soprattutto, al migrante stesso che, nel momento in cui si inserisce nella formazione, può passare da una situazione di precarietà iniziale ad una opportunità di stabilizzazione lavorativa futura. I corsi per stranieri, come abbiamo visto nell’introduzione, facilitano infatti i frequentanti nella possibilità di trovare lavori regolari. 5.5. Osservazioni conclusive L’ipotesi che sottostà al modello di formazione che stiamo descrivendo è che l’ascolto della esplicitazione dei rispettivi vincoli, sia tra aree eterogenee che all’interno della propria area, favorisca la visibilità della reciproca interdipendenza e renda più comprensibile ad ognuno il sistema di alternative entro cui l’altro si sta muovendo per definire i criteri del suo agire. La sensazione che si ricava, guardando i partecipanti, ascoltando i loro commenti e la produzione spontanea di altri racconti o materiali scritti che essi portano nel gruppo, è che si sia aperto un nuovo interesse per la circolazione delle idee nel gruppo. Riferirsi alla esplicitazione dei vincoli professionali/istituzionali può risultare un’utile strategia per salvaguardare il principio di reciprocità e la congruenza tra i diversi livelli di articolazione delle istanze educativo/formative, perché consente di affrontare le differenze attraverso un comune criterio di lettura: i vincoli favoriscono, infatti, il confronto su una condizione comune a tutti gli attori, qualunque siano le asimmetrie di ruolo o le specificità professionali. Come abbiamo visto, questo percorso di esplicitazione e di confronto può innescare un processo di apertura alla ridefinizione dei rispettivi vincoli e alla individuazione di nuove soluzioni. La reciprocità rischia, infatti, di restare un assunto ideologico se non entra nel merito del riconoscimento reciproco di soggetti che sono tali, anche perché essendo quotidianamente impegnati nella negoziazione di certi vincoli professionali-istituzionali, hanno trovato un proprio modo di convivere con essi e detengono quindi uno specifico sapere etico-professionale. 107 Parte terza MIGRANTI E COMUNICAZIONE DI RETE 109 Capitolo 6 Percorsi di rete ed aree d’intervento Laura Bonica, Michele Grisoni, Silvia Zabaldano 6.1. Ricostruzione di percorsi di rete, dal punto di vista dei migranti, prima del 1990 Partiamo da due percorsi che riguardano inserimenti precedenti agli anni ’90. Come si potrà osservare, i percorsi di rete effettuabili in quegli anni erano fondamentalmente basati su appoggi familiari e personali. In entrambi i casi si tratta di migranti che hanno dovuto rinunciare alle loro ambizioni universitarie, ma che sono diventati operatori ed oggi rivestono un ruolo di riferimento qualificato nella progettazione della prima e seconda accoglienza per minori migranti. J., peruviano J. è arrivato nel’ ’81 dal Perù per ragioni familiari; era infatti sposato con una donna italiana. La condizione di straniero non gli permetteva di lavorare legalmente; in quegli anni risultavano insufficienti i Servizi per stranieri e le norme non garantivano facilità di regolarizzazione per il lavoro. L’inserimento è avvenuto autonomamente per conoscenze personali; non era inserito in una rete etnica, anche perché nel ’81, a Torino, vi erano solo 4 peruviani (nel ’98 sono invece 3200 i peruviani regolarizzati). K., palestinese K. palestinese con passaporto israeliano, parte per motivazioni politiche e decide di iscriversi all’Università in Italia per completare gli studi in Veterinaria. La sua rete di riferimento sono i parenti già immigrati in passato. Il primo contatto avviene alla Stazione di Roma, dove K. incontra difficoltà a farsi capire dal bigliettaio, che non parla inglese. Parte quindi per l’Università di Perugia, perché sa che lì esiste un ufficio presso la Questura che si occupa di accoglienza degli studenti stranieri. Si iscrive ad un corso di lingua italiana a Perugia della durata di un mese: K. ottiene un attestato di conoscenza di lingua italiana. Vive presso una famiglia di Assisi, contattata grazie a conoscenze di compagni di Università. Durante l’estate svolge un lavoro stagionale in un ristorante di Rimini. Qui K. ha un contatto con un operatore di polizia che minaccia di denunciarlo per lavoro in nero. In autunno si iscrive alla facoltà di Veterinaria dell’Università di Milano. Ha il problema di trovare un posto letto. Alla Casa dello Studente di Milano la quota di posti letto per stranieri è del 10%. K. è escluso, per mancanza di posti liberi. Così, per tre mesi va a dormire nella stazione, dove si ritrova anche con altri studenti stranieri. Insieme progettano un'azione di occupazione della Casa dello Studente. Nel corso di questa fase iniziale è riuscito a mantenersi grazie ai soldi guadagnati in 111 Palestina, prima di partire per l’Italia. Ora deve lavorare. Tramite conoscenze private si inserisce nell’attività di trasporto dell’Euro-Club. Ciò favorisce la possibilità di fare attività politica in giro per l’Europa: K. fonda, così, un’Associazione di Studenti Palestinesi del ’48, e si impegna in diverse forme di propaganda e di attività autogestite, per la causa palestinese. K., nell’84, arriva a Torino ed entra in contatto con il servizio Caritas, che si occupava di aiuto e sostegno agli immigrati. Qui conosce un obiettore di coscienza che lo presenta al responsabile di una cooperativa sociale. Assunto dalla Cooperativa Sociale Crescere Insieme, il suo compito è gestire soggiorni estivi per ragazzi portatori di handicap. Diventa dopo pochi mesi educatore in Comunità Alloggio per minori italiani. Nel ’93 assume il ruolo di educatore di strada nel progetto di prevenzione del disagio giovanile per minori italiani e stranieri. Il ruolo dell’educatore di strada è quello di seguire, accompagnare e orientare nell’inserimento il minore straniero; l’educatore di strada viene pagato dalla Circoscrizione per 3,5 h al giorno, anche se, in realtà, ne deve fare anche sette o otto. (K.) In questo nuovo ruolo valuta la presa in carico del minore verso un tipo di accoglienza professionalizzante, e comincia ad elaborare idee e strategie in merito67. L’educatore deve cercare il contatto con il ragazzo, muovendosi per il quartiere. Sono necessarie varie fasi di approccio per capire i bisogni e le esigenze del singolo soggetto. La fase dell’avvicinamento è indispensabile per conquistarsi la fiducia del ragazzo. Solo dopo questo momento iniziale è possibile iniziare il rapporto individuale con il minore straniero. (K.) K., dal ’96, lavora nell’Associazione Solidea68, che ha preso in tutela 9 minori stranieri. 6.2. La situazione attuale Negli anni più recenti, come si è già visto nel capitolo 1, l’ondata migratoria si è intensificata e presenta caratteristiche molto più articolate. Dal racconto dei percorsi emerge l’importanza della rete, e si avverte che pur rimanendo l’inserimento lavorativo un obiettivo primario, tuttavia il successo del percorso, soprattutto per i minori, si gioca attraverso i filtri precedenti. Minori albanesi I minori albanesi il più delle volte arrivano soli, senza legami familiari; il problema principale è che spesso essi hanno l’obbligo di mandare i soldi a casa, e questo vincolo condiziona la loro disponibilità ad un percorso formativo continuativo. In una considerevole quantità di casi, occorrerebbero anche interventi alternativi per aiutarli ad uscire dalla rete della criminalità organizzata. Di solito il primo contatto avviene attraverso Organizzazioni di volontariato, più frequentemente, quelle cattoliche (Caritas, Sermig, Oratori…). 67 Si veda anche il capitolo 5, esempio n. 2: la prima mossa . 68 Solidea è in rete con altre Associazioni (Premoli, Ala) che si occupano di accompagnare e seguire il minore nell’assistenza, nell’istruzione, nelle pratiche legali e sanitarie. 112 Il contatto successivo passa attraverso l’Ufficio Minori Stranieri del Comune, dove avviene una prima schedatura del minore. Questo ufficio può contattare altri Enti della rete; cerca di impostare programmi appositi di tutela e inserimento in comunità d’accoglienza, rapportandosi con la Questura e i giudici tutelari. Quando il percorso è riuscito, prevede la frequenza presso le Scuole medie: Parini, Braccini o altri C.T.P. (Centri Territoriali Permanenti) e parallelamente ad un corso di Formazione Professionale Regionale. Minori marocchini Come punto di riferimento, i minori marocchini spesso hanno un adulto e arrivano a Torino perché hanno un genitore o comunque parenti/amici immigrati precedentemente. Nel racconto degli operatori questo esempio di percorso riuscito ha previsto le seguenti tappe del percorso di rete: Il primo contatto presso l’educativa di strada che, a Torino, opera prevalentemente nel quartiere S. Salvario. Quindi, l’inserimento nella scuola media statale Manzoni ed il sostegno da parte dell’Associazione Solidea, che si occupa di sostegno scolastico e inserimento lavorativo. Infine l’inserimento in un corso professionale specifico per migranti minori. Riuscire ad evitare l’uscita dalla legalità, trovare una casa in cui tornare la sera e iscriversi ad un corso professionale, può essere già considerato un lusso, una buona garanzia per un inserimento riuscito anche dal punto di vista sociale e lavorativo. Sentiamo a questo proposito la descrizione della fase iniziale del percorso dei migranti visto dal punto di vista di uno dei responsabili storici dei servizi per la prima accoglienza, don Fredo Olivero69. 69 Attualmente don Fredo Olivero dirige il Servizio Stranieri della Caritas di Torino. 113 Chi sceglie di emigrare è spinto in primo luogo dal bisogno di una casa e di lavorare piuttosto che di andare a scuola. La casa, o anche più semplicemente un letto, significa un luogo di riferimento sicuro dove poter tornare la sera. Essere bianco o essere nero, appartenere ad una etnia o ad un’altra significa molto nella possibilità di trovare una casa. Essere africano ma non nigeriano è già un punto in più! Il secondo livello di bisogni si ricollega al lavoro comprendendo almeno tre aspetti: • la necessità di sopravvivere; • il mantenere una famiglia che è rimasta lontano nel paese di origine; • lo scioglimento del debito che il migrante contrae quando sceglie di partire. Nella fase di prima accoglienza è quindi determinante il rapporto tra casa e lavoro. La ricerca del lavoro per uno straniero appena arrivato è affannosissima, un vero e proprio incubo determinato dalla condizione di irregolarità che non permette di mostrare delle credenziali. Il rischio è quindi che l’immigrato irregolare finisca con l’accettare lavori precari il più delle volte al di sotto della dignità umana. Vivo in una casa senza luce e acqua e lavoro anche 14-16 ore al giorno! Ma con il passare del tempo il migrante arriva a conoscere il territorio e le strade da percorrere per trovare un luogo ed un lavoro, sia legali che illegali. Scatta così il rischio opposto. Come ci ricorda don Fredo Olivero70, un problema molto sentito dagli operatori dell’accoglienza è che spesso il migrante, quando trova una collocazione in una comunità/alloggio, entra in una situazione di stallo, con il rischio di sedersi, perdendo lo stimolo iniziale della ricerca del lavoro. Lo straniero arriva ad un’accettazione implicita di una cultura assistenziale. Siccome il migrante si ritrova a vivere in un posto dove può non pagare, si siede e cerca lavoro in modo saltuario. Appena arrivato va tre volte alla settimana allo Sportello per cercare lavoro, poi sempre di meno. (Un operatore della prima accoglienza). Un altro aspetto fondamentale nell’inserimento lavorativo è costituito dalle condizioni di salute; senza il benessere fisico (ma anche psicologico) non è possibile investire pienamente nel proprio progetto lavorativo. 70 Relazione - intervista presentata al corso di formazione nella giornata sull'accoglienza. 114 Alla casa, al lavoro e alla salute segue poi il bisogno di socializzazione come momento di verifica dell’inserimento nella realtà di accoglienza. Le scuole di lingua italiana o i corsi di formazione professionale sono veri e propri laboratori di intercultura, luoghi di scambio/incontro/conoscenza con le altre comunità etniche. Soprattutto per i minori stranieri l’inserimento in un contesto di classe è un passo fondamentale verso l’integrazione. La scuola permette inoltre al migrante di iniziare a conoscere il territorio e a muoversi con più facilità al suo interno. Un altro ambito da considerare è sicuramente quello relativo al bisogno di ricongiungimento familiare. Tutti i migranti dichiarano inizialmente l’intenzione di rimanere in Italia solo qualche anno, mentre in realtà i rientri in patria sono solo nell’ordine dell’1%. I casi di ricongiungimento sono aumentati negli ultimi quattro anni: il 10% degli immigrati è costituito da persone ricongiunte. Come ultimi bisogni, ma non per questo meno sentiti, troviamo l’identificazione religiosa, vista come possibilità di esprimere la propria fede e l’associazionismo etnico. Numerosissimi sono i momenti di ritrovo e di festa; ad esempio la comunità rumena (4000 cristiani circa a Torino) si riunisce molto più frequentemente dei praticanti italiani. Dietro la fede si rivela il bisogno di ritrovarsi, di sentirsi uniti e di riconoscersi in un luogo “protetto”. Anche l’associazionismo etnico risponde al bisogno di socializzazione e di scambio di informazioni; spesso è il principale strumento di inserimento e avviamento lavorativo. Molte sono le comunità autoreferenti inserite nella realtà lavorativa piemontese, come ad esempio la comunità cinese nel settore tessile o della ristorazione o la comunità rumena nel settore domestico/assistenziale. In questi casi prevale un sistema di regolarizzazione interna dei nuovi arrivati, senza un confronto con gli attori istituzionali della rete torinese. Di conseguenza il migrante, che si impegna in associazioni italiane, è spesso visto come traditore ed è ostacolato dalla comunità di appartenenza. 115 6.2.1. Frequenza scolastica e ricongiungimenti familiari Riportiamo alcune testimonianze emerse nel gruppo di ascolto durante il corso Formazione Formatori, nella giornata condotta da Ines Damilano, che riguardano i ricongiungimenti familiari. Ci pare che aggiungere anche questo flash possa aiutare a completare l’idea dei percorsi dei migranti, e delle diverse difficoltà che possono impedire la continuità della frequenza dei corsi. Esempio 1 Nell’ambito di un corso di lingua italiana per stranieri: Una ragazzina peruviana di 17 anni che frequentava e sembrava motivata, dopo un mese sparisce. Ha deciso di ritornare in Perù. Quale situazione c’è dietro? La ragazzina è arrivata a Torino per raggiungere la madre e poter così continuare gli studi che nel suo paese avrebbe dovuto interrompere. La madre è qui da otto anni e quindi non ha più potuto coltivare un rapporto diretto con la ragazza da quando la lasciò in Perù all’età di 9 anni. Tuttavia la madre organizza tutto il soggiorno in funzione di questo ricongiungimento: lavora come colf fissa in una famiglia e risparmia per comprarsi un appartamentino. Appena ha una casa, si informa sui corsi, iscrive la figlia anticipatamente al corso di lingua e le organizza il viaggio. Arrivata qui, la figlia passa molte ore da sola in questo appartamentino, comincia le lezioni ma non sa ancora la lingua, si annoia, è delusa, è sola. Dopo un solo mese decide d’impulso di ripartire. La madre non riesce a fermarla, si rende conto di non avere nessuna autorità sulla figlia o abdica per prima alla sua autorità. Qualcosa si è rotto. E crolla anche il suo sogno. Esempio 2 D., madre congolese è in crisi con la figlia di 9 anni. Stanno per metterla in istituto: trova invece appoggio nella famiglia di J., mediatrice culturale e sua connazionale emigrata a Torino, la quale riesce a mediare tra madre e figlia e ad impedire la separazione. Esempio 3 Da una cooperativa di lavoro: B., madre peruviana con 3 figli, è in Italia da 4 anni. Subentra una forte depressione. Fa più di 200 ore di assenza, ed è costretta a lasciare il lavoro. Questa donna viveva una grande nostalgia, ma non osava esprimere il suo bisogno di ritornare in Perù perché temeva il giudizio del marito. In cuor suo pensa che sia stato il marito a spedirla qui. 116 6.2.2. La genitorializzazione dei minori Un altro aspetto di cui tener conto, rispetto alla criticità dei percorsi, è la posizione di un migrante adolescente, la cui capacità di apprendimento della lingua seconda è più rapida rispetto ad un adulto. Il minore diventa spesso il soggetto che riesce a risolvere problemi familiari concreti, come ad esempio la compilazione di moduli/certificati, il pagamento di bollette, il rapporto con i Sevizi socio-assistenziali, scolastici… La generazione giovane rappresenta quindi un interprete esperto, il punto di riferimento della famiglia immigrata; il rischio è quello di un rovesciamento dei ruoli, una sorta di “genitorializzazione dei figli” con conseguenze anche gravi nell’equilibrio familiare. Dal punto di vista dei valori etnici, si può ricordare anche l’esempio 3, descritto nel capitolo precedente71, in cui il ragazzino marocchino, che riesce a coinvolgere, intorno ai suoi scoppi improvvisi di violenza, diverse istanze della rete dei servizi, aveva ricevuto dal padre, costretto a rimpatriare, il compito di fare da capo famiglia rispetto alla madre ed alla sorella. E lui allora non sopportava che la sorella e la madre vestissero all’occidentale. Si era, quindi, fatto carico di un grosso compito, che richiedeva, in un certo senso di rinunciare alla sua identità di adolescente. La gravità della crisi familiare, in seguito a questo snaturamento dei ruoli genitoriali, aveva condotto i servizi a metterlo sotto tutela presso una comunità. 6.2.3. Commento Il contesto della partenza . Quando una donna viene qui, abbandonando marito e figli, di quale progetto è portatrice? Chi ha deciso veramente? Quali “non detti” sono restati sospesi al momento della partenza? Come è stato il saluto? Ciò che è restato in sospeso va a confluire, per chi resta e per chi parte, nei rispettivi cambiamenti dovuti all’età, alle esperienze, all’ambiente e al momento del sognato ricongiungimento e può costituire una barriera che esplode alla prima difficoltà. Il ruolo di un terzo può diventare allora fondamentale. Esso può essere costituito dalla comunità come nell’esempio 2, ma sovente, soprattutto se il ricongiungimento è idealizzato e annunciato come tale anche nella comunità di riferimento, quando la barriera esplode la persona si trova psicologicamente spiazzata, fallita, delusa, sola. Lo spazio dei corsi, la scuola o il contesto di lavoro diventano allora i luoghi della “nuova identità” cui il soggetto può aver bisogno di aggrapparsi per ristabilire un luogo presente e stabile dal quale rileggere il passato, smontare le illusioni, ricostruire una speranza ed una nuova immagine dei propri affetti e ruoli familiari. 71 Si veda il capitolo 5, paragrafo 5.3. 117 I gruppi di ascolto possono fungere da “terzo” che autorizza questo spazio. Ciò può liberare nuove energie per l’apprendimento, può consentire di distinguere tra presente, passato e futuro, può condurre a relativizzare la delusione facendo emergere l’importanza, anche per se stessi, di darsi tempo e ascoltarsi. La ragazza del primo esempio è fuggita dopo un solo mese; è sorprendente che la madre non sia riuscita a comunicarle il senso di una prospettiva temporale più ampia per fare un bilancio. Perché? In fondo, la madre stessa aveva agito in fretta, anticipando tutte le pratiche per i corsi di studio, senza prevedere un tempo per digerire i sospesi, ricostruire un rapporto, comprendere i cambiamenti, prepararsi ad avere di fronte, non più la bambina, ma un’adolescente e ciò probabilmente le ha impedito di costruire una nuova autorità fondata su una nuova base di reciprocità e comprensione72. 6.3. Ricostruzione di percorsi di rete, dal punto di vista dei servizi La ricostruzione dei percorsi di rete, effettuata dal punto di vista degli operatori dei servizi, a partire dal primo contatto, conduce ad introdurre la differenziazione, all’interno dell’utenza migrante, tra i minori, le donne e gli uomini adulti. Vediamo, per ognuna di queste tipologie di utenza qual’è il percorso più probabile: Minori migranti Il minore arriva in Italia, nessuno sa nulla di lui. PRIMO CONTATTO: educatori di strada, oratori, gruppi sportivi e Associazioni di volontariato. Gli operatori di polizia trovano il minore senza genitori. Interviene la Questura per la regolarizzazione e l’inserimento in comunità alloggio. Il minore straniero segnalato dal giudice tutelare ha il permesso di soggiorno fino al 18° anno; oltre a questa data la permanenza è possibile solo se il ragazzo lavora. Viene iscritto in una scuola media e/o nei corsi di alfabetizzazione. Inserimento in corsi di formazione professionale. Uomini adulti Il migrante si rivolge a strutture, come gli sportelli di orientamento, che incanalano alla formazione professionale regionale. Avviene una verifica burocratica dei documenti per poter essere inseriti nei corsi, come iscritto regolare o regolabile. All’interno del Centro professionale avviene l’accoglienza: si spiegano le tipologie dei corsi e i vari livelli di inserimento professionale. Spesso mancano informazioni e dati di ritorni positivi del migrante che ha avuto successo nell’inserimento lavorativo. 72 Si veda anche capitolo 9, pr. 9.2. sulle storie personali e le traiettorie evolutive. 118 Donne migranti Appena arrivate, cercano vitto e alloggio (presso la Caritas o altre Associazioni di volontariato). Molti centri di accoglienza offrono formazione professionale gratuita alle donne nell’ambito infermieristico, della gestione domestica, del perfezionamento linguistico. Tra le donne migranti, che seguono questo percorso, sono soprattutto quelle che vengono dall’Europa dell’Est che trovano facilmente lavoro come colf o nell’assistenza domiciliare. Si presentano numerosi casi di ricongiungimento dei parenti, nel momento in cui la donna ha raggiunto un’occupazione stabile e regolare in Italia. 6.3.1. Il percorso standard del migrante Come abbiamo visto, negli anni più recenti, i contatti di rete sono risorse fondamentali per risolvere i problemi del singolo migrante dal momento dell’arrivo in Italia. L’integrazione reale dello straniero avviene solo attraverso l’inserimento lavorativo, ma per arrivare a questo obiettivo esistono diverse strade. Il grafico, a cui ci riferiamo, (grafico n. 7) prende in esame un potenziale percorso semplificato che ci consente di mettere in sequenza il tipo di istituzioni/servizi con cui solitamente entra in contatto il migrante che si muove verso l’inserimento lavorativo e la stabilità. Come si vede dal grafico il primo momento è rappresentato dal contatto tra il soggetto migrante e un operatore di un qualunque servizio. Può avvenire in diversi modi: per strada, su iniziativa dello stesso straniero o dell’educatore/servizio che lo incontra; può essere una richiesta di aiuto implicita o esplicita, ma ciò che è importante è la capacità di cogliere l’input di richiamo. In questa fase di avvicinamento occorre ricordare che spesso il migrante si trova in una posizione irregolare e il primo soggetto istituzionale che incontra è un vigile che lo ferma e lo porta in Questura. Anche in questo caso il contatto ha un valore positivo perché rappresenta comunque il primo momento in cui il migrante diventa visibile come potenziale assistito dalla Rete territoriale dei servizi. Come abbiamo già visto, a seconda del tipo di approccio, può crearsi o meno la fiducia dello straniero verso gli Enti istituzionali. Per una riuscita positiva del contatto è importante un atteggiamento di apertura rassicurante dei Servizi verso la sofferenza del migrante che si ha di fronte, unita ad un atteggiamento di partecipazione sentita e rispettosa; non serve una semplice risposta di comodo. Nel primo contatto, se viene coinvolto un minore in stato di abbandono nasce immediatamente il problema della tutela e la conseguente necessità di collegarsi alla prima accoglienza (Comunità di assistenza e alloggio, tutori). Altro è il caso dell’adulto non regolare che può prendere strade diverse: seguire 119 il percorso del grafico, prendere altre vie non istituzionali (appoggio presso parenti/amici), oppure indirizzarsi verso l’illegalità come risposta iniziale ad uno stato di disagio per poi reinserirsi, eventualmente, nei percorsi regolari, in una fase successiva. Il contatto rappresenta il primo ambito di possibile confronto costruttivo tra due diverse culture, quella di origine e quella del paese di accoglienza, rappresentata, di volta in volta, dall’operatore del Servizio che, per primo, inserisce il migrante nella rete dei potenziali utenti. Alla base di un percorso professionalizzante si trova l’accoglienza, che risponde ad una situazione di emergenza iniziale attraverso la mediazione dei bisogni del migrante con le richieste istituzionali (Questura, Comune). Di solito questa parola è usata con un significato “emergenziale”, per designare una rete di opportunità essenziali alla immediata assistenza materiale di chi arriva sui nostri suoli (prime necessità: vitto, alloggio, cure mediche immediate); in secondo luogo serve ad indicare la necessità di mettere lo straniero nella condizione di non smarrirsi e di trovare un approdo, più o meno temporaneo, disponibile a farsi carico dei suoi problemi (primo inserimento). Nell’accoglienza i soggetti coinvolti sono gli educatori di strada, gli operatori dei Servizi sociali, le Associazioni di volontariato (Caritas, Sermig…) e le Comunità di assistenza e alloggio. In questa fase di emergenza i Servizi forniscono informazioni per consentire al singolo migrante di muoversi autonomamente nella realtà di arrivo (conoscenza degli Enti territoriali per stranieri). L’obiettivo è quello di orientare il migrante a costruirsi un progetto personale verso l’inserimento lavorativo, sviluppando la sua capacità di relazionarsi senza disperdere la propria identità; entra in gioco il ruolo fondamentale degli sportelli di orientamento. In questa fase avviene la prima verifica (verifica 1) delle capacità e possibilità di presa in carico professionalizzante da parte dei Servizi. Non è importante l’Ente che incontra il migrante (Questura, Associazioni di volontariato, Servizi sociali, educatori di strada, Scuole, Formazione professionale), quello che conta è la condivisione dell’obiettivo finale da parte di tutti i Servizi della Rete: individuazione di percorsi specifici verso una reale opportunità lavorativa. È opportuna una comunicazione integrata nel territorio tra i diversi attori (Istituzioni, Accoglienza, Scuola e Formazione Professionale); il punto di partenza è il riconoscimento del ruolo dell’altro servizio, dei vincoli che ne specificano l’identità e delle concrete possibilità di intervento di ognuno in base al proprio statuto. È necessario ammettere il proprio limite e accettare il confronto con l’altro Ente, senza vederlo come concorrenziale: l’atteggiamento più produttivo per giungere ad una collaborazione si è rivelato quello della reciprocità e della complementarità, viste come riconoscimento e negoziazione del proprio sapere etico-professionale. 120 Il progetto, centrato sulle aspettative del singolo in relazione alle opportunità reali offerte dal territorio, può dirigersi verso tre ambiti: la Scuola, la Formazione Professionale Regionale e le prospettive di lavoro. Il migrante può vivere questi settori uno dopo l’atro (alfabetizzazione, corso professionale, attività lavorativa) o parallelamente (corso di alfabetizzazione al mattino/corso professionale serale o lavoro diurno/corso serale presso la Scuola di lingua per stranieri o il Centro professionale). La scuola (alfabetizzazione e 150 h) costituisce un punto di riferimento centrale per lo straniero, non solo come luogo di apprendimento della lingua seconda ma come ambito di socializzazione, mediazione e incontro con altre culture. Le scuole si preoccupano inoltre della gestione dell’interazione con gli altri attori della rete (Questura, Tribunali, Accoglienza e Formazione professionale), per la risoluzione di problematiche extra-scolastiche tipiche di un’utenza straniera: segnalazioni di tutele al tribunale dei minori, accompagnamento agli uffici comunali, richiesta di interventi specializzati (vaccinazioni, supporti psicologici). La scuola svolge quindi una funzione di orientamento, di accompagnamento e guida sia nel percorso professionale sia nell’inserimento sociale; può indirizzare verso un corso professionale o verso opportunità lavorative regolari, attraverso un attento bilancio di competenze del singolo soggetto. Sullo stesso piano della scuola si trova la Formazione Professionale Regionale che rappresenta un proseguimento della preparazione del migrante verso l’inserimento lavorativo. Gli Enti formativi dovrebbero avere una struttura efficiente e integrata nel territorio; un primo compito è di carattere informativo e orientativo. Ogni Centro raccoglie informazioni dai Servizi territoriali e provvede a erogarle a più utenti possibili; deve collaborare con la rete attraverso un rapporto di negoziazione interistituzionale . Ha il compito di definire i percorsi professionalizzanti in base alle esigenze e alle aspettative del singolo migrante, senza anticipare i suoi bisogni ma attraverso un progetto di autonomia guidata. La formazione prevede diverse tipologie di corso e di stage lavorativi interni al modulo formativo, con la predisposizione di borse lavoro; centrale diventa l’azione di accompagnamento e di verifica dell’inserimento del migrante nell’azienda o nell’ente prescelto durante il periodo di stage (tutor). Come già detto l’obiettivo finale rimane quello dell’inserimento lavorativo, come punto d’arrivo dei percorsi scolastici o professionalizzanti precedenti. È necessaria un’azione di monitoraggio dei dati forniti dalle imprese sulle reali opportunità lavorative dei migranti. È essenziale una verifica conclusiva da parte della Formazione Professionale (Verifica 2) degli obiettivi raggiunti e mancati, in modo tale da consentire una fase di riprogettazione adeguata che risponda ai reali bisogni 121 dell’utenza migrante e delle strutture territoriali (Istituzioni, Servizi, aziende). Il nodo cruciale rimane il lavoro che è la premessa per avere una regolarizzazione e il conseguente accesso ad un percorso professionale più qualificato (corso professionale, borse lavoro). Ad esempio molti stranieri appena arrivati accettano occupazioni di fatica senza professionalità con lo scopo di ottenere il permesso di soggiorno, ma con il tempo tendono a oscillare verso una possibilità di miglioramento occupazionale (ad esempio un marocchino regolarizzato come imbianchino che sceglie però di frequentare un corso serale di tornitore qualificato su macchine utensili). Occorre quindi sottolineare che il percorso di un migrante può essere molto più a zig-zag dello schema; questo significa, ad esempio, che lo straniero che arriva alla formazione professionale il più delle volte non è ancora completamente uscito dalla fase iniziale dell’emergenza (prima accoglienza). È il caso ad esempio di alcuni minori immigrati che non riescono a frequentare con assiduità un corso di alfabetizzazione o un corso professionale perché vivono ritmi “sballati” rispetto al dormire e al mangiare (esigenze primarie). In conclusione, dall’insieme dei percorsi raccontati, si possono individuare tre aree principali che sono implicate nel sostegno al percorso d’inserimento del migrante: la prima e la seconda accoglienza, la scuola e la formazione professionale. Si può osservare anche che, in queste testimonianze, manca una ricostruzione del percorso del migrante a partire dall’azienda che lo ha assunto, perché purtroppo i rapporti con le aziende sono ancora minimi e sporadici, soprattutto nella fase della restituzione dei dati relativi all’inserimento lavorativo riuscito. 122 Grafico n.7 La rete: il percorso standard di un migrante S1 V3 S2 S3 S4 S... Controllo Q. CONTATTO Servizi Socio-assistenziali, Comunità, Circoscrizioni, Cooperative, Servizi comunali, Caritas, Servizi Sanitari: Camminare insieme, Ospedali, A.S.L., Educatori di strada, Mediatori, Volontariato, Cittadini... VERIFICA 1 possibilità/capacità di presa in carico professionalizzante da parte dei Servizi ACCOGLIENZA ORIENTAMENTO PROGETTO SCUOLA INSERIMENTO FORMAZIONE PROFESSIONALE FORMAZIONE PERMANENTE Fase di riprogettazione STAGE Bor.lav. INSERIMENTO LAVORATIVO VERIFICA 2 Raggiungimento degli Obiettivi MONITORAGGIO progettuali 123 6.4. Schede di autodefinizione delle aree d’intervento rivolte ad utenza migrante In questo paragrafo, approfondiremo le caratteristiche di queste tre aree, servendoci delle autodefinizioni che gli attori del territorio, presenti nel corso, hanno dato per ognuna di essa. Prenderemo quindi visione di una scheda per ogni area, prima e seconda accoglienza, scuola, formazione professionale regionale, da essi compilata, secondo una traccia di criteri comuni73. Queste schede non pretendono, ovviamente, di esaurire l’informazione sulle attività in queste tre aree74; tuttavia ci sembra interessante riportarle perché esse testimoniano il rispettivo sforzo di rilettura della propria realtà lavorativa secondo criteri comuni, e possono fornire una panoramica sintetica delle tre aree ad un lettore novizio. Le schede sono precedute dalle definizioni delle tipologie di funzione o di servizio più ricorrenti e indicano, per ogni colonna come queste funzioni si ripartiscono rispetto alla natura degli interventi, agli utenti finali e al rapporto con gli altri servizi territoriali. Segue poi un elenco dei nodi critici ritenuti più importanti nella propria area. 6.4.1. La prima e seconda accoglienza Utenti: minori stranieri; adulti Sedi coinvolte: educatori di strada, operatori dei servizi sociali, Definizione di operatore territoriale dei servizi sociali: operatore dell’accoglienza che si attiva per dare risposte alle esigenze di prima necessità (vitto, alloggio, servizi di igiene personale….). Collabora con l’assistente sociale seguendo i casi dei minori segnalati dai vari servizi. Definizione di educatore di strada: è un educatore che deve capire i bisogni essenziali del minore dando risposte specifiche in base alle esigenze del singolo utente. Deve inoltre conoscere la mappatura dei servizi territoriali per proiettare il minore verso traguardi positivi. Accoglienza: consta di due fasi, emergenza e informazione. La prima fase a sua volta si divide in: informazione e mediazione. La seconda fase si divide in: orientamento, progetto di autonomia guidata. 73 Per il contesto della consegna relativa alla compilazione delle schede, si ricorda la sequenza n.4.2.5. del Dispositivo per la comunicazione integrata nel territorio, presentato nel capitolo 4. 74 Per quanto riguarda la Formazione professionale, ed in particolare l'attività della Casa di Carita Arti e Mestieri, rimandiamo al capitolo 2. 124 TIPOLOGIE DI SERVIZIO INTERVENTI UTENTE FINALE SERVIZI TERRITORIALI COINVOLTI 1a fase: Emergenza Vitto, alloggio Minori, adulti Questura, Comune 1a) Informazione Servizi di igiene Personale; modalità di Regolarizzazione Minori, adulti Associazioni territoriali, Ufficio Stranieri del Comune, Questura 1b) Mediazione Risposte immediate per non perdere il contatto con il migrante, rischiando di delegittimare il servizio e l’operatore. Per i minori la definizione di un progetto di crescita in base ai bisogni essenziali Minori, adulti Operatori, responsabili istituzionali, scuola (alfabetizzazione e 150h), centri professionali 2a) Orientamento Sapersi muovere nei servizi, conoscenza dei percorsi burocratici previsti Minori, adulti Operatori territoriali, Uffici del Comune, tribunale, assistenti sociali, scuola e formazione 2b) Progetto di autonomia guidata: sapere, sapersi relazionare, saper essere senza disperdere la propria identità. È costituito da: • Informazione • Orientamento • Mediazione Corsi di formazione, borse lavoro, sistemi di tutoraggio Minori, adulti C.F.P., Scuole, centri ricreativi, sportivi e di socializzazione 2a fase: Informazione NODI CRITICI 1. 2. Necessità di cambiare la politica di intervento dei servizi territoriali al fine di dare risposte più rispettose del bisogno di coniugare l’immediatezza con la continuità degli interventi rivolti all’utenza migrante. Necessità dell’accompagnamento dell’operatore territoriale per l’inserimento lavorativo, per le attività scolastiche/formative ed extrascolastiche. 125 Come si può osservare dalla scheda, per gli operatori dell’accoglienza è risultato fondamentale adottare un criterio temporale che distingue tra una prima fase in cui viene introdotta una nuova tipologia, l’emergenza, ed una seconda fase, l’informazione, all’interno della quale si trovano accorpati anche l’orientamento e la mediazione che diventerebbero percorribili solo quando è già praticabile un progetto di autonomia guidata. Nella fase di emergenza, infatti, le attività di informazione e di mediazione sono prioritariamente finalizzate a non perdere il contatto con il migrante e a comprendere quindi risorse immediate che riguardano sia i bisogni di prima necessità (vitto, alloggio, igiene e regolarizzazione) sia la ricerca di primi inserimenti che non si possono però ancora fondare su un vero e proprio progetto. Tale priorità viene spiegata anche sulla base della salvaguardia dell’identità professionale: sottovalutando questo ordine di priorità, si rischierebbe di delegittimare il servizio e l’operatore. Nella seconda fase invece il gruppo vede una funzione prevalente di informazione che si articola in una attività di orientamento alla conoscenza delle risorse esistenti e nella costruzione di un progetto di autonomia guidata che mira a sfociare, nei casi riusciti, in un inserimento in un corso di formazione o borsa lavoro o tutoraggio. Si osserva quindi che non tutte le voci del modello sono state ritenute pertinenti, mentre l’aggiunta della voce “emergenza”, nella categoria delle tipologie, sta ad indicare che nel lavoro di prima accoglienza con i migranti questa condizione comporta una sua durata che deve essere prevista e che richiede un approccio professionale suo proprio, fondato sulla costruzione di fiducia, pena la perdita dell’aggancio con il minore ed il probabile rischio della sua uscita dalla legalità75. Viene indicato come nodo critico l’inadeguatezza della politica d’intervento nei servizi territoriali; da un lato c’è una delega che non tiene conto della scarsezza delle risorse umane: un operatore di strada può occuparsi anche di più di trecento minori non accompagnati; dall’altro alcuni servizi pubblici o le convenzioni con le cooperative che seguono i minori possono essere chiusi o sospese all’improvviso, senza tener conto degli effetti disastrosi di tali discontinuità. Alcune cooperative sono state fondate dagli operatori stessi per non abbandonare i ragazzi con cui, a fatica, avevano costruito un rapporto di fiducia. 75 Si veda l’esempio 2, capitolo 5. 126 6.4.2. La scuola Utenti: MINORE STRANIERO; fasce d’età 11-15 anni, 15-18. Corsi: Alfabetizzazione (livello elementare), 150 h. Sedi coinvolte: Polo elementare-media 150 h per stranieri (Parini-Braccini), Cooperazione nella scuola media Manzoni (Associazione Solidea). Definizione delle tipologie di servizi Informazione: insieme di nozioni utili al migrante in relazione a servizi e opportunità che offre il territorio. L’insegnante è un punto di riferimento fondamentale per la distribuzione di informazioni. Mediazione: definita dal gruppo come gestione delle interazioni, in quanto la scuola gestisce, come punto nodale di convergenza le interazioni con strutture differenti e eterogenee. Distinguiamo una interazione interna alla scuola e una esterna. Orientamento: definito come “accompagnamento” e guida nel percorso scolastico e formativo successivo (corsi professionali, diploma ecc.) e nella scelta lavorativa nel caso di un Centro di Formazione Professionale. Formazione: attività tesa a fornire al minore “il sapere”, “il saper fare” e “il saper essere”. Tutore: figura ampliata nel ruolo che si occupa della presa in carico del minore. Inserimento sociale: servizio non previsto ma ritenuto fondamentale dal gruppo per una formazione completa del “saper essere” del minore migrante. 127 TIPOLOGIE DI SERVIZIO INTERVENTI (attività, ruoli, relazioni) UTENTE FINALE SERVIZI TERRITORIALI COINVOLTI Informazione Risposte sul servizio stesso e sui servizi collegati all'accoglienza e all'inserimento Minore Famiglia Referente Scuola Altri insegnanti Referenti Scuola, Servizi di Tutoraggio Gestione della interazione a) interna Colloqui e incontri b) esterna Segnalazioni di tutele al tribunale dei minori; Accompagnamento ad uffici comunali; richiesta di interventi specializzati (vaccinazioni, Centro Franz Fanon) Minore Genitore o parente Tribunale Questura Servizi territoriali Inps, Asl, C.F.P., Comunità Orientamento Bilancio di competenze per il passaggio al livello di scolarizzazione successivo (scuola professionale o diploma); Bilancio di competenze per inserimento lavorativo Minore Scuola Istituti di scuola superiore C.F.P. Aziende Formazione Sapere; Saper fare: alfabetizzazione e abilità pratiche; Saper essere: sviluppo della consapevolezza di sé, crescita psicologica e relazionale Minore Scuola C.F.P. Tutorato Presa in carico di tutti i problemi extra-scolastici dei minori; Accompagnamento e informazione Minore Scuola C.F.P. Asl, Ufficio Minori, Tribunale Minori Isi Inserim. sociale (non previsto) Informazioni utili Minore Associazioni varie Oratorio Volontariato 128 NODI CRITICI • Inserimento sociale: aspetto indispensabile per completare la formazione del minore e garantire una reale integrazione. Questo servizio oggi non è riconosciuto istituzionalmente, ma è sicuramente una necessità sentita dagli insegnanti. • È indispensabile il riconoscimento di una figura specifica per l’alfabetizzazione di minori stranieri all’interno della scuola dell’obbligo. • È necessario il riconoscimento di una figura di Mediatore culturale nei corsi di alfabetizzazione e 150h per stranieri. • Deficit comunicativo sui servizi esistenti che si occupano di migranti sia all’interno del sistema scolastico sia a livello di macrosistema di rete. Scarsa ed insufficiente conoscenza reciproca dei compiti di ogni nodo della rete. Il gruppo SCUOLA, qui rappresentato dalle scuole di alfabetizzazione e dalle 150 h per stranieri, ha ritenuto opportuno sostituire il termine mediazione con “gestione delle interazioni” per segnalare il vuoto attuale di questa specifica figura nella scuola. Sono state compilate tutte le voci del modello indicando una fitta articolazione di interventi e di collegamenti territoriali per ogni voce. Vale la pena sottolineare che, al di là dello specifico compito relativo all’educazione ed all’insegnamento della lingua seconda, il personale di queste scuole ha costruito un nuovo know-how che lo vede impegnato nell’orientamento, attraverso i bilanci di competenze per il passaggio alla scuola professionale o al diploma, nell’inserimento lavorativo, spesso attraverso opere volontarie di monitoraggio e di collegamento e in una funzione di tutoraggio consistente nella presa in carico della maggior parte dei problemi extrascolastici dei minori migranti (segnalazione di tutela al tribunale, vaccinazioni) e nell’accompagnamento agli uffici comunali, o ad altri centri specializzati). Viene indicato come nodo critico la mancanza di un mediatore culturale nei corsi di alfabetizzazione e di 150 ore e di una figura specifica per l’alfabetizzazione di minori stranieri all’interno della scuola dell’obbligo76. Viene inoltre denunciato un deficit comunicativo sui servizi che si occupano di migranti sia all’interno del sistema scolastico, che del macrosistema e viene ritenuta insufficiente la conoscenza reciproca dei compiti dei diversi attori della rete 77. Infine il gruppo inserisce una nuova tipologia, l’inserimento sociale presso oratori e/o altre associazioni culturali e ricreative che, pur non essendo ancora fattuale, potrebbe svolgere un ruolo utilissimo per evitare che la socialità sia sempre abbinata ad una logica assistenziale o limitata alla microcomunità etnica; sperimentare momenti di autentica apertura ai luoghi normalmente frequentati da altri coetanei viene visto come un potenziatore significativo dell’inserimento. 76 Si veda l’esempio 4 all’interno del capitolo 5. 77 Si veda l’esempio 3 all’interno del capitolo 5. 129 6.4.3. La formazione professionale regionale Utenti: minori e adulti stranieri, donne straniere Sedi coinvolte: CFP, aziende, scuole di alfabetizzazione Definizione delle tipologie di servizi: Informazione: attività che prevede la raccolta, il trattamento, l’offerta e la manutenzione di informazioni in rapporto a specifici utenti migranti. Mediazione: attività che prevede l’intervento di facilitazione della comunicazione tra i migranti e le strutture del territorio per: 1) la soluzione di problemi procedurali/legislativi a ridosso della prima accoglienza; 2) per l’invio presso servizi istituzionali territoriali del Comune, della Provincia, della Regione, del Ministero del Lavoro, Del Ministero di Grazia e Giustizia, del Ministero degli Interni. Orientamento: attività finalizzata a favorire la scelta formativo-lavorativa, ovvero: analisi della situazione personale (propensioni, attitudini, vocazione,...), bilancio di competenza, elaborazione di un progetto personale, accompagnamento nel percorso del migrante, secondo le varie Direttive. Formazione: attività tesa a fornire il “Sapere”, il “Saper fare” e il “Saper essere” in termini di competenze spendibili nei contesti organizzativi (di lavoro, stage...). Inserimento lavorativo: attività consistente nella rilevazione organizzativa e professionale, nella progettazione dello stage con l’impresa, finalizzata all’inserimento del migrante. Tutorato: accompagnamento dei migranti in forma di tutoring congiunta (formativo-lavorativa, counselor “tutor interno” e mentor “tutor esterno” dell’azienda, in coordinamento con il tutor interno del centro). 130 TIPOLOGIE DI SERVIZIO INTERVENTI (attività, ruoli, relazioni) UTENTE FINALE SERVIZI TERRITORIALI COINVOLTI Informazione Raccogliere ed erogare Informazioni creando un collegamento tra il singolo e le strutture territoriali, sia attraverso lo sportello, sia durante corsi di formazione. Modalità di attuazione: faccia a faccia, e a distanza: telefonate e volantini Necessaria la presenza del mediatore culturale Minore e strutture territoriali Referenti istituzionali: Comune e Provincia Attori della rete: (vd. Grafico 6, capitolo 2.5.2) Orientamento (interno allo Definizione di percorsi d'inserimento lavorativo in base alle scelte professionali, stando attenti al rischio di anticipare i bisogni dell’utente. Predisporre unità didattiche in lingua d’origine. Ri-orientare dopo il corso professionale e l’esperienza di stage Necessaria la presenza del mediatore culturale almeno saltuariamente Migranti CFP, scuole, aziende, Comune Non è presente nessun referente istituzionale, al momento Formazione Corsi professionali di media (600 ore) e lunga durata (1200ore) ed unità minime di formazione, moduli di 30 ore, interni o propedeutici al percorso formativo realizzati da docenti e staff direttivo che cercano di coinvolgere anche altre istanze. Utile la presenza del mediatore culturale nei corsi Migranti Referente Istituzionale: la Regione come Ente di certificazione dei crediti formativi. Collegamento con la scuola per i requisiti di accesso ai corsi. Inserimento dei rappresentanti della rete cittadina nelle docenze dei corsi . Inserimento lavorativo Predisposizione di tutti i dispositivi per l’inserimento: attività burocratiche, contatti con le aziende, affiancamento per la preparazione dei curricula, monitoraggio Migranti e aziende Non è presente nessun referente istituzionale, ma sono previsti incentivi e sovvenzioni occasionali per favorire l'inserimento lavorativo Tutorato Accompagnamento e orientamento durante il percorso formativo da diversi tipi di tutor, che vanno distinti dal docente frontale. negoziazione interistituzionale condotta dai Tutors per le pratiche burocratiche Migranti CFP Azienda Sportello Strutture territoriali Collegamenti con la rete sia per pratiche a ridosso della prima accoglienza, sia per l'inserimento in azienda sportello e nella formazione professionale) 131 Nodi critici: • • • • • • dovrebbe essere valorizzato il lavoro di rete, per l'attribuzione dei crediti formativi dovrebbero essere migliorate le procedure per la tutela dei minori, con apposite convenzioni sarebbe necessario un dispositivo di accompagnamento, orientamento, formazione che vedesse una collaborazione tra le diverse istanze dell'accoglienza, della scuola, della formazione professionale regionale per evitare che i migranti arrivino ai corsi troppo a ridosso della prima accoglienza, ed al tempo stesso per favorire una maggiore condivisione, tra gli attori della rete, rispetto all'obiettivo dell'inserimento lavorativo sarebbe necessaria una maggiore collaborazione con le aziende e questo sarebbe facilitato se le aziende prevedessero di avere un tutor interno che tenesse i collegamenti con il tutor interno del Centro di .formazione professionale sarebbe necessario, anche per i migranti, poter monitorare l'inserimento lavorativo, dopo i primi sei mesi divergenza di vedute sui criteri di pagamento della diaria ai corsisti. Il gruppo FORMAZIONE ha ulteriormente specificato le voci relative agli interventi, indicando anche chi li fa e dove, secondo quali modalità di attuazione e con quali eventuali referenti istituzionali e se è prevista o meno la presenza del mediatore culturale. È stata inoltre sottolineato il ruolo della negoziazione interistituzionale, come una delle attività più specifiche del tutor. Anche in questo gruppo l’articolazione delle diverse tipologie dimostra che, nel processo formativo, la docenza di aula, pur essenziale per il rapporto faccia a faccia con gli utenti, rappresenta ormai solo una delle funzioni che va rapportata ad un’articolazione plurima di funzioni e di ruoli; ed è la qualità di questa interconnessione, i significati e le opzioni che essa esprime, che concorrono alla maggiore o minore “fedeltà” al percorso formativo intrapreso dal soggetto migrante ed al suo sbocco in un inserimento lavorativo e sociale più o meno appropriato. Dal quadro esposto, emerge, inoltre, che la formazione professionale regionale si trova ad un certo punto del percorso, che spesso, anziché mirare dritto verso l’inserimento lavorativo, presenta dei zig zag e dei ritorni indietro, perché l’utenza può essere ancora troppo a ridosso della prima accoglienza oppure perché, soprattutto per i minori, possono essere studiate strategie in parallelo tra la formazione professionale, svolta al mattino e la frequenza dei corsi di lingua, alla sera. 132 Da parte degli attori della Formazione professionale regionale questa situazione, da un lato viene riconosciuta come un'occasione arricchente per i contatti di rete che diventano indispensabili, dall'altro testimonia, in alcuni casi, il verificarsi di una scarsa determinazione da parte delle strutture di prima e seconda accoglienza a orientare i migranti verso un progetto di inserimento in un corso professionale. Tra i nodi critici78 viene segnalata la sottovalutazione del ruolo della formazione professionale regionale nell’ambito anche nella rete cittadina, dimostrata dal fatto che essa non è stata inserita ufficialmente nelle strutture di coordinamento recentemente costituitesi tra Provveditorato e altri servizi. Si riflette anche sulla carente attenzione da parte degli Enti valutatori (la Regione) alla complessità dei progetti che tengono conto della rete territoriale, tale complessità dovrebbe essere riconosciuta con uno specifico punteggio nella graduatoria. Viene inoltre segnalata nell’ambito delle procedure legali per i minori la necessità di una maggiore collaborazione con gli avvocati, che potrebbe essere conseguita attraverso la stesura di apposite convenzioni. Un altro nodo riguarda il pagamento dei corsiti (borsa lavoro di £ 4.000 all’ora), che viene normalmente liquidato alla fine del corso. Tale modalità è in contraddizione con l’esigenza del corsista di potersi mantenere durante il periodo della frequenza. Infatti molti abbandoni o tensioni nell’ambito del corso sono dovuti proprio alla necessità di trovare comunque una qualunque occupazione lavorativa. I formatori sarebbero quindi concordi a modificare questo vincolo, e propongono che il pagamento liquidato in rate parta già dalla prima fase di frequenza del corso. A livello di chi dà e gestisce finanziamenti il vincolo portato a giustificazione dell’impossibilità di operare un cambiamento è quello di non rischiare un investimento a vuoto e quindi appare ragionevole il criterio di abbinare il pagamento alla verifica di una quota standar d di frequenza (attualmente corrispondente ai 2/3 delle ore complessive), verifica che può essere attuata solo alla fine del corso. 78 Si vedano anche le conclusioni del capitolo 4, in cui si riprendono alcuni di questi nodi critici. 79 Si veda l’esempio n.2 , nel capitolo 5, che tratta l’analisi di questa divergenza, in termini di vincoli autoreferenziali e di circolarità degli effetti tra micro ed esosistema, oltre a proporre una soluzione alternativa. 133 Capitolo 7 Interdipendenza tra le tre aree e nodi critici Silvia Zabaldano, Laura Bonica, Michele Grisoni 7.1. Premessa In questo capitolo vorremmo evidenziare i terreni di collaborazione che potrebbero portare vantaggi a ciascuna di queste tre aree. Analizzando le incertezze, i nodi critici espressi da ciascuna area ed anche le reciproche richieste di maggior riconoscimento del proprio specifico ruolo, abbiamo individuato tre assi principali: 1) Articolare in modo più flessibile la prossimità e la distanza rispetto alle problematiche connesse alla prima e seconda accoglienza. Come abbiamo visto la Formazione Professionale e la Scuola si trovano a ricevere utenti che, spesso, sono ancora a ridosso della prima accoglienza. Le funzioni di accompagnamento e di orientamento, realizzate in modo individualizzato da tutor specializzati, possono svolgere un ruolo di collegamento tra questi tre ambiti verso la promozione di interventi di supporto alla realizzazione del percorso di inserimento individualizzato e specifico per il singolo migrante. Il dispositivo presentato dalla Casa di Carità Arti e Mestieri nel prossimo paragrafo è finalizzato a rendere operativo questo obiettivo. 2) Riflettere in modo coordinato sulla funzione delle figure del tutor e del mediatore culturale. Una rassegna delle molteplici interpretazioni di questo ruolo presso gli Enti che hanno partecipato al percorso di autoformazione, verrà presentata nel paragrafo 7.3. 3) Infine, condividere la consapevolezza della utilità di stabilire criteri di individuazione dei prerequisiti per l’ammissione ai corsi e di armonizzarli prendendo in considerazione anche la dimensione della certificazione. Questo argomento verrà introdotto nel paragrafo 7.4. e sarà ulteriormente approfondito attraverso il contributo di Gioia Maestro sulla CILS, presentato nel prossimo capitolo (cap. 8) 7.2. Ipotesi per un dispositivo di accompagnamento, orientamento e formazione in forma individualizzata Presentiamo un progetto che è concretizzabile attraverso il collegamento tra le diverse istanze della rete. Questo collegamento può essere svolto da tutor 135 esperti, i quali sappiano supportare il migrante nella realizzazione del proprio progetto personale attraverso la promozione di interventi coerenti tra le risorse presenti sul territorio (accoglienza, scuola, formazione, lavoro…) Finalità e obiettivi L’orientamento formativo e lavorativo con relativo bilancio di competenze rappresenta un’azione complessa, perché, se condotto in una logica di “opportunità stabilizzante”, esso dovrebbe valorizzare il “potenziale personale” delle persone interessate. Ricordiamo che per opportunità stabilizzante per migranti si intende la capacità che ha il sistema territoriale di individuare, attraverso un percorso strutturato di orientamento alla formazione e al lavoro, le conoscenze, le abilità acquisite dal migrante nel suo paese d’origine o nella sua storia passata; fare emergere queste competenze significa riconoscere dignità al soggetto, orientandolo, in un percorso formativo e/o lavorativo il più possibile coerente con la propria storia. In altri termini, l’orientamento formativo e lavorativo dovrebbe tendere ad offrire ai migranti un sistema di opportunità informative, orientative e di inserimento lavorativo, in una logica che preveda la presa di coscienza del loro Sapere, Saper fare e Saper Essere e della loro intenzionalità ad intraprendere percorsi formativi e/o lavorativi rispondenti alle loro aspettative e in sintonia con le esigenze del mercato del lavoro; occorre comunque uno sforzo affinché il lavoro sia il più possibile qualificante, cioè concepito come strumento di valorizzazione della traiettoria evolutiva personale e di promozione sociale. Il “dispositivo di accompagnamento e di formazione” (grafico n. 8) da un lato, dovrebbe tendere ad integrare le varie iniziative di riferimento e, dall’altro, dovrebbe considerare l’importanza della individualizzazione dei percorsi, introducendo tutor esperti che possano sistematicamente mettere in atto modalità di accompagnamento ad personam. Utenza Le tipologie di migranti con le quali occorre interagire, per attivare le strategie operative sopra indicate, sono le seguenti: Minori migranti analfabeti della 1a e 2 a lingua Adulti migranti analfabeti della 1a e 2 a lingua Minori migranti analfabeti della 2a lingua Adulti migranti analfabeti della 2a lingua Minori migranti con titoli di studio ma non favoriti dai processi di integrazione e di accoglienza; • Adulti migranti con titoli di studio ma non favoriti dai processi di integrazione e di accoglienza; • • • • • 136 • Minori migranti in condizioni giudiziarie; • Adulti migranti in condizioni giudiziarie • Donne migranti: analfabete, o con titoli di studio, ma giudiziarie. in condizioni Ognuna delle seguenti tipologie necessita di adeguati strumenti, capaci di incidere nei processi di integrazione sociale, economico e lavorativo. Principi metodologici Il dispositivo di accompagnamento dovrebbe possedere queste tre caratteristiche: a. Essere flessibile circa gli ingressi, i tempi ed i modi di effettuazione dei moduli poiché non si definisce sulla base di un cammino standard “di classe” bensì di un supporto individuale di interfaccia, in grado di mediare tra utente ed i servizi in modo da consentire una rispondenza puntuale alle caratteristiche peculiari dello stesso. b. Coinvolgere un insieme di organismi diversi, che vengono messi in “rete” in un lavoro realmente cooperativo che richiede pertanto una “filosofia” di lavoro, un modello organizzativo ed operativo adeguati. c. Prestarsi ad una molteplicità di utilizzi e di finanziamenti e, per questo motivo, dovrebbe rispondere alla logica dell’accompagnamento e formazione piuttosto che unicamente alla filosofia dell’organismo finanziatore. Articolazione in fasi sequenziali. Il dispositivo di accompagnamento e di formazione, cosi delineato, comporta tre fasi differenti, ognuna corrispondente ad un passaggio chiave dell'intervento a favore di migranti posti in situazione di disagio o di emarginazione sociale o lavorativa: 1. Il passaggio relativo alla dimensione soggettiva: esso riguarda il quadro della rappresentazione di sé, del rapporto con la realtà esterna, degli stili di comportamento. Questa fase richiede un tutor specializzato. Si può procedere attraverso una fase di “attivazione personale”, che si concreta attraverso colloqui in profondità o nel far sperimentare al migrante la realtà che lo circonda attraverso una simulazione che faccia emergere i vissuti soggettivi rispetto a: • Disponibilità personale all’inserimento in un nuovo contesto culturale, caratterizzato a sua volta da presenze multiculturali • Disposizione personale all’accompagnamento nel percorso • Disponibilità e capacità di apprendimento 137 Ad esempio la consapevolezza dell’attraversamento di una fase personale di transizione evolutiva, che comporta la capacità di elaborazione delle sofferenze legate all'immigrazione; capacità di entrare in rapporto con gli altri in una prospettiva di mediazione culturale con il territorio e i soggetti presenti in esso, capacità autocritica rispetto ad eventuali difficoltà d’inserimento sociale, e capacità di identificare anche le proprie potenzialità, specie per ciò che riguarda la dimensione vocazionale; capacità di tener conto dei consigli di persone più esperte; disponibilità flessibile a cogliere eventuali opportunità offerte dall'ambiente; riconoscimento dell'importanza del confronto con gli altri per imparare e consapevolezza della possibilità di incidere sul proprio apprendimento attraverso diverse modalità (osservare, chiedere spiegazioni, studiare, provare a sperimentare). 2. Il passaggio relativo alla realizzabilità del progetto personale: questa fase corrisponde alla capacità di delineare un progetto personale di vita nel quale possa concretizzarsi l’idea lavorativa di partenza. Per verificare il realismo del progetto personale si prevedono uno o più colloqui con tutor formativi o con eventuali esperti dei rami professionali interessati, e anche la possibilità di svolgere brevi stage orientativi. Si rende necessaria una verifica delle competenze: con particolare attenzione alle competenze di base che i migranti si portano dal Paese d’origine; ed un bilancio di preferenze, con particolare riferimento alle attitudini proprie del gruppo etnico di riferimento. Questa fase si conclude nel momento in cui la persona ha elaborato un progetto personale che corrisponde alle sue caratteristiche personali, alle necessità reali del mercato del lavoro e alla fattibilità dell'impegno sia come sforzo formativo che come autonomia finanziaria. 3. Il passaggio al possesso di competenze adeguate: corrisponde alla presenza nella persona migrante di tutti i requisiti richiesti dalla figura lavorativo-professionale indicata. Tale verifica può comportare un sostegno individualizzato volto ad integrare eventuali carenze ed a fornire le basi per una qualificazione professionale, prevedendo anche l’uso di strumenti multimediali; Si rende inoltre necessario coinvolgere soggetti differenti in un reale lavoro cooperativo di rete: • La scuola, sia per ciò che concerne il recupero dell’obbligo, sia per la prosecuzione degli studi. In molti casi è possibile riconoscere, attraverso una certificazione da parte delle scuole di lingua per stranieri, la conoscenza della lingua italiana sostitutiva all’obbligo scolastico (specialmente per i soggetti adulti che comunque non hanno la possibilità di frequentare sistematicamente, per un lungo periodo dei corsi di lingua italiana); 138 • La formazione professionale per l’acquisizione di competenze qualificanti. • Lo stage formativo per i moduli di alternanza. • Altre opportunità in base ad esigenze diverse Questa sinergia è importante per concordare eventuali riconoscimenti di crediti formativi che possono essere utilizzati per il conseguimento della qualifica, per il completamento dell’obbligo, per la continuazione degli studi. É da sottolineare l’importanza della collaborazione tra la scuola e la formazione professionale regionale per la condivisione di criteri comuni riguardo alle competenze linguistiche che si ritengono, di volta in volta, indispensabili per la frequenza dei corsi di formazione. Le opportunità offerte sono vagliate da una fase di bilancio in cui il migrante vede acquisite le proprie competenze, consentendo al massimo la valorizzazione dei crediti formativi e la progressione su cammini adeguati alle caratteristiche personali. Ciò significa che gli utenti migranti potranno usufruire in modo diversificato di una gamma di opportunità, offerte sulla base di un progetto che impegna reciprocamente il tutor formativo e gli operatori dei vari organismi coinvolti. Questa fase termina con un “bilancio” che prevede la validazione delle competenze acquisite, e con la consegna di un “portfolio” su cui sono iscritte tali competenze e le modalità di acquisizione. In coda a questa fase, sono previste altre due unità: una di inserimento lavorativo e una di monitoraggio e di “ritorno formativo” durante l’esperienza di lavoro, in una logica di accompagnamento e di continuità. Dall’orientamento alla formazione La metodologia dell’orientamento e dell’analisi di competenze dovrà sfociare in dispositivi di formazione possibilmente organizzati secondo le seguenti metodiche: • alternanza tra scuola e lavoro: si tratta di garantire, in orario scolastico, un tempo per esplicitare le dinamiche incontrate sul lavoro, che consenta di chiarire eventuali problemi connessi alle mansioni e ai ruoli, oltre che alla individuazione di nuove abilità o competenze da acquisire, rinforzare ed attualizzare. Ciò può essere svolto dal tutor pedagogico in collaborazione con il formatore tecnico, prevedendo quindi, sia riunioni in classe con gli allievi, sia riunioni di équipe tra operatori. • cooperazione con organismi diversi, ed in particolare con le scuole e con le imprese, al fine di poter progettare una eventuale sinergia di interventi formativi appropriati, che potranno essere frequentati anche in parallelo. 139 • monitoraggio e sostegno: si tratta di acquisire, anche per i migranti, gli stessi strumenti di verifica che vengono utilizzati per l’ottenimento della qualifica da parte degli allievi italani; ciò è particolarmente importante per quei migranti che sono ancora a ridosso della Prima accoglienza o che sono appena passati dallo status di minori a quello di adulti • valutazione-validazione in itinere ed ex-post dell’intero dispositivo e delle sue azioni in rapporto ai seguenti ambiti : * * * * * * * * Recupero motivazionale in un contesto interculturale e multiculturale; Progetto personale ed accompagnamento; Efficacia formativa nel definire gli obiettivi; Sbocchi occupazionali; Continuità del percorso lavorativo; Vita sociale di integrazione nella diversità; Sinergie tra operatori e capacità di collaborare in team; Capacità di diffusione delle innovazioni didattico/formative. 7.3. Le figure del tutor e del mediatore culturale Il tutor e il mediatore culturale rappresentano due figure chiave per la possibilità di sperimentare percorsi di collaborazione tra le diverse aree che si occupano dei soggetti migranti. Il tutor e il mediatore culturale, nei loro specifici ruoli, di seguito esemplificati, possono svolgere una fondamentale funzione di collegamento tra i diversi soggetti con i quali il migrante interagisce (per esempio i docenti della scuola e della formazione, le strutture di accoglienza e il contesto di inserimento lavorativo). Essi rappresentano così figure che possono agevolare rapporti di collaborazione coerente tra i soggetti della rete nell’interesse del migrante stesso. 7.3.1. Il ruolo del tutor secondo diverse prospettive Il tutor può essere definito come una figura di supporto alla persona che si trova in una condizione di transizione, di spaesamento o di temporanea fragilità; esso ricopre il ruolo di accompagnamento in un percorso, all’interno di un determinato contesto sociale e organizzativo, circoscritto nello spazio e nel tempo e finalizzato alla ridefinizione dell’autonomia e dell’identità della persona in difficoltà. L’etimologia del termine “tutor” riporta a tutus, “sicuro”, con il significato di “faccio sviluppare”, “rendo sicuro”, “guardo”; si comprende automaticamente come il nucleo più autentico della parola, è “rappresentato dalla tensione verso la crescita, l’autonomia, il potenziamento di colui che è stato affidato” (Quaglino, 1999, pag. 225). Il ruolo del tutor è particolarmente importante nella formazione e nella crescita dei minori migranti, cui spesso viene a mancare una figura genitoriale 140 stabile, proprio nella fase adolescenziale, così delicata per la costruzione della propria identità. La figura del tutor è comunque un necessario supporto anche per qualsiasi migrante adulto, perché l’improvvisa mancanza di una rete di riferimento già consolidata (da quella parentale più prossima a quella più estesa) non consente al soggetto di muoversi autonomamente per soddisfare le proprie esigenze: in un certo senso l’immigrato torna a essere bambino e dovrà conoscere nuove regole e misurarsi con la società di accoglienza. Attualmente la figura di tutor esiste “di fatto”, ma non è ancora prevista e regolamentata in modo formale; le funzioni del tutor sono quindi definite in modo vario dai diversi attori della rete e ogni attore della rete tende a costruirsi una sua idea di tutor. Tuttavia, l’opinione comune è che il tutor dovrà puntare all’autonomia del soggetto attraverso un intervento che progressivamnete tenderà a ridursi. Oggi prevale quindi il criterio di una centratura sul partecipante, sottolineando la necessità di attivare progetti formativi articolati e flessibili in cui il soggetto “possa esercitare ampia autonomia nel dirigere il proprio percorso di apprendimento, sino a prevedere vere e proprie occasioni di formazione individualizzata, uno a uno, interamente finalizzate ad esplorare e affrontare i bisogni specifici di crescita e sviluppo di un particolare discente” (Quaglino, 1999, pag.223). Il tutoring consiste nel seguire il soggetto nella sua globalità, facendo sviluppare tutte le sue dimensioni di sapere (Arenzi, 1996, pag.49). L’obiettivo principale della missione del tutor è la creazione di un legame tra il mondo della conoscenza e il mondo dell’esperienza, attraverso diverse azioni: • analisi dei bisogni formativi, delle competenze possedute e delle aspettative di sviluppo del soggetto; • identificazione delle opportunità di apprendimento presenti nel contesto (corso, stage..) e congruenti ai bisogni individuali; • monitoraggio dell’andamento della formazione, senza però mai assumere un atteggiamento giudicante; • garantire il funzionamento di sottogruppi, come momenti di coinvolgimento attivo, di interazione e di clima relazionale; • collaborazione con i formatori nell’attività di verifica dei risultati, in particolare nei follow up di medio e lungo periodo (Quaglino 1999, pag.226). Queste diverse funzioni possono, in alcuni casi essere svolte da un’unica persona e in altri casi essere disgiunte, prevedendo diversi tipi di tutor. Ad esempio Alma Mater distingue da tutor mediatore a tutor formativo; il Cedritt tra tutor interno detto anche co-docente di mediazione (considerato utile soprattutto nei corsi professionale più tecnici) e un tutor esterno, detto anche assistente al placement; la Casa di Carità Arti e Mestieri prevede un tutor formativo-interno e uno aziendale-esterno… 141 ALMA MATER Si ricorda che l’Alma Mater80, associazione interculturale di donne, si occupa di sostenere, attraverso l’incontro e il confronto diretto, donne con problemi collegati ai bisogni di prima e seconda accoglienza (lavoro, casa, assistenza ai figli..); il compito del Centro è quello di decodificare i bisogni di questa specifica, la donna migrante, indirizzandola agli operatori dei servizi territoriali in base alle esigenze e alle attese. Proprio in questa direzione il Centro ha sentito la necessità di chiarire la funzione di un tutor che conoscesse bene la realtà torinese, che capisse i bisogni delle donne e fosse sentito come figura rassicurante, in grado di accompagnare e orientare verso la stabilizzazione (problemi familiari, rapporto con figli/mariti, ricongiungimenti, salute, socializzazione…). Il tutor ha quindi una funzione di mediatore culturale, di filtro tra utenti stranieri e servizi della rete. Esso svolge così un compito orientativo, gestendo l’intero percorso di orientamento alla scelta, curando i passaggi nelle varie fasi dell’intervento, attraverso un atteggiamento promozionale nei confronti del soggetto verso il recupero di motivazioni e dell’autostima. CEDRITT Il Cedritt, Centro di Documentazione e di Ricerca sui Trasferimenti di Tecnologie, vede il tutor come co-docente di mediazione con un ruolo di supporto per il formatore in aula e per il corsista; infatti la didattica interculturale non è automatica soprattutto con utenza con grandi difficoltà linguistiche. Questa figura del co-docente è formalizzata nella provincia di Savona per i corsi di formazione rivolti a extracomunitari; è vista come punto di riferimento necessario per la verifica della buona riuscita del corso a livello di partecipazione - soddisfazione dell’utenza e di maggiore credibilità dell’ente. È inoltre fondamentale la presenza di un altro tutor, detto assistente al placement che affiancherà il migrante alla fine del corso nella ricerca del lavoro certificando le competenze acquisite. Questa funzione si definisce nella figura di addetto alla presa in carico, punto di riferimento per informazioni tempestive e individualizzate, una specie di “sportello personalizzato”. Questa procedura è prevista ma non formalizzata, si muoverà quindi cercando da una parte di seguire le normative e dall’altra di rispondere alle esigenze specifiche del soggetto e alla domanda del territorio. Anche all’interno di un progetto promosso dal Cedritt e dal Forum Antirazzista, realizzato a Genova, il corso di formazione professionale per addetti all’accoglienza con compiti di mediazione culturale era seguito da due tutor: uno interno al Centro dove si svolgevano le lezioni e uno esterno per la gestione dello stage. 80 Si veda anche il testo a cura del Centro interculturale delle donne, Progetto Alma Mater (1998). 142 I due tutor, innanzitutto, erano membri della commissione esaminatrice nella fase di selezione dei corsisti, momento sicuramente importante per cominciare a conoscere le tipologia dell’utenza. I tutor sono occupati dei contenuti del corso, della messa a punto degli orari, confrontandosi con i docenti su contenuti formativi, sul materiale didattico e di consultazione e sulle modalità di verifica. Il tutor esterno si è occupato dell’organizzazione dello stage, mantenendo aggiornato il rapporto con la figura professionale addetta all’affiancamento del corsista all’interno del servizio previsto. Il tutor esterno aveva quindi il compito di controllare gli inserimenti, mantenere i rapporti tra ente, formatore e operatore di servizio. La scelta dei corsisti inseriti nei servizi non è stata del tutto casuale; infatti si teneva conto delle attitudini, delle motivazioni personali e della disponibilità del soggetto unitamente alle esigenze suggerite dagli operatori dei servizi. Entrambi i tutor hanno cercato di prevedere per tutti i corsisti ampi spazi di confronto individuale, come momenti per manifestare il proprio assenso e dissenso riguardo a tutto ciò che accadeva nel corso; hanno privilegiato il rapporto diretto con i migranti più che il pacchetto di nozioni (conoscenze) da impartire, puntando più sul “saper essere” che sul “saper fare”. Il legame che il tutor instaurava con i corsisti era incentrato sulla sincerità, soprattutto nel chiarimento delle opportunità lavorative reali alla fine del corso. CASA DI CARITA’ ARTI E MESTIERI All’interno della definizione di tutorato sono previste due figure, tutor formativo e tutor aziendale. Al tutor formativo sono richieste alcune competenze come la capacità di condurre un gruppo in formazione di organizzazione e di progettazionevalutazione e di gestione della “rete comunitaria e sociale”. Le sue funzioni, definibili nell’ambito dell’accoglienza del migrante, riguardano: • Il contatto e la creazione di relazioni significative di sostegno alla persona. • L’orientamento e la valorizzazione della realtà e delle esperienze del soggetto. • Le indicazioni concernenti il processo di apprendimento acquisito nella fase formativa conclusa con l’attestato di frequenza. • Le informazioni essenziali da comunicare inerenti al tirocinio, al regolamento e agli orari di lavoro, al contributo economico. • La predisposizione di interventi, come le convenzioni e i contratti di tirocinio individualizzati e personalizzati, le formalità amministrative, la visibilità della presa in carico del soggetto migrante. • Pianificazione degli incontri individualizzati con il corsista, prevedendo anche eventuali rientri nell’arco dello stage. 143 Nello stesso tempo il tutor formativo si occupa della gestione del tirocinio in collaborazione con l’impresa: elabora la scheda per ogni allievo, ricerca le imprese disponibili, predisponendo un percorso individualizzato di stage formativo, e verifica in itinere il percorso di tirocinio Come il tutor formativo, anche il tutor aziendale deve avere specifiche qualità di disponibilità, capacità di ascolto e conoscenza approfondita del mestiere. Le sue funzioni comprendono i seguenti ambiti: 1. Accoglienza del migrante nell’impresa: • comunicazione delle informazioni essenziali (depliant dell’impresa, orari di lavoro, regolamento interno) • sistemazione e inserimento del soggetto nel posto di lavoro, consegna di strumenti di lavoro, del vestiario e delle formalità amministrative • chiarimento del rapporto con il personale (funzioni del singolo addetto o reparto, pianificazione degli incontri, impiego del tempo di presenza in impresa) • gli obiettivi del tirocinio ( presentazione del posto di lavoro, le altre persone che presidiano lo stesso posto, ciò che il tirocinante dovrà fare nell’impresa) 2. Trasferimento del saper-fare, soffermandosi sulle difficoltà, sulle priorità relative all’incarico affidato e sulle misure di sicurezza 3. Valutazione finale delle competenze professionali acquisite dal corsista e eventuali bisogni formativi, attraverso schede tecniche di valutazione e auto-valutazione fornite dall’Agenzia formativa (puntualità, spirito di équipe, autonomia, efficacia, lavoro personale…) 4. Dialogo in itinere con il tutor formativo. Dai contributi dei vari Enti emerge chiaramente come il tutor sia una figura essenziale per la riuscita di un percorso formativo. La conoscenza delle realtà locali (dei vari Servizi per migranti), buone capacità di mediazione culturale, l’abilità di individuare un percorso in termini evolutivi, la capacità di orientare senza dirigere la vita altrui risultano caratteristiche comuni alle diverse funzioni del tutor. Tuttavia, per ogni progetto, occorre tener conto di alcune specificità, come il genere di utenza (donne uscite dalla tratta della prostituzione o minori), l’età (Progetto minori, Progetto al femminile), provenienze etniche (mondo arabo, Africa nera, Est Europa...) ed i settori di inserimento aziendali (tecnico aziendale, commerciale, mediazione culturale…). 7.3.2. Organizzazione dello stage Per un Centro Professionale si tratta di un compito molto impegnativo, che comprende diverse fasi di lavoro: la contattazione dei responsabili dei servizi (sociali, sociosanitari, centri di accoglienza) o di imprese private (nel settore metalmeccanico, tessile, alimentare ecc. a seconda dei corsi), la definizione 144 dell’iter burocratico-amministrativo per arrivare alla stipula delle convenzioni, la collaborazione alla definizione dei percorsi formativi, diversificati in base alla tipologia e all’organizzazione sia dei servizi-aziende sia alle aspettative dell’utenza81. I corsisti sono affiancati da diverse figure professionali (tutor aziendali) presenti all’interno di ogni servizio/azienda secondo tempi e modi che sono definiti caso per caso all’inizio del periodo di stage. In questa fase è importante che il tutor formativo (cioè quello interno al Centro Professionale) segua gli inserimenti e mantenga i rapporti tra Ente formatore e operatori dei Servizi o aziende (tutor aziendali). Quale è la specialità di uno stage per un migrante rispetto ad un italiano? Come cambia la modalità di contatto con l’impresa? Lo stage per migranti richiede una particolare attenzione sia nella ricerca dell'azienda sede di stage, sia nel monitoraggio e tutoraggio dello stage stesso. Nella ricerca dell’azienda si cerca di contattare aziende che possano presentare le potenzialità per una eventuale assunzione. Per i migranti, ancora più che per gli italiani, lo stage è un momento in cui farsi conoscere e far vedere quanto realmente si vale al di là dei luoghi comuni. In secondo luogo è necessario individuare aziende dove davvero gli allievi saranno affiancati e seguiti nell'apprendimento. Molto spesso si approfitta della presenza dello stagista migrante per utilizzarlo in mansioni diverse da quelle previste dallo stage: ad esempio è capitato che due ragazze del corso di ristorazione siano state utilizzate esclusivamente per fare le pulizie di primavera dei locali. Diventa molto importante, quindi, ad inserimento avvenuto, monitorare lo stage sia attraverso visite periodiche presso le aziende sede di stage, sia attraverso il rientro settimanale degli allievi presso il Centro formativo, momento fondamentale per analizzare eventuali problemi e situazioni conflittuali emersi e stabilire eventuali interventi concordati. Il rapporto tra stage e corso: lo stage è un bagaglio aggiuntivo e autonomo rispetto al corso, oppure è solo una messa a fuocodi ciò che il corso ha proposto? Esiste un ritorno positivo per il corsista migrante? L’esperienza di stage è parte integrante del corso; l’allievo nel periodo di stage può mettere a confronto le conoscenze acquisite durante le lezioni teoriche con l’esperienza lavorativa diretta trasformando le sue conoscenze in competenze acquisite. Inoltre lo stage permette all'allievo di confrontarsi con il mondo del lavoro, e questo per un allievo migrante vuol dire entrare in contatto con un mondo scandito da orari particolari, ritmi di lavorazione, relazioni sociali che sono spesso diversi rispetto a quelli proposti nel CFP. 81 Alla Casa di Carità si occupa di tutti questi compiti un tutor interno, specifico per i corsi dei migranti. 145 Come avviene la gestione di aspetti conflittuali legati all’inserimento nella sede prevista per lo stage, se non coincide con quello voluto dal corsista? Quando un corsista chiede di cambiare la sede di stage assegnatagli si cerca sempre di comprendere quali siano i motivi reali che lo inducono a fare una richiesta del genere. Molto spesso la vera ragione è la distanza dalla propria abitazione o il lavoro considerato troppo duro e frenetico. In tal caso lo si cerca di convincere a proseguire poiché è necessario che impari ad inserirsi nella realtà lavorativa che offre il territorio; l’obiettivo è anche aiutarli ad integrarsi entrando in contatto con situazioni lavorative reali e non addolcite. Stage individuale/collettivo per migranti: in base a quali criteri si arriva alla scelta? Quali effetti? Se l’allievo viene inserito in aziende piccole (è il caso dei ristoranti per il corso “Servizi di ristorazione di base” e delle sartorie per il corso “Taglio Cucito - Riparazioni”) generalmente lo stage è individuale in quanto le aziende di questo tipo, spesso a gestione familiare, non sono in grado di accogliere e di seguire più di un allievo alla volta. Se l’azienda ha dimensioni maggiori si chiede di accogliere almeno 2 allievi contemporaneamente: questo permette di affiancare gli allievi che hanno maggiori problemi con l’italiano, o che semplicemente incontrano maggiori difficoltà con la nostra cultura, con allievi più disinvolti che possano guidarli. E’ il caso del corso per “Mediatori Interculturali” dove la presenza in coppia permette anche di fornire una varietà di gruppi etnici all’interno della stessa azienda, rendendo più preziosa la loro presenza. Quali difficoltà si incontrano durante lo stage per quanto riguarda gli orari, la puntualità, le assenze nel caso di allievi migranti rispetto agli italiani? Molti migranti hanno una concezione del tempo e degli orari molto diversa dalla nostra, per cui è necessario insistere sul rispetto degli orari e sulla frequenza assidua del corso fin dall'inizio delle lezioni. Nel momento dello stage bisogna insistere maggiormente, facendo comprendere che la serietà del lavoratore si vede anzitutto dal rispetto di queste semplici regole. Solitamente lo stage avviene dopo almeno 5 mesi di corso, e la maggior parte degli allievi a quel punto ha imparato a rispettare gli orari. Ciò che risulta più difficile è abituarli ad avvertire telefonicamente le aziende in caso di assenze o ritardi. In questo caso negli anni scorsi è risultato efficace responsabilizzarli, facendo loro comprendere che l’azienda conta su di loro per proseguire il lavoro, che è importante segnalare tempestivamente l’eventuale assenza in modo che l'azienda possa organizzarsi per tempo. 146 7.3.3. Il ruolo del mediatore culturale all’interno di un centro professionale o nella scuola Il mediatore culturale è ancora un ruolo in una tappa nascente, “debole”, dai difficili confini. Spesso prevale la visione che ritiene l’intervento di mediazione legato solo ad una prima fase emergenziale del processo migratorio, finalizzata ad assicurare allo straniero l’accesso a certi diritti legali e sociali basilari82. Il profilo del mediatore culturale risulta quindi essere finalizzato al miglioramento del rapporto di comunicazione tra istituzioni/servizi e utenti. In questo senso la funzione corrisponde a quella di intermediazione linguistico-culturale-comunicativa tra utente e servizio; l’abilità e la competenza del mediatore sono collegate alla capacità di fungere da filtro dei bisogni sommersi e visibili dei migranti verso l’elaborazione di strategie d’inserimento e stabilizzazione nella realtà di accoglienza. Il mediatore non va inteso solo come interprete della propria cultura: la cultura d’origine è il punto di partenza da cui si opera un confronto con altre culture. Si tratta quindi di mettere in relazione differenti identità, attraverso un sistema di reciprocità e di scambio, che crei le premesse per l’utilizzo e la comprensione di regole di vita e di organizzazioni sociali differenti. I mediatori culturali assumono, in questo senso, un ruolo importantissimo di supporto e consulenza per gli operatori dei servizi o attori istituzionali, dal settore socio-sanitario a quello assistenziale, legale… Durante il corso dagli interventi dei formatori e degli insegnanti delle scuole per stranieri è emersa la necessità di promuovere e estendere all’ambito della scuola la figura del mediatore culturale non ancora prevista e formalizzata (come d’altronde anche in molti altri settori), soprattutto nei casi di corsi che si rivolgono specificamente a utenza migrante. In questo senso si è mossa la Casa di Carità Arti e Mestieri, inserendo da alcuni anni 83 due mediatori culturali con alcuni compiti specifici: • supporto al formatore nella gestione di questioni critiche interne alla classe con interventi appropriati di mediazione nei casi di conflitti interreligiosi o interculturali…84; • sostegno in attività didattiche, soprattutto per i soggetti con maggiori difficoltà linguistiche (previste alcune ore in lingua d’origine nei corsi per minori stranieri); 82 Per quanto riguarda il ruolo del mediatore nell’ambito sanitario si veda il testo curato da Franca Balsamo (1997), che riunisce i contributi di diversi ricercatori torinesi sul tema della maternità delle donne migranti. 83 All’interno della Casa di Carità lavorano due mediatori culturali (due donne, una Zairese e una albanese) dall’anno ’98-’99. Inoltre nello Sportello di orientamento al lavoro (O.L.M.) sono state concordate alcune ore, in cui è prevista la presenza di una mediatrice culturale. 84 Nell’anno scolastico ’98 -’99 nel corso dei Mediatori Culturali era prevista in tutte le ore di docenza la “co-presenza” in aula delle due mediatrici (alternate una al mattino e una al pomeriggio), come supporto al docente sia nella funzione di interpretariato linguistico, sia nell’ambito disciplinare in caso di conflitti interculturali. 147 • collaborazione con il tutor interno nella stipula delle convenzioni di stage e accompagnamento dei corsisti durante il periodo di stage (seguire gli inserimenti e lo svolgimento dell’esperienza, mediando nei casi di incomprensione tra il Servizio/azienda e il migrante); • guida e eventuale accompagnamento ai servizi territoriali per stranieri in base alle specifiche richieste del soggetto (regolarizzazione o altri tipi di documentazione, inserimento abitativo, problemi di ricongiungimenti familiari, supporto psicologico... ); • ascolto e orientamento nell’inserimento professionale o lavorativo del singolo migrante: incoraggiare a pensare a progetti, a spazi operativi possibili, partendo dai bisogni e dalle competenze individuali. 7.4. I criteri di valutazione dei prerequisiti linguistici Ricordiamo che nel corso Formazione Formatori è emersa la necessità di condividere la consapevolezza dell’utilità di stabilire criteri di individuazione dei prerequisiti linguistici per l’ammissione ai corsi e di armonizzarli prendendo in considerazione anche la dimensione della certificazione. Abbiamo già visto che, a questo proposito la Scuola e la Formazione Professionale, spesso, sono riferite a vincoli differenti. Una ridefinizione della percezione dei rispettivi vincoli potrebbe condurre quindi ad una soluzione standard, condivisa a livello locale, che prendesse in considerazione sia le proposte della CILS 85, sia le proposte elaborate dalle scuole. Per un Centro professionale la definizione dei prerequisiti di accesso è una esigenza strettamente connessa alla buona riuscita del percorso formativo; la conseguente selezione iniziale può portare senz’altro un vantaggio a chi entra, ma può essere positiva anche per chi è escluso se, a quest’ultimo, vengono date spiegazioni e proposte delle alternative. Dovrebbe, infatti, costituire un obiettivo prioritario che il percorso sia evolutivo, che il migrante migliori la stima di sé, che provi gusto ad imparare e che possa verificare la possibilità di intraprendere percorsi flessibili, adatti al suo livello attuale, che non precludano avanzamenti successivi. 7.4.1. Prerequisiti linguistici per la formazione di una classe Quali criteri bisogna seguire nella formazione della classe che trova al suo interno soggetti con un diverso livello di conoscenza della lingua seconda? Come è emerso negli incontri con docenti/esperti nell’insegnamento linguistico in corsi per stranieri, nella definizione di prerequisiti il criterio considerato non è stato tanto il livello di alfabetizzazione nella lingua seconda, ma i percorsi di scolarità pregressa nei paesi d’origine. Due studenti della stessa età, della stessa nazionalità, 85 Si veda il capitolo 8 sulla Cils. 148 con un’identica conoscenza della lingua italiana (arrivati dallo stesso tempo in Italia), ma con livelli di scolarità differenti (es. analfabeta totale in lingua madre e diplomato) verranno inseriti in classi totalmente diverse: il materiale proposto, il linguaggio dell’insegnante, la scelta degli argomenti, e soprattutto la prassi didattica si adeguano infatti a stili cognitivi completamente diversi. 7.4.2. Prerequisiti linguistici specifici di accesso ad un corso professionale Nell’ambito dei corsi professionali per migranti la Casa di Carità Arti e Mestieri ha definito alcuni prerequisiti minimi di accesso ai corsi per quanto riguarda l’ambito linguistico: a seconda della tipologia del corso è stato previsto un test d’ingresso, in cui viene anche valutato (oltre all’aspetto psico-attitudinale) il grado di alfabetizzazione nella lingua seconda e stabilito un livello minimo di preparazione necessaria. Ovviamente nel caso di corsi per Mediatori Culturali il livello di conoscenza dell’italiano richiesto sarà medio-alto (3° livello), mentre in altri corsi è sufficiente il secondo livello (es. corsi di ristorazione, taglio e cucito, elementi di officina meccanica). Ciò che emerge e che differenzia le Scuole di italiano per stranieri da un Centro Professionale è proprio questo aspetto: il migrante analfabeta nella seconda lingua può essere inserito in un corso di alfabetizzazione presso un Centro Territoriale Permanente, mentre nel caso di un corso professionale la non conoscenza totale della lingua italiana può provocare una comprensione troppo limitata degli argomenti trattati, soprattutto nell’ambito tecnico/pratico. Un altro nodo dei corsi professionali è che spesso per esigenze progettuali (le tipologie e il numero di migranti che hanno richiesto l’iscrizione al corso) in una stessa classe si trovano diversi gradi di preparazione linguistica (livello basso con livello medio-alto) oppure diversi livelli di scolarizzazione pregressa (es. 3 anni di elementari con diplomati). In questo senso va letta la scelta della Casa di Carità Arti e Mestieri che nel caso di corsi per minori collabora direttamente con le Scuole per Stranieri (Parini-Braccini e altri C.T.P.) per le scelte di inserimento dei futuri allievi: nella maggioranza dei casi è iscritto un minore che ha frequentato o che sta frequentando corsi di alfabetizzazione o di 150h86. Emerge quindi la necessità di condividere un criterio comune tra tutti gli attori della rete: Che cosa significa buona conoscenza della lingua per ogni Ente? È importante stabilire livelli chiari di conoscenza della lingua italiana condivisi da Provveditorato, Scuole per Stranieri, Formazione professionale regionale e Servizi Territoriali. Inoltre dovrebbe risolversi il nodo del riconoscimento e certificazione dei livelli linguistici dei migranti; una risorsa, se valorizzata, potrebbe essere la certificazione di conoscenza della lingua italiana CILS, che individua chiaramente 4 livelli 87. 86 Esiste una griglia di 5 livelli di conoscenza della lingua italiana stabilita dalla scuola di lingua per stranieri (Parini) e accettata dalla Casa di Carità Arti e Mestieri per l’inserimento dei futuri partecipanti al corso, ma non formalizzata in modo chiaro. 87 Come già detto si veda il capitolo 8 sulla Cils. 149 Un altro grande nodo critico è la mancanza, per la maggioranza degli immigrati, di titoli di studio riconosciuti in Italia o la frequenza di situazioni di sotto-scolarizzazione; anche in questo caso è fondamentale che chi si occupa di formazione valorizzi l’importanza di iscriversi a corsi statali di alfabetizzazione o 150 h, finalizzati al conseguimento del titolo di studio italiano della scuola dell’obbligo. Il migrante vedrebbe così accresciuta la sua professionalità “spendibile sul mercato” e le sue abilità linguistiche e scolastiche complessive. 7.5. Conclusioni È importante che tutti gli attori della rete siano a conoscenza delle problematiche relative all’accoglienza, per comprendere meglio il percorso del migrante e la sua situazione di vita attuale, evitando di abituarsi ed abituare il migrante all’idea di essere un potenziale assistito a tempo indeterminato. Infatti, come ha ricordato don Fredo Olivero88, un problema molto sentito dagli operatori dell’accoglienza è che spesso il migrante, inserito stabilmente in una comunità/alloggio e quindi alleggerito del problema del pagamento di un affitto, rischia di trovarsi in una situazione di “immobilità”, perdendo lo stimolo iniziale della ricerca del lavoro. Anche la formazione professionale tende spesso, almeno nella fase iniziale, a non essere inserita nel proprio progetto personale; i migranti al limite accettano i corsi finanziati con le borse lavoro, che permettono un introito orario, anche se minimo 89. Come contrastare quindi il rischio di una cultura assistenzialistica? Bisogna partire con il chiedersi chi sia l’immigrato tipo che arriva in un centro di accoglienza. Quasi nessuno ha un curriculum con esperienze professionali e lavorative significative; pochi hanno una conoscenza adeguata della lingua italiana. In questi casi la rete informale che lega il centro di accoglienza con gli altri soggetti della rete acquista un’importanza significativa nel progetto di inserimento del singolo migrante. Da quanto detto, emerge come la fase dell’accoglienza debba essere una parentesi a “tempo limitato” per evitare il rischio di promuovere, invece, l’aumento di assistiti passivi senza un progetto di autonomia e crescita personale. In questo senso è centrale la funzione della scuola e della formazione professionale regionale, che possono inserirsi nei momenti di assestamento e di crisi, con l’obiettivo di favorire l’entrata nel mondo del lavoro a pari titolo di un italiano. 88 Si veda la relazione - intervista di don Fredo Olivero, responsabile della Caritas, Servizio Migranti di Torino, presentata al corso di formazione nella giornata sull'accoglienza, riportata nel cap.6, par.6.2. 89 Solo le fasce deboli o marginali, come i minori soli, le donne vittime di sfruttamento o donne con figli, vedono nella formazione professionale l’unico mezzo per trovare lavoro. Un esempio è il Progetto al femminile per un gruppo di donne nigeriane, inserite in un corso di 200h di cucina, lavori domestici e assistenza anziani; questo corso è risultato essere uno strumento indispensabile per permettere alla donna straniera di acquisire delle competenze professionali specifiche per inserirsi nel mercato del lavoro. 150 Capitolo 8 CILS - Certificazione di Italiano come Lingua Straniera 90 Gioia Maestro 8.1. Premessa Questi appunti sono stati redatti utilizzando le informazioni contenute nelle linee guida alla CILS, pubblicazione realizzata dall’Università per Stranieri di Siena, nel giugno del 1998. Alcuni dati riportati non sono oggi più gli stessi, dal momento che la riflessione nazionale ed europea intorno ai prodotti certificatori si è da allora ulteriormente sviluppata, anche in ragione della necessità di accelerare il processo di uniformazione degli standard formativi all'interno dell’Unione. Nei nuovi assetti prefigurati, come emerge del resto dal disegno della riforma Berlinguer, si profila la necessità di introdurre al termine di ogni itinerario di apprendimento, non soltanto quelli curricolari, la possibilità di conseguire, previa congrua verifica, un titolo formalmente riconosciuto. La certificazione del traguardo raggiunto è al contempo test che misura la conoscenza e la competenza acquisite e titolo eventualmente spendibile con il suo “alone” di ufficialità, sul mercato del lavoro. C’è poi un’altra valenza, forse meno immediatamente visibile delle altre, ma, a mio avviso, altrettanto fondamentale: il certificato è l’esercizio del diritto al riconoscimento personale e sociale di un pezzo di strada che la persona ha già comunque percorso. L’introduzione dell'accreditamento formativo come prassi longitudinale nella vita dei nuovi cittadini europei, è correlata dunque all’ipotesi di un’esistenza flessibilmente segmentata nella ricorrente alternanza tra tempo trascorso nell’ambito del lavoro e tempo speso a “fare altro”; “altro” che, se intelligentemente impiegato e capitalizzato, è in grado di contribuire alla possibilità di vivere il proprio essere “cives” in maniera più piena e consapevole. Il tempo di “non negotium” infatti, non è necessariamente ed esclusivamente tempo di “otium”, ma anche appunto, occasione per coltivare talenti, saperi, abilità e conoscenze. Molte delle istituzioni che erogano formazione nei più diversi ambiti del sapere e del saper fare, tra cui il Settore Educazione del Comune di Milano per cui io stessa lavoro come docente dei corsi di lingua italiana agli stranieri, hanno recepito le nuove indicazioni. 90 Per ottenere la pubblicazione CILS linee guida e ogni altra informazione a riguardo, è possibile rivolgersi a: Università per Stranieri di Siena- Centro Certificazione CILS -Via Pantaneto, 105 - 53100 Siena tel +39. 0577.240467/ 240462 - fax.+39. 0577.240461 e.mail: [email protected] 151 Una parte degli itinerari di apprendimento promossi nelle strutture civiche deputate alla formazione, viene progressivamente e in parte finalizzata all’ottenimento delle certificazioni. La ricerca di partners produttori di titoli certificatori affidabili (scientificamente costruiti e ben calibrati), è quindi parte integrante dell’attività degli operatori della formazione. La collaborazione con il Centro CILS dell’Università per Stranieri di Siena nasce e si sviluppa in questo contesto. Avviata da circa tre anni, dovrebbe portare entro il 2000 alla formalizzazione di un’intesa più ampia tra le due istituzioni, volta a mettere in relazione chi insegna l’italiano con chi costruisce le prove che misurano la competenza linguistica effettivamente posseduta. L’intento finale ovviamente è quello di migliorare la qualità dell’offerta formativa agli adulti stranieri in modo da facilitare il loro percorso di integrazione. Il presente contributo ha l’obiettivo di informare sulla CILS e in certa misura “promuovere” un prodotto certificatorio che personalmente trovo qualificato. Ho cercato anche di tracciare una sintetica panoramica storica, perché penso che ogni informazione vada contestualizzata e integrata con ragionamenti e richiami a punti di attenzione che scelte di questa portata implicano, sia per chi insegna, sia per chi apprende. 8.2. Contestualizzazione Un po’ di storia e qualche puntualizzazione di prospettiva Quando nel 1908 Luigi Rava ministro della Pubblica Istruzione del governo Giolitti emanava la prima circolare per la diffusione della lingua e della cultura italiana all’estero, era probabilmente consapevole della marginalità di questo aspetto nel quadro delle politiche educative di uno Stato tanto giovane e altrettanto drammaticamente arretrato. Prioritaria doveva apparirgli l’alfabetizzazione delle ingenti masse rurali e/o di recente urbanizzazione, la cui precarietà economica e deprivazione culturale toccavano livelli disastrosi. Nel 1910 anno della presentazione del progetto di riforma elettorale del ministero Luzzatti, che escludeva dal voto chi non sapeva leggere e scrivere, la popolazione analfabeta sopra i sei anni toccava infatti il 37,6% degli italiani. Peraltro, chi si fosse aspettato che la centralità assunta dalle tematiche educative, soprattutto nel secondo dopoguerra, avrebbe dato maggiore impulso alla promozione della lingua e della cultura italiana fuori dai confini nazionali, sarebbe rimasto deluso: dopo quelle indicazioni, la questione sino ad oggi è stata affrontata in pochissime altre circostanze: soltanto otto provvedimenti in totale sino al 1996. Non si può tuttavia imputare ai governi della prima metà del secolo l’incapacità di immaginare un evento di rilevante portata storica, le cui reali dimensioni non sono state colte nemmeno in tempi assai più recenti: 152 il nostro Paese, che a partire dall’unificazione nazionale ha espulso milioni di persone da un mercato interno incapace di assorbire forza lavoro, verso la fine del ventesimo secolo è andato compiutamente trasformandosi da terra di emigrazione in terra di immigrazione. Con gli inizi degli anni ottanta gli effetti della globalizzazione già avvertibili a livello internazionale ed europeo, hanno investito pienamente anche l’Italia. Accanto alla libera circolazione delle informazioni, delle merci e del denaro, i nuovi assetti politici ed economici hanno determinato un forte incremento nella mobilità degli esseri umani, mutando il volto delle nostre città, strade, negozi, mercati e quartieri e, più lentamente, ma non meno profondamente, i nostri comportamenti, i nostri consumi e le nostre abitudini. Siamo abituati a considerare da sempre Roma, Firenze e Venezia meta mondiale di pellegrinaggi religiosi e turistico-culturali ben sapendo che i pellegrini, che affluiscono a milioni ogni anno, generalmente tengono in tasca un biglietto di ritorno. In tempi recenti però, anche Torino, Napoli, Milano, Palermo, Bari, Genova o Bologna si stanno rapidamente trasformando sotto i nostri occhi in polis piene di cosmos, una quantità di persone la cui permanenza non si esaurisce in settimane, ma contempla periodi misurabili in mesi, anni, talvolta decenni. Contestualmente abbiamo quindi visto crescere una nuova domanda di apprendimento della lingua, spinta dalle esigenze di chi nel nostro Paese si è trovato a vivere e/o con l’Italia e gli italiani ha sempre più spesso necessità di interagire per motivi sociali e professionali. Nel panorama europeo, del resto, altri hanno maturato significative esperienze in questo campo, Francia e Gran Bretagna solo per citare gli esempi più eclatanti. Le vicende coloniali di quei Paesi hanno favorito assai prima che da noi la messa a punto di una strumentazione teorica e metodologica per l’insegnamento delle rispettive lingue. La didattica dell’inglese o del francese ai non anglofoni e ai non francofoni conta di fatto su di una prassi ultra cinquantennale. In Italia il fenomeno ha prevalentemente riguardato, sinora, la popolazione adulta, e quindi non ascrivibile alla fascia scolare. È soprattutto per questo che i primi segnali di recepimento normativo sono giunti più che dall’ambito dell’educazione, dalla legislazione in materia di immigrazione, dalla cosiddetta “legge Martelli” del 1986 al recentissimo regolamento applicativo della legge 40/98, “Disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”. Naturalmente, in un futuro talmente prossimo da essere in molte realtà già presente, la questione acquisirà tutt’altra fisionomia e, per l’aspetto che ci interessa da vicino, ciò che oggi è numericamente ancora periferico diventerà centrale. Coloro che si saranno stabilizzati economicamente (trovando un lavoro); giuridicamente (sanando gli aspetti legali relativi ai permessi di soggiorno); territorialmente (radicandosi in un piccolo, medio o grande centro urbano); socialmente (accedendo ai servizi previsti per la popolazione residente), acquisendo insomma i pieni diritti di cittadinanza del Paese di cui contribuiscono a far crescere la ricchezza, completeranno il loro 153 percorso esistenziale ed affettivo chiamando mogli/mariti e figli nella nuova patria di adozione. L’alfabetizzazione in italiano riguarderà a quel punto, in modo massivo, adolescenti e bambini. Sia quella “stretta” sia, a maggior ragione, quella “larga”: il quantum di italianità che ogni non italiano sarà disposto a - e capace diassorbire, facendo spazio dentro di sé al diverso abito linguistico e culturale. La sfida per strutture e agenzie educative deputate all’istruzione e all’accompagnamento educativo, prima fra tutte la scuola pubblica sarà, a quel punto, la capacità di favorire questi “neo insediamenti interiori” di pensieri, logiche e sfumature di sentimenti, che facilitino un'integrazione umana e civile piena e soddisfacente tutelando, al contempo, il patrimonio linguistico e culturale originario dei nuovi studenti. È auspicabile quindi che ai bambini cinesi, maghrebini, peruviani o rumeni, non accada quanto è successo alla generazione di italiani figli del boom economico, della televisione e della scuola media unificata, ma anche ai nostri emigrati all’estero e ai loro discendenti. All’epoca, la messa al bando dei dialetti e l’infinita ricchezza delle varietà linguistiche regionali, già inutilmente stigmatizzata da Pier Paolo Pasolini, oltre ad atrofizzare l’attitudine al bilinguismo potenziale dei parlanti, ha finito col contribuire, nel medio periodo, ad un deprecabile impoverimento dell’italiano. La maggior consapevolezza e attenzione a questi temi che si è sviluppata nel frattempo è certamente in grado di prevenire analoghi errori. 8.3. Una lingua da imparare, una lingua da usare. Scuola e bottega In epoca recente91 i primi testi esaustivi per l’insegnamento dell’italiano agli stranieri (manuali che affrontano le regole grammaticali essenziali, indicano le poche migliaia di parole più frequentemente utilizzate e forniscono un nutrito numero di esempi tratti dalla lingua in uso per il vivere quotidiano), vedono la luce tra i primi anni 70 e la seconda metà degli anni 80. Sono il frutto del lavoro di équipes di glottologi e ricercatori consapevoli di dover colmare un vuoto: quello venutosi a creare per la mancanza di una strumentazione teorica e metodologica adeguata. Tale vuoto appare chiaramente percepibile dagli osservatori privilegiati in cui le équipes operano, vale a dire i poli specializzati in didattica della lingua per chi intende accedere all’istruzione superiore nelle scuole e nelle università italiane, siano esse in Italia o all’estero. Tre le postazioni con le antenne più sensibili a livello nazionale, si distinguono da subito le università per Stranieri di Perugia, Siena e il nucleo 91 Per un approfondimento della prospettiva storica dei temi trattati in questo paragrafo cfr. Vedovelli M, l'insegnamento /l'apprendimento dell'italiano nel mondo, in stampa in "Master in Italiano lingua Straniera", Università per Stranieri di Siena ([email protected]) 154 di docenti della Prima Università di Roma che, durante gli anni della cooperazione con la Somalia, l’Eritrea e l’Etiopia, ha preparato i professori chiamati a fornire l’indispensabile supporto linguistico nelle università e nelle scuole italiane del Corno d’Africa. In particolare a Siena lavora l'équipe che ha strutturato all'interno del curriculum dei docenti di lettere e lingua, una specializzazione formativa, la DITALS Didattica di Italiano come Lingua Straniera, da testare con apposito esame ed eventualmente spendere come credito preferenziale per chi abbia interesse a orientare il proprio profilo professionale in questa direzione. A Siena si sperimentano soluzioni per i problemi didattici che la pratica continua e su ampia scala consente di evidenziare. L’Università per Stranieri è, a tutti gli effetti, un laboratorio di ricerca dal quale emergono indicazioni teoriche e suggerimenti concreti per insegnanti ed educatori. Discipline contigue si contaminano progressivamente mettendo a fuoco inediti items concettuali: La dinamica relazionale studente-docente, che da sempre presiede al rimando sistemico tra Insegnare/Apprendere/Corpus disciplinare, apre la pista, nel caso della glottodidattica, a nuove nozioni. Abilità linguistiche integrate compaiono a fianco di quelle primarie, orali e scritte, storicamente declinate nel repertorio delle quattro abilità Ascoltare/Leggere - Parlare/Scrivere, relative al binomio antinomico Comprensione/Produzione. Si consolida l’idea che non esiste dominio di una lingua a prescindere dalla consapevolezza linguistica, consapevolezza acquisibile solo esercitando la competenza glottomatetica (imparare a imparare una lingua). Dispense e materiali di documentazione si moltiplicano, le bibliografie si arricchiscono, si apre un confronto con quanto viene prodotto in analoghe sedi a livello europeo e internazionale. L’esperienza del Centro CILS, Certificazione di Italiano come Lingua Straniera matura in questo contesto. L’aumentata sensibilità delle istituzioni dell’Europa comunitaria per la salvaguardia e la tutela dei patrimoni linguistici e culturali degli Stati membri, costituisce un valido supporto anche per i ricercatori italiani. Nel 1997 il Consiglio d’Europa si esprime con due documenti di indirizzo “Modern Languages: Learning, Teaching, Assessment. A Common European Framework of Reference” e “Portfolio Européen des Languages”. Nasce l’ELC European Language Council, associazione permanente e indipendente finanziata dalla XXIIa Direzione Generale della UE che “(..) ha come obiettivo l’aumento qualitativo e quantitativo della conoscenza delle lingue e delle culture dell'Unione Europea”. Tra i gruppi di lavoro costituitisi all’interno dell’ELC , il Centro CILS aderisce a quello che si occupa del confronto e della messa in rete dei vari sistemi di valutazione e verifica per l’unificazione dei parametri certificatori. La CILS, Certificazione di Italiano come Lingua Straniera, è un documento rilasciato dall’Università per Stranieri di Siena che, sulla base di un esame 155 specifico, attesta ufficialmente il grado di competenza di italiano posseduto da quegli stranieri che decidano di sottoporsi alle prove linguistiche previste e messe a punto dall’équipe di progettazione e valutazione. Nel luglio del 1998 esce la pubblicazione “CILS, linee guida” a cura dell’équipe coordinata da Massimo Vedovelli, direttore del Centro di certificazione dell’ateneo senese. Il Centro, si legge in apertura della pagina introduttiva “(...) ha sempre fondato i prodotti certificatori su una base di ricerca scientifica avanzata, originale nella propria identità, ma anche pronta al dialogo con le altr e importanti riflessioni italiane e straniere sui problemi della valutazione e certificazione delle competenze in lingua straniera. ” Raccogliendo il frutto del lavoro accumulato nel quinquennio precedente, il documento illustra in modo completo e dettagliato il prodotto certificatorio, i presupposti teorici, l’articolazione nei quattro livelli delle prove d’esame. Offre inoltre le indicazioni necessarie per preparare/prepararsi a sostenere i test. Nella stessa introduzione, in coda alle note informative sulla redazione del testo, gli autori rispondono alla domanda: A chi sono utili le linee guida CILS? nei termini seguenti: • insegnanti : per meglio preparare i propri studenti agli esami CILS • addetti agli Istituti Italiani di Cultura e, in generale, chi orienta i candidati : per indirizzare i candidati ai livelli più adeguati alla loro preparazione e ai loro bisogni di uso della certificazione • candidati con competenza alta in italiano : possono trovare e capire le informazioni per prepararsi agli esami. Dal momento che il testo citato è la migliore e più qualificata fonte per ogni approfondimento sui vari aspetti della materia, riporteremo integralmente l’indice delle linee guida, estratti relativi ai titoli delle prove, ai tempi d’esame e le indicazioni per ottenere la pubblicazione. Le informazioni saranno trascritte nel quarto paragrafo dopo aver premesso alcuni spunti di riflessione dedicati a chi con gli adulti stranieri opera oggi in Italia nelle strutture della formazione. 8.4. Dimostrare/certificare le proprie conoscenze e competenze linguistiche In quali casi è conveniente/necessario/indispensabile certificarle? Le linee guida dunque, secondo l’affermazione dei redattori, sono un utile strumento per docenti, addetti agli Istituti Italiani di Cultura e i candidati stessi, sempre che la loro conoscenza della lingua sia sufficiente per orientarsi in un testo chiaro, ma indubbiamente complesso per la qualità e quantità di input informativi che contiene. Tra pagina 41 e pagina 48 della stessa pubblicazione, si fornisce l’elenco delle sedi in cui è possibile presentarsi per sostenere l’esame. A fronte di oltre un centinaio di recapiti sparsi in tutto il mondo, gli indirizzi 156 in Italia erano, nel luglio 1998, meno di dieci. Questo dato, già in movimento nel quinquennio che precede l’uscita delle linee guida, è sicuramente destinato a modificarsi e le sedi italiane ad aumentare, innanzitutto per facilitare l’accesso logistico agli stranieri che vivono nel nostro Paese. Tralasciando l’ovvia considerazione sulla maggior comodità e l’abbattimento dei costi che una sede d’esame raggiungibile in dieci minuti di tram o metropolitana comporta, rispetto al dover affrontare svariate ore di treno, ciò su cui vorremmo puntare l’attenzione in questo momento è: a chi può servire un documento che certifichi in modo ufficiale conoscenze e competenze linguistiche in italiano? Abbiamo scelto gli aggettivi conveniente, necessario, indispensabile. La progressione intende suggerire un’articolazione che muove da una constatazione e da una convinzione. Due parole in merito alla constatazione: In un corso di italiano per adulti stranieri è possibile trovarsi davanti a casalinghe, assistenti domiciliari, baby sitter, autisti, impiegati di multinazionali, aspiranti cantanti lirici, operai e collaboratori domestici, studenti, operatori turistici, universitari o perfezionandi di lingua che intendono diventare a loro volta docenti di italiano nei paesi da cui provengono. Chi opera in questo settore sa infatti, per esperienza diretta, che una classe di italiano per stranieri è un insieme di volti assai diversi tra loro che nascondono storie, progetti di vita e aspettative tutt’altro che omogenee. È dunque compito del formatore aiutare ogni studente a costruire il proprio percorso di apprendimento, a capire “di quale e di quanto” italiano può aver bisogno, a seconda delle sue necessità, intenzioni o desideri, esercitare in ultima istanza la funzione di orientamento connaturata al mestiere di insegnante per mettere tutti in grado di conoscere e valutare l’offerta formativa disponibile e le opportunità ad essa connesse. La certificazione CILS, in questo senso, contiene indicazioni preziose proprio a partire dalla molteplicità di situazioni d’uso descritte dalle stesse linee guida in cui si legge: “Un certificato CILS può essere utilizzato per motivi di lavoro, di studio, personali o per qualsiasi altro motivo per il quale sia richiesta una dichiarazione ufficiale e garantita di competenza linguistica. Molte aziende italiane che operano all’estero o che vogliono assumere personale straniero, o aziende straniere che hanno rapporti commerciali con l’Italia richiedono il possesso del certificato CILS in base alle funzioni lavorative che i dipendenti dovranno svolgere” Inoltre “...il livello minimo richiesto per iscriversi a una Università italiana è il livello DUE CILS: gli studenti stranieri che possiedono tale livello possono non sostenere la prova di conoscenza della lingua italiana nell’università di arrivo. Lo studente straniero in possesso di un certificato CILS di livello TRE o di livello QUATTRO può ottenere un punteggio supplementare ai fini dell’inserimento nelle graduatorie degli idonei.” 157 Per quanto riguarda la convinzione vorremmo sottolineare quanto segue: Misurare i risultati ottenuti, sottoponendoli a verifica al termine di un itinerario di apprendimento, è importante e costruttivo non tanto e non solo in termini utilitaristici immediati. Coloro che, abitando in Italia vengono esposti ad una sollecitazione linguistica intensa e costante, sono probabilmente in grado di dimostrare il possesso degli strumenti comunicativi necessari per collocarsi nel mercato in una ampia gamma di situazioni lavorative, anche senza una specifica certificazione. In tutte quelle situazioni, per intenderci, che prevedono mansionari a bassa qualificazione in cui l’uso della lingua è per l’appunto limitato e circoscritto a prestazioni linguistiche elementari. Di fatto non esiste alcuna correlazione automatica tra l’acquisizione della certificazione e la spendibilità istantanea del titolo. Così come nessun “titolo” inteso in senso lato, quale riconoscimento e sanzione giuridica esterna, garantisce di per sé il miglioramento della posizione sociale ed economica di chicchessia né tantomeno è in grado di dar conto in maniera esaustiva del complesso universo culturale cognitivo e affettivo che ciascuna persona può esprimere. Tuttavia, organizzare il proprio percorso finalizzandolo ed esplicitandone gli obiettivi, contemplare la possibilità di sottoporre a valutazione l’esito di tale percorso, abituarsi a misurare le tappe per verificare in modo oggettivo l’entità del cammino intrapreso, è di aiuto per l’acquisizione della sicurezza individuale e tale sicurezza è senza dubbio una componente fondamentale nella realizzazione del successo formativo per chiunque. Last but not least per ciò che ci interessa, l’accuratezza e la solidità scientifica con cui i test dei quattro livelli CILS, alimentati dalla continua ricerca per la calibratura, sono costruiti. Consultare i materiali disponibili, confrontarsi con i sillabi proposti e utilizzare le prove che annualmente il Centro dell’ateneo senese pubblica, magari per simulare con la classe una sessione d’esame come gli stessi ricercatori del Centro suggeriscono, consente comunque ai docenti di lingua di mettere a punto unità didattiche aggiornate e rigorose. 8.5. Linee guida per la CILS 8.5.1. Il sasso nello stagno: attrazione di una proposta altamente flessibile La CILS prevede quattro differenti nuclei di prove, relative alle abilità linguistico-comunicative che i ricercatori del Centro definiscono livelli di certificazione. Recentemente è stata avviata la sperimentazione per la messa a punto di un test definito PRE-CILS. “...è una descrizione delle fasi iniziali di apprendimento dell'italiano. E’ 158 utile per incentivare e orientare gli studenti all’inizio del loro apprendimento…” In qualche misura il PRE-CILS, superato il quale si ottiene un attestato e non una certificazione, consente di accedere all’acquisizione delle strutture comunicative che verranno affrontate con il livello UNO che, precisano le linee guida, è il livello di base, ma non elementare, della competenza in italiano come lingua straniera. Tra PRE-CILS e Livello UNO vi è un’intima connessione di carattere progressivo, tale connessione non è però altrettanto automaticamente riscontrabile nelle fasi successive. Il rapporto tra i prodotti certificatori che pure vengono contrassegnati con i livelli da UNO a QUATTRO, non è cioè di natura lineare. Studiando le indicazioni, la bibliografia e gli specifici items che ogni esame di certificazione contiene, rilevando la compiutezza e la relativa autosufficienza di ciascun livello, abbiamo cercato un’immagine che desse conto di questa non linearità. La concezione della competenza comunicativa che l’impianto riflette costituisce, a nostro avviso, uno dei punti di maggior qualificazione della proposta CILS. L’ottica con cui affrontare i quattro livelli non è dunque quella con cui si percorrono i gradini di una scala che conduce dal piano terra all’attico di un edificio, non si tratta, cioè, di andare solamente più lontano o più in alto. La maggior conoscenza di una lingua, ha a che fare piuttosto con ampiezza e profondità perché l’aumento del potenziale comunicativo consente l’incremento del proprio spazio cognitivo e relazionale. Diamo di seguito alcuni esempi per ciascun livello tratti dalle linee guida, che consentono di correlare la competenza linguistica nelle sue articolazioni con profili professionali e situazioni d’uso ipotizzate: Area ausiliaria Autisti Leggere: eventuali istruzioni o note essenziali Scrivere: brevi note e formulari Dialogare (ascoltare; parlare; interagire): inserirsi in brevi essenziali colloqui) CILS UNO Punteggio minimo: 55/100 Commessi Leggere: eventuali istruzioni o note essenziali Scrivere: brevi note e formulari Dialogare (ascoltare; parlare; interagire): inserirsi in brevi ed essenziali colloqui. CILS UNO Punteggio minimo: 55/100 159 Personale ausiliario da assumere in loco per speciali esigenze Leggere: eventuali istruzioni o note essenziali. Scrivere: brevi note e rapporti Dialogare (ascoltare; parlare; interagire): inserirsi in facili colloqui con il pubblico, sia interno agli uffici che esterno, fornire aiuto agli studenti. CILS UNO Punteggio minimo: 75/100 Funzioni di assistenza Personale medico assunto “in loco” nelle scuole italiane Leggere: eventuale documentazione, o essenziali disposizioni Scrivere: certificati, ricette, referti, cartelle. Dialogare (ascoltare; parlare; interagire): sostenere colloqui con essenziali competenze linguistiche, ma lessicalmente più sicure in alcuni settori specifici. CILS DUE Punteggio minimo: 55/100 Assistenti sociali Leggere: documentazione essenziale Scrivere: per comunicare con enti, soggetti giuridici, amministrazioni varie. Dialogare (ascoltare; parlare; interagire): in modo non complesso, ma preciso in alcuni settori, con soggetti che possono parlare un italiano incerto. CILS DUE Punteggio minimo: 55/100 Amministrativo contabili Leggere: disposizioni varie, in particolare norme contabili. Scrivere: richieste di spesa a soggetti privati e pubblici, predisporre gli impegni, redigere i bilanci preventivi e consuntivi, e brevi note Dialogare (ascoltare; parlare; interagire): con il pubblico, sia degli uffici sia esterno, a livello medio e medio-alto, coordinando anche altro personale. CILS TRE Punteggio minimo: 55/100 Operatori scolastici Corsi di formazione per mediatore linguistico in classi di scuola di base con figli di immigrati stranieri in Italia Leggere: testi di vario tipo. Scrivere: elaborati, relazioni. Dialogare (ascoltare; parlare; interagire): comprensione delle lezioni, partecipazione attiva a lavori seminariali; interazione negli esami; efficacia comunicativa nel tirocinio. CILS DUE Punteggio minimo: 75/100 160 Mediatore linguistico in classi di scuola di base con figli di immigrati stranieri in Italia Leggere: testi di vario tipo Scrivere: elaborati, relazioni. Dialogare (ascoltare; parlare; interagire): interazione con docenti italiani; partecipazione attiva ai collegi dei docenti. CILS TRE Punteggio minimo: 55/100 Docenti di lingua straniera presso scuole con programmi di bilinguismo Docenti di lingua straniera presso scuole italiane legalmente riconosciute (in situazioni di bilinguismo) Docenti di materie obbligatorie secondo la legislazione locale non previste nell’ordinamento scolastico italiano Docenti di discipline tecniche, artistiche, musicali presso scuole con programmi di bilinguismo Docenti di discipline scientifiche e tecniche presso le scuole italiane legalmente riconosciute Leggere: manuali, programmi, norme essenziali, progetti. Scrivere: lettere, note e simili, indirizzate anche alla direzione della scuola Dialogare (ascoltare; parlare; interagire): con la direzione della scuola, con i genitori degli studenti, con altri docenti negli organi collegiali (sono particolarmente importanti le operazioni di scrutinio e di valutazione collegiale) N.B.: Insegnamento impartito in lingua straniera CILS TRE Punteggio minimo: 55/100 Docenti di lingua straniera presso scuole con programmi di bilinguismo Docenti di lingua straniera presso scuole italiane legalmente riconosciute (in situazioni di bilinguismo) Docenti di materie obbligatorie secondo la legislazione locale non previste nell’ordinamento scolastico italiano Docenti di discipline tecniche, artistiche, musicali presso scuole con programmi di bilinguismo Docenti di discipline scientifiche e tecniche presso le scuole italiane legalmente riconosciute N.B.: Insegnamento impartito in lingua italiana Leggere: manuali, programmi, norme essenziali, progetti. Scrivere: lettere, note e simili, indirizzate anche alla direzione della scuola. Dialogare (ascoltare; parlare; interagire): con la direzione della scuola, con i genitori degli studenti, con altri organi collegiali (sono particolarmente importanti le operazioni di scrutinio e di valutazione collegiale). CILS QUATTRO Punteggio minimo: 75/100 161 Area ausiliare, funzioni di assistenza, area funzionale, operatori scolastici e docenti. Ma anche profili dirigenziali di vari settori e possibili collocazioni all'interno dell’Università. Il lavoro di ricerca del Centro CILS , ha già messo a fuoco altri repertori da cui gli esempi citati sono stati tratti. 8.5.2. Coordinate informative per il conseguimento di un titolo caratterizzato da procedure e meccanismi operativi semplificati L’indice delle linee guida contiene quindici punti, così articolati: La CILS - Certificazione di Italiano come Lingua Straniera A chi serve la CILS? A cosa serve la CILS? La CILS e i parametri europei di certificazione I testi nelle prove CILS CILS: i livelli di certificazione Pre-CILS Il Livello UNO Il Livello DUE Il Livello TRE Il Livello QUATTRO 7. Valutazione 8. Raccomandazioni per la preparazione dei candidati 9. Informazioni generali sulle prove 10. Sedi di esame 11. Date di esame 12. Informazioni e iscrizioni agli esami 13. Pagamento delle tasse di esame 14. I materiali per prepararsi agli esami 15. Elenco degli Istituti Italiani di Cultura e le altre sedi di esame CILS Livello UNO - durata totale delle prove 3 ore e 30 minuti Livello DUE - durata totale delle prove 3 ore e 30 minuti Livello TRE - durata totale delle prove 4 ore e 30 minuti Livello QUATTRO - durata totale delle prove 5 ore e 20 minuti 1. 2. 3. 4. 5. 6. circa circa circa circa Per ciascun livello vengono fornite informazioni dettagliate relative alle prove secondo i seguenti descrittori: • Morfosintassi/Pragmatica e usi della lingua/Lessico • Ascolto • Comprensione della lettura • Analisi delle strutture di comunicazione • Produzione scritta • Produzione orale. 162 Per ogni punto elencato si dà conto dei tipi di testo e relativa lunghezza, tipi di prove, loro svolgimento e durata. In conclusione Forse un’immagine che può rendere in maniera adeguata, la nozione di competenza comunicativa, sulla base della quale le prove dei certificati CILS sono costruiti, è quella del sasso gettato in uno stagno. Sviluppando l’analogia, dal punto di vista di chi intenda sostenere le prove di uno qualsiasi dei quattro livelli, si può immaginare che il numero e l’ampiezza raggiunta dai cerchi disegnati sull’acqua siano correlati alla grandezza del sasso (= volume e selezione qualitativa mirata di ciò che occorre sapere per muoversi nell’ambito comunicativo indicato) e all’intensità della forza impressa nel lancio (= reale motivazione all’apprendere in relazione a come si potrà effettivamente utilizzare ciò che si è appreso). 163 Parte quarta MIGRANTI E FORMAZIONE 165 Capitolo 9 Reciprocità e formazione Laura Bonica e Simona Negri 9.1. Qualche chiarimento ancora sul concetto di reciprocità In che modo i diversi attori della formazione possono creare un clima che consenta ad ognuno dei partecipanti di autodefinirsi e di sentirsi riconosciuti, rispetto ai propri vincoli esistenziali, culturali, familiari, religiosi? Come già detto, una prospettiva di reciprocità comporta un’implicazione etica, una scelta verso il riconoscimento ed il gioco delle differenze. La strategia prevalente in una logica di reciprocità, è una strategia contrattualistica; ci si muove con la fiducia che sia possibile arrivare ad un patto condiviso. Il concetto di reciprocità, nei rapporti d’insegnamento-apprendimento può evocare diversi equivoci, in quanto, nella nostra cultura, soprattutto negli anni ’70, questo termine è stato talvolta usato, in senso critico o a difesa, come sinonimo di uguaglianza o di reversibilità dei ruoli tra insegnanti e studenti. Nella interpretazione qui proposta reciprocità non significa abolizione dell’asimmetria della relazione formatore-discente, né, come abbiamo già sottolineato nel corso del testo, abolizione delle differenze. Tuttavia è ancora frequente imbattersi in ragionamenti del tipo: poiché l’uguaglianza è impossibile per l’asimmetria che caratterizza il rapporto insegnante-studente, allora non può esservi reciprocità. La differenza di ruolo tra insegnante e studente e, più in generale, la capacità di riconoscere che anche un pari possa essere più esperto di noi in un determinato campo ci sembra, invece, essenziale; infatti una confusione in questa direzione può condurre a perdere l’oggetto stesso dell’incontro che è comunque il sapere. Se però la distribuzione del potere di autodefinirsi è anche essa totalmente ricondotta all’asimmetria sul sapere, ecco che può diventare mortificante per il discente chiedere, imparare dall’altr o e può diventare estremamente destabilizzante per l’insegnante accettare, qualche volta, di dire non so, non ho capito, ad uno studente (Bonica, 1990a). La reciprocità, in ambito formativo, dovrebbe comportare, da parte del formatore, un messaggio a due livelli, uno sulle condizioni dell’apprendimento, in cui viene riconosciuto al discente il potere autoasserente di saper segnalare quali sarebbero le condizioni di apprendimento per lui ottimali, collegate alla sua traiettoria evolutiva, e l’altro, sui contenuti, in cui viene assunta e comunicata la responsabilità di una maggiore competenza, insieme alla disponibilità a tradurla in strategie didatticamente efficaci. In una prospettiva di 167 reciprocità anche nel processo d’insegnamento-apprendimento, come nei rapporti tra gli attori della rete, si dovrebbe verificare una sorta di sintonia, di coevoluzione: ad esempio, mentre l’insegnante aiuta gli studenti ad imparare, gli studenti aiutano l’insegnante ad insegnare meglio; entrambi imparano qualcosa l’uno dall’altro pur senza rinunciare ognuno alla specificità del proprio ruolo (Bonica, op.cit.). Anche la reciprocità, implicita, nella pratica di reversibilità dei ruoli indica un concetto diverso da questa tendenza alla co-evoluzione. La reversibilità dei ruoli era già presente, proprio nell’ambito della formazione professionale, nelle prime sperimentazioni inglesi di mutuo insegnamento: ognuno insegnava all’altro quel che sapeva e si verificava un’alternanza tra il ruolo dell’insegnamento e quello dell’apprendimento; benché questa alternanza consenta a ciascuno dei partecipanti di accedere ad una maggiore consapevolezza e distinzione tra i due poli del processo formativo, il modello comunicativo messo in atto può restare nell’ambiguità, per quanto riguarda la distinzione tra potere connesso al sapere e potere connesso alla capacità di autodefinizione, potendo facilmente essere inteso come alternanza di una relazione fondata sull’unilateralità: “quando insegno comando io, quando imparo comandi tu” . La reciprocità nel processo d’insegnamento – apprendimento dovrebbe prevedere, invece, una sincronia di ruoli diversificati che comprende, al tempo stesso l’asimmetria, sul piano dei contenuti e la reciprocità, cioè una simmetria, sul piano dell’autodefinizione personale e rispetto alle condizioni del setting formativo. La scelta etica, ancora una volta, consiste nell’atteggiamento assunto verso l’escludere o l’accettare le differenze. Labelle (1996) propone uno schema del modello pedagogico di reciprocità da lei elaborato a partire dalla pratica di insegnamento agli adulti. Il modello prevede 4 fondamentali atteggiamenti etici nei confronti delle differenze e le loro potenziali evoluzioni nella gestione della relazione formativa: 1) escludere le differenze: l’insegnante adotta una logica impositiva attraverso delle strategie di assoggettamento, che nel caso dei migranti, potrebbero essere definite di obbligo all’omologazione: protagonista principale è l’insegnante che impone i compiti, l’allievo o si sottomette o si ribella. Il modello tende ad evolvere verso un’escalation della violenza; 2) abolire le differenze: l’insegnante adotta una logica libertaria attraverso delle strategie ugualitarie: protagonisti sono gli allievi che impongono tirannia o indifferenza verso un insegnante che tende a ridurre i vincoli e a proporsi come simmetrico e vicino. Il modello scivola verso la manipolazione o l’anarchia e rischia di fallire l’obiettivo dell’apprendimento; 3) attenuare le differenze: l’insegnante adotta una logica di affrancamento attraverso strategie di tipo liberale: il formatore mostra una flessibilità ambigua, lo studente mostra compiacenza o rifiuto; il modello scivola verso la seduzione demagogica, e si rinnova il rischio di fallire l’obiettivo dell’apprendimento; 168 4) riconoscere le differenze: l’insegnante adotta una logica di promozione dell’autonomia attraverso strategie contrattuali ed il protagonismo riguarda il partenariato insegnante/studente caratterizzato da influenza reciproca, come se un polo non potesse definirsi in mancanza dell’altro, senza però perdere niente della propria identità. Senza confondersi. Aspetto essenziale: l’insegnante prevede un tempo per discutere i problemi che sorgono, e tiene conto dei segnali di insoddisfazione che possono essere segnalati dagli studenti. Viene data importanza alla motivazione a conoscere e l’insegnante riesce a creare un clima disteso sul piano interpersonale ed esigente e rigoroso rispetto all’apprendimento ed allo studio. Secondo Labelle mentre i primi due atteggiamenti, pur sembrando opposti nella scelta etica di fondo, tendono comunque a scivolare verso un modello di vassallità , il terzo viene, invece, definito di emancipazione ed infine, il quarto, è quello che risponderebbe ai criteri della reciprocità. Benché condividiamo che il modello della reciprocità possa essere visto come alternativo a quelli della vassallità e dell’emancipazione, ci sembra importante aggiungere qualche considerazione: • nella pratica pedagogica può verificarsi, talvolta, un’oscillazione tra questi diversi atteggiamenti, ma riteniamo che una scelta consapevole verso il modello della reciprocità, basandosi su una logica contrattualistica e di riconoscimento dell’autodefinizione, può più facilmente consentire un processo condiviso di correzione in itinere. • in una classe multietnica, come vedremo nei prossimi paragrafi, ognuno di questi diversi modelli può, comunque convivere, nell’esperienza pregressa di alcuni dei partecipanti e può costituire il luogo di osservazione da cui essi giudicano il modello adottato dall’insegnante. La scelta verso la reciprocità, come l’abbiamo definita fin qui, ci sembra quella più congruente con la necessità di riconoscere l’unicità di ogni storia personale e quindi quella più consona ad autorizzare l’eventuale esplicitazione dei vincoli connessi alle rispettive traiettorie evolutive. • il prevedere di dedicare un tempo alla chiarificazione e comprensione dei feedback forniti dai partecipanti, oltre a favorire quel mutuo processo di crescita della professionalità degli insegnanti e della capacità di imparare da parte degli allievi può, in questa fase iniziale della formazione con migranti, costituire un materiale di ricerca indispensabile per progredire nella consapevolezza teorica e pratica della formazione con l’utenza migrante. Ed ora, come già anticipato, introduciamo alcuni temi che, oltre a riprendere alcuni dei nodi già accennati, possono aiutarci a riconoscere la vulnerabilità rispetto all’autodefinizione nei processi formativi. 169 9.2. Storie personali e traiettoria evolutiva92 9.2.1. Vincoli spaziali, temporali e sociali Riprendendo la definizione di Bronfenbrenner (1979), per traiettoria evolutiva si intende il modo proprio a ciascun individuo di impegnarsi (nell’ambito della famiglia e di altri eventuali contesti significativi e duraturi) nelle attività, nei ruoli e nelle relazioni, acquisendo così degli schemi motivazionali e di azione, che tenderanno ad essere mantenuti ed a costituire un riferimento d’identità per l’individuo. L’esperienza di “trovare se stesso” e di “sentirsi se stesso” non si esaurisce durante la prima infanzia ed esclusivamente nel rapporto con i genitori, ma ogni fase del ciclo vitale presenta momenti critici che possono confermare, ridefinire o addirittura destabilizzare il sentimento di identità. L’identità non è da vedersi come una qualità del soggetto, quanto come uno schema di relazione tra soggetti (Merenda, 1993). Questo sentimento d’identità può essere visto anche come il risultato di un processo d’interazione continua tra tre vincoli di integrazione: spaziale, temporale e sociale (Grinberg e Grinberg, 1986, trad. it.1990, pag.134), che possono essere colpiti in maniera diversa in seguito alla esperienza migratoria. L’esperienza dello sradicamento, la sensazione dello spaesamento, della perdita del proprio spazio geografico implicano un’alterazione del vincolo d’integrazione spaziale. Per venire in contro a questo vincolo la direzione della Casa di Carità Arti e Mestieri ha fatto inserire in tutte le aule una carta geografica del mondo che viene utilizzata spontaneamente dai migranti e/o su invito dei docenti per favorire lo scambio sui rispettivi riferimenti geografici. Questa scelta può essere vista, simbolicamente, come una prova di solidarietà e di volontà di fornire un collegamento di sostegno. Il vincolo d’integrazione temporale permette la continuità tra le diverse rappresentazioni di Sé nel tempo, creando la base del sentimento di “essere se stessi”. L’individuo ha bisogno di riconoscere una continuità con il passato. Può capitare che il migrante confonda il passato con il presente, per esempio attraverso lapsus in cui i luoghi o le persone del presente vengono chiamati con nomi di luoghi o persone appartenenti al passato. La ricerca di Massa e collaboratori (1994), che ha indagato sul vissuto dei corsisti migranti in tre diversi corsi professionali nella regione Lombardia, cita un’interessante testimonianza a questo proposito: Una giovane sociologia nigeriana, dovendo disegnare qualcosa che aveva imparato bene nel corso professionale attualmente frequentato, ha rappresentato l’aula con una disposizione spaziale non corrispondente alla realtà del corso stesso, bensì identica a quella sperimentata nella sua prima esperienza scolastica nella propria terra d’origine: più file di banchi appaiati a due a due gli uni dietro agli altri e una cattedra di fronte, mentre la disposizione attuale dei tavoli era circolare. 92 Si vedano anche gli esempi riportati nel cap.6 pr.6.1 e 6.2. 170 Come commenta Riva, l’episodio mostra l’incrocio, la sovrapposizione tra modelli interiorizzati anticamente di che cosa è la scuola e l’andare a scuola e l’esperienza presente, pur concretamente vissuta nella sua diversità già da tre mesi (Riva M.G., in Massa e al., 1994, pag. 64). Può succedere anche che determinati effetti evolutivi della situazione di provenienza, che non si erano ancora manifestati, detti effetti che dormono (Bronfenbrenner,1979), possano essere risvegliati dalla nuova situazione e rivelare quindi, all’individuo, nuovi aspetti del SE’ più intimo, che emergono dall’incontro tra il suo passato e questo presente. Il vincolo di integrazione sociale rende possibile il sentimento di appartenenza ed è quello che viene colpito in modo più manifesto durante un’emigrazione: tutto nel nuovo ambiente è sconosciuto, come sconosciuto è per questo ambiente l’immigrato. Il migrante, sentendo di non appartenere più a nessuno, può finire col sentirsi esso stesso “nessuno”93. Esemplificative a questo riguardo le espressioni usate da un giovane migrante per descrivere i suoi vissuti di estraneità ad un anno dalla sua partenza: Nel mio paese sono un signore, qui non sono nessuno… Ho perso me stesso… Qui la domenica la passo, come si dice da noi, come un “orfano in un giorno di festa”: aspetto la notte per dormire (Daniele, in Carlini, 1991, pag. 146) 9.2.2. Ambivalenze Questi tre vincoli (spazio, tempo, appartenenza sociale) agiscono in modo interdipendente nel tener insieme l’identità, per cui la ridefinizione di uno solo di essi comporta necessariamente una ristrutturazione anche negli altri due. Si comprende quindi come l’individuo che si inserisce in un ambiente nuovo si trovi ad oscillare tra il desiderio di distinguersi dagli altri, per continuare a sentirsi se stesso, e il desiderio di confondersi con gli altri per non venire emarginato. Questa ambivalenza, che può assumere anche dolorosi vissuti conflittuali, può manifestarsi attraverso comportamenti che ad un osservatore esterno possono apparire contraddittori, illogici; spesso, invece, essi possono rispondere al faticoso tentativo di conciliare il cambiamento con il mantenimento della propria autoorganizzazione, della propria coesione interna (Merenda, 1993). Da una testimonianza di un assistente sociale francese: Ho ricevuto recentemente un’amica israeliana. È un’intellettuale e sul piano r e l i g i o s o non è molto praticante. Ho cercato di rispettare le sue abitudini e ho preparato un pasto senza maiale. Ho scelto un ottimo formaggio perché sapevo che lei l’amava moltissimo ed ho p reparato un cosciotto d’agnello. Quando le ho presentato il formaggio lei lo ha rifiutato ed io sono restata stupefatta. Perché? “Normalmente io non avrei dovuto mangiare la coscia d’agnello, non dovrei mangiare la parte posteriore degli animali. Ho fatto uno sforzo per farti p i a c e re. E quindi mi trattengo sul formaggio.” Come mai se non era di osservanza stretta? Lei ha risposto che per tutelare la sua identità rispettava certi principi in modo molto rigoroso e che questo era un modo di auto-conservazione. (Emerique Cohen M., 1985 pag.290) 93 Per un approfondimento del concetto di appartenenza, in relazione alla rete , si veda Di Nicola P. (1998). 171 La fedeltà ai modelli di vita originari appare direttamente proporzionale all’atteggiamento maturato verso la società di accoglienza. Talvolta il rinsaldarsi di un forte sentimento religioso musulmano può essere una reazione all’ostilità, alla superficialità e al materialismo della popolazione italiana. Con l’affermazione Qui in Italia ho cominciato ad essere un buon musulmano , un maghrebino potrebbe voler dire che tende ad avvicinarsi di più alla sua religione perché non condivide la superficialità che vede intorno a sé. La religione diventa un punto di riferimento quando il migrante sente la mancanza di valori umani (amicizia, solidarietà..); il vero nemico identificato è l’indifferenza. Un altro caso che conferma questo atteggiamento è quello di una ragazza iraniana che - fuggita da un regime clerical-dittatoriale, nonché dichiaratamente non religiosa - si sente a disagio e si ribella quando l’Islam viene deriso in maniera superficiale. 9.2.3. I rischi di un adattamento immediato e forzato Dalla ricerca clinica, viene il suggerimento che il processo d’integrazione nel nuovo ambiente dovrebbe essere pensato come un processo graduale e, perché esso possa consentire un rafforzamento del sentimento d’identità, dovrebbe seguire alcune fasi ricorrenti in ogni elaborazione sana del lutto. L’elaborazione del lutto prevede che prima del distacco si vivano fasi di torpore, di protesta, di disperazione nelle quali è fondamentale potersi appoggiare a persone affidabili, capaci di ascoltare e contenere le confusioni e contraddizioni che possono emergere nel corso dello sfogo, proprio per dare alla persona il tempo di rendersi conto, di ritrovare un suo nuovo equilibrio. È un processo che comporta un movimento dialettico tra regressione e progressione (Bowlby, 1980). La regressione, se è accettata dall’individuo come fase transitoria, è funzionale all’integrazione. Ecco perché sarebbe importante, da una parte, che la comunità ospite garantisse al migrante buone condizioni di accoglienza che possano soddisfare il bisogno temporaneo di figure guida e, dall’altra, che il migrante accettasse di vivere la regressione come una moratoria inevitabile per elaborare il cambiamento avvenuto nella sua vita. (Merenda ,1993) Da una rassegna bibliografica (Bolzinger, 1991) che si è occupata delle patologie connesse all’esperienza migratoria, è emersa la pericolosità di un adattamento forzato e immediato. Una ricca casistica ha, infatti, dimostrato che molti immigrati che si sono adattati, apparentemente subito e con successo alle richieste del nuovo ambiente, hanno, dopo un paio d’anni, manifestato un crollo fisico o psicologico, talvolta con conseguenze irreparabili per l’equilibrio personale. Trouve (1981) riferisce del caso emblematico di un tunisino emigrato in Francia. Questa sua decisione, osteggiata dai familiari, è stata la causa della fine del suo matrimonio. In Francia, per vent’anni, si dedica incessantemente al lavoro: conduce una vita solitaria e torna raramente in Tunisia. Rifiuta molte 172 proposte di matrimonio con donne del suo Paese ed insegue progetti di ritorno vaghi e difficilmente realizzabili. Un giorno, in seguito ad un lieve incidente sul lavoro accusa una breve perdita di conoscenza. Riprende l’attività lavorativa dopo cinque giorni, ma si dimostrerà, d’ora in poi, inabile. Manifesta diversi sintomi di monoparesi e turbe sensitive, accompagnati da ansia e depressione. Dopo cinque anni continua ad essere ricoverato in ospedale completamente disorientato. La sua nevrosi per il lavoro si è ritorta in una incapacità vitale e diventa impossibile per lui tornare al suo paese, sia per motivi di orgoglio, che per motivi materiali. Lo stesso studioso (Trouve, op.cit.) racconta di molti altri casi in cui immigrati algerini, che in Francia si erano inizialmente dimostrati lavoratori instancabili ed irreprensibili, dopo aver subito un piccolo incidente sul lavoro, inaspettatamente accusano uno stato di invalidità. La tesi sostenuta dall’autore dello studio è che l’ombra della morte avvertita dall’individuo in seguito all’infortunio, lo abbia improvvisamente messo di fronte al suo passato e alla sua storia. Si parla, a questo riguardo, di depressione rinviata, che si verificherebbe quando si esauriscono le difese utilizzate nel primo periodo per raggiungere e mantenere l’adattamento forzato. Nei corsi di formazione è quindi importante considerare il modo in cui il migrante ha lasciato il suo paese. Le differenze possono essere evidenti tra un migrante che è scappato per motivi politici o ideologici (palestinesi, profughi del Kossovo o Curdi, Libanesi, Eritrei, Iraniani…) e quindi pensa di non poter tornare e tra chi ha scelto di partire in base ad un progetto personale. Talvolta, per chi è riuscito finalmente a laurearsi nel paese di origine, l’avere studiato può creare una discontinuità con la tradizione dei genitori e dei nonni e, se poi non è possibile praticare il lavoro per cui si è studiato, l’allontanamento può essere visto come un’occasione di rivincita sul piano del diritto ad uno sviluppo personale. Ho studiato, mi sono laureata, non posso andare in Nigeria a fare un lavoro diverso da quello per cui ho il titolo (Ronnie)(Rezzara, in Massa e al., 1994, pag. 153) Non potevo fare il lavoro di mio padre, un lavoro manuale di agricoltore, perché io er o studente, ero destinato ad altro (Said) (Rezzara, in Massa e al. op.cit., pag.153) Mentre nel racconto di chi ha vissuto una parte della vita in un campo profughi è chiara la sofferenza interiore e una crisi d’identità profonda: …Io mi sento ovunque vado il nome di straniero sulla faccia, non avendo una patria… Quando uno è cittadino può scegliere dove andare, ma alla fine sa dove si trova la sua tomba…(in Carlini,.1991,pag.48) Un altro aspetto importante da considerare è quello che collega la scelta migratoria ad una conseguente caduta nella scala sociale. Ci sarà, di conseguenza, chi si adatta nel paese di arrivo, esprimendo comunque il desiderio di lavorare, senza guardare alle sfumature e chi, invece, non avendo 173 conosciuto l’oppressione non vede perché dovrebbe sopportarla in un paese che oltretutto non è il suo. (Carlini, 1991,pag.67) Proprio a questa problematica va destinata un’attenzione particolare, per aiutare il formatore a capire certi episodi di rigidità, sfiducia e criticità, apparentemente eccessiva, da parte del migrante, profondamente deluso nelle sue aspettative.(Una docente) L’insieme di questi elementi problematici invitano a riflettere sulla necessità di costruire degli indicatori evolutivi della riuscita degli inserimenti, ci incoraggiano a cercare confronti con altre situazioni storiche in cui si sono verificati grossi cambiamenti di questo genere, e conducono a chiederci se i vincoli di spazio/tempo/appartenenza proposti dalla formazione non potrebbero costituire il contenitore nel quale si elabora l’inserimento da un punto di vista psicologico. Cioè, in che modo la formazione può agire da collegamento di sostegno simbolico e in che modo può evitare di essere complice di un modello di adattamento troppo forzato? 9.2.4. Una visione più ottimistica Per inoltrarci in questa riflessione riprenderemo spunto dalla prospettiva, più ottimistica, delineata da Bronfenbrenner (Bronfenbrenner, op.cit), già introdotta nel 3° capitolo (p. 69). Bronfenbrenner, ha indicato una unità di analisi, dal punto di vista del soggetto, che comprende la qualità delle relazioni che esso sperimenta, il tipo di attività significative, che esso compie e vede compiere e le aspettative di ruolo che negozia in questi contesti. Si tratta quindi di una unità di analisi che privilegia l’interazione nel contesto, il dialogo, lo scambio dei significati tra le persone, mentre sono impegnate direttamente o indirettamente in un’attività comune. Bronfenbrenner definisce tutti gli eventi, che comportano una trasformazione di ruolo o un cambiamento di ambiente, transizioni ecologiche. Queste transizioni ecologiche possono essere considerate come degli esperimenti in natura, che rendono visibili le traiettorie evolutive degli individui. Bronfenbrenner ipotizza che ogni transizione ecologica sia tanto conseguenza che fattore di promozione dei processi evolutivi. Affinché la transizione ecologica abbia un ruolo di promozione dello sviluppo è necessario che esistano dei collegamenti di sostegno tra le situazione primarie in cui quegli schemi si sono consolidati e la situazione nuova, in modo da controbilanciare gli ostacoli dell’inserimento. L’attenzione dovrebbe essere massima nel caso di bambini piccoli, di ammalati, anziani e delle minoranze che si inseriscono in un ambiente proprio della maggioranza. Bronfenbrenner suggerisce che, per indagare sui diversi ambienti implicati in una transizione ecologica o per trarre conclusioni relative al processo di adattamento degli stranieri, una volta entrati a far parte di una nuova situazione ambientale e formativa, occorrerebbe adottare una metodologia longitudinale 174 articolata, basata sull’osservazione e sulle interviste, utilizzando situazioni reali (come ad esempio lavorare in gruppo ad un progetto di formazione, in presenza ed in assenza del formatore) ed introducendo sperimentazioni che favoriscano i collegamenti di rete94. La prospettiva di Bronfenbrenner parte dal mettere in discussione il modello del deficit, che è stato a lungo predominante nella politica sociale e nella ricerca: quando qualcosa non va si comincia a cercare nell’individuo i segni di apatia, iperattività, difficoltà di apprendimento, meccanismi di difesa; se non basta ci si rivolge allora alla famiglia, e se no al gruppo etnico o sociale a cui la famiglia appartiene. Il modello del deficit consiste nel cercare il difetto e nel cercare di correggerlo, senza sperarci troppo. L’alternativa proposta da Bronfenbrenner consiste in un rifiuto del modello del deficit, per far sì che la ricerca, la politica sociale e la pratica psicologica si impegnino in esperimenti di trasformazione attraverso la creazione di nuovi micro-meso ed esosistemi che sostengano lo sviluppo umano. Per sostenere la plausibilità di questo orientamento Bronfenbrenner cita ampiamente le ricerche di Elder sull’impatto evolutivo dei cambiamenti innescati dalla grande depressione del 192995. La difficoltà di prevedere gli esiti delle traiettorie evolutive in queste situazioni è ricordata da Elder stesso: In periodi di crisi l’elemento fortuna sembra avere un peso maggiore nell’influire sulle varie situazioni. In tali momenti è difficile specificare corsi di vita prevedibili al di là dell’impatto immediato della crisi. Il compito di delineare “effetti a rete” e di descrivere i vari schemi di impatto, di risposta e di influsso definitivo sembra quasi insuperabile96. Tuttavia lo stesso Elder si cimentò con una delle poche ricerche longitudinali sugli effetti degli sconvolgimenti economici e sociali della depressione del 1929, conducendo due indagini complementari, in tempi successivi, rispetto alla verifica della variabile età (bambini di scuola elementare o adolescenti nella fase finale della scolarità medio-superiore). Nella sua ricerca confrontò il corso dello sviluppo di famiglie, che avevano subito in pieno gli effetti della depressione e di famiglie che non ne erano state toccate. Furono considerate disagiate le famiglie che avevano dovuto vendere ciò che possedevano o comunque ridurre il loro reddito di più del 40%, mentre erano definite agiate quelle per le quali la diminuzione del reddito non arrivava a questi valori. Ognuno di questi due gruppi fu, inoltre, suddiviso in base alla classe sociale della famiglia (media o operaia) a cui apparteneva prima della depressione. 94 I corsi di formazione possono essere un luogo privilegiato per costruire, insieme ai migranti stessi, delle piste di conoscenza utili a comprendere meglio la complessità dei risvolti evolutivi del fenomeno migratorio. 95 Bronfenbrenner, op. cit., pag.397 e seguenti. 96 G.H, Elder, Children of the great depression, Chicago, University of Chicago Press, 1974, p. xv, in Bronfenbrenner, op.cit. pag.394. 175 Elder poté disporre di un’ampia serie di dati relativi a ciascuna famiglia, tra i quali lunghe interviste ai genitori, insegnanti e ragazzi, osservazioni e valutazioni da parte di personale competente relative al comportamento sociale ed emotivo, questionari autodescrittivi, inventari di personalità, e una valutazione di tipo clinico. I risultati relativi agli uomini, ancora adolescenti nella fase della grande depressione, evidenziarono un paradosso: trent’anni dopo, gli adulti appartenenti alle famiglie agiate, cioè quelle che erano sfuggite alla rovina economica, risultavano aver avuto meno successo sia nel percorso scolastico che nella professione; una proporzione maggiore di essi aveva problemi psichiatrici, incluso l’alcolismo. Elder si è così domandato: perché questi adulti non sono diventati i membri più sani e più competenti del gruppo di Oakland, mentre furono i figli delle famiglie colpite più duramente che profittarono di questa esperienza? In che modo il loro sviluppo fu agevolato dalle difficoltà economiche? L’economia fortemente basata sul lavoro, come era quella delle famiglie disagiate negli anni Trenta, portò i figli più grandi ad inserirsi velocemente all’interno del mondo degli adulti. Questi ragazzi dovettero assumere ruoli produttivi. Da un punto di vista più generale essi diventavano necessari e, nell’essere necessari, avevano l’opportunità e la responsabilità di fornire un contributo reale al benessere degli altri. L’essere necessari determinò quindi un senso di appartenenza e di adeguatezza, l’essere impegnati in qualcosa di più vasto del loro sé. È da sottolineare che il loro impegno non richiedeva comunque sacrificio o sfruttamenti tali da rinunciare all’istruzione o una limitazione dei contatti sociali con i coetanei. E per contro Elder, rileggendo sotto questo punto di vista gli esiti possibili della successiva conquista di prosperità, di crescita economica, di promozione dell’istruzione (fattori che hanno portato ad un allungamento degli anni di dipendenza dei figli dai genitori e a una crescente separazione dei giovani dalle esperienze abituali degli adulti), si chiede: questa società dell’abbondanza può e deve anche sostenere un’ampia parte di membri non produttivi, essendo attualmente organizzata in questo modo; ma potrà tollerarne i costi, soprattutto per quanto riguarda i giovani, i costi del non sentirsi necessari, del vedersi negare la sfida e le gratificazioni che derivano dal fatto di dare contributi significativi allo sforzo comune?97 Sembra quindi che una fanciullezza nel corso della quale il giovane è tenuto al riparo dalle difficoltà della vita, non fa sviluppare o mettere alla prova quelle capacità adattive che emergono nei momenti di crisi. L’impegnarsi ed il far fronte a problemi di vita quotidiana (non eccessivi) nella fanciullezza e nell’adolescenza significa fare una specie di apprendistato per la vita adulta.98 97 Elder,op.cit, pp.291-293, in Bronfenbrenner, op.cit.pag.416. 98 Occorre sottolineare che questi adulti avevano già intorno ai 15 anni, nel 1921; in senso inverso vanno i dati della replica che Elder fece successivamente, proprio per verificare se esisteva un età critica. I bambini che erano molto piccoli nel periodo della depressione ebbero conseguenze negative dall’essersi trovati costretti a subire le tensioni e le insicurezze dei genitori, anziché esserne coinvolti in modo consapevole e responsabile, come fu per gli adolescenti. 176 Inoltre ulteriori verifiche interne ad altre variabili nei diversi gruppi considerati, hanno permesso di constatare che tra gruppi di persone “perdenti” intorno ai 30 anni, quelli provenienti da famiglie disagiate (che avevano però potuto frequentare l’Università) manifestavano un ulteriore inversione in senso positivo, intorno ai 50 anni. Il progresso sembrava essere correlato, oltre che all’entrata all’Università, al matrimonio, al servizio militare e all’attività lavorativa.99 L’appartenenza ad un ambiente formativo o lavorativo hanno quindi costituito un fattore protettivo e/o riparativo che si è rivelato importante, per invertire in senso positivo la traiettoria evolutiva nel proseguo del tempo. Bronfenbrenner sottolinea che l’implicazione più innovativa di questi risultati consiste nel fatto che nei mesosistemi si possono considerare come ricorrenti nel tempo, non solo gli schemi della continuità e del declino, ma anche quelli del recupero e della rinascita. Questi risultati, proprio perché concernono il mesosistema permettono di individuare alcune delle condizioni ecologiche che possono innescare modificazioni sostanziali nello sviluppo di una persona, anche dopo gli anni della fanciullezza. I risultati di Elder mettono quindi in discussione l’ineluttabilità di un presunto luogo di primarietà e persistenza della fragilità umana: essi dimostrano come molti ragazzi della Grande Depressione e le loro famiglie, per quanto avessero subito un evidente danno psichico, lottarono, vinsero e in qualche caso profittarono, di fatto, di una povertà improvvisa e impararono che cosa era la mancanza di risorse in un ambiente insensibile. Tuttavia le potenzialità evolutive di ogni transizione ecologica sono favorite se la traiettoria evolutiva dei soggetti è riconosciuta, se l’evento è affrontato in compagnia di una o più persone significative, se esistono dei collegamenti di sostegno che controbilanciano gli ostacoli dell’inserimento.100 9.2.5. Riflessioni e proposte Viene da pensare ai nostri minori immigrati arrivati qui attraverso mille peripezie; ai giovani, quasi laureati nei loro paesi, che qui si accontentano di fare gli imbianchini; oppure ai piccoli in attesa, per anni e anni, di ricongiungersi con le loro madri, madri che sono arrivate qui da sole e che sono disperate quando si rendono conto che, in questo tempo, qualcosa si è rotto ed il ricongiungimento finisce per fallire per l’incapacità di rincontrarsi. Queste prove di coraggio nel tentativo di costruire un futuro migliore per sé e soprattutto per i figli devono essere sostenute e valorizzate nel contesti di arrivo affinché tutti questi sforzi siano vissuti come utili, come significativi. 99 Elder, op.cit. pp:249-250, in Bronfenbrenner, op.cit. pag. 404-405. 100 Bronfenbrenner, op.cit. pag.426. 177 In che modo la formazione può fornire un contesto protettivo101 e rispettare l’inevitabile ambivalenza che supporta questi complessi processi di ridefinizione della propria traiettoria evolutiva? Dalla ricerca di Massa e collaboratori (1994) viene una testimonianza significativa da parte di un migrante. Il passato è importante per te stesso, che hai vissuto la cosa, ma non per l’istruttor e, p e rché lui è lì per un’altra cosa, l’unica cosa che lui ha il dovere di fare è farti seguire dalla f o rmazione. Non è giusto farsi umiliare per ottenere certe cose. Per cer c a re un cambiamento sul passato devo farlo io, con la mia volontà Non è uno che deve farlo al mio posto, perché se quello lì ci tenta, non riuscirà a farlo. (Riva M.G., in Massa,e al., op.cit., pag 97) Il migrante sembra chiedere alla formazione di aiutarlo a proiettarsi soprattutto nel futuro, di ascoltare, sì, ma al tempo stesso di sorvolare sui suoi eventuali drammi, perché essi sono anche la prova del valore della sua capacità di iniziativa, di una scelta che lo rende vivo e impegnato nel cambiamento che comporta. Come sottolinea Riva, il commento di questo migrante sta a significare, in una chiara polemica antideterministica, che non si vuole rimanere incastrati in nessuna linea costrittiva ritenuta necessaria sul piano delle conseguenze e dei rapporti tra passato e presente. Appare chiara la richiesta che il formatore si occupi della formazione, che è il futuro, senza pretendere d’intrufolarsi in richiami al passato (Riva, op.cit.,pag. 98) In una classe multietnica il punto di partenza per un formatore dovrebbe quindi comportare la consapevolezza che ogni immigrato ha una sua suscettibilità legata alla specifica traiettoria evolutiva, e, di conseguenza, una generalizzazione delle problematiche, tutti gli stranieri sono uguali, hanno fatto le stesse scelte, puntano allo stesso obiettivo , risulta essere inadeguata. La volontà di dimostrare una disponibilità al riconoscimento delle diverse traiettorie evolutive delle persone migranti, può manifestarsi forzando i partecipanti a parlare del passato, ad autodescriversi, a parlare di sé, della loro situazione familiare. Occorre trovare forme leggere, discrete, non impositive per rispondere alla duplice consapevolezza che emerge dai contributi qui considerati: da un lato è importante che l’elaborazione del cambiamento possa tradursi in discorsi, in complicità di sguardi, in rispecchiamenti di traiettorie, dall’altro occorre rispettare una dimensione di solitudine e di riservatezza che viene rivendicata soggettivamente come uno degli elementi motori che fornisce uno spessore auto-formativo e dignità a questo cambiamento. A volte può capitare che il formatore stesso introduca in modo superficiale alcuni spunti di collegamento con la supposta cultura di origine, pensando che questa sia una strategia di avvicinamento empatico: per esempio far accenno 101 Il ruolo protettivo della scuola è stato ipotizzato e verificato anche in recenti ricerche che hanno indagato sui rischi psicosociali in adolescenza. Si vedano i contributi di Bonino S., Cattelino E.(2000), relativi ad una ampia indagine nelle scuole medie superiori della Provincia di Torino. 178 al Ramadan, alla questione del velo, o portare la cartina di un paese senza aver controllato i cambiamenti geopolitici. In questo modo il formatore può cadere in una serie di equivoci possibili: • assimilare tutti gli stranieri ad un etnia particolare (Ramadan per tutti); • sottovalutare l’intensità nella storia personale dei conflitti locali geopolitici e mostrare, attraverso questa disattenzione, la propria distanza emotiva; • ignorare la conflittualità interpersonale nell’ambito del gruppo e le ambivalenze potenzialmente presenti in ciascuno. Il rischio quindi è quello che al posto dell’auspicato avvicinamento si inneschino invece situazioni esplosive difficili da controllare. Sarebbe forse meglio evitare di introdurre, per primi, come docenti, tali argomenti o almeno non prima di aver valutato in modo consapevole ed informato la complessità dei livelli di suscettibilità che si giocano in questi ambiti. 9.3. Suscettibilità rispetto al setting formativo e ai modelli di apprendimento-insegnamento 9.3.1. Ritornare a scuola: un’ulteriore transizione tra presente e futuro Si possono individuare tre macro tipologie di migranti, all’interno delle quali si ritrovano poi le situazioni specifiche; quelli che si fermano per qualche anno in Italia per poi tornare al paese d’origine (generalmente uomo o donna adulti soli), quelli che aprono attività in proprio ma vivono in mondi separati dagli italiani (cinesi, alcuni Centro-Africani legati alle comunità etniche) e infine chi sceglie la stabilizzazione lavorativa verso l’integrazione. È tra questi ultimi che si incontrano i casi più numerosi di ricongiungimenti familiari e le scelte di frequentare corsi di alfabetizzazione o di formazione professionale regionale. Il formatore non può quindi dimenticare che il migrante che si iscrive ad un corso professionale ha già scelto (il più delle volte) come muoversi, dimostrando di essere intenzionato a intraprendere il cammino verso l’inserimento sociale nella realtà di arrivo. Il lavoro, in questo senso, rappresenta la salvaguardia della propria dignità personale e la chiave dell’inserimento. D’altra parte, anche la qualità della motivazione cambia in funzione della durata del progetto migratorio. Ciò è importante ai fini di calibrare l’offerta formativa stessa. Infatti se il migrante pensa comunque di ritornare al suo paese è meglio che impari qualcosa che sia utile all’evoluzione del suo paese, piuttosto che ad una stabilizzazione definitiva nel nostro. 179 La maggior parte dei migranti approda alla formazione professionale regionale nella fase non iniziale, ma solo ad un certo punto del percorso di inserimento; è interessante considerare che andare o ritornare a scuola costituisce un altro momento importante di transizione. La scuola, che sia un corso di alfabetizzazione o un corso professionale, rappresenta infatti in ogni paese un particolare contesto che da un lato enfatizza la cultura della società in cui è inserita (per esempio il calendario scolastico segue le ricorrenze nazionali e locali, il modo in cui l’insegnante gestisce la disciplina e conduce le lezioni, l’atteggiamento della classe verso la competizione o la cooperazione possono riflettere delle caratteristiche tipiche di quel modello culturale), dall’altro questa stessa enfatizzazione rende l’ambiente della scuola un po’ “artificiale” rispetto alla realtà sociale, familiare e lavorativa. Ci sembra quindi che il migrante si trovi ad operare nuovi confronti a più livelli sia rispetto alla realtà italiana in cui si sta inserendo, sia rispetto all’esperienza scolastica eventualmente già vissuta nel proprio paese. Viene in mente l’esperienza descritta da M. Sclavi (1989) sul confronto tra un liceo americano e un liceo romano: aspetti normali per ciascuna delle due culture apparivano strani visti con l’occhio dello straniero; ad esempio per un italiano può far ridere che il professore di matematica americano si presenti a scuola in tuta e pantaloncini corti, oppure può meravigliare che il copiare durante un compito in classe sia considerato un gravissimo “reato di plagio” e che quindi a nessuno studente venga in mente di suggerire o di passare il compito, mentre in Italia a scuola i professori vestono in modo serio ed il copiare, anche se scorretto, tutto sommato è considerato meno grave del comportarsi da secchione che si rifiuta di aiutare un compagno. Possiamo inoltre ipotizzare che per i migranti questa ulteriore transizione nel ruolo di studente non fosse sempre prevista nel progetto di partenza, orientato ad una migliore sistemazione lavorativa, e questo può rendere ancora più comprensibile che essi, spesso, non vedano la formazione come un fine in sé, ma come il mezzo per realizzare un progetto di trasformazione che nel loro immaginario va ben oltre. Questo passaggio intermedio può diventare, quindi, il luogo in cui si cerca di bruciare la distanza tra l’immagine di sé attuale e l’immagine di sé proiettata nel futuro. 9.3.2. Una motivazione speciale Tener conto di questa dinamica interiore può aiutarci a comprendere la qualità particolare della loro motivazione e la varietà dei modi attraverso cui essa tende a manifestarsi ai nostri occhi; è molto probabile incontrare un atteggiamento di quasi voracità per le materie professionalizzanti e una certa intolleranza verso ciò che non appare immediatamente spendibile sul piano dell’inserimento. 180 Questa tendenza è comprensibile, sia per chi aveva già acquisito un titolo di studio medio alto che non gli viene riconosciuto in Italia, sia per chi non aveva frequentato un corso “regolare”102 di studi e praticamente si trova a ritornare a scuola, quasi come fosse la prima volta. Infatti, per i primi, iscriversi ad un corso professionale per raggiungere un titolo inferiore a quello già posseduto è vissuto come un’esperienza mortificante sul piano intellettuale, che è digerita come un passaggio obbligato per andare oltre. In un certo senso è come se non ci fosse né il tempo, né la serenità emotiva per predisporsi intenzionalmente a quel vuoto mentale disinteressato, quasi ludico, che favorisce l’apprendimento del nuovo. Predisporsi al nuovo può significare anche provare un disagio verso i propri maestri del paese d’origine, temere di perdere la propria identità di studente, di soggetto epistemico, così come si è costruita in quell’altro luogo e in quell’altro tempo. Una voracità quindi per arrivare al sodo, senza indugiare, divagare… Nel corso di mediatori, per la materia di sociologia, si è fatto precedere il tema dei fenomeni migratori attuali da un excursus storico sull’emigrazione degli italiani all’estero o dal sud al nord Italia nei primi anni del ’900 e nel secondo dopoguerra. Ciò, per far capire che gli italiani, che oggi si trovano nel ruolo di accogliere gli immigrati, erano stati anche loro, a loro volta, migranti. Questa scelta, contrariamente alle aspettative, non è stata apprezzata anzi è stata considerata da alcuni come una perdita di tempo. Questo ci ha meravigliato vista anche la cultura medio-alta dei partecipanti (una docente di sociologia). Per i secondi, invece, il bruciare le tappe sembra accompagnato da un incendio interiore, che si manifesta come una sorta di euforia maldestra, perché tutto è nuovo e la scuola è già un pezzo di quel futuro sognato: usare la penna, il quaderno, prendere appunti, toccare con mano gli oggetti della “tecnologia” è già nel futuro, anche se le condizioni di vita attuali sono ancora all’insegna dell’emergenza ed a scuola si arriva stanchi, un po’ storditi. All’inizio dell’anno ero infastidita dalle continue interruzioni di alcune corsiste, che non aspettavano la fine di un discorso, ma alla prima incomprensione esigevano subito un chiarimento. Da una parte ero disturbata perché non potevo completare il mio ragionamento…, dall’altra temevo di essere volutamente interrotta, come se avessero voluto esprimere qualche forma di ostilità nei miei confronti… Poi, però, mi sono resa conto che la loro era solo una grande voglia di imparare, quasi una voracità che le portava a volere tutto e subito. Questa cosa non mi era mai capitata con adulti italiani. Questa sete di conoscenza…anche su cose che a me sembravano banali. (Una docente di cultura generale in un corso di taglio e cucito per sole donne) 102 Ricordiamo che dai dati, tratti dall’Osservatorio interistituzionale sull’immigrazione il 60% circa delle donne e degli uomini risulta analfabeta, mentre circa il 30% diplomato, e circa l’8% laureato. Benché questi dati vengano spesso smentiti nei corsi a favore di una presenza di titoli più alti rispetto a quelli dichiarati, sembra invece confermato che la fascia intermedia di scolarizzazione sia meno rappresentata e che quindi la popolazione studentesca si muova tra un livello basso e un livello medio-alto. 181 Questi atteggiamenti, così diversi, benché tutti accomunati dalla forte motivazione a raggiungere il titolo, che forse aprirà le porte del lavoro e della legittimazione sociale, possono, all’inizio, spiazzare il docente abituato a insegnare a studenti italiani. Il fatto di non poter dare nulla per scontato, o perché le aspettative sulle convenzioni sono diverse, o perché addirittura non c’è un’aspettativa di tipo convenzionale, rende questo lavoro continuamente imprevedibile e ricco di trasformazioni osservabili di giorno in giorno. Tuttavia, i docenti si rendono anche conto di vivere un’esperienza straordinaria, come se il contatto quotidiano con questo mondo così variegato e così unanimemente coraggioso avesse il potere di un contagio che fa intravedere nuovi modi possibili di concepire il proprio mondo, il rapporto con il sapere, con gli studenti, con la scuola e con la vita. Fino all’anno scorso insegnavo in classi di minori italiani, sì, mi stancavo meno, ero più tranquilla anche sui programmi, ma ora non vorrei più ritornare a delle classi di soli italiani. Quest’anno mi sono trovata in mille situazioni difficili, ma sono più contenta, la differenza è che mi sembra di imparare continuamente tante cose anche io da loro. Ho imparato a non generalizzare, perché ogni persona mi sembra unica, ho imparato tante cose nuove, perché le loro domande mi hanno stimolata ad informarmi, ad allargare gli orizzonti al di là della mia materia, ho imparato a minimizzare i miei problemi perché ogni giorno ricevo testimonianze di grande coraggio nella vita. (una docente) 9.3.3. Le regole del setting formativo Si è già accennato sopra che la scuola rappresenta un contesto particolare di apprendimento in cui sono formalizzati i tempi, gli spazi, certe regole di comportamento, certe modalità per la trasmissione dei contenuti e per la gestione dei rapporti tra insegnanti e allievi; benché i modi possano cambiare da formatore a formatore, ogni centro definisce alcune regole che contribuiscono a dare stabilità al setting formativo. Per esempio alla Casa di Carità Arti e Mestieri, all’inizio dell’anno, ogni formatore richiede che durante le lezioni non si parli in madrelingua e invita a prendersi cura del materiale consegnato dalla scuola (quaderni, filo e aghi, tuta o camice da lavoro…). Anche al rispetto degli orari viene prestata molta attenzione: a partire da un quarto d’ora di ritardo viene detratta una parte della paga oraria di £ 4.000. D’altra parte è però indispensabile che ogni centro di formazione cerchi di conciliare gli orari dei corsi con le esigenze dei diversi utenti: corsi serali per le persone che lavorano e orari studiati per le donne con figli. Presso la Casa di Carità Arti e Mestieri questa attenzione è stata particolarmente apprezzata dai partecipanti. Nella intenzionalità dei responsabili queste regole costituiscono soprattutto un punto di arrivo e sono mirate a preparare un atteggiamento affidabile in vista del successivo inserimento lavorativo. Sono previste però alcune eccezioni, che tengono conto sia di alcune situazioni personali al limite della sopravvivenza, sia della difficoltà di aderire ad una cornice istituzionale, per chi 182 non è mai andato a scuola; esse vengono prevalentemente gestite dai docenti (che chiudono un occhio) in accordo con i responsabili (che fanno finta di non sapere), in modo che, comunque, sia mantenuta una certa congruenza rispetto al comportamento richiesto ai corsisti. Il setting si compone anche dei luoghi in cui si svolgono le attività. Occorre ricordare che in alcuni dei paesi d’origine dei migranti i luoghi della formazione non coincidono solo con la scuola ma possono essere anche altri “ambienti” di vita, nei quali si condividono regolarmente certe pratiche rituali, considerate indispensabili per la crescita e la preparazione dell’individuo (le preghiere, gli esercizi di yoga e di concentrazione). Abbiamo osservato che nel centro di formazione alcuni luoghi sono preferiti: diventano, in alcuni casi, la propria casa, perché è qui che i migranti vivono gli aspetti più costruttivi e promettenti del cambiamento in cui sono ormai avviati. Ad esempio, alla Casa di Carità Arti e Mestieri, le lezioni teoriche si svolgono in aule diverse rispetto ai laboratori di pratica: a volte lo spostamento dal laboratorio all’aula è vissuto male da alcuni migranti, come si trattasse di allontanarsi da un luogo in cui è più chiara la loro identità. Inoltre il laboratorio in alcuni corsi, come quello di Taglio e Cucito, è frequentato solo da quella certa classe di migranti e questo probabilmente favorisce una maggiore identificazione con questo spazio. P e rché non rimaniamo qui anche a fare italiano? Taglio e Cucito) (una corsista nigeriana di Un buon setting formativo richiede anche che gli spazi delle aule siano protetti da eventuali viavai, siano riscaldati bene, poiché condizioni disagevoli possono pregiudicare l’attenzione e la costruzione di un clima adatto all’apprendimento. Per quanto possa sembrare banale, anche la collocazione dei servizi igienici può influire sulla serenità dei rapporti, creando eventualmente un disagio quando la struttura non permette di differenziare tra bagni per maschi e per femmine. Alla Casa di Carità Arti e Mestieri si è tenuto conto di questa esigenza e dove non si disponeva di locali differenziati si è predisposto un piano, solo per i corsi con un utenza prevalentemente femminile (es. Taglio e Cucito, Ristorazione e Adest). Al di là di questi aspetti strutturali, sono anche altri e diversi i modi in cui si può prestare attenzione alla costruzione di un setting formativo adeguato e flessibile. Un elemento prioritario rispetto alla progettazione è, ad esempio, il fornire informazioni chiare, all’inizio dei corsi, sul profilo professionale e sulle realistiche opportunità di sbocco lavorativo. Una mancata chiarezza in tal senso può infatti provocare la ricorrenza di malumori, un calo della frequenza, tutti fattori che possono causare un disturbo di fondo allo svolgimento dell’attività formativa. In ogni caso l’insieme di questi aspetti contribuisce a creare un clima nel quale ogni migrante si inserisce con il suo bagaglio di idee e di vissuti su che 183 cosa significa imparare, da chi si può imparare, sui metodi più opportuni maturati attraverso la propria specifica traiettoria evolutiva. Occorre quindi avere presente la necessità di riferirsi a diversi potenziali modelli di scuola e al continuo interferire di presente e passato nell’esperienza dei corsisti. 9.3.4. Il rapporto con l’imparare Prendiamo ora in considerazione l’autodefinizione in relazione ad alcuni aspetti già sottolineati in precedenza, tra i più importanti nella relazione d’insegnamento: il rapporto con il processo dell’imparare e con il sapere e la concezione della relazione asimmetrica docente/discente.103 Questi aspetti sono profondamente radicati nelle prime esperienze di socializzazione infantile e riflettono aspetti peculiari della cultura più ampia in cui sono stati vissuti. Si può avvertire un’ambivalenza, una specie di contraddizione rispetto al modello europeo, tra aspettative di rigidità sulla divisione asimmetrica dei ruoli e sulle regole scolastiche e aspettative di disponibilità affettiva diffusa da parte dei docenti. Ciò può essere spiegato, non solo sulla base di particolari condizioni di bisogno e di solitudine connesse alle prime fasi di inserimento, ma anche ad un diverso modo di concepire il rapporto tra istruzione ed educazione e tra istituzioni e comunità informale, in culture diverse dalla nostra. Ad esempio, a differenza dell’istruzione scolastica, più tecnica, l’educazione può avere una connotazione globale, affettiva, meno rigida, in cui è fondamentale il ruolo dell’esperienza e dell’attenzione condivisa. Così gli anziani sono considerati una fonte importante di educazione perché hanno imparato tante cose, e quindi sono saggi, anche se magari non sono andati a scuola. La ricerca di Massa e collaboratori (1994, op. cit. pag.140 e seg.) riporta diverse testimonianze di migranti a questo proposito. Mio nonno non sapeva leggere né scrivere, tutti e due, però ci aveva una educazione che ci ha dato e che fino ad ora è quella che ci è servita a tutti.(Riva, op.cit.,pag. 141) L’esperienza vera di imparare che ho avuto è con mio padre… mi insegnava molto tutti i giorni perché anche lui ha fatto tanta esperienza (Abdillah) (Riva, op.cit., pag.140) Dopo mio padre la persona più importante nella mia vita per diventare così è la mia famiglia; non la famiglia come si intende in Europa, la famiglia per noi sono i nonni, gli zii e tutti i parenti. Siamo una grande famiglia che non è noiosa, dove c’è l’attenzione di tutti, in diversi gradi per tutti ma c’è. (Niki) (Riva, op.cit., pag. 140) Forse alcuni di noi meno giovani ricorderanno quando i nostri genitori raccontavano che ai loro tempi i genitori erano più rispettati, al punto che si 103 Per questa parte siamo riconoscenti alla pubblicazione di Massa e collaboratori (1994), dalla quale abbiamo tratto gran parte degli esempi ed alcuni dei commenti. 184 dava loro il “voi” o che imparare era una cosa seria e difficile che doveva essere affrontata con grande dedizione per ottenere delle soddisfazioni; cercare delle scorciatoie o addolcire la pillola con premi e giochetti pareva loro illusorio e deresponsabilizzante, perché l’idea era che comunque la vita si sarebbe poi vendicata con prove ben più dure e che l’educazione e la scuola dovevano preparare per la vita. Ascoltando i commenti di molti migranti si respira un po’ quest’aria: a volte essi restano meravigliati che l’asimmetria tra insegnante e discente sia poco sottolineata, che i figli rispondano male ai propri genitori, che i genitori chiedano consigli per l’educazione dei propri figli, come se si fosse perso, da noi, il senso del rispetto, della responsabilità, della differenza di ruolo tra chi ha più esperienza e chi ne ha meno. Ancora dalle testimonianze riportate nella ricerca di Massa (Rezzara, pag.139 e seg.) Quello che impariamo più di tutto noi è di avere rispetto, rispetto per chi è maggiore, per chi è vecchio, i genitori, i parenti, a scuola. (Atta) C’è una grossa diversità tra la cultura senegalese e quella europea.. qui da voi non c’è la differenza… la differenza di età c’è però tra una persona e l’altra, per esempio tra sorella e fratello, potete dire tra di voi quello che volete dire. Invece da noi è diverso. Se è tua sorella maggiore per esempio devi limitare le tue parole… e se la donna anche è maggiore, deve dar e rispetto all’uomo… è l’uomo che deve decidere… così impariamo. Non come qui… qui l’insegnante con l’allievo non c’è una differenza. Per esempio il ragazzo qui gioca, non paura degli insegnanti. …Per esempio se vedi il professore fuori della scuola, devo scappare, perché magari… domani una domanda, e se non riesci a farla lui ti picchia, perché ti ha visto giocare, o cose… hai capito? (Sadik) Questa è una grande differenza tra la nostra e la vostra società. Perché là nessuno rifiuta gli ordini dei genitori, anche se sbagliano. Massa (e al., 1994.) commenta queste testimonianze rilevando che il polo educativo della formazione nei paesi di provenienza tende a riprodurre e far assimilare valori, norme, codici culturali tradizionali, collocandosi più nella dimensione del dover essere, del controllo, della normatività, della subordinazione che in quella della soggettività e del cambiamento. Lì, in Tailandia, quando l’insegnante spiega qualcosa, e noi non capiamo qualcosa, noi non possiamo dire “quello io non capisco, io voglio spiegare di questo” L’insegnante subito: ‘tu zitto’ . Tutto così, tutto tempo, ogni anno gli studenti solo zitto. (Acciaro)(Rezzara, op.cit., pag.156) Non è che puoi dire quello che pensi… anche se pensi qualcosa devi tenerlo dentro (Atta) (Rezzara, op.cit., pag.156) Il bastone sempre in mano è sempre una cosa necessaria… è l’autorità, non sempre picchiarlo con il bastone proprio fisicamente. In Nigeria la scuola è disciplina, regole, punizioni di lavoro. (Ronnie) (Rezzara,op.cit. pag.155) 185 D’altra parte, ancora dalla stessa ricerca, emerge anche la solidarietà tra gli adulti che determina delle potenti sinergie formative tra le diverse istanze spontanee e formali dell’educazione. (Rezzara, op.cit. pag.162 e seguenti) I maestri somali abitano nello stesso quartiere, li ho conosciuti bene, come i genitori, sempre c’erano il maestro e i genitori, c’era una sequenza (Abdukaldir) C’era un patto no, un patto forte tra i nostri genitori e la scuola (Malko) Se tu devii dalla tua vita, là sempre qualcuno ti controlla, i genitori, il maestro, i vicini e ti dicono che devi tornare sul binario giusto. Nel confronto con un’altra cultura ogni regola perde l’elemento di necessità che aveva, e l’esempio stesso delle generazioni che ci hanno preceduto ci conduce a considerare che non sono tanto importanti i contenuti di ognuna delle regole, quanto la solidarietà sociale su cui era fondata la convinzione della proposta e la sincerità dell’affetto che l’accompagnava. Cosicché modelli di educazione e di apprendimento occidentali, pur certamente diversi da quelli odierni, non hanno impedito che si formassero persone mature, umane e competenti che, a loro volta sono diventate genitori e insegnanti disponibili a nuove aperture. I migranti, però, si trovano in una particolare situazione proprio per lo sradicamento dal contesto culturale in cui sono state assimilate le loro convinzioni. Come dicono loro stessi: Come ero non lo sono più. E come sono ora non lo so. Cercare di rispettare il loro diritto ad autodefinirsi significa quindi rispettare questa transizione di identità, che li porta ad oscillare tra la fedeltà alle proprie tradizioni e la spinta a buttarle vie per omologarsi il più in fretta possibile. Nelle testimonianze sulla propria esperienza di formazione appare una discontinuità tra un “là” dove si sono seguiti itinerari prescritti, finalizzati alla continuità del sistema e un “qui”, ispirato, invece, ad un cambiamento che comporta anche l’esposizione alla casualità, all’improvvisazione. (Massa e altri, op.cit.1994) Le discussioni sull’educazione e sul ruolo diffuso della genitorialità sono molto accese, forse perché inconsapevolmente evocano un confronto tra passato e presente, che corrisponde anche a due visioni del mondo e a due stati esistenziali profondamente diversi: il passato, in cui era prevalente una visione deterministica, ma al tempo stesso convinta e carica di condivisioni affettive ed il presente che rappresenta, invece, la sperimentazione, in solitudine, di una visione più probabilistica, dove anche la casualità, lo spirito d’iniziativa, l’avventura possono giocare un ruolo decisivo. Sempre nella ricerca già citata (Massa e altri, op.cit.1994) si sottolinea la consapevolezza che questo salto verso l’ignoto, da soli, sia una specie di autoformazione e sembra quindi plausibile l’ipotesi che esso rappresenti, non solo il coraggio della sfera volitiva, ma anche un processo cognitivo di profonda ristrutturazione epistemologica... Si può dire che la gran parte dei 186 corsisti migranti si trovi tendenzialmente scisso tra due visioni del mondo e che stia elaborando una sintesi i cui costi emotivi e identitari possono essere, in certi momenti, molto profondi e rischiosi per il proprio equilibrio. Lasciando il tuo paese d’origine, la tua propria terra, i tuoi genitori, i tuoi fratelli, l’ambiente dove hai proprio vissuto, tutto quello che è anche una forma di solitudine è anche un’autoformazione….Sei solo e devi imparare tutto. (Rezzara, op.cit., pag.142) Ci sembra quindi più prudente e saggio avviarci a concludere questo paragrafo ricordando il presupposto di partenza che ogni corsista abbia una sua idea particolarmente complessa sui modelli d’insegnamento apprendimento e sui percorsi possibili di cambiamento che, probabilmente non è riducibile né a quella tipica della sua cultura di origine né a quella che può emergere dalle aspettative dei formatori. D’altra parte è frequente rilevare la difficoltà dei migranti a esprimere la propria soggettività, la reticenza a parlare di sé, ad autodefinirsi nel percorso presente. Al limite ciò che essi sembrano chiedere è di non essere obbligati a definirsi o a controdefinirsi troppo in fretta, o meglio, a non pagare con un senso di non esistenza, di non riconoscimento della propria complessità esistenziale, quella che è, invece, una transizione, una riorganizzazione della propria identità. 9.4. Che fare? La letteratura antropologica e la psicologia crossculturale possono darci molte informazioni sulla dimensione etnica dei diversi modelli di apprendimento e di educazione e ciò può aiutarci ad ampliare i nostri punti di vista e ad aumentare la nostra curiosità verso “l’altro”.104 Tuttavia riteniamo, insieme ad alcuni antropologi che si sono occupati di analisi culturale e contesto scolastico (Callari Galli, 1993, 2000), che questo approccio sia insufficiente, se esso viene utilizzato esclusivamente nella prospettiva fiduciosa di poter anticipare i comportamenti dell’altro. Sappiamo bene che anche all’interno di una stessa cultura l’anticipazione ci espone al rischio di scavalcare, di fraintendere la definizione che l’altro sta dando di sé. D’altra parte, come suggerisce Tentori (1989), anche un testo antropologico non deve tanto avere l’obiettivo di descrivere la diversità, ma piuttosto di spingere i suoi fruitori a riconoscersi e a rispecchiarsi, quindi, in quella diversità. Inoltre la provenienza etnica è ormai sempre più varia, le classi sono molto eterogenee, ed è quindi impensabile entrare nel merito delle tradizioni di tante e diverse culture, se non attraverso un’infarinatura che, da un lato rischia di assumere i tratti del folklore e dall’altro di non identificare la situazione del 104 Si vedano, ad esempio, i contributi classici di F.Remotti (1990, 1992) e Geertz,1987. 187 migrante: egli, infatti, è arrivato fin qui, sta comunicando con noi faccia a faccia, ma nello stesso tempo sta ridefinendo la sua cultura alla luce della sua esperienza qui. Un formatore intenzionato a riconoscere e far giocare le differenze dovrebbe, quindi, ispirarsi anche ad un modello fondato sull’ascolto attivo e sull’attesa. Il modello dell’attesa parte dal presupposto che nessuna conoscenza sull’altro potrà mai salvaguardarci dalla imprevedibilità dei comportamenti altrui e nostri, nel contesto concreto dell’incontro.105 E questa imprevedibilità fonda la sostanziale similarità tra noi e l’altr o. Abbiamo ritenuto quindi prioritario, in questa sede, aiutare il formatore ad assumere un atteggiamento di autoosservazione e di decentramento culturale rispetto ai modelli cognitivi ed ai giudizi di valore che costituiscono la struttura del suo modello didattico. Ciò può comportare anche l’esercitarsi a non considerare “naturali” le suddivisioni dello spazio, le successioni temporali, le abitudini che sorreggono i comportamenti preferenziali, nel corso dell’esercizio didattico quotidiano. (Callari Galli, 2000) Nel prossimo capitolo, prenderemo in considerazione i diversi ambiti di eterogeneità che un formatore può incontrare accettando di insegnare in una classe multietnica. 105 In questo senso sono molto interessanti i suggerimenti di Duccio Demetrio ed i suoi lavori sulle narrazioni autobiografiche (1992) 188 Capitolo 10 Specificità della classe multietnica Silvia Zabaldano 10.1. Elementi di eterogeneità in una classe multietnica Per trattare questa parte ci siamo messi dal punto di vista di un formatore più esperto che fornisce ad un formatore novizio alcune informazioni iniziali sulle caratteristiche di eterogeneità di una classe multietnica e sull’insegnamento della lingua seconda in tale contesto. Preferiamo partire da alcuni flash sulle caratteristiche di eterogeneità di un corso di migranti, in quanto tener conto di questo aspetto è forse quello che più può aiutare un formatore novizio nella fase iniziale del corso. Anche se la tentazione di considerare i migranti come una categoria unitaria al suo interno è ricorrente sia nel confronto con le classi di italiani, sia perché essa usufruisce di progetti ad hoc, è importante ricordare che al di là della comune motivazione all’inserimento lavorativo ogni straniero ha una storia unica e irrepetibile. Nella composizione della classe gli elementi di eterogeneità di cui tener conto a priori sono: l’età (adulti e minori), il titolo di studio, il sesso oltre che la provenienza etnica e la tipologia del corso. Quest’ultima può rappresentare un elemento di omogeneità quando il corso è rivolto ad una particolare utenza migrante, ad esempio corsi di Officina Meccanica per minori o corsi di taglio e cucito per donne disoccupate. Bisogna infine considerare la possibilità che il formatore venga coinvolto in richieste individuali specifiche del migrante, connesse alla situazione di vita quotidiana in una realtà poco conosciuta e spesso diffidente. Affrontiamo ora ognuno di questi aspetti. 10.1.1. L’età Le differenze d’età sono un elemento caratteristico nei corsi professionali serali e nei corsi di alfabetizzazione e delle 150 h, che sono infatti frequentati sia da minori che da adulti. Nella formazione professionale questo è stato un nodo critico: da un lato la tendenza all’indisciplina degli adolescenti era mal tollerata dagli altri studenti adulti e dall’altro la velocità di apprendimento più rapida dei minori creava al formatore problemi di differenziazione della didattica. 189 All’inizio del corso, all’interno della classe, si creava una netta separazione tra i due gruppi d’età; i ragazzi finivano prima la consegna e cominciavano a disturbare, allora gli adulti si infastidivano e li riprendevano in lingua araba o francese, mettendomi in difficoltà . (un formatore di un corso professionale serale) Durante l’anno, il più delle volte, questa problematica andava risolvendosi da sola (attraverso la conoscenza graduale interna alla classe) e gli stessi corsisti adulti diventavano una risorsa per il formatore, che finiva con l’attribuire loro una funzione di “freno” nei casi di indisciplina più evidenti. Inoltre è importante sottolineare che la partecipazione dei giovani migranti nell’orario preserale risultava essere saltuaria per le problematiche collegate alla prima accoglienza: i minori spesso non avevano tutele regolari e di conseguenza la priorità per loro era quella di assicurarsi vitto e alloggio stabili.106 Proprio per rispondere alle diverse esigenze in base all’età e per fronteggiare i casi di abbandono la Casa di Carità Arti e Mestieri ha previsto una tipologia di corso specifica per minori nell’orario diurno, differenziata dai moduli destinati agli adulti.107 10.1.2. I titoli di studio Nei corsi di alfabetizzazione e nella formazione professionale regionale (soprattutto nel caso di adulti) i corsisti possono provenire da percorsi scolastici differenziati. Tale eterogeneità varia in relazione ai criteri adottati per l’inserimento dei partecipanti ai corsi: la definizione dei prerequisiti e la tipologia d’utenza prevista nel progetto. Un punto discriminante è sicuramente il rapporto tra titolo di studio, maturato nel proprio paese, e la conoscenza della lingua seconda. Rispetto ai prerequisiti, nella formazione professionale la priorità viene data al livello di comprensione linguistica dell’italiano (quasi impossibile inserire analfabeti) e non al titolo di studio. Un’eccezione riguarda i minori per i quali è necessaria la licenza media conseguita in Italia e i mediatori culturali per i quali è richiesto un titolo medio alto nel paese d’origine. Dare la priorità alla conoscenza della lingua italiana può determinare però che all’interno della classe si trovino persone con bassa scolarizzazione insieme a persone diplomate o laureate. Viceversa, privilegiando il criterio opposto (è il caso dei corsi di alfabetizzazione o 150 h per stranieri), si trovano utenti con un livello di scolarizzazione simile ma con una diversa conoscenza della lingua seconda. Questo criterio di definizione dei prerequisiti può costituire un problema, il formatore può infatti dare per scontata l’avvenuta acquisizione di un contenuto scolastico o di conoscenze di metodo. 106 Si può in questo senso leggere la tipologia di corsi per migranti alla Casa di Carità Arti e Mestieri, cap.3, par.3.1. 107 Ibidem. 190 …Magari conoscono il verbo mangiare, per esempio dicono “io mangiare tanto pane”, ma non sanno che mangiare è un verbo e che i verbi si coniugano, lo stesso per i generi dei nomi. Il problema è che chi è andato a scuola si aspetta di avere informazioni sulla grammatica e sulla sintassi, mentre chi non c’è andato ha difficoltà a capire … Le strategie di apprendimento, i metodi di studio e l’approccio didattico al materiale proposto saranno completamente diversi se destinati a uno studente analfabeta in lingua madre o un altro scolarizzato nel paese d’origine. È importante, per una buona riuscita del corso, che il formatore, indipendentemente dalla materia che insegna, tenga conto della presenza di prestazioni cognitive molto differenziate e modifichi di conseguenza la prassi didattica, la scelta dei termini e il materiale proposto. Alcuni suggerimenti in questo senso saranno dati nel paragrafo che tratterà più in dettaglio l’insegnamento della lingua.108 10.1.3. La provenienza etnica Generalmente le richieste di iscrizione rispecchiano la distribuzione delle presenze delle diverse etnie sul territorio locale. Per esempio nell’anno ’98-’99 la classe dei mediatori culturali era formata in maggioranza da magrebini (Marocco, Tunisia, Egitto, Algeria) e da est- europei (albanesi), e a seguire da centro-africani (Nigeria, Costa D’Avorio, Congo), e infine, in misura decisamente inferiore, i cinesi e sud-americani (Perù, Brasile e per ultimi Messico, Colombia). 109 La stessa situazione si ritrova anche negli altri corsi della Casa di Carità Arti e Mestieri.110 Questa convivenza multietnica comporta una situazione di criticità almeno iniziale; i corsisti tendono infatti a dividersi nei vari gruppi etnici, a parlare solo con chi sentono “più vicino” e a mostrare una certa diffidenza verso l’altro che proviene da un paese non conosciuto e da un percorso di vita differente. Per evitare la nascita di possibili tensioni le prime settimane lascio la libertà ai corsisti di sedersi dove preferiscono e di solito si mettono vicino ai compagni del proprio paese . (un formatore) A volte possono verificarsi episodi che richiedono l’intervento immediato del formatore, eventualmente coadiuvato da un mediatore culturale. Due minori albanesi, con una buona conoscenza dell’italiano, nonostante i richiami continuavano a ridacchiare tra loro, a interrompere la lezione, disturbandomi e prendendo in giro i compagni marocchini e algerini con più difficoltà di comprensione; con il sostegno del mediatore li ho ripresi individualmente e li ho separati di banco. (un formatore) 108 Vedi capitolo 11 sull’insegnamento della lingua italiana. 109 Ibidem. 110 Nei corsi per minori i frequentanti sono in maggioranza marocchini e albanesi; invece nei corsi per donne sono prevalentemente marocchine e centro africane e lo stesso vale nei corsi per uomini adulti. L’unica particolarità è che le etnie cinesi e sudamericane sono quasi assenti nei corsi della Casa di Carità e vengono preferite altre tipologie di corso (es. assistenza domiciliare, lavori domestici...). 191 Dalle esperienze dei formatori si è visto però come, con il procedere del corso, la diffidenza iniziale tra allievi va progressivamente diminuendo; nella classe si verifica un progressivo “mescolamento” e una curiosità di scambio e confronto interculturale. L’altro, da estraneo e possibile “concorrente”, diventa un soggetto identificato con la propria storia (simile per sofferenza e scelte di vita), con le proprie difficoltà di inserimento e di accettazione da parte della realtà di arrivo e, il più delle volte, con progetto simile di stabilizzazione lavorativa e di miglioramento sociale. Interessante in questo senso può essere l’analisi di un caso, in cui si è verificata proprio la situazione sopra descritta: il passaggio da una netta divisione tra gruppi etnici a una vicinanza sentita con l’altro (condivisione). In un corso di taglio e cucito, formato da donne adulte in maggioranza marocchine musulmane (con velo) e nigeriane (di cui alcune uscite dalla tratta della prostituzione), inizialmente i docenti percepivano un forte distacco tra le due etnie. Le donne marocchine non capivano infatti l’atteggiamento ritenuto troppo “disinvolto e provocatorio” delle nigeriane, sia nell’abbigliamento, sia nel rapporto con i formatori donne/uomini, sia nel comportamento in classe (risate e importanza del contatto fisico); le nigeriane, dal canto loro, non comprendevano perché delle donne giovani e belle dovessero portare il velo (nascondendo capelli lunghi, neri e lisci…), abiti troppo lunghi e informi, nessun tipo di trucco. Solo attraverso il confronto quotidiano durante il corso e soprattutto nell’ora di taglio e cucito (in cui dovevano “misurarsi” a vicenda), nelle donne si è creato un sentimento di accettazione reciproca e anche di curiosità per le tradizioni culturali delle altre compagne. È quindi fondamentale per il formatore, che si trova ad insegnare in un contesto multiculturale, partire dalle esperienze e dai percorsi di vita dei singoli corsisti, valorizzandoli all’interno della classe, come momento di confronto e crescita complessiva del gruppo. (una formatrice di taglio e cucito) In ogni lezione, non importa quale sia la materia, può essere opportuno ritagliare un momento di intercultura quando emergono incomprensioni o diffidenze che potrebbero compromettere la riuscita del corso e creare un senso di “disagio” o di esclusione di alcuni corsisti. Sicuramente in questi casi è importante l’utilizzo di un mediatore culturale, che può supportare il formatore e, eventualmente, intervenire direttamente in classe. (un formatore di materie tecniche) 10.1.4. Le differenze di genere La percezione della differenza tra i ruoli sessuali è molto più marcata in altre culture e soprattutto in quella araba. Di conseguenza rispetto alle offerte dei corsi professionali vi è una diversità di aspirazioni e aspettative a seconda che si tratti di un migrante uomo o di una migrante donna. Contrariamente all’emigrazione tradizionale oggi esiste anche un’emigrazione femminile che arriva in Italia sola, lasciando figli e marito nel paese di provenienza: è il caso soprattutto delle filippine, somale, rumene e peruviane. Raramente queste categorie sono interessate a frequentare corsi 192 professionali (se non qualche ora di lingua italiana o corsi brevi per i lavori domestici nell’ambito della prima accoglienza e del volontariato) poiché grazie alle forti e radicate comunità di appartenenza e alla maggiore disponibilità delle famiglie italiane ad accoglierle trovano facilmente alloggio e lavoro (anche se nella maggioranza dei casi non regolare) nella collaborazione domestica e nell’assistenza ai malati e anziani. L’influenza della variabile sessuale incide soprattutto sotto due aspetti: la varietà delle motivazioni di iscrizione al corso (anche in relazione al titolo di studio) e le problematiche esistenziali e familiari che possono influenzare la riuscita e il completamento del modulo (soprattutto nel caso delle donne). Mi sono capitati molti casi di donne che da troppi mesi non vedevano il loro bambino, lasciato lontano con i nonni. Volevano un lavoro sicuro, una casa per portare finalmente il figlio in Italia. (una formatricedel corso di taglio e cucito) In Italia mi trattano bene; non mi posso lamentare del mio lavoro nelle famiglie, anche se sono diplomata alla scuola commerciale. L’unica cosa che mi fa piangere ogni mattina è sapere mio figlio lontano… Forse con questo corso potrò riavere mio figlio con me… (una corsista peruviana del corso per Mediatori Culturali) Molte donne straniere che scelgono un corso di formazione vivono quindi il problema del ricongiungimento come priorità e come spinta a migliorare professionalmente la propria condizione lavorativa. Anche altri fattori culturali, legati al ruolo di donna, emergono di sovente in un corso professionale destinato ad utenza femminile adulta: la maternità frequente per le musulmane, i condizionamenti familiari per gli orari (il problema dell’accompagnamento dei bambini a scuola al mattino) o la scelta della sede in cui fare lo stage. Infatti numerosi sono stati gli episodi di ritiro di donne dal corso per le gravidanze o per le malattie dei figli. In questo senso vanno anche letti i momenti di “incomprensione” tra il Centro e alcuni mariti, contrari al fatto che la moglie svolgesse lo stage in un ambiente di lavoro maschile. Ho notato nei miei corsi il fatto che almeno i 2/3 delle donne magrebine erano in stato di gravidanza; di conseguenza moltissimi erano i giorni di assenza e molte le difficoltà a r estare tante ore in piedi in cucina. Come avrebbero potuto sopportare la fatica dello stage in un ristorante? Mi chiedevo quante sarebbero riuscite a finire il corso…(una formatrice del corso di Ristorazione) Finalmente avevo capito il motivo delle frequenti gravidanze; è un disonore per la famiglia non avere un bambino entro il primo anno di matrimonio… (il tutor dei corsi per migranti di Ristorazione e Taglio e Cucito) Mia moglie non può fare lo stage da due uomini; piuttosto va via dal corso…(un marito marocchino) A questi aspetti si può collegare anche il fatto che alcune donne migranti non aspirino ad una crescita professionale, ma sembrino unicamente 193 interessate ad acquisire conoscenze utili all’interno della sfera domestica. È il caso di alcune donne che frequentano i corsi di Lavori Domestici o di Cucitrice Industriale: La verità è che ho scelto il corso perché c’è cucito che mi serve anche nella mia vita, e la cucina italiana…non per lavorare in un ristorante, no per questo no… più per me stessa che per un lavoro. (una corsista del corso di Taglio e Cucito) In questi casi il corso soddisfa una funzione di integrazione socio culturale, anche perché spesso rappresenta un motivo per uscire di casa e per confrontarsi con donne della stessa età e con problemi simili. Al corso ho imparato di più la lingua italiana e ho conosciuto meglio la città dove vivo con la mia famiglia… (una corsista di Ristorazione) Un secondo gruppo di donne sembra invece interessato a acquisire, attraverso il corso, qualifiche elevate, che permettano di recuperare la condizione culturale e economica perduta con l’esperienza dell’emigrazione. Si tratta di donne con un percorso di scolarità pregressa medio - alto, che vivono come un’esperienza umiliante l’essere relegate a lavori domestici o assistenziali. La volontà di trovare occasioni lavorative qualificanti assume quindi il carattere di desiderio e aspirazione profonda; inoltre il raggiungere una professionalità medio-alta (ad esempio nel settore dell’informatica) rappresenta un modo per liberarsi dal doppio vincolo rappresentato da predefiniti ruoli di genere e di etichetta di straniera. 111 Conosco tre lingue, arabo, francese e italiano, sono laureata in Economia e calcolo, so usare bene il computer e internet…ma con tutto questo non posso lo stesso trovare un lavor o gratificante perché sono straniera senza la cittadinanza… Io mi sogno qualcosa di più di fare le pulizie o di andare nelle pizzerie a lavorare…(una corsista zairese del corso di Mediatori Culturali). Per quanto riguarda invece le aspettative dell’utenza migrante maschile nei confronti dei corsi professionali possiamo rilevare due tipologie, collegate al titolo di studio conseguito nel paese di origine. Un primo gruppo è costituito da uomini con qualifiche elevate ma non spendibili sul mercato italiano che si ritrova inserito ai livelli più bassi o addirittura disoccupato. Questi adulti vedono la loro esperienza migratoria come fallimentare e affrontano il corso quasi rassegnati all’idea di avere solo un “pezzo di carta” in più; l’offerta formativa diventa quindi una risorsa sociale finalizzata più che altro all’integrazione socio-culturale.112 111 Si veda la mazione professio, curata per la Casa di Carità (in corso di stampa), al capitolo 3 “Domanda di formazione e esiti formativi a Torino: il punto di vista degli immigrati” , pag. 51-52-53. 112 Ibidem. Cap. 3, p.49-50. 194 Sono a Torino da trenta mesi…in Marocco stavo bene, facevo il meccanico di aerei…Qui non trovo niente per il mio titolo, non riesco a aiutare la mia famiglia e far venir qui mia moglie…adesso faccio questo corso, non per avere la qualifica tanto so già che non serve a niente, ma per non stare senza far niente…e poi con queste 4.000 £ un po’ mi aiuto. (un corsista marocchino del corso di Elementi di Officina Meccanica) Il secondo gruppo, più numeroso, invece è molto motivato a ottenere una qualifica. Si tratta di uomini con un percorso di scolarizzazione pregressa basso che intendono migliorare la loro professionalità e credono nell’utilità del corso come strumento per inserirsi meglio nella realtà lavorativa italiana o per ritornare nel paese di origine con qualifiche più appetibili. …Io ho iniziato a fare il corso per i soldi, il rimborso di £ 4.000 all’ora…dopo i primi due mesi di scuola ho visto che c’era qualcosa di più dei soldi e mi è venuta voglia di imparare… (un albanese del corso di Attrezzista stampista) …Con questo corso il mio lavoro è migliorato molto…mi ha insegnato ad essere più autonomo come mentalità invece che dipendere da altre persone anche sul lavoro…mi ha maturato in quella parte in cui non ero maturato. (un tunisino del corso di Elementi di Officina Meccanica) 10.1.5. Conflittualità interetnica in classe: le identità religiose e politiche All’interno di una classe multietnica è scontata la presenza di una pluralità di credi religiosi. Dalle interviste con i formatori è emerso come gli episodi di maggiore tensione siano collegati proprio a questa dimensione; i casi più rilevanti avvengono all’interno dello stesso credo religioso, tra i soggetti più rigidi, che seguono scrupolosamente i precetti, e quelli meno osservanti. Ad esempio nel periodo del Ramadan in diversi corsi si è arrivati ad uno scontro tra alcuni albanesi, che non seguivano le regole previste dal Corano (il digiuno, le preghiere individuali in orari stabiliti, le regole di comportamento…) e alcuni marocchini che invece osservavano alla lettera tutti i dettami. I primi si sentivano attaccati dagli altri in modo ingiustificato su valori personali (la religione e il come viverla sono scelte individuali), gli altri si sentivano colpiti nell’animo (questo è un attacco all’Islam e all’identità d’origine), e si ancoravano ancora di più alle proprie posizioni, accusando gli albanesi di assimilazione forzata alla realtà italiana attraverso la negazione della cultura di partenza. In questi casi di “pregiudizio” la maggior parte dei formatori intervistati ha affrontato il problema individualmente e al di fuori del contesto della classe, coinvolgendo il più possibile il mediatore culturale. Tra gruppi religiosi diversi (ad esempio tra cattolici rumeni e musulmani) lo scambio invece avviene con maggiore tolleranza; dopo la diffidenza iniziale verso l’altro che non si conosce (e così la sua cultura e i suoi costumi), il gruppo-classe arriva, con la frequentazione progressiva, ad un’accettazione 195 reciproca e una curiosità verso le diverse tradizioni culturali: raramente si verificano casi di critica accesa o incomprensioni offensive. Un altro esempio di conflitto tra stranieri si ricollega a motivi di politica locale tra partecipanti di paesi vicini, ad esempio tra africani francofoni e anglofoni o tra africani neri e bianchi. Anche in questo caso può essere opportuno l’intervento del mediatore culturale per poter arrivare ad un chiarimento, condiviso dalle due parti. Un problema, in questo senso, può nascere quando il mediatore culturale è della stessa nazionalità di una delle due parti in conflitto: durante il corso di Mediatore Culturale, seguito in codocenza da una mediatrice zairese, un allievo zairese ha litigato con una compagna della Costa d’Avorio. Quest’ultima ha rifiutato un possibile aiuto da parte della mediatrice, attribuendole a priori una posizione di parte e si è invece difesa da sola, minacciando di appellarsi ad un’autorità alternativa, che in questo caso era il marito: “Tu sei la mediatrice del Congo. Io chiamo mio marito che gli darà uno schiaffo a quello lì”. In questo caso la mediatrice congolese è stata capace di non entrare nel conflitto, cioè nella cornice proposta dai litiganti e, attraverso la calma ed il silenzio, ha rimandato ad un momento successivo la creazione di un nuovo scenario in cui le è stato possibile assumere un atteggiamento al di sopra delle parti. 10.1.6. Richieste individuali dei corsisti esterne all’iter didattico, collegate ai bisogni specifici del migrante. Occorre ricordare che alcuni corsisti stanno ancora vivendo una fase di emergenza che li può portare a non riposare, a mangiare male, a non avere punti di riferimento stabili e non ci si deve quindi meravigliare se qualcuno si addormenta sul banco o sembra “altrove”. Il docente può quindi trovarsi di fronte a richieste individuali di supporto e di consulenza per problematiche esterne alla didattica vera e propria: il lavoro, l’inserimento abitativo, le pratiche di regolarizzazione, l’accompagnamento ai servizi territoriali, l’assistenza sociale e sanitaria, gli eventuali corsi di lingua… Più volte mi è capitato di entrare in classe e di trovare uno studente in lacrime perché lo avevano sfrattato. Oppure mi ricordo di una donna della Costa D’Avorio che mi si è aggrappata piangendo, chiedendomi di trovarle un lavoro, perché non riusciva ad avere la regolarizzazione e questo significava non poter far venire qui il suo bambino. (una formatrice) Non è importante che il formatore sia in grado di esaudire tutte le richieste, ma che sappia, intanto, ascoltare e capire che nella maggioranza dei casi la motivazione stessa all’apprendimento è intrecciata con i problemi di 196 sopravvivenza; nello stesso tempo è necessario che egli abbia la certezza di poter condividere il carico di responsabilità che gli viene attribuito con altri interlocutori a cui eventualmente indirizzare la persona. Il formatore alla Casa di Carità Arti e Mestieri può contare ad esempio su diverse risorse disponibili: creare un collegamento con lo Sportello d’orientamento al Lavoro, confrontarsi con il tutor interno dei corsi per migranti oppure con i mediatori culturali che lavorano presso il Centro. In ogni caso il formatore non può sottrarsi a una diffusa aspettativa di disponibilità e nello stesso tempo è importante che non crei illusioni, anche perché qualunque impegno o promessa non mantenuti tendono ad essere vissuti come un tradimento. 197 Capitolo 11 L’insegnamento - apprendimento della lingua italiana nelle classi multietniche Gioia Maestro, Silvia Zabaldano 11.1. La lingua italiana nel corso professionale (a cura di Silvia Zabaldano) I problemi linguistici non devono far pensare che l’altro non sia complesso e strutturato da un suo percorso ben definito (cultura d’origine e cultura di accoglienza); la didattica deve tener conto del migrante come persona ancora più ricca, più complessa, perché si porta dietro due vissuti, due mondi. L’italiano per uno straniero che vive in Italia non è una lingua straniera, ma la lingua seconda, cioè la lingua parlata nel paese di arrivo, elemento indispensabile per un reale inserimento. Le motivazioni all’apprendimento sono quindi molto forti; i migranti vedono nell’apprendimento della lingua uno strumento per non essere emarginati nella società ospitante e per migliorare la propria situazione lavorativa. Il bilinguismo dei soggetti migranti può essere di due tipi: aggiuntivo e sottrattivo.113 Il bilinguismo aggiuntivo indica il sistema linguistico di uno straniero che ha sviluppato una buona competenza nella lingua seconda, fortemente valorizzata nell’ambiente sociale d’arrivo (scuola, tempo libero, incontro con conoscenti o istituzioni), mantenendo però vivo il suo repertorio linguistico precedente. Questo processo di apprendimento avviene in modo tale che nessuno dei due sistemi di conoscenza sia messo in pericolo. Lo straniero bilingue sviluppa, in questo caso, delle competenze pari a quelle di un parlante nativo in tutte e due paesi; ciascuna lingua corrisponde ad un sistema di comunicazione completo, permettendo al soggetto di contare su due registri linguistici e culturali, intercambiabili in rapporto alla situazione e all’interlocutore. Il bilinguismo sottrattivo indica invece il caso di un soggetto migrante, la cui lingua d’origine non è valorizzata e che si trova a dover acquisire una lingua seconda, mettendo completamente da parte il bagaglio di conoscenze precedenti. Questo processo potrebbe portare il migrante ad una padronanza ridotta delle due lingue, al cosiddetto fenomeno del semilinguismo, visto come “comprensione mancante” dei due codici linguistici. La definizione dei prerequisiti linguistici è sicuramente un nodo critico sia per il formatore che si troverà ad insegnare in una classe eterogenea nei livelli di conoscenza della lingua seconda, sia all’interno della rete nel collegamento tra scuola e formazione.114 113 Dispensa di Cultura Generale per Migranti a cura della Casa di Carità. (materiale interno). 114 Vedi capitolo 7, paragrafo 7.4. 199 11.1.1. Metodologie di insegnamento: risorse e strategie I formatori non dovranno spaventarsi di fronte alle diversità linguistiche dei corsisti; la multietnicità diventa un valore, un arricchimento, una risorsa se valorizzata dal punto di vista comunicativo-relazionale. Non va dimenticato che il disagio è solo un pezzo dell’emigrazione e che i migranti, cercando una stabilizzazione professionale e un riconoscimento sociale, puntano a migliorare la conoscenza della lingua seconda. È comunque evidente come la preparazione linguistica condizioni l’apprendimento; in una classe multietnica ogni parola dovrà essere decodificata insieme ai corsisti. La comprensione è ufficializzata solo attraverso il coinvolgimento diretto dei migranti, che metteranno ogni volta in gioco il loro background di conoscenze culturali e linguistiche; solo in un secondo momento il formatore potrà arrivare ad una corretta specificazione tecnica. In questo senso anche l’errore grammaticale diventa un elemento su cui soffermarsi; sull’inesattezza linguistica è importante ragionare con l’intera classe. Lo sbaglio può infatti essere ricollegato alla struttura linguistica o fonica di un certo paese o area geografica (Magreb o Cina) e quindi può essere utile a tutto il gruppo un approfondimento: anche un particolare accento o una particolare struttura sintattica possono costituire elementi di valorizzazione della realtà interculturale. Come emerge dalle interviste dei formatori, di fronte alla pluralità di preparazione linguistica dei corsisti inseriti in una stessa classe, la strategia adottata è quella di rivolgersi alla soglia più bassa, seguendola più da vicino. Ai soggetti più preparati si possono affidare anche compiti individuali, che verranno messi poi in comune e discussi collettivamente, valorizzando i contributi interattivi dell’intero gruppo-classe. Gli studenti scolarizzati sono infatti consapevoli che le parole sono elementi che si combinano in certi modi (grammatica) e con uno stesso linguaggio (metalinguaggio). Nell’apprendimento della lingua seconda essi utilizzeranno sempre la struttura della loro lingua madre e procederanno operando un confronto tra il proprio codice linguistico e quello di acquisizione. Al contrario gli studenti scarsamente scolarizzati non utilizzano queste strategie di apprendimento, ma necessitano di stimoli didattici totalmente privi di riferimenti grammaticali convenzionali (imparati normalmente nella scuola elementare); non possiedono il codice scritto della propria lingua madre e quindi non possono ricorrere all’ausilio del dizionario o a schede bilingue. Gli argomenti proposti dovranno quindi essere concreti e calati nella realtà, altrimenti non verrebbero recepiti e quindi sarebbero rifiutati come inutili e incongruenti. (W.Ong 1986, Gardner H. 1984, Elias N. 1986, Massa e altri op.cit). Una frequente situazione critica si collega al fatto che i corsisti della stessa etnia, almeno all’inizio del corso, tendono a comunicare tra loro in lingua d’origine, escludendo in questo modo gli altri compagni e mettendo in difficoltà il formatore. 200 Questo problema può essere risolto predisponendo alcune ore di conversazione in lingua d’origine con i mediatori culturali. Nello stesso tempo, già dalle prime lezioni, è importante invitare la classe a sforzarsi nell’esposizione nella lingua seconda, responsabilizzando i singoli soggetti sull’utilità di una corretta preparazione per il futuro inserimento. Un’altra risorsa implicita può essere quella della conoscenza della lingua francese per l’area del Magreb o le ex colonie francesi o inglese per nigeriani e cinesi. Una strategia vincente, già sperimentata in alcuni corsi per stranieri della Casa di Carità Arti e Mestieri, è stata quella di realizzare, con il contributo della classe un “minivocabolario”, che contenesse la spiegazione dei termini tecnici più frequenti e la traduzione in arabo, francese o inglese. Nodo critico è anche quello della fossilizzazione linguistica , intesa come facilità dello straniero a apprendere velocemente il vocabolario di base in risposta ai bisogni immediati e a fermarsi a questo livello manifestando una indisponibilità ad un approfondimento ulteriore della conoscenza linguistica.115 Quali sono quindi i reali bisogni linguistici (peso di una corretta esposizione orale o di una corretta produzione scritta) degli stranieri? Spesso i docenti si costruiscono una visione riduttiva, esclusivamente pragmatica della lingua e ciò frena la capacità di motivare i corsisti stranieri ad un apprendimento avanzato della lingua italiana, una volta raggiunto il livello standar d, cioè quello che permette di ottenere una risposta ai bisogni primari. Sicuramente in un corso di formazione professionale una spinta per i migranti a migliorare la conoscenza della lingua seconda è legata allo sbocco lavorativo futuro; soprattutto alcune professionalità richiedono precisi requisiti linguistici e l’utilizzo appropriato di terminologie tecniche specifiche (ad esempio nel corso per mediatori culturali la conoscenza di termini relativi ai settore sanitario, legislativo, antropologico…). Una possibile soluzione può essere quella di spingere il migrante, che frequenta il corso professionale, a intraprendere un percorso di alfabetizzazione o di formazione linguistica nelle strutture del Provveditorato o degli Enti Locali. Nella formazione professionale regionale l’obiettivo è infatti quello di portare tutti i corsisti ad un livello di conoscenza linguistica funzionale all’inserimento lavorativo e sociale (L2).116 In questo senso si è mossa la Casa di Carità Arti e Mestieri, che ha ricercato una soluzione a questo problema attraverso una collaborazione con i Centri Territoriali Permanenti, Parini e Braccini che hanno aiutato nella preselezione dei futuri iscritti nei corsi per minori; questa strategia sperimentale non è stata però ancora formalizzata ufficialmente dall’Ente, e sarebbe opportuno estenderla a tutti i corsi per stranieri. 115 Si può ipotizzare che questa indisponibilità possa avere diverse radici, emotive o cognitive, e sarebbe interessante svolgere in questo senso delle ricerche che aiutino a individuare dei sostegni appropriati. 116 Criterio di riferimento adottato dai Centri Territoriali Permanenti per indicare i migranti con una conoscenza medio-bassa della lingua seconda. 201 Un altro aspetto rilevante nell’insegnamento della lingua è che un buon metodo didattico parta dal mondo interiore degli allievi, dalla loro matrice cognitiva, dalla personale visione del mondo, dai percorsi vissuti. Un apprendimento può risultare significativo quando riesce a collegare nuovi contenuti alla cultura d’origine di ogni corsista. L’approccio nell’insegnamento della lingua seconda sarà sempre quindi di tipo comunicativo-funzionale , sia per l’apprendimento degli automatismi di lettura e di scrittura, sia per lo sviluppo di competenze strumentali. Anche le stesse situazioni comunicative saranno selezionate a partire dalle esigenze concrete della vita quotidiana dello straniero: i documenti, il lavoro, la conoscenza del territorio e dei servizi per stranieri nella città, la salute, la casa, i bisogni culturali e sociali… Ovviamente a ciascun livello preparatorio viene presentato materiale adeguato alle capacità dei corsisti, con particolare attenzione al lessico. In un corso multietnico un momento centrale è sicuramente la ricostruzione della mappa geografica della classe, strumento indispensabile per non disperdere il patrimonio culturale/linguistico di ogni soggetto e il suo percorso individuale. 11.2. Per chi vuol saperne di più sulla lingua (a cura di Gioia Maestro ) Vorrei offrire sulla base di un’esperienza maturata sul campo nell’arco di un quinquennio, (corsi liberi per stranieri nel Comune di Milano) qualche suggerimento a quanti si trovano, nelle situazioni più disparate, ad insegnare la lingua italiana agli stranieri. Nella Formazione professionale, nei corsi di alfabetizzazione all’interno dei centri di prima o seconda accoglienza, nelle iniziative di solidarietà promosse dagli operatori del volontariato o nei percorsi finalizzati all’integrazione sociale e culturale degli stranieri, gestiti dai Servizi delle amministrazioni locali spesso l’insegnamento della lingua riveste un carattere pre e transdisciplinare trovando posto al lato di altre attività educative; talvolta chi generosamente si cimenta in questa pratica, non dispone di una specifica formazione come docente di lingua. Dunque la modesta arte del consiglio che nulla ha a che vedere con l’ignobile tentazione della ricetta, può forse essere concretamente di aiuto. Il primo quesito è ovviamente “ma che italiano insegnare?” Il problema è aperto al dibattito e al confronto permanente di ricercatori e specialisti dal momento che la nostra, come ogni altra lingua usata da una comunità di parlanti è un organismo vivo in continua evoluzione. La riflessione sull’italiano standard ha comunque prodotto negli ultimi anni una letteratura sufficientemente ricca e aggiornata. Oltre ai centri universitari117 è possibile 117 Vedi capitolo 8. sulla CISL. 202 per chi cerca bibliografia sui corsi base, intermedio e avanzato di italiano, rivolgersi a una libreria specializzata: manuali, eserciziari, metodi corredati di supporti audiovisuali, unità didattiche integrate da repertori lessicali e morfosintattici, l’offerta è decisamente sovrabbondante. A mio avviso i prodotti, generalmente di qualità accettabile, si equivalgono; il criterio con cui scegliere non è quindi così diverso da quello che adotterebbe un qualsiasi consumatore accorto, dotato di buon senso e mediamente capace di orientarsi nel mercato. A questo proposito una sola avvertenza: un testo, un manuale, un insieme di esercizi o un set didattico provvisto di video o cassette, per quanto ben confezionato sia, è e rimane uno strumento a disposizione del formatore e degli studenti. Come tale va quindi utilizzato e proposto. Ciò che nessuno strumento sarà mai in grado di fare è sostituirsi né in tutto né in parte alla dinamica interattiva all’interno del gruppo classe. Affidare/affidarsi per tutta la lezione o per molte lezioni allo strumento tout court può dare un ingannevole e provvisorio senso di sicurezza a chi insegna, ma i risultati rischiano di essere deludenti. Personalmente diffido di ogni pacchetto “precotto” con pretesa di esaustività, che finisce col togliere spazio, perché il tempo si sa, è quello che è, alle energie cognitive e creative che circolano in ogni gruppo classe, solo che si abbia voglia di coglierle e farle emergere. Seguire pedissequamente vignette dal tratto infantile che propongono situazioni ovvie o ripetere all’infinito l’ascolto di scambi di battute banali può generare una noia mortale e chi si annoia porta i suoi pensieri e i suoi desideri altrove, magari dalla fidanzata, sul luogo di lavoro, su una notizia di cronaca che riguarda il proprio Paese, sul sogno di una bella vacanza o più banalmente su una commissione da fare o sul piatto da cucinare appena terminata la lezione. Ovunque insomma, meno che lì dove occorrerebbe trattenerli per imparare qualcosa. Quindi ben venga un buon testo didattico, ciò che serve è in definitiva un nutrito eserciziario nel quale sia chiaramente leggibile la corrispondenza tra strutture morfosintattiche, funzioni comunicative e test proposti, purché non si pensi che da solo sia in grado di produrre efficaci occasioni di apprendimento; meglio poi se il testo non è dei più cari o destinati a “scadere” in un lasso di tempo troppo breve. Le insidie in proposito sono molte: materiali del tutto autosufficienti che per essere utilizzati richiedono il collegamento con ulteriori segmenti, fascicoli, quaderni o supporti d’altra natura. A volte il costo complessivo è tale da equivalere a quello per l’acquisto di un ragionevole numero di l i b r i - l i b r i(o libri veri) in edizione economica. Collodi, Rodari, Calvino, o Scerbanenco, ma anche Stefano Benni, Carlo Lucarelli, Rosetta Loy, Antonio Tabucchi, e Renato Olivieri se si cercano brani di scrittori contemporanei. Una decina di anni fa, Pap Khouma, un giovane senegalese immigrato a Milano nei primi anni ottanta, ha raccontato a Oreste Pivetta, un giornalista all’epoca responsabile dell’inserto libri del quotidiano “L’Unità”, l’avventurosa odissea del suo percorso migratorio. Ne è uscito un volume, “IO VENDITORE DI ELEFANTI” pubblicato da Garzanti (quinta edizione 1996, costo lire ventunomila) 203 nella collana “memorie documenti biografie”, ricco di spunti interessanti e al tempo stesso semplice ed essenziale come riesce esserlo un buon testo giornalistico. In un corso intermedio o avanzato può essere adottato e utilizzato in modo proficuo, sia sul piano dei contenuti, sia ovviamente su quello dell’analisi linguistica118. E soprattutto, finito il corso ed esaurito l’utilizzo funzionale, questo come altri libri-libri , potranno prendere posto in casa, vicino agli oggetti più familiari di cui si ama circondarsi perché prima o poi, magari tra qualche anno, si ha voglia di riprenderli in mano. L’adulto che investe economicamente nell’incremento del proprio sapere compie una scelta troppo importante perché chi si assume la responsabilità di sollecitarla non valuti a fondo questo aspetto del problema. Anche un dizionario in lingua di medie proporzioni (minimo sessantacinquemila voci) e uno dei sinonimi e dei contrari altrettanto ricco, sono da questo punto di vista beni durevoli, spesso in appendice sono presenti anche compendi morfosintattici sintetici, ma completi. Se a scuola, per ampliare lessico e conoscenze ortografiche, si apprende l’uso dei dizionari e gli studenti vengono aiutati a decifrarne il complesso sistema di segni e abbreviazioni, potranno continuare a consultarli in caso di necessità, ben oltre il termine del corso stesso. Dizionario in lingua, dizionario dei sinonimi e contrari dunque, come dotazione personale di ogni studente. Nelle unità di apprendimento in classe però, è anche utile procurarsi dizionari bilingue almeno per i tre principali idiomi veicolari occidentali: inglese, francese e spagnolo. Il dizionario si presta infatti sia alla consultazione individuale, sia al lavoro di coppia o di un gruppo ristretto. Durante la lezione sarà possibile predisporre una grande varietà di giochi linguistici (ricerca di definizioni rispetto a termini dati, equivalenti semantici di proverbi e modi di dire in altre lingue e culture, espressioni idiomatiche, individuazioni delle parentele etimologiche, ecc.). Quanto all’insegnante, il consiglio è di cercare quei materiali che si prestano a manipolazione cominciando magari con introdurre piccole varianti a misura del gruppo classe, in ciascuna delle unità tematiche presenti nel testo che si è adottato. Costruire materiali didattici e prove di lingua utilizzando tecniche e procedure consolidate, (completamento, scelta multipla, individuazione di coppie sinonimiche o contrastive in una lista data, ecc.) diventa, anche per il formatore, un’insostituibile occasione di apprendimento. Adattando temi ed esercizi alla situazione reale del gruppo classe si possono verificare con più immediatezza i punti deboli di ciascuno (se la complessità del nostro sistema verbale o la tortuosità insidiosa delle forme pronominali combinate sono tra gli scogli più ardui per chiunque, è vero che provenienze linguistiche disomogenee producono una gamma di errori molto variegata: 118 Scegliendo brani da dettare si potranno proporre esercitazioni di ortografia; leggendolo ad alta voce si potrà intervenire sulla fonetica; chiedendo di riassumere oralmente qualcuno degli episodi narrati si potrà verificare il livello di comprensione e sviluppare la capacità di espressione; l’incontro con un participio anomalo o con una forma verbale complessa stimolerà la riflessione sulle strutture sintattiche più evolute, ecc. 204 sbagliando per interferenza un ispanofono dirà “ieri il tale ha venuto a trovarmi” e un anglofono faticherà ad assimilare la concordanza, nel caso dell'aggettivo possessivo, con l’oggetto posseduto invece che con il soggetto possessore). Infine, oltre a facilitare la messa a fuoco delle lacune dei singoli, somministrare materiali di lavoro originalmente rielaborati facilita la restituzione dell’indispensabile feed back sull’efficacia delle proprie strategie educative e didattiche e consente quindi al formatore di correggersi, aggiustando progressivamente il tiro. Un volume che non può essere adottato dalla classe, ma che mi sento di suggerire come strumento di consultazione agli insegnanti, perché dubbi e quesiti linguistici di italiano vi trovano spiegazioni esaurienti e approfondite è: GRAMMATICA ITALIANA con nozioni di linguistica (terza edizione, lire cinquantamila) di Maurizio Dardano e Pietro Trifone edito da Zanichelli. Per concludere alcune domande che ritengo dovrebbe preliminarmente porsi chi intende tenere un corso di italiano. Soprattutto, ma non solo, se manca di una specifica formazione professionale in questo senso: Capisci e/o parli qualche parola del tuo dialetto? Hai mai studiato (almeno un po’) una lingua straniera? Ti piace leggere? Ti piace scrivere? Va da sé che, per intraprendere l’avventura nel modo giusto e contare su buone possibilità di ricavarne adeguata soddisfazione, le risposte dovrebbero essere positive. 11.2.1. Suggerimenti per la costruzione di un’esercitazione didattica per l’apprendimento della lingua italiana (Una modesta proposta) L’esercitazione qui riprodotta è stralciata da “Conosci Milano, Milano in Giallo e Nero” un set didattico multimediale edito dal Coordinamento dei CEP - Centri Educazione Permanente- del Comune di Milano, nel giugno 1997. L’idea di produrre questo materiale didattico è nata all’interno dei Centri di Educazione Permanente ai quali, ormai da qualche tempo, e con dati numericamente sempre più consistenti, si presentavano adulti stranieri già alfabetizzati in italiano. Studenti e Studentesse, provenienti come spesso accade da ogni parte del mondo, non erano dunque ‘principianti’, bensì persone che avendo già assimilato i rudimenti della lingua (per la verità buona parte di loro la capiva e la parlava già discretamente), si rivolgevano alle nostre strutture formative chiedendo “altro e di più”. Ma altro cosa e di più che? Alla nuova domanda “non solo lingua!”, peraltro assai genericamente espressa, si era già iniziato a rispondere attivando corsi di livello intermedio ed avanzato e, dopo la seconda metà degli anni novanta, strutturando delle unità di apprendimento più brevi e flessibili denominate “club di cultura in lingua”. 205 È stato a questo punto che abbiamo deciso in via del tutto sperimentale di provare a confezionare del materiale ad hoc da utilizzare nei club. Così è nato il progetto per la costruzione del set didattico “Conosci Milano, Milano in giallo e nero” grazie soprattutto a chi ci ha creduto, a chi ci ha messo tempo e lavoro, a chi (gli autori delle novelle) ha deciso di regalargli il “frutto dell'opera dell'ingegno” e a chi gli ha dedicato una notevole dose di paziente determinazione. E, naturalmente, grazie alla Giunta Comunale che, su proposta dell’Assessore all’Educazione, ha deliberato lo stanziamento dei fondi: tredici milioni di lire per produrre cinquecento copie del set. Questo materiale è stato poi ampiamente utilizzato nei corsi di lingua e cultura italiana per stranieri, anche al di fuori dei Centri di Educazione Permanente in cui era stato progettato. Agli studenti che intendevano acquisirlo, (la scelta era assolutamente opzionale) è stato consegnato alla somma di trentamila lire, nella forma di contributo-rimborso spese per dispense, pagabile con la stessa modalità dell’accesso ai corsi, tramite bollettino di conto corrente postale. Il set, un box in cartonato lucido (ovviamente di colore giallo con le scritte in nero) chiuso da un elastico verticale e con la riproduzione del Duomo ambrosiano in copertina, contiene: • Quattro cassette audio con dieci sceneggiati di piccole storie poliziesche ambientate a Milano, recitate da giovani attori, allievi del 3° corso della civica scuola di arte drammatica “Paolo Grassi”. • Un volumetto che raccoglie i dieci racconti da cui sono tratti gli sceneggiati. • Una piantina con la quale gli studenti stranieri, soli o accompagnati dagli insegnanti, possono girare la città visitando i luoghi in cui sono ambientate le vicende narrate, ma anche ri-conoscere piazze, angoli e vie della loro stessa geografia quotidiana. • Un quaderno diviso in due parti: la prima in cui vi sono gli esercizi linguistici sui testi, la seconda contenente schede su Milano, i suoi edifici, i suoi monumenti, le sue strade con le trasformazioni e gli stratificati assetti urbanistici, portato del gusto e delle decisioni del potere nelle diverse epoche storiche. Abbiamo cercato cioè di costruire uno strumento utile per orientarsi nella lingua, ma anche nel complesso intreccio di connessioni tra cronaca, commercio, gastronomia, vetrine di lusso, odor di Navigli e guglie gotiche, residui di archeologia industriale, nuove e antiche povertà. Forme idiomatiche allora, passati remoti irregolari e ridondanze pronominali, ma anche storia, arte, politica e dinamiche sociali in cui è radicato il cuore della città che i destinatari della proposta didattica abitano. Una chiave insomma, o meglio un mazzo di chiavi per aprire le porte della comprensione di testi e contesti umani e relazionali in cui i testi sono prodotti; con l’obiettivo di aiutare i nuovi arrivati a compiere il faticoso cammino che porta dalla sopravvivenza all'integrazione, da essere straniero a sentirsi cittadino. La realizzazione del set didattico multimediale è opera di un’équipe di 206 professionisti con esperienze e competenze differenti: Carlo Oliva, lo sceneggiatore che ha curato il trattamento dei racconti, Maura Molteni, la docente del corso attori che ha guidato e diretto le performances recitative degli studenti, Enrico Venturelli, l’esperto di storia dell’arte. Io mi sono occupata degli esercizi linguistici sui testi; riporto qui, a titolo esemplificativo, la parte relativa alla comprensione della lettura di uno dei racconti. Questo in assenza della cassetta audio che, contenendo lo sceneggiato recitato tratto dalla stessa storia, consente di lavorare pure sulla comprensione all’ascolto. Il racconto utilizzato è: “CHE COSA NON SI FA PER TROVARE LAVORO” di Tea Vergani. L’unico asterisco, accanto al grado di difficoltà, indica che siamo in presenza di un testo relativamente “semplice”. I racconti più complessi, vuoi per trama e impianto narrativo, vuoi per articolazione della sintassi, vuoi per la ricchezza del lessico e delle forme idiomatiche o per la sovrabbondanza dei riferimenti extralinguistici, sono contrassegnati con due o addirittura tre asterischi. Semplice non significa di accesso immediato e gli esercizi sicuramente non lo sono. Le istruzioni, per esempio, utilizzano intenzionalmente una terminologia da professor “Grammaticus”. Questo non è volto a disorientare gli studenti, ma piuttosto, a indurre i docenti ad accompagnare gli studenti nella corretta comprensione di ciò che ci si aspetta da loro. Troppe volte per la fretta di fare, non ci si ferma a pensare. Spiegare cosa sia un’equivalenza semantica, sollecitare la riflessione su analogie e differenze, stimolare la caccia al sinonimo o richiedere di cimentarsi con l’umile esercizio della parafrasi aiuta lo studente a sviluppare la consapevolezza metalinguistica, il difficile rapporto tra l’insieme di regole della lingua da apprendere e l’ecosistema linguistico del parlante. Oltre al racconto di Tea Vergani e ai relativi esercizi, ho pensato di aggiungere gli spunti riepilogativi che chiudono il quaderno degli esercizi. Pur riferendosi a testi che qui non sono riportati, ritengo possano essere di una qualche utilità a livello metodologico, secondo il noto proverbio, sicuramente inventato da un pedagogista-pescatore o da un pescatore-pedagogista, che tanto tempo fa sosteneva: se vuoi aiutare qualcuno che ha fame, non dargli pesci, ma insegnagli a pescare. 207 Parte quinta RECIPROCITÁ E VULNERABILITÁ RISPETTO ALL’AUTODEFINIZIONE 209 Capitolo 12 Violazioni della reciprocità Laura Bonica 12.1. Definizioni Preferirei essere insultato piuttosto che ignorato o deriso di nascosto. (In Carlini,1991, pag. 22) Gli aspetti di eterogeneità appena considerati possono aiutarci a intuire quanto sia facile provocare la suscettibilità di uno o dell’altro partecipante e come sia importante, invece, riuscire a creare un clima di fiducia e di attenzione condivisa. In questa parte vorremmo presentare alcune forme ricorrenti di violazione della reciprocità che possono occorrere nella situazione formativa e mettere l’accento sull’importanza di allenarci ad un atteggiamento di ascolto, di negoziazione, e anche di gioco. Possiamo considerare violazioni della reciprocità quelle situazioni comunicative, in cui “l’altro” o uno dei partecipanti è ignorato o frainteso o scavalcato rispetto alla propria capacità di autodefinirsi in quel dato contesto. (Bonica 1990a, 1991) In altri termini l’altro si sente disconfermato o non è d’accordo, e per farsi riconoscere dovrebbe, a sua volta, smontare il messaggio ricevuto ed assumere lui l’iniziativa di ricostruire la cornice della comunicazione. Ciò non è sempre facile, soprattutto se la lingua nella quale ci si deve esprimere è una lingua straniera. Da parte dei corsisti migranti il chiedere o il contrapporsi o lo spiegare meglio cosa si voleva dire è reso più problematico dalla difficoltà di esprimere pensieri complessi, in cui può giocare l’interferenza tra passato e presente, in un’altra lingua: Un amico del corso ogni tanto trova sbagliato quello che viene detto, avendo fatto il biologo, ma non lo dice e si morde la penna perché dice: ma se magari io so ancora più italiano, magari posso protestare di più. Ma anche uno che dice che non è d’accordo con quello che ha detto: allora spiegami. Ed è proprio la spiegazione che mi è difficile dopo e allora diventa un casino. Comincia a spiegare, poi a un certo punto si ferma perché nella sua mente, facendo la traduzione fra arabo, francese e italiano… un blocco… allora si accontenta di quello che ha detto (il docente) e basta.(Riva , in Massa, op.cit., pag. 69) Comune a queste modalità comunicative è un atteggiamento di presupposizione unilaterale: anche se il più delle volte in buona fede, si presume che l’altro non reagirà, perché sarà d’accordo, e viene considerato inutile verificarne il consenso sulle definizioni attribuite. La bontà della presunzione tende inoltre ad essere confermata ogni volta che l’altro non reagisce immediatamente in modo esplicito; allora il malessere, il disagio che 211 pure viene avvertito, tende ad essere interpretato con altre presupposizioni unilaterali. Alcuni tra i più frequenti messaggi di violazione di reciprocità osservati anche nelle situazioni scolastiche con classi di italiani e nel gioco tra bambini, (Bonica 1990a, 1990b ) potrebbero essere: • • • • • Tu non esisti; Tu non dovresti nemmeno essere qui; Io so già come sei; Io so già che cosa sai; Io ti disconfermo su ciò per cui ti chiedo aiuto. Di solito la persona che riceve questi messaggi manifesta espressioni di perplessità e di disagio emotivo e avvia un processo più o meno esplicito per cercare di ristabilire il diritto a definirsi in quella situazione; infatti ciò è indispensabile anche per poter poi negoziare l’eventuale disaccordo sulla definizione stessa. (Bonica, 1990 b) I primi due messaggi corrispondono spesso a comportamenti di ignoramento o “scavalcamento” dell’altro; per esempio se alla presenza di una persona straniera si parla sempre e solo la propria lingua in modo spedito oppure quando si definisce l’altro, rivolgendosi a un terzo, dando per scontato che l’altro sia d’accordo su questa definizione. Il terzo e il quarto si riferiscono spesso ad un atteggiamento di anticipazione unilaterale sul comportamento o sulle competenze che l’altro sta mettendo o metterà in atto nella situazione. Aspettarsi, per esempio, che qualunque migrante accetti di essere chiamato con il “tu” oppure trattarlo come analfabeta senza tener conto che può essere già alfabetizzato e magari avere conseguito un diploma nel proprio paese d’origine. L’ultimo messaggio è più complesso, già nella formulazione, perché maschera con una dichiarazione una richiesta di aiuto; ciò è frequente quando la persona che ha bisogno d’aiuto non vuole ammetterlo o teme che, ammettendolo, perderebbe la propria dignità personale, e quindi cerca di ottenerlo, attraverso una modalità comunicativa che mette l’altro in posizione di debolezza. Ma quando l’altro accetta questa definizione di debolezza o di incompetenza, diventa contraddittorio o paradossale fornire l’aiuto che è stato implicitamente richiesto. Può innescarsi, così, un vissuto di disagio e di fraintendimento che spesso tende ad essere ignorato sul piano delle conseguenze interpersonali della relazione, ed ad essere invece risolto rifugiandosi nello stereotipo dei rispettivi ruoli. Nella formazione e nella mediazione culturale questa modalità di comunicazione può servire a mascherare uno squilibrio di potere non accettato, che può riferirsi al ruolo asimmetrico, ad esempio discentedocente/mediatore/tutor, ma più di frequente ad un ambito puntuale in cui occorre accettare che l’altro ha più competenza o più strumenti, anche se è un proprio pari, ad esempio, nel rapporto tra docenti o tra extracomunitari della 212 stessa etnia. Il discorso sotteso a questa modalità di comunicazione è del tipo: è vero che tu ne sai di più e potresti aiutarmi, ma io non voglio imparare da te, non voglio mettermi nella posizione di chiederti l’aiuto; i perché possono esser e diversi perché non ti stimo, oppure perché dovrei rinunciare all’immagine autonoma di me stesso, oppure perché ho maturato una premessa implicita di sfiducia nella possibilità di un altro ad insegnarmi qualcosa, oppure perché mi vergogno di essere ignorante o di avere bisogno in questo specifico campo, quindi se mi trovo a dipendere da te per un aiuto, se posso, cerco di ottenerlo senza fartelo capir e (estorsione), oppure cerco di indebolire il tuo poter e (calunnia), oppure lo rifiuto esplicitamente. Per contro la persona che riceve questo messaggio può sentirsi raggirata, oppure confusa, oppure impotente, oppure può negare il disagio enfatizzando il proprio ruolo di maggior potere, esponendosi, così, a sua volta, a mettere in atto una violazione della reciprocità nei confronti dell’altro. (Bonica, 1990a) Vediamo ora qualche esempio. Se scelgo l’interruzione di gravidanza una mediatrice della mia cultura non mi può aiutare. Con questa affermazione una donna extracomunitaria esprime la convinzione che sia più doloroso ammettere una trasgressione con una persona della propria cultura che con un’estranea, pur desiderando avere accanto una persona familiare. Da parte della mediatrice culturale in questione si sviluppa il senso di impotenza ad aiutare una propria connazionale in difficoltà. Non mi ha nemmeno ringraziato! Sono una mediatrice culturale rumena e insegno intercultura nel corso per mediator e culturale. Mi sono data da fare per un’allieva della Costa d’Avorio che mi aveva fatto capir e di avere bisogno di trovare lavoro. Poiché questa ragazza sapeva il francese, e io, come mediatrice, sapevo che cercavano delle donne che sapessero bene il francese per poche ore di interpretariato ben pagato e rinnovabile, ho pensato di proporlo a lei. Ed infatti le ho parlato, le ho dato indirizzo, telefono e tutto e lei, contenta, mi promette che andrà a presentarsi. Che cosa mi ha ferito? il fatto che l’hanno assunta e lei non mi ha detto niente. Ha continuato a venire a scuola, ho continuato a vederla, ma l’ho saputo per caso dai suoi compagni che l’avevano assunta. Con una insegnate italiana non si sarebbe certo comportata così. Non me lo aspettavo proprio e ci sono rimasta davvero male! Sempre la stessa formatrice, che parla benissimo italiano: Mi sto rendendo conto che da una formatrice extracomunitaria i corsisti extracomunitari pretendono di più, sono più contestatari, pretendono di correggermi anche sulla lingua. Certe volte sembra che non vogliano o che non abbiano quel bisogno d’imparare che invece c’è, come è stato per me, anche se ero già un ingegnere nel mio paese. Questi esempi evidenziano la difficoltà a gestire la distribuzione del potere in una relazione. Se qualcuno è ritenuto un pari, un simile, relativamente ad una sfera soggettivamente molto significativa, può diventare più difficile 213 accettare di vederlo in un ruolo superiore rispetto ad un problema che è inerente a quella stessa sfera. Tuttavia, nel mondo della formazione, si avrebbe tutto l’interesse a cercare di affrontare e superare tali difficoltà, perché, solo accettando di imparare anche da un pari più preparato, si può favorire un processo di trasmissione delle competenze dagli esperti ai novizi e nello stesso tempo si possono sperimentate forme di autoformazione tra i diversi attori della rete. Inoltre l’inserimento di migranti come docenti, oltre che nella funzione di mediatori co-docenti, potrebbe essere utilissimo, ai fini di progredire nell’approfondimento della conoscenza delle modalità di apprendimento nelle fasi di transizione, come quella che stiamo vivendo. 12.2. Far giocare le differenze Vorremmo concludere questa parte con l’analisi di un episodio che, oltre a fornire una serie di spunti, che potremo considerare riassuntivi delle diverse forme di violazione di reciprocità evocate, può, a nostro avviso, essere preso anche come esempio di un modo di riflettere e di fare ricerca, tra formatori, sulla formazione stessa. L’episodio nasce all’interno di un’esercitazione-gioco che , nella formazione professionale per migranti, in Francia, è frequentemente utilizzata per simulare situazioni di conflitto che possono verificarsi nel confronto tra etnie diverse. Descrizione del gioco Lo scopo di questo gioco dovrebbe essere quello di allenarsi ad affrontare queste situazioni e diventare più consapevoli dei meccanismi all’opera e delle diverse strategie di cui si può disporre. Dopo aver diviso il gruppo in due sottogruppi, gli osservatori e gli attori, la proposta consiste nel mettere il gruppo degli attori di fronte ad una affermazione provocatoria e nel costringere (questa sarebbe la regola del gioco) ogni membro a schierarsi a favore o contro. Si invitano quindi i due schieramenti ad assumere anche una posizione spaziale frontale. Nello stesso tempo si chiede agli osservatori di disporsi ai margini dello spazio e di ascoltare attivamente, registrando le proprie reazioni emotive e cognitive. Dopo un tempo stabilito per il confronto, il formatore blocca la discussione e si passa alla restituzione da parte degli osservatori e ai commenti da parte del gruppo. Alcune delle affermazioni provocatorie, tradotte per il nostro paese, potrebbero essere le seguenti: • Anche se siamo in Italia tra di noi dobbiamo parlare sempre con la nostra lingua. • Uno straniero nel paese d’arrivo diventa più integralista. • Nel tempo libero lo straniero incontra solo i connazionali, gli unici di cui può fidarsi. • Se chiedo aiuto certo non mi risponde un italiano. 214 • Una donna musulmana in Italia non deve vestirsi all’occidentale. • Un musulmano non può accettare inviti da italiani perché mangiano cibi proibiti. • Non diventerò mai come gli italiani con cui lavoro. Lo scenario che va costruendosi è quindi formato da tre vertici: i due gruppi schierati e l’osservatore. Un esempio non riuscito In questa sede preferiamo analizzare un esempio non riuscito, che ci è stato raccontato da colleghi francesi e riguarda principalmente l’incomprensione venutasi a creare tra la formatrice di origine algerina, residente da qualche anno a Parigi, e unanimemente riconosciuta come particolarmente competente, e un partecipante, che chiameremo MO, anche esso di origine algerina. Questo esempio si presta ad una analisi su più livelli, che sembra interessante sia per mettere in luce alcune ambiguità insite nelle regole stesse del gioco, sia per evidenziare quanto complessa possa essere la dinamica delle premesse culturali implicite e della vulnerabilità all’autodefinizione in situazione di formazione. 12.2.1. Descrizione dell’esempio Il contesto L’esempio si svolge a Marsiglia, nell’ambito di un corso per mediatori culturali frequentato da 13 persone (11 F, 2 M) di differenti nazionalità (Albania, Congo, Magreb ecc.) di avanzata scolarizzazione (diplomati, laureati). Si forma un sottogruppo di 3 osservatrici. In questo caso la frase provocatoria era: “un islamico nel paese d’arrivo diventa più integralista”. Lo svolgimento della comunicazione Immediatamente quasi tutto il gruppo si schiera contro questa posizione e solo una ragazza si schiera dall’inizio a favore. Il problema che si vuole qui discutere é portato da uno dei partecipanti, anche esso algerino (studente MO), il quale esprime subito la sua difficoltà a schierarsi, in quanto quello che lui pensa non é identificabile in nessuno di questi due schieramenti. Io non posso, io penso che un po’ sì e un po’ no, c’è tanto da dire… La formatrice ribadisce allora che si tratta di un “gioco” in cui la regola é schierarsi, anche facendo finta di recitare un ruolo. MO, un po’ perplesso, decide allora di schierarsi contro. Il primo intervento é quello di una partecipante bosniaca che porta se stessa come esempio di integrazione riuscita, citando situazioni in cui è 215 evidente la possibilità di convivere mantenendo le proprie tradizioni e al tempo stesso rispettando quelle altrui: Quando vado a trovare un occidentale non mi tolgo le scarpe e sono disposta anche a mangiare qualche alimento proibito, ma quando invito a casa mia sono gli altri che si tolgono le scarpe e non mangiano maiale. Questo entusiasmo suscita, anche all’interno dello stesso schieramento “contro”, delle perplessità che conducono il gruppo a non sottovalutare le difficoltà dell’inserimento e a discutere su che cosa significa davvero integrazione. Nel corso della discussione alcuni membri dello schieramento “contro” si spostano dal loro posto quasi a voler raggiungere anche spazialmente la ragazza restata sola nell’altro schieramento. MO assume l’atteggiamento di chi sta aspettando qualcuno al varco: molto attento a ciò che viene detto, si inserisce a singhiozzo nella discussione assentendo di volta in volta verso posizioni contrastanti ed esibendo, con la postura e la voce, l’intenzione di comunicare qualcosa di più, come se fosse importante per lui introdurre una sua visione differente. Il suo volgere lo sguardo alternativamente verso la formatrice, come a dire hai visto, lo sapevo, non funziona , lo fa apparire critico nei confronti della regola stessa del gioco. Dopo 30 minuti, il tempo è scaduto; è il momento della restituzione e della discussione nel gruppo. La formatrice avvisa che bisogna fare un po’ in fretta perché il programma della giornata prevede ancora una unità didattica, e subito volge la domanda agli osservatori. Il primo commento delle tre osservatrici riguarda la loro ammirazione per il ruolo coraggioso della corsista che ha assunto, da sola, lo schieramento “a favore”. MO non ascolta, è già in piedi, con il busto proteso e con il braccio levato, il viso rilassato, quasi sorridente, pronto a parlare come se fosse convinto che può finalmente dire la sua idea. Viene immediatamente bloccato dalla formatrice che avanza verso di lui dicendo: lo so, lo so che voi non siete abituati alla didattica attiva, ma queste cose vi serviranno. MO, visibilmente contrariato e deluso: ma io volevo dire che… La formatrice lo interrompe, contrariata a sua volta: Sì, sì ma adesso non è il momento… MO: Ma perché io pensato…che… Formatrice, con tono ammonitivo: Insomma, sono io che decido dell’organizzazione del tempo, sono io che so dove dobbiamo arrivare oggi; adesso dobbiamo passare ad un altro esercizio. La discussione viene quindi chiusa anche nei confronti degli altri partecipanti; la formatrice appare immediatamente rilassata mentre prende il materiale per lo scenario successivo e si rivolge di nuovo al gruppo con voce calma e suadente. MO dapprima le lancia occhiate fulminee, poi sembra cercare consensi di sguardi in giro e infine si semisdraia sulla seggiola assumendo una postura visibilmente passiva e disinteressata fino alla fine della giornata di corso. 216 Successivamente: MO non ha più voluto frequentare questa materia del corso. Nella riunione periodica dell’équipe francese la formatrice ha, dapprima, attribuito le difficoltà incontrate con MO, esclusivamente alla non disponibilità degli extracomunitari verso i giochi e le forme di didattica attiva; poi però, rendendosi conto della sua eccessiva predeterminazione durante la seconda parte del dialogo con l’allievo, ha individuato, nell’incrocio tra differenza di sesso, asimmetria della relazione docente/discente, e nella comune provenienza etnica (formatore e allievo, entrambi algerini) il motivo principale della sua indisponibilità ad un atteggiamento più flessibile. 12.2.2. Analisi e commento Questo esempio ci sembra particolarmente interessante perché evidenzia più dimensioni della vulnerabilità rispetto all’autodefinizione e soprattutto come, nella realtà, esse possano coesistere e intrecciarsi in modo da concorrere a creare una incomprensione quasi irreversibile tra docenti e studenti migranti. Alcune di queste dimensioni potrebbero essere: a. Natura del setting proposto e delicatezza della conduzione (la pertinenza delle regole e della natura dei compiti). b. Disaccordo epistemologico da parte dei corsisti sulla cornice del compito e sottovalutazione del feedback fornito dai partecipanti (violazione di reciprocità). c. Presenza di componenti interculturali che possono alterare lo scambio dei significati tra i partecipanti: (1) premesse sul setting, (2) premesse sulla variabile sessuale, (3) premesse sull’inserimento del migrante. d. Ansia del formatore di gestire il setting secondo il programma e nei tempi previsti. e. Sottovalutazione di materiali interessanti e non previsti, emergenti in itinere, dalla dinamica stessa del gruppo. Rispetto al punto a., è interessante interrogarsi sulla pertinenza e sull’ambiguità delle regole dei giochi che si propongono ad una utenza migrante. In questo caso, la natura della proposta, incitando a bipolarizzare le posizioni, sembrerebbe in contraddizione con la costruzione di un atteggiamento interculturale, almeno come abbiamo cercato di comprenderlo in questa sede, soprattutto attraverso i contributi di Bateson e gli esempi proposti da M. Sclavi119. In questa ottica, infatti, la comunicazione interculturale richiede piuttosto la capacità di procedere secondo doppie descrizioni o di acquisire quel tocco di humour che consente di entrare ed uscire dagli schieramenti, senza abdicare peraltro alla propria visione del mondo. Si può inoltre ricordare qui tutta la problematica dell’ambivalenza che emerge 119 Si veda il contributo di M.Sclavi, nel capitolo 13. 217 nel rapporto tra transizione ecologica ed autodefinizione120 e che potrebbe rendere particolarmente difficile o semplicemente inutile per un migrante arrivato di recente lo sforzarsi di assumere uno schieramento pro o contro, anche se per finta. Inoltre il contenuto provocatorio delle frasi rispecchia forse troppo da vicino la realtà immediata del migrante, e rende di per sé più difficile quel distacco dalla realtà che è necessario per mettere in scena il gioco. Come abbiamo visto, alcuni migranti possono presentare una ritrosia iniziale a schierarsi, come nel caso di MO; oppure la natura della provocazione può suscitare schieramenti immediati da una sola parte, come è successo per la maggioranza del gruppo qui considerato; oppure alcuni partecipanti possono sentirsi coinvolti in modo diretto, come sembrerebbe essere il caso della partecipante bosniaca, che si pone quasi trionfalmente ad esempio di una integrazione riuscita, suscitando l’irritazione degli altri partecipanti del suo stesso schieramento. Il ruolo del conduttore appare quindi molto delicato, già nella fase iniziale, perché se la proposta di giocare deve essere difesa e rilanciata con insistenza, da un lato si può ingenerare una specie di paradosso (ti ordino di giocare), dall’altro può nascere un conflitto tra il formatore ed il gruppo, sul setting formativo stesso. In questi casi è presumibile che il conduttore sia portato a privilegiare la comunicazione con il gruppo degli attori, trascurando così il terzo vertice, quello degli osservatori, che potrebbe essere la risorsa principe per introdurre nuovi significati nell’interpretazione del gioco. Trascurando questo terzo vertice, la proposta provocatoria di schierarsi pro o contro tende ad assumere, effettivamente, un carattere di costrizione bipolare, da cui può diventare poi difficile uscire. D’altra parte, considerando che il partire da una posizione bipolare coglie il tipo di incomunicabilità più frequente, si sarebbe potuto ipotizzare una finalizzazione catartica della simulazione; in questo caso questa esercitazione avrebbe potuto diventare uno spunto di partenza per constatare che entrambi gli atteggiamenti pro e contro potevano essere legittimati e che la chiave stava proprio nella verifica della complessità dell’incontro tra più punti di vista, e non solo due, a conferma dell’importanza delle specifiche traiettorie evolutive personali, al di là della etichetta etnica. Tanto più che, nel caso considerato, i comportamenti dei partecipanti del gruppo “contro” e gli spunti più consapevoli introdotti da MO sembravano avvalorare proprio questa tesi. Rispetto ai punti b.c.d.e., vorremmo procedere nell’analisi dell’episodio con una doppia descrizione/interpretazione che evidenzi il possibile cambiamento di significato delle strategie della formatrice, a seconda che la componente culturale sessuale (c2) sia mantenuta sullo sfondo o venga portata in primo piano. 120 Si veda anche il capitolo 9, par.9.2.3.. 218 Prima descrizione/interpretazione Se mettiamo in primo piano le violazioni di reciprocità (b), senza tener conto delle premesse culturali implicite riguardo al ruolo della asimmetria di potere tra sesso maschile e femminile (c2), la nostra attenzione tende ad essere catturata quasi esclusivamente dalla delusione di MO, che ci appare vittima di una grave e ripetuta violazione di reciprocità da parte della formatrice. Utilizzando i dati del protocollo, il comportamento della formatrice appare improntato ad un atteggiamento eccessivamente rigido: sembra esservi una presupposizione unilaterale che porta la formatrice a presumere di sapere già come l’altro dovrebbe essere e che viene autoconfermata dall'interpretazione delle difficoltà incontrate. È da notare che nel corso dell’episodio ed anche nella prima fase della discussione le difficoltà rilevate vengono attribuite esclusivamente alla indisponibilità degli studenti extracomunitari ad accogliere forme di didattica attiva. In base a questi dati il commento potrebbe mettere in primo piano due ipotesi: 1. l’appartenenza alla stessa etnia ha favorito nella formatrice un atteggiamento di maggiore certezza, riguardo alla supposta ritrosia nei confronti della didattica attiva, e quindi questa è stata data per scontata e non negoziata con MO; 2. l’ansia, nota a tutti i formatori, di rispettare il programma, potrebbe averle fatto sottovalutare i feedback forniti dai partecipanti. Ciò potrebbe farci riflettere sul fatto che anche quando le nostre anticipazioni (presupposizioni) hanno una maggiore probabilità di essere corrette (perché conosciamo già la lingua, la cultura, o abbiamo vissuto la stessa esperienza), a maggior ragione dovremmo evitare di utilizzarle per scavalcare il punto di vista dell’altro. Anche una convinzione plausibile come quella in gioco nell’esempio citato (ci sono numerose testimonianze che il sistema scolastico dei paesi arabi sia improntato a una didattica più autoritaria e passiva di quella occidentale) può diventare un ostacolo alla reciprocità se non viene rinegoziata nella singola situazione interpersonale. Anche quando pensiamo, a ragione, che un bambino abbia freddo o fame, coprirlo o imboccarlo senza chiedergli nulla, costituisce sul piano interpersonale, una violazione di reciprocità. Ciò é tanto più necessario quando i partecipanti sono adulti e dotati di riferimenti scolastici, culturali e ideologici ampiamente organizzati. In questo caso la violazione di reciprocità, sul piano cognitivo (ti impedisco di esprimere o non mi interessa confrontarmi con le tue premesse epistemologiche ) può essere particolarmente mortificante e provocare una chiusura che si estende alla possibilità di apprendere poiché, quest’apprendimento risulta troppo costoso sul piano della dignità personale. Riguardo alle giustificazioni apportate nelle battute finali, come la mancanza di tempo e la necessità di passare all’unità didattica successiva, si sarebbe potuto rimediare con una scelta più opportuna mettendo tra parentesi 219 il programma e dando allo studente la possibilità di esplicitare il suo evidente desiderio di parlare, almeno nella fase del commento conclusivo. Probabilmente questa sospensione e passaggio di responsabilità all’altro avrebbe permesso alla formatrice stessa di rivedere mentalmente l'intera sequenza e di trovare nella verbalizzazione dello studente e nel ruolo degli osservatori anche degli spunti per una valorizzazione dell’insieme del materiale prodotto dal gruppo. È probabile che su questa strada sarebbero emersi nuovi stimoli alla riflessione, anche in relazione alle potenziali strategie creative di soluzione dei conflitti. Si potrebbe concludere dicendo che, al di là della cura nella scelta delle esercitazioni e della precisione nell’articolazione dei tempi e dei contenuti, è altrettanto fondamentale una sensibilità al feedback, in modo da assicurarsi che i partecipanti mantengano o costruiscano le condizioni di autostima e di curiosità mentale indispensabili a rendere la loro partecipazione attiva e motivata. Il dubbio Tuttavia questa interpretazione, che penalizzerebbe la formatrice, non ci soddisfa del tutto. L’indicatore principale che ci avverte che qualcosa non va è la ridondanza e l’esagerazione. Infatti una persona non ritorna più volte su ciò che ha già espresso o detto se ha ottenuto la risposta che cercava. Questo è vero per MO rispetto alla formatrice ma è vero anche per la formatrice rispetto a MO. Il suo tono determinato appare esagerato rispetto alla richiesta di MO e ridondanti sembrano le giustificazioni, quasi a farci venire il dubbio... che questo sia il meno-peggio che essa possa fare, rispetto alla sua lettura della situazione. Trattandosi inoltre di una professionista competente e di una situazione interculturale, è quasi d’obbligo ipotizzare che ci sia ancora un’altra spiegazione, meno esplicita, meno immediatamente visibile per un occidentale. Seconda descrizione/interpretazione Possiamo allora decidere di mettere in primo piano l’elemento culturale della differenza di genere, rimasto finora solo sullo sfondo, e scoprire un ulteriore livello di complessità di questa situazione: il confronto tra MO e la docente è un confronto tra due persone di sesso diverso e della stessa cultura che si incontrano sul comune terreno di emigrazione; i loro ruoli sono ribaltati rispetto a quelli previsti nella cultura d’origine, ed entrambi sanno che l’altro ne è consapevole. Questa complicità culturale implicita può sfuggire ad un osservatore di una cultura esterna, ed inoltre non si conoscono le rispettive traiettorie evolutive e l’eventuale impatto di esperienze simili precedentemente vissute dai partecipanti: quindi non è facile valutare il peso della minaccia che ognuno dei due soggetti coinvolti può avere avvertito. Questa seconda premessa, relativa alla variabile sessuale, è rimasta implicita, forse inconscia, sullo sfondo, fino a quando non si è presentata alla 220 formatrice la possibilità di ritornare con un certo distacco sull’episodio. Se adottiamo questa premessa culturale il comportamento della formatrice nella fase finale acquista un nuovo spessore; infatti si può ipotizzare che essa interpreti la ritrosia iniziale di MO a schierarsi, non solo come una conferma della premessa c1, ma soprattutto come un atteggiamento di insofferenza nei confronti della propria posizione asimmetrica di potere; in coerenza con questa interpretazione, la docente potrebbe sentirsi essa stessa in una posizione vulnerabile rispetto all’autodefinizione e diventerebbe quindi comprensibile il suo sottrarsi alla negoziazione, a favore, invece, dell’assunzione di un atteggiamento fermo di controdefinizione rispetto al ruolo, attraverso la difesa del setting proposto. La controdefinizione rispetto al ruolo, in questa situazione, significherebbe, quindi, ribadire all’altro e forse anche a se stessa, “qui siamo in Europa e non in Algeria” . A questo punto, se si ipotizza che la docente abbia individuato nella premessa c2 il principale rischio di disturbo per la buona evoluzione del setting, appare nuovamente più comprensibile che i suoi interventi siano stati prioritariamente indirizzati a prevenire un eventuale escalation critica da parte di MO, e che questo l’abbia portata, da un lato, a sottovalutare le potenziali risorse creative emergenti dall’evoluzione del setting, e, dall’altro, traendo spunto dalla conferma dell’idea che la didattica attiva sia comunque poco apprezzata dall’utenza extracomunitaria, a passare il prima possibile alla successiva unità didattica prevista. Questa nostra interpretazione acquista una sua plausibilità nel corso dello scambio successivo di battute, in cui sembrerebbe che ognuna delle parti in gioco abbia trovato conferma ad una sua premessa e quindi abbia radicalizzato il proprio arroccamento sulla premessa iniziale. Infatti gli ammiccamenti critici esibiti da MO, nel corso dell’esercizio possono essere interpretati dalla docente come conferma della sua insofferenza al fatto di aver ricevuto un ordine (quello di giocare e, quindi di schierarsi) da parte di una donna, e quindi essere visti già come una minaccia incombente sulla fase della restituzione nel gruppo. Non meraviglierebbe, allora, che, in questa fase, la docente blocchi subito l’intervento di MO, dapprima attribuendogli anticipatamente una forma di dissenso che utilizza in modo esplicito la premessa c1 (lo so, lo so che voi non siete abituati alla didattica attiva, ma queste cose vi serviranno ) e subito dopo adducendo giustificazioni sulla necessità di completare il programma della giornata, in modo che risulti di nuovo chiaro che la responsabilità della conduzione è la sua. Rispetto alla preoccupazione prioritaria ipotizzata, questa strategia avrebbe il merito di evitare uno scivolamento del confronto con MO su un terreno interpersonale particolarmente bruciante rispetto alle comuni tradizioni culturali, ed al tempo stesso di mantenere il contenuto esplicito dello scambio su un terreno razionale e pertinente rispetto al setting proposto ed al proprio ruolo di docente, che andava oltre la responsabilità della conduzione di questo specifico gioco. Mantenendosi su questo piano la formatrice evita l’eventuale rischio di scatenare un contagio incontrollabile nel gruppo e 221 comunica indirettamente a tutto il gruppo il suo non abdicare al proprio ruolo, che viene, infatti immediatamente ripreso in modo sicuro, calmo e suadente, nel passaggio all’unità didattica successiva. Da questo secondo punto di vista possiamo imparare che la vulnerabilità rispetto all’autodefinizione, in situazione interculturale, è sempre in agguato e può strutturarsi a diversi livelli ed in entrambe le direzioni della relazione docente/discente. L’aver individuato una nuova lettura non elimina la delusione osservata in MO, il suo avere abbandonato questa parte del corso. Occorre inevitabilmente accettare che qualche insuccesso fa parte della complessità del mestiere e disporsi a considerare questi episodi circoscritti come spunti da cui si può imparare qualcosa di nuovo. Molto spesso non siamo consapevoli della unilateralità delle nostre presupposizioni e delle emozioni che esse suscitano nel corso della comunicazione con l’altro, oppure dell’ansia connessa al rispettare il programma che ci eravamo dati. Abbiamo però l’opportunità di accorgerci che qualcosa non va se diamo la dovuta importanza ai feedback che ci inviano i partecipanti. In questo caso le segnalazioni relative ad un disagio e ad un probabile disaccordo epistemologico sono state ridondanti e visibili, ma proprio la premessa c2 premeva nella direzione di sorvolare, per evitare un chiarimento che, forse, avrebbe comportato un rischio ancora più grave. Darsi degli spazi e dei tempi di riflessione e discussione che vadano oltre la gestione dell’aula appare quindi un’esigenza irrinunciabile. Potere osservare con maggiore serenità il sistema di alternative entro il quale ci muoviamo permette di utilizzare anche le emozioni spiacevoli per considerare una nuova cornice; in questo modo possiamo allenarci alla complessità della formazione in situazione interculturale. 12.3. La moltiplicazione delle cornici Potremo chiederci, anche adesso, se vediamo, rispetto a questo episodio, altre alternative compatibili con l’insieme delle premesse ipotizzate, e al tempo stesso più favorevoli ad un esito positivo rispetto al riconoscimento delle richieste di MO. Forse si potrebbe rispondere alle prime battute di MO formulando in modo umoristico quell’invito a “giocare comunque”: Guarda che cosa ti capita! Ti tocca obbedire, giocare e per di più è una donna a dirtelo!! Cosa ne dite di un’altra frase provocatoria del tipo: “Nella formazione non si dovrebbe giocare e gli insegnanti dovrebbero essere maschi.”? 222 Oppure..... (spazio libero per il lettore) Naturalmente, le cornici non si possono moltiplicare indipendentemente dai vincoli storico-esistenziali e dal radicamento delle nostre premesse implicite; non si tratta, infatti, di prepararsi un repertorio di battute, ma di non dimenticare che il gioco, l’umorismo possono salvarci, con un paradosso leggero, da un pasticcio pesante. Nella cornice del gioco si può essere d’accordo e in disaccordo contemporaneamente, la leggerezza sta nella libertà lasciata anche all’altro di controdefinirsi, senza che questo debba essere interpretato come un attacco al setting o al ruolo reale, che il soggetto sta ricoprendo.121 121 Invitiamo il lettore che volesse approfondire, a leggere il prossimo capitolo redatto da Marianella Sclavi, (cap.13), che tratta proprio del come allenarsi in questa direzione. 223 Capitolo 13 Apprendere ed apprendere: relazioni, emozioni e contesti di apprendimento Marianella Sclavi 13.1. Premessa “L’unico modo per risalire al sistema di premesse implicite in base a cui l’organismo opera è metterlo in condizione di sbagliare e osservare come corregge le proprie azioni e i propri sistemi di autocorrezione” (Gregory Bateson) I quattro esempi che userò in questo scritto sono degli esercizi di fenomenologia sperimentale e di ermeneutica pratica e hanno lo scopo di mettere gli interlocutori che avranno la pazienza di seguirli/eseguirli in grado di riflettere su cosa fanno quando praticano l’apprendimento dell’apprendimento.122 Vedremo la differenza fra: 1. muoversi dentro delle premesse che diamo per scontate (“premesse implicite”) 2. imparare a cambiare la premesse che davamo per scontate (processo che Gregory Bateson ha chiamato “apprendere ad apprendere” o “deutero-apprendimento”) 3. essere in grado di spiegare come “abbiamo fatto” a cambiare queste premesse e a renderle esplicite e consapevoli. “Apprendere ad apprendere” o “deutero-apprendimento” è un savoir faire che mettiamo in atto quando riusciamo ad affrontare con successo dei cambiamenti sistemici: lo svezzamento dal seno materno non solo come frustrante sottrazione, ma come occasione per nuove affascinanti esperienze, l’imparare ad allacciarsi le scarpe con rapidità e scioltezza o ad annodarsi il cravattino a farfalla, o ancora imparare la nostra lingua natia o una lingua straniera, riuscire a risolvere un indovinello, inventare una barzelletta, a ff ro n t a re un conflitto intraculturale o interculturale in termini di riconoscimento e rispetto reciproco, sconfiggere la dipendenza dell’alcolizzato o aiutare lo schizofrenico e i suoi interlocutori a metacomunicare in modo non patologico, suonare il violino, comporre un’opera d’arte o fare un’invenzione scientifica, diventare un buon osservatore - narratore della vita quotidiana. Fra muoversi dentro delle premesse che diamo per scontate e cambiare queste premesse c’è un salto che si manifesta in paradossi logici e nodi 122 Questi esercizi fanno parte di una più vasta batteria che compone il corso di Antropologia culturale che M.Sclavi tiene da alcuni anni al Politecnico di Milano e sono descritti più ampiamente nel testo: M.Sclavi, Arte di ascoltare e mondi possibili, Le Vespe, Milano, 2000. 225 emozionali che bisogna saper accogliere e gestire creativamente. Gli esercizi che vi propongo hanno come scopo di metterci in grado di riconoscere le contingenze in cui questo salto risulta necessario e come si procede (a quali trucchi si ricorre, quali resistenze bisogna superare...) per prepararsi a compierlo. Sono esercizi pensati apposta per farvi fare delle “brutte figure”, cioè per rendervi consapevoli di cosa fate quando osservate “male” e per farvi vedere che questi errori non sono “vostri personali”, ma nascono da una epistemologia distorta che, spesso, è proprio quella che avete imparato a scuola e che impregna di sé il senso comune della cultura occidentale. In compenso avrete l’occasione di fare un’esperienza altamente intellettuale, forse l’esperienza più pienamente intellettuale che esista. Infatti avrete l’occasione di mettere in campo non solo una piccola parte della mente, ma sia la sua parte razionale che quella emotiva, sia l’astrattezza del pensiero analitico che la concretezza e contingenza del corpo e del pensiero emozionale e - questa è la novità - di riflettere su quello che state facendo. Gregory Bateson è uno dei pochi studiosi nel campo delle scienze sociali che ha dedicato ad entrambi questi temi, umorismo ed emozioni, delle riflessioni importanti. Nella sua “Ultima conferenza” pronunciata il 28 ottobre 1979 a Londra (il titolo era proprio questo in quanto si chiedeva agli oratori di attenersi alle cose più vitali ed essenziali apprese nella propria vita “come se” si stessero impegnando nella loro “Last Lecture”... e per Bateson lo è stata per davvero...). Gregory Bateson elenca due condizioni per riuscire a mettere in pratica, anche nel campo educativo, l’ecologia della mente e l’epistemologia olistica che era andato elaborando nel corso della sua vita. Primo: “Bisogna prendere le mosse da un universo organizzato e non già suddiviso” e secondo: “Le risposte devono già essere nella vostra testa e nelle vostre regole di percezione”. Gli esercizi che seguono rispondono a queste due condizioni, anche se trattano di esperienze molto comuni: risolvere un gioco di intelligenza, riuscire a esprimersi efficacemente in una lingua diversa da quella di origine, saper descrivere le dissonanze fra forme di vita quando si entra in contatto con una cultura straniera e saperne venire a capo. 13.2. Esercizio n.1: Il gioco delle premesse implicite (Giochi proibiti) 13.2.1. Questo specifico esercizio consiste inizialmente in un gioco abbastanza noto, di quelli che si fanno dopo cena per passare il tempo e mettere alla prova la reciproca intelligenza e forse alcuni di voi sanno già la soluzione. Però il problema non è se si sa o no la soluzione, è riflettere, al rallentatore e al microscopio, sul percorso emotivo e logico, che si compie nel trovare la soluzione. È questo versante epistemologico che a noi interessa e che 226 nei giochi di società certamente non viene esplorato. Se sapete la soluzione state lì buoni e tranquilli e aspettate la seconda fase, se invece non la sapete vi avverto che solitamente su un’ottantina di studenti uno o al massimo due riescono a trovarla. Inoltre, come vedremo, il più importante contributo alla comprensione del processo non lo danno i “risolutori”, ma gli “sbagliatori”. 13.2.2. Queste sono le istruzioni. Prendete un foglio di carta e disegnatevi sopra per almeno tre volte nove punti disposti come segue: • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • Fig. 1: “Il disegno dei nove punti” riprodotti tre volte Quello che dovete fare è provare a unire questi nove punti con quattro segmenti senza sollevare la matita dal foglio: dove finisce un segmento deve iniziare l’altro. Vi chiedo di rendere visibili i vari percorsi che vi vengono in mente disegnando in rapida successione tre tentativi sulle tre riproduzioni dei nove punti. Fatelo anche se vi rendete conto che quei percorsi non risolvono il problema e quindi anche se provate un po’ di fastidio a buttarli giù così perché vi sembrano inutili. Siate consapevoli che questo esercizio è ideato apposta per farvi fare delle “brutte figure” e che esse si riscatteranno dimostrandosi utili. Di nuovo: se avete già fatto in precedenza questo gioco e ne conoscete la soluzione, statevene tranquilli e attendete che gli altri si sottopongano a questa prova. L’importante non è “la soluzione”, ma le successive riflessioni sulla esperienza di trovare questo tipo di soluzioni a questo tipo di problemi. Infine, dovete sbrigarvi: vi dò solo cinque minuti di tempo. 13.2.3. Sono trascorsi i cinque minuti. Chiedo prima di tutto quanti sapevano già la soluzione, poi quanti fra quelli che non la conoscevano l’hanno trovata. Mi congratulo e la/lo invito ad attendere. Prima vediamo come si sono mossi coloro che non sono riusciti, poi “tu ci dirai come hai fatto”. Vado a raccogliere in giro un po’ di fogli e riproduco alla lavagna i tentativi falliti. Aggiungo accanto la soluzione. Fig. 2: Esempi di tentativi falliti, con soluzione. • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • • Tentativi falliti 227 Soluzione • • • • • • • • • 13.2.4. Lascio che le esclamazioni di meraviglia si acquietino e adesso inizia la fase più importante. Dobbiamo ripercorrere riflessivamente questa esperienza di ascolto/osservazione. Chi ha risolto il problema cos’ha fatto di diverso? Varie voci: “È uscito fuori..” “È uscito dal limite”. Quale limite? Una studentessa, timidissima (ma sono tutti molto esitanti, molto timidi) “Il contorno dei punti”. I vari tentativi falliti sono percorsi diversi, ognuno rappresenta un cambiamento, una correzione, rispetto al precedente. Però tutti hanno in comune il muoversi entro un campo di possibilità che ha dei confini precisi. Abbiamo agito come se fosse insensato o proibito o irrazionale “uscire dal quadrato”. Forse non ci è neppure passato per la mente di farlo, anche se io non avevo detto “non uscite dal quadrato” e neppure “guardate questi punti come un quadrato” (Uso il “noi” perché anch’io non ho risolto questo problema quando me l’hanno proposto e quindi mi sento accomunata). Nel cercare la soluzione, non avete pensato “non devo uscire dal quadrato”, l’avete dato per scontato. Questa è una Premessa Implicita. Le Premesse Implicite si ricavano chiedendosi: come strutturavo inconsciamente, senza esserne consapevole, il campo perché questi comportamenti, questi criteri di correzione mi siano apparsi ovvi, scontati, logici? 13.2.5. Traccio rapidamente delle frecce che rapportano fra loro i vari tentativi falliti e su ognuna di loro scrivo: “C1” poi un’altra freccia che rapporta tutti questi con la soluzione e scrivo “C2”. Come segue: C1 • • • • • • • • • C1 • • • • • • • • • C1 C2 Fig. 3: Cambiamento 1 e cambiamento 2 228 • • • • • • • • • • • • • • • • • • Ci sono cambiamenti entro un campo, entro una cornice, e cambiamenti di campo, di quella cornice. I primi li chiamiamo Cambiamenti1, i secondi Cambiamenti2. Un Cambiamento2 non opera allo stesso livello logico del Cambiamento1, è un cambiamento delle Premesse Implicite che regolavano i cambiamenti di ordine inferiore. Chi ha risolto il problema non si è limitato a cambiare percorso, ha cambiato le Premesse. Ha messo in discussione qualcosa di cui non era consapevole, che dava per scontato. È una esperienza strana, che noi vogliamo studiare. Questo vale per qualsiasi processo conoscitivo e di apprendimento. Possiamo imparare “nuove cose”, acquisire nuove informazioni dentro un certo modo di vedere, di inquadrare le cose, entro una certa cornice oppure possiamo cambiare quel modo di vedere. In tutti i casi in cui non è necessario mettere in discussione le premesse implicite va bene il primo processo, in tutti quelli in cui tentiamo e tentiamo e tentiamo e continuiamo a sbattere la testa contro un muro, dovrebbe nascerci il dubbio: forse devo cambiare le Premesse. La difficoltà è che non sappiamo quali sono queste Premesse e lo sapremo solo dopo che abbiamo trovato la “soluzione”! Muoversi dentro una cornice o cambiare la cornice sono due processi assolutamente differenti, comportano due diversi modi di rapportarsi a se stessi e al mondo. Imparare l’arte di ascoltare/osservare (A/O) vuol dire impratichirsi, familiarizzarsi con questi due diversi modi di rapportarsi a se stessi e al mondo e in particolare con cosa succede quando si passa dall’uno all’altro, dal Cambiamento1 al Cambiamento2. Imparare l’arte di A/O e imparare a “vedere fenomenologicamente” sono la stessa cosa. 13.2.6. Quando in questa sede parliamo di “Premesse Implicite”, dunque, ci riferiamo alla strutturazione di un campo, a un processo Gestaltico, a una Gestalt. “Gestalt” in tedesco significa “forma, formare” e “Gestatten” significa “permettere”. La psicologia della Gestalt ha mostrato che qualsiasi processo conoscitivo, qualsiasi attribuzione di senso comporta una strutturazione di campo, un decidere cosa viene messo a fuoco, portato in primo piano, e cosa lasciato sullo sfondo. Questa strutturazione comporta la definizione di un ventaglio di possibilità entro il quale ci è consentito muoverci e uscendo dal quale quella Gestalt, quella forma (o cornice, matrice percettivo-valutativa, campo, tutti termini che hanno la stessa funzione) verrebbe messa in discussione. La psicologia della Gestalt ha anche mostrato che, per così dire “le Gestalt si difendono”. Ogni volta che tendiamo ad ignorare i confini del campo gestaltico avvertiamo delle precise resistenze, quel movimento trasgressivo ci appare insensato. Avventurarsi ai confini del campo gestaltico corrisponde a mettere a fuoco elementi che erano consegnati allo sfondo. La Gestalt “si difende” in quanto questo movimento la smentirebbe, la dissolverebbe. È un movimento che prefigura un Cambiamento2. “La Gestalt si difende” è ovviamente una espressione metaforica, c’è di mezzo l’intreccio fra dinamiche della conoscenza, della appartenenza e dell’identità. 229 Questo ha delle implicazioni molto importanti sul valore conoscitivo delle emozioni, implicazioni che non vengono quasi mai sottolineate. Ritorneremo in continuazione su questo punto, qui mi interessa incominciare a mettere a fuoco le emozioni relative alle sensazioni di “insensatezza”. Mentre tentiamo di collegare tutti e nove i punti l’eventualità di “uscire dal quadrato” provoca ansia, è come se ci mancasse il terreno sotto i piedi. Questa ansia possiamo interpretarla come un avvertimento che muoversi in quella direzione è pericoloso e/o inutile e/o ridicolo. “Ci renderemmo solo ridicoli”. Per placare l’ansia ci affrettiamo a cercarle una giustificazione, per esempio: “Se esco dal quadrato è come se aggiungessi altri punti, già è difficile collegarne nove, immaginiamoci dieci o undici!” Adesso siamo più tranquilli, quel comportamento che ci provocava ansia era per davvero insensato, irrazionale. Probabilmente dopo un po’ decideremo che a noi non interessa tanto collegare tutti e nove i punti, otto bastano e volgiamo l’attenzione a quale punto è meglio lasciare scoperto. Quello al centro o quello in alto a destra? Anche coloro che questo problema l’hanno risolto hanno avvertito questo tipo di ansia e questo senso del ridicolo. Ma hanno gestito l’ansia e interpretato il senso del ridicolo in modo molto diverso. Intanto hanno avuto una maggiore tolleranza nei riguardi dell’ansia, non hanno avvertito una urgenza così forte a liberarsene; sono persone che in qualche modo nella loro vita hanno imparato a convivere con l’incertezza, l’insensatezza, l’ambiguità, ad affrontare le situazioni paradossali in un atteggiamento di ricerca e attesa. (O almeno hanno imparato a gestire in questo modo situazioni di gioco analoghe a questa, perché non è detto che poi uno si comporti così anche “nella vita” in situazioni di tensione con la propria ragazza, o con i propri genitori...) Che ne siano consapevoli o no (e di solito non lo sono..) devono avere interpretato questa ansia e quel senso di ridicolo non come segnali di pericolo, ma “di ciò che ci succede di solito quando usciamo da una Gestalt”. In altre parole hanno associato l’ansia non con un atteggiamento difensivo-aggressivo, ma con un atteggiamento esplorativo. Adesso vi faccio un regalo. Vi regalo una piccola preziosa regola che è di grande aiuto per riuscire a rapportarsi a se stessi e al mondo in modo disponibile a un Cambiamento2. Quando la adottate vi mettete nel corretto stato d’animo per osservare in modo fenomenologico. (Dicevano due grandi filosofi, Nietzsche e Heidegger: “il pensiero è radicato nello stato d’animo, nel modo di intonarsi, di connettersi”.) Disegno alla lavagna di nuovo i nove punti e chiedo: “Secondo voi questi punti sono o non sono un quadrato?” Quando, a questo punto, uno studente afferma : “Possono essere visti come un quadrato”. Mi viene da rispondere: “Allora, hai capito tutto”. Scrivo alla lavagna : “Sì, sono un quadrato” = il senso è là fuori, l’osservatore deve prenderne atto “Possono essere visti come un quadrato” = il senso è attribuito dall’osservatore 230 Tutti noi all’inizio di questo esercizio di fenomenologia sperimentale avremmo dato la prima risposta. O almeno avremmo detto “Sono disposti a quadrato”. Dopo l’esercizio, ci sembra più corretto dire “Possono essere visti come un quadrato, ma possono essere visti anche come...” (cosa vi fa venire in mente la figura della soluzione? Una freccia, un aquilone. Va bene.) “anche come parte di una freccia, di un aquilone”. Allora la regola che vi suggerisco è la seguente: se e quando volete adottare un modo di ascoltare/osservare fenomenologico, eliminate la copula “è” dal vostro vocabolario. Al limite non dovete pensare: “Questa è una sedia, questo è un tavolo”, ma “Vedo questa come una sedia, vedo questo come un tavolo”. Mi rendo conto che sembra ridicolo, ma aiuta usare fin dall’inizio un linguaggio che non escluda che potremmo vedere le cose anche secondo delle Gestalten diverse. La copula “è” esclude, irrigidisce. Invece “Adesso lo vedo così, ma...” ci induce a essere leggeri, flessibili, disponibili alla esplorazione di altri mondi possibili. 13.2.7. Dobbiamo approfondire meglio l’asserzione “Il senso è attributo dall’osservatore”. Non è molto chiara né di per se stessa, né nelle sue implicazioni. Per esempio: se il senso è una costruzione dell’osservatore perché tutti abbiamo visto un quadrato e non chi un quadrato, chi una farfalla e chi un elefante? La tentazione sarebbe di rispondere: vediamo tutti la stessa figura perché quella figura “è” un quadrato. E così ritorneremmo al punto di partenza. Per capire meglio possiamo immaginare un Paese esotico, una popolazione della Micronesia nella cui vita sociale abbia molta importanza un simbolo religioso di questo tipo: • • • • • • • • • Fig. 4: Figura immaginaria Che ne so, la X è il luogo dell’altare e i due tratti sono i confini del villaggio. Ebbene, possiamo immaginare che della gente per la quale questo simbolo costituisce parte importante della propria vita, nel guardare i nostri nove punti vi riconosca immediatamente gli “estremi” di questa specifica forma, di questo simbolo, e lo faccia con la stessa unanimità con la quale noi vediamo un quadrato. Per loro vedere un quadrato non sarà “spontaneo”. Però loro forse potrebbero risolvere il problema di collegare tutti i punti a livello di Cambiamento1, perché nel loro caso basterebbe collegare fra loro tutte le linee già presenti. Non hanno bisogno, come noi, di smontare prima il quadrato per poter costruire un’altra figura. 231 Allora quando diciamo “il senso è attribuito dall’osservatore”, dobbiamo essere consapevoli che non esistono degli osservatori isolati, che ognuno di noi è parte di una cultura in senso antropologico e che questa cultura è parte di noi. Crescendo in una comunità, imparando una certa lingua, facciamo nostre complesse gerarchie di Premesse Implicite che in quell’ambiente sono date per scontate e che costituiscono il terreno sicuro che ci consente di capirci. Crescere in culture diverse, imparare lingue diverse vuol dire acquisire diverse Gestalten, imparare a dare per scontate Premesse Implicite diverse. Adesso (dopo una pausa...) passiamo ad un altro esempio, meno astratto. 13.3. Esercizio n. 2.: Il gioco della visione binoculare (doppia descrizione) 13.3.1. Immaginiamo un dialogo fra un congressista italiano e uno americano. L’italiano cerca di parlare inglese. Italiano: “I am going to a committee” Americano: “ ? ? ?” Italiano: (in corsivo la pronuncia) : “I am going to a..coomiitiii ” Americano: “ ? ? ?” Italiano: “Cooomiiitiii” Americano: “ ? What ? ?” Italiano: “Neever maaind !” E se ne va Si tratta di un incidente molto comune. L’italiano, accorgendosi di non essere compreso, cerca di essere più chiaro, ma non ci riesce. Ogni volta si sente più frustrato, a disagio, spazientito. Al terzo tentativo, pensa : “O io sono un fallimento o lui è un cretino”. 13.3.2. In realtà quel che è successo può esser compreso attraverso il concetto di mappa bisociativa. Mappa bisociativa: “Essere più chiaro” Italiano/Inglese Italiano sottolineare le vocali 232 Inglese “Più chiaro” sottolineare le consonanti L’italiano nelle successive correzioni si è attenuto a una Premessa Implicita che vale nella sua cultura di origine e cioè che “essere più chiari” vuol dire sottolineare maggiormente le vocali. Invece per gli inglesi “essere più chiari” implica sottolineare meglio le consonanti. Sforzandosi di correggere la propria pronuncia l’italiano ha continuato a peggiorarla. Avrebbe dovuto correggere il proprio sistema di autocorrezione, ma non è facile perché non ne è consapevole. Nel grafico i due cerchi rappresentano due matrici percettivovalutative diverse e incompatibili. La domanda è: cosa deve fare il congressista per spostare l’attenzione dai comportamenti alla dissonanza fra le matrici? Prima vediamo cosa non dovrebbe fare. Non deve farsi prendere dall’ansia di tornare al più presto possibile “in controllo”, dall’urgenza di “salvare la faccia”, di riaffermare la propria “competenza”. Di fronte all’esperienza del terreno che manca sotto i piedi la risposta giusta non è quella di puntarli con maggiore forza, ma di librarsi a una spanna da terra . Non bisogna diventare più pesanti, ma più leggeri. Dopo aver provato e sbagliato, provato e sbagliato, provato e sbagliato, deve smettere di chiedersi “In che cosa sbaglio?” “Perché l’altro non si sforza di capirmi?” Deve farsi venire il sospetto che in questo caso il conflitto e il disagio della non riuscita comunicazione non è “colpa” di nessuno; è una normale questione di dissonanza di matrici percettivo-valutative al cospetto della quale bisogna prendersela con calma e dirsi: “Sto sbagliando ripetutamente quindi sono nella condizione ideale per imparare qualcosa sulle premesse implicite che guidano le mie azioni e pensieri.” Chiedersi “di chi è la colpa”, “cosa è giusto e cosa è sbagliato” sono domande utili per dare una spiegazione ai dissensi dentro le cornici, non fra cornici. Sono domande adatte al Cambiamento1, a cercare comportamenti alternativi dentro delle comuni Premesse Implicite. Per spostare l’attenzione dai comportamenti isolati e dall’individuazione delle colpe alla dissonanza di matrici cognitive, bisogna assumere l’atteggiamento di quel giudice saggio il quale ascoltato molto attentamente il primo litigante, commenta: “Hai ragione”; poi, sentito anche il secondo, anche a lui dichiara: “Hai ragione”. Si alza uno del pubblico: “Ma Eccellenza, non possono avere ragione entrambi!”. Il giudice ci pensa sopra un attimo e poi, serafico: “Hai ragione anche tu!” Nell’esercizio che vi ho appena sottoposto è proprio così: “ha ragione” l’italiano, “ha ragione” l’americano e al tempo stesso “non possono aver ragione entrambi” dato che non si capiscono. Quel “al tempo stesso” fa la differenza fra la saggezza del giudice e la ingenuità epistemologica dei due litiganti. Il senso comune e la logica classica ci dicono che se tutti hanno ragione non si è più in grado di decidere niente, si rimane bloccati. Questo è vero quando operiamo in “sistemi semplici” entro i quali valgono le stesse Premesse Implicite. Invece nel dialogo interculturale e più in generale nella risoluzione creativa dei conflitti l’assumere che tutti hanno ragione è la condizione per fare dei passi in avanti. Non si tratta di rinunciare ai propri giudizi, ma di risalire dai giudizi alle cornici (sia nostre che altrui) di cui non siamo consapevoli. 233 13.3.3. Quando un bambino impara la propria lingua materna, gioca, e gli adulti giocano con lui, questo rapporto giocoso non è qualcosa di superfluo, di aggiuntivo, è un tratto vitale delle dinamiche emozionali/cognitive del deuteroapprendimento. Se il bambino indica gli occhiali e dice “mela”, la madre non gli dirà “sbagli” “sei uno stupido”, più facilmente penserà: “Ma guarda come è intelligente questo bambino che ha associato la forma rotonda della mela alla forma rotonda delle lenti!” e trasformerà questo “errore” in un gioco dentro il quale il bambino impara a chiamare “occhiali” gli occhiali, ma anche lei ha imparato qualcosa di nuovo, ha “giocato” con ciò che prima dava per scontato. Questo è un esempio di “ascolto attivo”, è già apprendere ad apprendere, doppia descrizione, visione binoculare (Bateson, Maturana). Anche le insegnanti delle elementari spesso si comportano così. Di fronte al bambino che ha scritto “belo” invece di “bello” si chiedono “Come interpretava questo compito, da quali interessi era “preso” nell’affrontarlo?” Probabilmente la sua attenzione era centrata sul “tenere la riga”, sulla forma di ogni singola lettera. Solo se l’insegnante è una esploratrice di mondi possibili, il bambino imparerà che la differenza tra “belo” e “bello” è essa stessa frutto di una esplorazione di mondi possibili. Ma guarda: grazie a questo errore, hai imparato a scrivere due parole (una è una voce del verbo belare..) invece che una sola! Nelle scuole di grado superiore il “gioco” dell’imparare/insegnare dovrebbe diventare più raffinato e sistematico, più consapevole dei suoi fondamenti epistemologici. A questo livello le dinamiche dell’appartenenza e dell’identità dentro le quali si incornicia ogni apprendimento diventano più complesse e non è più sufficiente fare affidamento “sull’istinto materno” e sulla capacità di gioco e di immaginazione che ancora siamo in grado di esibire nei riguardi dei bambini. Più la società diviene complessa, differenziata e interdipendente, e più l’apprendimento dell’apprendimento, cioè ascolto attivo, autoconsapevolezza emozionale, gestione creativa dei conflitti (il sapere delle emozioni e il tocco dell’umorista...) devono diventare competenze di base generalizzate, dotazione elementare di tutti. 13.4. Esercizio n. 3 : Nel taccuino dell’antropologa: comportamenti, emozioni e dissonanza di cornici Il taccuino di Mary Catherine Bateson ci offre lo spunto per seguire al microscopio e al rallentatore come ci si connette a se stessi, agli altri e all’ambiente quando si desidera osservare e descrivere le dinamiche di deuteroapprendimento che rendono possibile comprendere e gestire felicemente situazioni scolastiche complesse. Nell’estate del 1967 Mary Catherine Bateson (d’ora in poi M.C.B) era impegnata in una ricerca sul campo in un quartiere periferico di Manila. Un tardo pomeriggio, quando le 234 strade si erano rianimate dopo la siesta, si era fermata a chiacchierare con una sua vicina di casa, di nome Ana, quando questa ricevette la visita di una donna più anziana, Aling Binang di ritorno da un soggiorno nel proprio villaggio, nel retroterra. Ana aveva saputo della morte del figlio ventenne di Aling Binang e incominciò a farle domande in proposito. Aling Binang si mise a piangere, ciononostante Ana continuò il suo interrogatorio sui particolari più intimi e delicati di quell’evento; Aling con le lacrime che le scorrevano sempre più copiose lungo il viso, continuò a rispondere, rievocando quei momenti e quelle scene. M.C.B. si tenne in disparte, evitando di interferire in questa penosa e imbarazzante conversazione che entrambe le donne sembravano desiderose di protrarre, ma dentro di sé si sentiva indignata per la mancanza di tatto di Ana e profondamente dispiaciuta per Aling Binang. Al tempo stesso l’antropologa si rendeva conto che le sue reazioni e sentimenti erano in dissonanza con i sentimenti e le reazioni delle due protagoniste. Tornata a casa, MCB annotò accuratamente sul proprio taccuino di lavoro la conversazione alla quale aveva assistito. 13.4.1. Prendo le mosse da questo racconto per affrontare due questioni, intrecciate tra loro. Prima: la rilevanza etnografica. Su quali basi MCB ha giudicato questi comportamenti rilevanti per la riflessione e la generalizzazione.? Seconda: il taccuino dell’antropologa. Com’è che i diversi livelli di informazioni che un buon ascoltatore/osservatore della complessità riesce a ricavare da un evento apparentemente banale come questo, si riflettono nel modo di prendere gli appunti, nella organizzazione delle annotazioni? 13.4.1.1. La rilevanza etnografica. “Ogni persona - commenta MCB (Bateson M.C.,1984, pag.17) - è calibrata dalla esperienza quasi come uno strumento di misurazione delle differenze, cosicché il disagio è fonte di informazioni, punto di partenza per nuove forme di comprensione”. Per capire meglio, vediamo di ripercorrere al microscopio e al rallentatore il processo di MCB che guarda se stessa come parte della scena che sta osservando. Dunque, ricominciamo da capo, mettendoci nei panni di MCB. Ana rivolge ad Aling Binang domande sulla morte del figlio. Aling Binang piange. MCB prova delle emozioni che la informano che sta interpretando (nel doppio senso di “leggere” e di “reagire a”) queste domande come dei comportamenti sconvenienti e sconvolgenti, una inammissibile e crudele intrusione nella privacy altrui. Ma una molteplicità di piccoli segnali stonano con questa sua intepretazione della situazione. Da un lato vede Ana infierire sulla povera Aling Binang la quale infatti piange; dall’altro le due donne sono chiaramente desiderose di protrarre questo tipo di conversazione, nessuna delle loro reazioni indica allarme/incredulità di fronte a comportamenti reciproci crudeli e spiazzanti. Al contrario, si rimandano a vicenda una serie di segnali di crescente comunanza. Le stesse lacrime di Aling Binang hanno questo senso, sono lacrime di sollievo, sfogo, riconoscenza, conforto. Tutto questo nel New England, da cui proviene MCB, non sarebbe concepibile, se non nella ben definita cornice di una seduta terapeutica. Gli atteggiamenti sia di Ana che di Aling Binang (la loro umwelt, direbbe Goffman...) non indicano che si stanno muovendo su territori inusuali e inesplorati, pericolosi, ma che quei comportamenti messi in atto tra due 235 conoscenti nel terrazzino della casa di Ana, sono ritenuti del tutto ovvi e naturali. Nella stessa misura in cui MCB decide di non ignorare, ma anzi di collezionare tutti questi segnali inquietanti, “marginali e fastidiosi”, sta preparandosi ad accogliere una bisociazione, una doppia descrizione. Ha assunto l’atteggiamento di una esploratrice di mondi possibili, di chi considera “il disagio come punto di partenza per nuove forme di comprensione”. 13.4.1.2. Il comportamento di Ana (o quello di Aling Binang che le dà corda) non è “sbagliato” (anche se la nostra prima reazione ci porterebbe a giudicarlo tale), è al tempo stesso “insensato” (rispetto le nostre cornici) e “sensato” (rispetto le loro cornici di appartenenza, qualsiasi esse siano). In altre parole: MCB si rende conto che la propria riprovazione in quel contesto se espressa apertamente sarebbe stata intesa non come una accusa di insensibilità, ma come segno di insensibilità da parte sua. “Questa americana vuole impedirci di esternare la nostra reciproca solidarietà e partecipazione al lutto. Vorrebbe che fossimo indifferenti e insensibili come loro”. La radice di questi malintesi non è dovuta a mancanza di informazioni sui comportamenti, ma sulle cornici, sulle reazioni alle reazioni alle reazioni reciproche. Questo specifico “senso della differenza” (come lo chiama MCB, ma che preferisco chiamare “senso della dissonanza”) non è un parto della fantasia, ma il risultato di un processo di osservazione sperimentale guidato dall’ascolto attivo (deuteroapprendimento). Ed è precisamente questa osservabile e descrivibile dissonanza che rende quei comportamenti etnograficamente significativi, degni di essere annotati. 13.4.1.3. Gregory Bateson ha dato un nome a quei segnali che andiamo a cercare o mettiamo in evidenza quando, in situazioni di ambivalenza, si sente la necessità di precisare in quale contesto si opera. Li ha chiamati segna contesto. Alcuni esempi sono la stretta di mano dei pugili prima dell’incontro che sta ad indicare che è vero che si prenderanno a botte, ma lo faranno “sportivamente”; oppure la cornice del palcoscenico che indica che è vero che le persone che si muovono in quel contesto si sposeranno, divorzieranno, daranno in escandescenze e quant’altro, ma stanno “solo” recitando. Oppure ancora lo studio dello psicoterapeuta dentro il quale le stesse domande che altrove verrebbero vissute come intrusioni nella privacy altrui, diventano legittime e acquistano un diverso significato. Anche tutti i segni e segnali che MCB (nella ricostruzione fenomenologica che abbiamo fatto) va a cercare per verificare fino a che punto le proprie cornici siano o no condivise dalle protagoniste della conversazione ed eventualmente in base a quali altre cornici esse operino, sono dei segna contesto. L’antropologa è consapevole che “gli stessi comportamenti” possono avere significati diversi a seconda del tipo di messaggi non verbali ed emozionali che circolarmente li accompagnano e dei retroterra culturali in cui 236 si collocano. Un unico episodio di dissonanza è già una base sufficiente per delle prime generalizzazioni sulle matrici percettive-valutative che valgono nella cultura di origine di chi osserva in quanto sulla base della propria esperienza MCB può già asserire: “Nel New England comportamenti simili in circostanze analoghe sarebbero tipicamente interpretati in modo diverso, opposto”. Non così per risalire alle matrici percettivo-valutative della cultura locale. Per ricostruire le matrici percettivo-valutative alle quali le due donne hanno attinto è necessario esplorare il loro più ampio retroterra culturale, collezionando una serie di esperienze analoghe e cercando di capire come si connettono fra loro. Ed è quello che MCB, come vedremo, fa. 13.4.2. Il taccuino dell’antropologa. MCB ci informa che solitamente nel riportare le osservazioni etnografiche sul proprio taccuino, tiene distinte, collocandole in due colonne diverse, due tipi di annotazioni: da un lato le descrizioni degli ambienti e dei comportamenti e dall’altro le descrizioni dei propri personali sentimenti e reazioni. Leggendo questo suo suggerimento mi sono accorta che anch’io - pur nella caoticità dei miei appunti - faccio queste distinzioni, anzi appena posso (e nel caso del racconto sopra riportato si può..) distinguo addirittura tre tipi di annotazioni : • le descrizioni degli ambienti e comportamenti, • quelle dei miei sentimenti e reazioni • quelle relative alla dissonanza fra matrici percettivo-valutative. Queste ultime di solito nei miei appunti sono evidenziate anche graficamente, col disegno delle due (o più di due) matrici percettivo-valutative parzialmente sovrapposte. Nel caso in esame: “gli stessi comportamenti” (specifiche domande sui particolari della morte e conseguente pianto) vengono interpretati da un lato come segni di una intromissione indebita e crudele nella privacy altrui e dall’altro come manifestazioni di conforto e comunanza nel dolore. Tali mappe sono work in process, naturalmente, strumenti euristici che orientano l’indagine. È un modo di comprendere se stessi e il mondo che procede per “shock culturali” (come li ha chiamati per prima Ruth Benedict) e di cui Gregory Bateson ha mostrato le ragioni epistemologiche. Poiché tutti e tre questi tipi di annotazione sono in realtà presenti anche nei resoconti di MCB, quel che farò adesso è di proseguire il suo racconto sulla esperienza sul campo nella periferia di Manila, seguendo lo schema da me proposto. Quindi: non due tipi di annotazioni, ma tre. 13.4.2.1. Alcune settimane più tardi nello stesso vicinato ma in una zona che MCB non aveva frequentato, ci fu un decesso e la famiglia di cui era ospite la invitò ad andare con loro alla veglia funebre. MCB molto imbarazzata cercò di premunirsi chiedendo una quantità di informazioni su come la veglia era organizzata e come doveva comportarsi. Seppe così che si sarebbe protratta fino a notte tarda e che tutti erano tenuti a dare un piccolo obolo di meno di un dollaro alla giovane donna rimasta orfana di madre. 237 Anche in questo caso le note scritte in seguito sono di tre tipi. Un tipo di narrativa riguarda gli ambienti e i comportamenti; come e dove è disposta la salma, le lampade funerarie, i comportamenti dei parenti e dei vicini, gli argomenti delle conversazioni. I giovani che giocano e si corteggiano nel cortile, proprio davanti alla porta di casa e il barbecue e i giochi d’azzardo allestiti nel cortile, il clima festoso e le risate chiassose che echeggiano dentro la camera mortuaria sovrapponendosi ai sospiri e alle lacrime. Il secondo tipo di note concerne i sentimenti dell’antropologa. La sua riluttanza già a partecipare a questa veglia, ad intromettersi nel dolore di una famiglia che non aveva mai conosciuto; il suo imbarazzo quasi paralizzante nel porgere l’obolo. Il senso di sconforto e spaesamento nel trovarsi in mezzo a gruppi di adolescenti impegnati in rumorosi giochi di parole e imitazioni dei versi di animali tipo “Nella Vecchia Fattoria” a pochi metri da cadavere e dalla famiglia in lutto. Poiché era stata informata sapeva come comportarsi, ma i suoi sentimenti rimanevano in contrasto con i suoi comportamenti. I sentimenti non sono cambiabili a comando. Il terzo tipo di annotazioni riguarda le “doppie descrizioni”, le dissonanze. “Per una americana con un retroterra Protestante e Anglosassone come il mio - afferma MCB - la morte esige silenzio e decoro, il rispetto della privacy delle persone in lutto e un certo distacco dalle preoccupazioni più materiali della vita quotidiana. Più tardi compresi che la mia presenza aveva rappresentato un onore straordinario reso alla defunta. Che i giochi e schiamazzi erano considerati necessari per evitare il senso di solitudine ed efficaci strumenti di conforto, in quanto il conforto è inconcepibile senza convivialità. Inoltre le veglie sono tradizionalmente considerate delle occasioni particolarmente adatte ai corteggiamenti” (pag.18). I materiali per le bisociazioni sono piuttosto evidenti: da un lato la partecipazione al lutto si esprime col silenzio e decoro, dall’altro con schiamazzi e giochi. Da un lato la morte e i corteggiamenti vanno tenuti separati, dall’altro è giusto che coesistano e si sovrappongano. Su ognuno di questi comportamenti potremmo immaginare il fiorire di malintesi interculturali. Incominciamo anche a vedere dei fili che connettono i due episodi tra loro: “Il conforto è inconcepibile senza convivialità; la morte non è un evento privato, ma pubblico, che va celebrato mostrando che la vita continua”. 13.4.2.2. Quando Mary Catherine afferma: “Per una americana con un retroterra ecc..” non intende sostenere che ogni americana di fronte agli schiamazzi della veglia funebre della periferia di Manila si comporterebbe nello stesso modo. Infatti, alcune potrebbero reagire con sdegno (chiedendo di “rispettare” in silenzio il dolore dei parenti), altre chiudendosi in un timido riserbo, altre ancora (certamente una esigua minoranza) cercando di unirsi ai giochi e canti. La questione non riguarda i comportamenti, ma le cornici. Una persona cresciuta in New England se decide di unirsi ai giochi e canti tipo “Nella Vecchia Fattoria” deve comunque gestire un delicato processo di uscita dalle proprie cornici di origine. E deve cercare di gestirlo nel senso di un 238 arricchimento, una maggiore apertura del ventaglio di scelte e non nel senso di uno sradicamento. Può farlo in modo patologico oppure creativo, come è successo a MCB nel seguente episodio. Ma farlo in modo creativo richiede deuteroapprendimento e metacomunicazione. 13.4.2.3. Mesi più tardi, sempre a Manila, sono MCB e suo marito ad essere colpiti da un lutto. Il loro bambino nato prematuro, muore. In questa dolorosissima circostanza, sia Mary Catherine che suo marito di trovarono a dover gestire sia le condoglianze dei colleghi americani del marito che degli amici filippini della antropologa. I primi si presentavano scuotendo la testa con l’aria addolorata, privi di parole, si limitavano a una forte stretta di mano e si ritiravano rapidamente per rispettare la privacy del loro amico e della sua consorte. I filippini arrivavano sorridendo con aria enfaticamente cordiale: “È così triste che il vostro bambino sia morto. Lo avete visto? A chi assomigliava? L’avete battezzato? Quanto pesava? Quanto è durato il parto?” Ecc. ecc. In questo caso MCB si è trovata in un dilemma: non poteva né voleva impedire agli amici filippini di comportarsi secondo i loro costumi e d’altra parte non voleva neppure reagire al dolore che queste domande le evocavano con un atteggiamento di rigido autocontrollo che sarebbe stato interpretato come insensibilità. Grazie alla sua precedente esperienza sul campo, decise di prendere a modello Aling Binang. Mentre imbarazzata rispondeva a queste domande, si lasciò andare a piangere a calde lacrime e trovò che la spontanea e non allarmata comprensione dei suoi visitatori le recava un gran conforto. A posteriori si accorse, per dirlo con le parole del primo esercizio, che invece di accontentarsi di collegare fra loro solo sei o sette o otto punti, così facendo usciva dal quadrato e li collegava tutti e nove. 13.4.2.4. Il passaggio dal secondo al terzo tipo di annotazioni del taccuino della antropologa (cioè dal resoconto delle proprie reazioni ed emozioni soggettive alle rilevazioni della dissonanza e individuazione di forme di doppia descrizione e bisociazione) è il ponte dove prendono corpo le dinamiche dell’ascolto attivo, del coinvolgimento e distacco e della attesa e intesa. Il prossimo e ultimo esercizio mette a fuoco queste dinamiche del sapere delle emozioni mostrando come esse siano inseparabili dalla osservazione e narrazione degli “incidenti di percorso” e di come “l’organismo” (l’osservatore e/o gli osservati) corregge o no i propri sistemi di autocorrezione. Senza gestione creativa dei conflitti una epistemologia olistica non ha gambe per camminare e il raccontare una storia diventa per davvero - come profetizza l’approccio riduzionista - una narrazione chiusa nei limiti della soggettività dei giudizi di valore e priva di capacità di generalizzazione. Quando gli incidenti di percorso e la loro possibilità di trasformarli in risorse non sono più il centro della descrizione, le emozioni possono al più mantenere un valore informativo sugli “stati d’animo”, ma perdono ogni valore di guida affidabile per la conoscenza del mondo esterno. 239 13.5. Esercizio n.4: Il gioco delle narrazioni parallele (I giochi di prestigio del riduzionismo) Durante uno dei suoi primi soggiorni in Giappone l’antropologo fondatore della “prossemica interculturale” Edward Hall si trovò coinvolto in una sequenza di eventi che lo lasciarono completamente confuso e disorientato. Solo dopo un notevole lasso di tempo incominciò a venirne a capo. Il racconto gli egli ne ha fatto costituisce un esempio molto efficace per riflettere sulle dinamiche della comprensione interculturale. Ci aiuta ad evidenziare i modi di ascoltare, di osservare, di interpretare le emozioni tipici di una epistemologia rispettosa della complessità e tesa all’apprendimento reciproco. 13.5.1. Riassunto del racconto di E. Hall (Dal libro Beyond Culture, 1976) Ero da una decina di giorni a Tokio, ospite di un Hotel frequentato prevalentemente da giapponesi. Un pomeriggio rientrando nella mia stanza avverto qualcosa di sconcertante, qualcosa che non va. Gli oggetti sul letto, sulla tavola non erano i miei; gli articoli da toilette nel bagno erano presumibilmente di un ospite giapponese. Il mio primo pensiero è stato: “E se adesso arriva il legittimo proprietario e mi sorprende qui? Come spiego la mia presenza?” Allora non sapevo che poche parole di giapponese. Controllo di nuovo le chiavi: il numero della stanza era quello giusto. Evidentemente l’avevano data a qualcun altro, senza neppure avvisarmi! E tutta la mia biancheria, i miei appunti, i miei bagagli... Dove li avranno portati? Ero in uno stato di confusione, di sbalordimento e irritazione. Ormai mi ero sistemato in quella stanza, ci stavo bene. Come gli era saltato in mente... Riprendo l’ascensore e ritorno alla Reception. L’impiegato con atteggiamento molto ossequioso (e imbarazzato?) mi informa che sì, in effetti mi avevano assegnato una nuova stanza perché la mia era stata riservata in precedenza da un altro cliente . Non dico nulla, ma penso: “Lo sapevano che mi sarei fermato per circa un mese! Perché trattarmi come una specie di tappabuchi?” Mi vengono consegnate le chiavi della nuova stanza. Entro e trovo che tutti i miei effetti personali erano già distribuiti ordinatamente nei cassetti e sugli scaffali quasi come se li avessi messi io stesso . Per un momento ho avuto un giramento di testa, una sensazione di estraneamento. Come era possibile che qualcun altro sapesse disporre tutti quegli oggetti piccoli e grandi esattamente secondo le mie abitudini e preferenze? Tre giorni più tardi di nuovo mi cambiarono stanza e poi ancora. Già la seconda volta lo shock era sparito, sapevo di cosa si trattava, anche se quel comportamento mi risultava incomprensibile. Avevo deciso di reagire almeno esteriormente come se si trattasse di una prassi normale. Anzi, ogni volta che ritornavo in albergo per prima cosa mi informavo se ero ancora nella stessa stanza. In precedenza avevo soggiornato al Frank Lloyd Wright Imperial Hotel per parecchie settimane e niente del genere era accaduto né a me né ad altri. Come mai? Cos’era? Ero vittima di una forma di discriminazione verso gli stranieri ? Non volevo arrivare a conclusioni affrettate, che sarebbero state legittime nella mia cultura di origine. Come se non bastasse, qualche mese dopo ero a Kioto con alcuni amici e alloggiavamo in una deliziosa piccola locanda su una collina con vista sull’intera città. Una sera rientrando vediamo il direttore venirci incontro con grande sollecitudine e con aria molto imbarazzata . Capisco al volo. “Dovete cambiarci stanza. Benissimo, non preoccupatevi comprendiamo perfettamente. Mostrateci le nuove stanze, per noi va benissimo”. 240 Ma in quel caso l’interprete ci spiegò che non dovevamo cambiare solo stanza, ma anche albergo. La mia disinvoltura cominciava a tentennare. Un trambusto del genere senza nemmeno avvertirci? Il piccolo taxi nel quale ci avevano stipati si avvia verso il centro e si inoltra in stradine sempre più piccole e affollate, con sempre meno europei in giro. Ci deposita in un alberghetto di classe chiaramente inferiore a quello di provenienza, nel quale eravamo gli unici ospiti occidentali. A questo punto stavo diventando davvero un po’ paranoico, sapevo che è un sentimento al quale è facile aggrapparsi in terre straniere, ma lo stavo diventando ugualmente. “Devono pensare che siamo proprio dei poveracci, di uno status sociale infimo per trattarci in questo modo!” Il giorno dopo trovammo che il nuovo quartiere era molto più autentico e interessante di quelli visti in precedenza, lo visitammo a fondo e a parte alcune difficoltà perché nessuno parlava inglese, riuscimmo a cavarcela egregiamente e con grande soddisfazione. Tuttavia questa faccenda di essere presi e spostati come una valigia continuava ad assillarmi. Pur essendo un osservatore di modelli culturali, non avevo la più pallida idea su come interpretare questi comportamenti. La risposta finalmente la trovai grazie ad amici giapponesi i quali erano stupiti anch’essi del trattamento riservatomi, ma per la ragione opposta alla mia. In realtà mi era stato fatto un grande onore in quanto “ero stato trattato come un membro della famiglia”. Quando uno viene visto come parte della famiglia, con lui ci si può permettere di essere “informali, rilassati e privi di cerimoniosità”. In Giappone una persona o “appartiene” o non ha alcuna vera idendità. Questo vale sia per la azienda in cui lavora sia per l’hotel in cui soggiorna. L’ospite di un hotel - mi spiegarono gli amici giapponesi - dal momento della registrazione diviene “membro di un’ampia famiglia mobile”, il che per esempio dà il diritto-dovere di salutare gli altri ospiti dell’albergo con un certo calore anche se si incontrano per strada (in effetti era successo e mi ero chiesto se per caso sapessero chi ero...), inoltre l’appartenenza comporta dei diritti di anzianità per cui ogni volta che ritorni hai un maggior diritto a prenotare anche con mesi di anticipo la stessa stanza che occupavi in precedenza. Questo fa sì che i nuovi ospiti siano effettivamente dei “tappabuchi”, ma è il far parte della stessa famiglia che conta, non in quale camera dormi o quanto è grande. Naturalmente gli hotel più turistici adottano un diverso comportamento perché hanno constatato che gli americani diventano ansiosi, si irritano, “non hanno alcun desiderio di far parte della famiglia”. Invece nel mio caso, i gestori dovevano aver in qualche modo capito che “desideravo appartenere” e a questo desiderio avevano corrisposto accogliendomi. 241 13.5.2. Questo racconto è rappresentabile con il seguente grafico Mappa bisociativa: “Hotel, cambio di stanza” Usa/Giappone Premesse implicite USA insulto emarginazione Giappone Hotel cambio stanza onore accoglienza Negli Stati Uniti spostare qualcuno senza neppure avvisarlo è peggio di un insulto, significa che vale meno di niente, che è sotto il livello in cui i sentimenti altrui vengono tenuti in qualche considerazione. Inoltre di solito gli spostamenti sono visti come segnali di mutamento di status e il passare da una stanza più grande a una più piccola è un chiaro segno di caduta di prestigio e probabilmente anche di busta paga. Lo spazio che uno occupa è un importante simbolo dello status sociale. Non è così in Inghilterra, dove lo status è interiorizzato e viene comunicato tramite l’accento, il portamento, il titolo. Una persona importantissima può lavorare in una stanza piccolissima senza sentirsi affatto diminuita. I parlamentari inglesi non hanno dei veri e propri uffici, condividono degli spazi comuni. In America no, lo status è esternalizzato. Gli inglesi tendono a irridere l’importanza che gli americani assegnano agli spazi che occupano. Lo considerano un tipico comportamento “da parvenues”; un segnale di mancanza di radici e scarso senso di sé. Le emozioni di Hall nel vedersi estromesso dalla sua stanza a Tokio erano state quelle tipiche “di un americano” e anche se non aveva reagito come avrebbe fatto in America, una voce (quella che lui chiama “la parte culturale della mia mente”...) continuava a ripetergli: “Poche storie, qui ti stanno trattando come una scarpa vecchia”. 13.5.3. Userò questa storia per evidenziare due punti Il primo riguarda la struttura della narrazione di Hall e il ruolo che in questa narrazione hanno gli “incidenti di percorso”. A questo fine ricorrerò a quello che ho chiamato “il gioco delle narrazioni parallele”. Il secondo punto riguarda il ruolo delle emozioni, le dinamiche del coinvolgimento e distacco e il loro collegamento con quelle della attesa e intesa. 242 13.5.3.1. Il gioco delle narrazioni parallele Il gioco consiste nel produrre una serie di narrazioni di situazioni di malinteso interculturale così caratterizzate: 1. narrazioni nelle quali si afferma la pari legittimità di entrambe le matrici percettivo-valutative; 2. narrazioni in cui si afferma una sola matrice negando la legittimità o addirittura l’esistenza dell’altra; 3. narrazioni in cui vengono esposti “i fatti” prescindendo completamente dalle matrici percettivo-valutative. Quella di Edward Hall sopra riportata è una narrazione del primo tipo. In essa viene affermata progressivamente la pari legittimità di entrambe le matrici percettivo-valutative, quella del cliente occidentale dell’hotel e quella dei suoi gestori giapponesi. Invece di condannare o rimuovere l’incidente che gli è capitato in nome del fatto che “è imbarazzante” essere stato trattato come una scarpa vecchia, Hall lo mette al centro dell’attenzione usandolo come un’occasione per l’esplorazione di altri mondi possibili, come una risorsa conoscitiva. Un’altra versione dello stesso evento, una versione “del secondo tipo” potrebbe essere la seguente: “Negli hotel giapponesi hanno uno strano modo di trattare i clienti. Ti cambiano stanza ogni tre giorni senza neppure avvisarti. E lo fanno come se fosse una cosa normale. O non si rendono conto di essere insultanti o fanno finta di non accorgersene. Solo negli hotel internazionali conoscono le buone maniere”. Qui viene trasmessa non una esperienza di deutero-apprendimento del narratore, ma una informazione che riguarda il comportamento dei giapponesi: sbagliano. Una unica matrice percettivo-valutativa valida. In termini del gioco dei nove punti, potremmo dire: rimane prigioniero del quadrato, legato alle mosse del Cambiamento 1. In questo tipo di resoconto il protagonista ammette di essere stato vittima di un errore imbarazzante, ma non è questo il centro del racconto, il centro è cosa è vero e cosa è falso, chi ha ragione e chi ha torto. C’è questa urgenza a rassicurarsi e rassicurare. Una versione “del terzo tipo” potrebbe essere: “Negli hotel giapponesi ti cambiano di stanza ogni tre giorni senza avvertirti, in compenso pensano loro non solo a trasferire i bagagli, ma anche a riporli nei cassetti e nel bagno esattamente come li metteresti tu”. Anche qui non viene trasmessa un’esperienza, si sta ben attenti a dare delle informazioni evitando i giudizi di valore. Per dimostrare la propria “neutralità” si fa attenzione a equilibrare aspetti negativi e positivi, valutazione che rimane implicita: ci si attiene “ai fatti”. Nessuna matrice percettivo-valutativa. Da questo resoconto ricaviamo delle informazioni che possiamo giudicare più o meno utili, ma non c’è traccia di come chi parla è arrivato a possederle, 243 né sul diverso significato che “fatti” del genere possono avere in situazioni concrete e contingenti per persone di culture diverse. Quando ci limitiamo a “raccontare i fatti” facciamo dei giochi di prestigio favolosi, anche se spesso non ce ne rendiamo conto. Facciamo scomparire ogni traccia delle matrici percettivo-valutative. Dunque, abbiamo queste tre versioni dello stesso evento nelle quali gli “incidenti di percorso” (l’imbarazzo, lo spiazzamento, il senso del ridicolo, il conflitto) vengono valorizzati nella prima, edulcorati nella seconda e totalmente ignorati nella terza. Da un punto di vista grafico queste tre narrazioni possono essere così rappresentate: Il gioco delle narrazioni parallele Due matrici bisociate imbarazzo valozizzato Mondi possibili Ascolto attivo Una matrice valida imbarazzo edulcorato Giudizi di valore Ascolto passivo Nessuna matrice imbarazzo rimosso ? ? Neutralità La prima versione corrisponde al modo di narrare di chi pratica l’ascolto attivo. La seconda riflette l’etnocentrismo del senso comune. La terza è quella a cui tendono le scienze sociali di impostazione positivistica, preoccupate di evitare le distorsioni dei giudizi di valore eliminandoli, assieme alle cornici e alle emozioni. Due (o più) matrici, una sola matrice, nessuna matrice. Una progressiva riduzione delle matrici percettive-valutative ritenute fondamentali per la comprensione scientifica di quell’evento. 244 13.5.3.2. Passiamo ora al secondo punto, al distacco e coinvolgimento, cioè al ruolo cognitivo delle emozioni. Prima di tutto vi chiedo di passare in rassegna le emozioni che percorrono il racconto di Hall. Sono una quantità notevole. Se è vero che le emozioni distorcono la conoscenza, dovremmo avere un resoconto completamente distorto. Invece a noi non sembra che sia così distorto, ci sembra che le emozioni interpretate in questo modo siano fondamentali per capire. Nella seconda versione le emozioni distorcono la conoscenza, la rendono unilaterale, ma nella prima versione no. Come mai? La seconda versione non consente coinvolgimento e distacco, ma o distacco o coinvolgimento. Una narrazione del genere è il fondamento della dicotomia soggettivo - oggettivo. Sconcerto, irritazione, spiazzamento, senso del grottesco. Hall interpreta questi sentimenti ed emozioni non come informazioni su cosa succede, ma su come lui, americano, reagisce a una situazione del genere. Né rinuncia al proprio punto di vista, né lo assume come l’unico possibile. Questo è il fondamento del coinvolgimento e distacco. Si prepara a uscire dal quadrato. Assume l’atteggiamento del giudice saggio. Ha ragione lui, avranno ragione gli altri (se mai riuscirà a capire il loro punto di vista) e non possono aver ragione entrambi. Il coinvolgimento e distacco gli consente di mettersi in un atteggiamento di “attesa e intesa”. “Attesa” di ulteriori indizi che gli consentano di capire come quelle stesse circostanze possono essere interpretate in modo diverso, “intesa” perché i migliori collaboratori in questa indagine sono proprio quelli che nella sua cultura considererebbe come “nemici” e anche perché tutta questa ricerca è volta verso l’intesa, verso un futuro apprendimento reciproco. In questo contesto la lettura di quelle circostanze suggerita dalle sue emozioni lungi dall’essere un ostacolo a una migliore osservazione, ne diventa uno strumento indispensabile. Essere consapevole che “interpretare” una scena (sia nel senso di come la si legge, che di quale parte tendiamo a recitare in essa) equivale a strutturare un campo, consente di valorizzare proprio quei particolari che “do not fit the frame”, che non vanno d’accordo col resto del quadro. Nella stesura di questo racconto ho evidenziato in corsivo alcune frasi e parole. Si riferiscono a dei particolari marginali e fastidiosi, inquietanti. Ottimo motivo per toglierli dallo sfondo e prenderli in considerazione. Nel caso specifico questi particolari si possono raggruppare in due insiemi: i segnali di una mancanza e quelli di un eccesso. I primi: se mi stanno insultando mi aspetterei dei segnali di irriverenza, di scherno, magari trattenuti, minuscoli, ma percepibili. Come mai invece hanno un atteggiamento di imbarazzato rispetto? Anche il fatto che non danno spiegazioni non è accompagnato da supponenza. I secondi si riferiscono alla cura straordinaria, eccessiva con la quale sono stati riposti gli oggetti personali nella nuova stanza. Anche qui, se era un insulto, perché non hanno buttato tutto alla rinfusa nelle valigie e lasciato che poi il cliente si arrangiasse? Sono segnali misteriosi, da collezionare. Da tenere lì in attesa che uniti ad altri segnali e future spiegazioni concorrano a formare una nuova matrice percettivo-valutativa. 245 Questa fase condivide con la versione tre delle narrazioni parallele (“limitarsi ai fatti”) una esigenza di bilanciamento, di equità; ma le dinamiche sono molto diverse. Nelle scienze sociali di stampo positivista si cerca di sfuggire alla partigianeria dei giudizi di valore portandosi verso la neutralità; giudizi di valore, cornici, emozioni, sono tutti fenomeni che vengono fatti rientrare nel dominio del soggettivo al quale si oppongono le valutazioni oggettive basate sui “fatti”. Invece una epistemologia dell’ascolto attivo, una epistemologia olistica alla Bateson, va nella direzione opposta, verso la valorizzazione della dissonanza e dello spiazzamento come fonti di conoscenza, verso la moltiplicazione delle cornici, l’esplorazione di mondi possibili, verso la metacomunicazione. Il “fatto è” che senza metacomunicazione non c’è né riconoscimento, né rispetto, né ricerca qualitativa. 13.6. Conclusioni: l’abduzione Tutti gli esercizi ed esempi che ho proposto in questo scritto procedono per abduzione. Cioè: risolvi un problema che comporta il superare una speciale resistenza che corrisponde alla uscita dalle cornici in cui eri assestato in partenza, riconosci riflessivamente il tipo di dinamiche messe in atto in quella contingenza (la sua forma dinamica), vai alla ricerca di altri casi, di altre situazioni contingenti descrivibili con le stesse dinamiche. Questi altri casi si prestano anche a evidenziare altri aspetti che negli esempi precedenti rimanevano sullo sfondo o erano assenti. Fra i vari casi raggiunti per via abduttiva, emergono delle somiglianze di famiglia. Le riflessioni di Gregory Bateson coprono uno spettro di fenomeni che va molto al di là degli esempi che qui ho portato. La sua ricerca è guidata dalla convinzione che la mente umana sia solo un caso particolarmente complesso delle forme dinamiche che regolano la comunicazione nel più vasto regno naturale e animale di cui siamo parte. Una comunicazione fondamentalmente estetica le cui leggi (the laws of form...) vanno esplorate esercitando e raffinando quella parte della nostra intelligenza che è la capacità di riconoscere la pertinenza dei contesti ai significati, di cui la logica classica è solo una preziosa semplificazione, adatta a situazioni particolarmente semplici. Il suo è un pensiero di riconciliazione, che mostra la via di un dialogo fra la parte inconscia e quella conscia della nostra mente, pensiero analitico e analogico, individuo e cultura di appartenenza, fra le diverse culture, fra queste e la natura. È un pensiero che ci aiuta a “riconoscerci nella primula”, ad apprezzare the pattern that connects il senso della nostra vita con quella dell’universo. È il tentativo di separare l’intelletto dall’emozione che è mostruoso e secondo me è altrettanto mostruoso (e pericoloso) tentare di separare la mente esterna da quella interna, o la mente dal corpo (Bateson M.C., 1984, pag.482) 246 CONCLUSIONI Giunti alla conclusione di questo percorso vorremmo riprendere le ipotesi principali che lo hanno ispirato e le prospettive che ci sembrano più utili per progredire nella comprensione del fenomeno migratorio, sia rispetto alla comunicazione di rete tra i servizi, sia rispetto alla formazione professionale. La principale opzione etico - epistemologica che ha fatto da sfondo al corso di formazione e che ha ispirato questo manuale riguarda la natura circolare e reciproca, non solo dei rapporti di rete e d'insegnamento-apprendimento, ma più globalmente, del rapporto tra il sistema che osserva ed il sistema che è osservato, elemento centrale della prospettiva della complessità. Si è cercato di evidenziare come questa prospettiva sembri essere particolarmente adeguata alla comprensione dei fenomeni interculturali. Per citare solo due aspetti: • dirigendo l’attenzione verso i vincoli dell’osservatore e verso la reciprocità dell’autodefinizione tra sistema che osserva e sistema che è osservato, essa fornisce una chiave di lettura del rapporto tra culture autoctone e culture minoritarie che va nella direzione di una trasformazione dei reciproci vincoli, piuttosto che verso una concezione omologante o ghettizzante dell’integrazione; • descrivendo l’incontro di rete tra istituzioni in una prospettiva di complementarietà tra le diverse istanze territoriali, essa valorizza anche i livelli informali, quelli intermedi e le strutture meno istituzionalizzate, come, ad esempio, le associazioni ed i gruppi di volontariato. Si è voluto inoltre sottolineare che la rete è costituita da più attori e che ogni attore della rete può, di volta in volta, trovarsi sia nella posizione dell’osservatore, sia nella posizione dell’osservato. D’altra parte il sistema che osserva non è costituito solo dai formatori e dagli operatori della rete, ma anche dalle persone migranti. L’opzione verso la reciprocità che si è cercato di supportare attraverso l'illustrazione del Dispositivo di formazione/formatori ed i diversi esempi, implica, infatti, che i principi inerenti la concezione della natura umana, in particolare la capacità di autodefinirsi, ma anche la complessità del come si apprende e del come si comunica, pur nelle varietà dei percorsi e delle appartenenze culturali, vadano considerati con grande delicatezza, per tutti i soggetti coinvolti. Ad un altro livello, potremo constatare anche che la prospettiva della complessità ripropone, sul piano scientifico, alcuni temi di riflessione della tradizione cristiana: la parabola della trave e della pagliuzza, invita a tener conto dei vincoli dell’osservatore e l’imperativo di “non fare all’altro quello che non vorresti fosse fatto a te stesso” implica un principio di similarità di base tra tutti gli esseri viventi. 247 La dimensione dell’ascolto attivo, della gestione creativa dei conflitti, della capacità di chiedere e di attendere è stata richiamata più volte, ma essa trova soprattutto nel capitolo redatto da Marianella Sclavi, la palestra per provare a sperimentarli sia a livello intellettuale che emotivo. Nella prospettiva presentata la formazione professionale con persone migranti, è vista, innanzitutto, come un'occasione per fornire delle opportunità stabilizzanti. L’opportunità stabilizzante può essere infatti uno spazio nel quale acquisire un modo personalmente/socialmente significativo, qui ed ora, per ri-connettere gli schemi della propria traiettoria evolutiva, attraverso una ridefinizione appagante delle attività dei ruoli e delle relazioni sperimentati nella cultura di arrivo. Si è visto che le figure del tutor e del mediatore culturale rappresentano a questo proposito, un ruolo di sostegno e di promozione evolutiva, sia per i singoli migranti, sia per la comunicazione di rete. L’approfondimento dei nodi critici ci ha portato infatti ad ipotizzare uno specifico dispositivo di accompagnamento, orientamento e formazione individualizzato, che vede la collaborazione tra prima accoglienza, scuola e formazione professionale regionale, allo scopo di facilitare un inserimento lavorativo, non solo strumentale, ma anche soddisfacente. Nel quadro di questa collaborazione tra aree il problema della verifica dei prerequisiti linguistici è stato affrontato a più livelli ed il contributo di Gioia Maestro sulla CILS, indipendentemente dalla eventuale adozione, potrà essere utilizzato come uno strumento di dibattito e di confronto, a partire dai sistemi già elaborati dalle diverse strutture. Si è inoltre cercato di partecipare al lettore la consapevolezza di essere all’inizio di questo processo di riflessione collettiva; non disponiamo di una casistica longitudinale per capire cosa sta davvero succedendo ai migranti ed a noi, e, soprattutto, quali saranno gli effetti a medio e lungo termine delle sofferenze che una grande parte di loro vivono accanto a noi. Nel testo abbiamo cercato di presentare un ventaglio di posizioni, quella della psichiatria francese relativa alle ricerche sulla prima immigrazione algerina, quella più ottimistica di Bronfenbrenner, relativa alla crisi del ’29, e quella di alcuni corsisti che sembrano rivendicare il diritto ad essere proiettati sul futuro, più che sull’analisi dei possibili danni legati all’esperienza passata. A questo proposito, le riflessioni possono moltiplicarsi. Pensiamo, per esempio, al fatto che, da un lato, i processi di globalizzazione ed i fenomeni migratori stessi, stanno mettendo sempre più in evidenza i fattori d’interdipendenza umana e gli effetti boomerang delle concezioni unilaterali del benessere. Questo, non solo per “l’altro più debole”, ma, alla lunga, anche per il sistema, più potente, che, a suo tempo, ha ritenuto più vantaggioso gestire la prima mossa in una prospettiva autoreferenziale di “non reciprocità”. Dall’altro è evidente che la consapevolezza di questa interdipendenza non sembra essere un motivo sufficiente per innescare conseguenti comportamenti ispirati alla reciprocità. É come se la maggiore accessibilità delle informazioni e la vicinanza stessa creasse una nuova alienazione o una specie di 248 assuefazione alla convivenza tra il modernismo spinto e nuove forme di inciviltà. Da un’intervista di Enzo Biagi a Pino Arlacchi, vice presidente dell’ONU, responsabile della Commissione contro la Criminalità, sono emerse delle informazioni agghiaccianti: il fenomeno più preoccupante di questi anni sarebbe il commercio di persone, soprattutto donne e bambini. Le cifre sono impressionanti: proprio nel nostro secolo il commercio di schiavi risalirebbe a 30.000 unità, rispetto alle 12.000 dei millenni precedenti123. Di fronte a questi dati, il nostro impegno e la nostra opzione verso la reciprocità assumono una dimensione naìf. Eppure verrebbe da chiedersi: nei progetti ufficiali i migranti sono definiti fasce deboli, ma loro come ci vedono? Il nostro atteggiamento verso l’altro, verso la salute, verso il denaro, verso il cibo, verso l’educare i nostri figli, verso la morte, come ci farà apparire? Deboli o forti? Abbiamo cercato di fare emergere il potenziale ruolo protettivo dello spazio della formazione professionale, rispetto al processo di stabilizzazione, evidenziando che essa può fornire sia un luogo di rispetto dell’ambivalenza, sia un luogo di appartenenza, sia un luogo di attività e di significati condivisi, sia un collegamento di sostegno rispetto alle altre situazioni ambientali sperimentate dal migrante nella fase di inserimento. Ipotizziamo quindi che i diversi percorsi formativi possano rimettere in moto la vitalità cognitiva e identitaria del soggetto migrante, risollevandolo dall'impatto dell’emergenza, e offrendogli nuovi e più ampi margini di libertà per effettuare le sue scelte. Abbiamo assunto, inoltre, l’ipotesi che il percorso della persona in formazione sia favorito se i rapporti tra gli attori della rete locale sono improntati, essi stessi, ad una prospettiva di reciprocità; e se gli eventuali nodi ed incidenti critici diventano lo spunto per una maggiore consapevolezza dei rispettivi vincoli e del punto di vista dell'emigrante stesso, una volta entrato nel circuito assistenziale e/o formativo. Gli esempi di collaborazione riuscita, tuttora in via di ulteriore sviluppo e consolidamento, sono incoraggianti a questo proposito. Tuttavia abbiamo cercato di esplorare anche le ombre, le difficoltà della cooperazione, o, almeno, di non farla apparire come qualcosa di scontato o di esclusivamente ideologico. Per questo si richiede una scelta consapevole da parte dei singoli formatori ed operatori ad osservare anche se stessi ed a salvaguardare qualche spazio per la riflessione ed il confronto con i colleghi del territorio. Il suggerimento di partire dalla esplicitazione dei propri vincoli, nel confronto eterogeneo, va nella direzione del riconoscimento del potere/sapere conquistato, da ognuno, nella condivisione quotidiana delle pratiche professionali, nella propria microcultura istituzionale. Questo riconoscimento delle potenzialità innovative e non solo costrittive dei vincoli è stato posto alla base della similarità tra i diversi attori 123 Trasmissione "Il fatto" di E:Biagi, TV1, 26/6/2000. 249 e dell’isomorfismo tra i diversi ambiti esplorati: la formazione formatori, la comunicazione di rete, la comunicazione in classe. La presentazione degli elementi di eterogenità di una classe multietnica, seguita dal problema della vulnerabilità all’autodefinizione, vuol far leva più sulla importanza di atteggiamenti vigili e flessibili, che sulla somministrazione di tecniche da usare come ricette. Ognuno troverà le sue, sia ricorrendo ad altri contributi, sia predisponendosi ad un attegiamento di ricerca e di collaborazione con colleghi più esperti. Si sono presentati esempi di violazioni di reciprocità e ci preme qui riprendere questo discorso ad un livello più ampio di quello assunto nel testo, a proposito della formazione. Ricordiamo, ad esempio, la violazione che consiste nello screditare colui dal quale si vuole o si può riceve un aiuto. Dal punto di vista del rapporto, più generale, tra europei e migranti extracomunitari, questa modalità comunicativa può appoggiarsi su rappresentazioni sociali stereotipizzate. Si potrebbe fare l’esempio dell’atteggiamento diffuso, tra noi italiani, in base al quale lasciamo ai migranti i lavori che noi non vogliamo più fare (asfaltare le strade, lavorare nelle acciaierie…) o che non riusciamo a fare (assistere gli anziani, gli handicappati) e che ci sono comunque necessari, occultando la dimensione della richiesta d’aiuto a cui questi lavoratori migranti rispondono, e mascherandola con dichiarazioni generalizzanti (tolgono il lavoro ai nostri giovani, rubano, si drogano, sono sporchi). Queste dichiarazioni, da un lato, fanno apparire solo noi come le persone disponibili che forniscono l’aiuto, e dall’altro disconfermano sia il valore della prestazione dei migranti, spesso sottopagata e svolta in “nero”, sia il loro più ampio raggio di potenzialità professionali ed umane, come se fossero solo queste le prestazioni di cui essi fossero capaci. Benchè questo esempio evochi problematiche politiche ed economiche di ben più vasta portata, è comunque interessante per ricordare che la comunicazione faccia a faccia con i migranti può risentire degli stereotipi comunicativi ai diversi livelli dell’ambiente. L’intolleranza razzista spesso nasce proprio quando gruppi di persone si convincono che gli stranieri siano sporchi, rubino, tolgano il lavoro ai nostri giovani. Queste rappresentazioni sociali, che sono spesso alla base delle presupposizioni unilaterali nascono dagli individui e dai gruppi, per le strade, nei bar, negli uffici, sugli autobus, dove la gente commenta, analizza, scambia opinioni che influenzano, poi , i comportamenti quotidiani. I corsisti migranti, soprattutto i futuri mediatori culturali, sono interessati ad affrontare nell’ambiente della scuola, che appare più protetto e dove il loro ruolo è più chiaro, il problema dei pregiudizi, degli stereotipi, delle incomprensioni; sono molto curiosi di avere informazioni dai docenti su che cosa la gente là fuori, per la strada, sugli autobus, nei posti di lavoro pensa di loro, come migranti. All’inizio quando una persona sull’autobus stringeva la borsetta o si scostava io mi sentivo male, accusato, nudo …. La scuola mi ha dato come un 250 vestito, una cosa intorno che mi protegge. Io adesso penso che questa gente lo fa per pregiudizio , che non si riferisce proprio a me e che io so delle cose che lui non sa…Da quando vado a scuola, per la strada, in certi momenti mi scopro che sono tranquillo. (un corsista della Costa D’avorio ) Dice Camilleri (1979, pag.66): “Le minoranze dei migranti in una società culturalmente antagonista, sono condannate a inventare una denaturazione calcolata della loro identità, tale che esse continuino a riconoscersi, diventando sufficientemente altre per vivere con gli altri”. La prospettiva dell’autodefinizione e della reciprocità rifiuta l’ineluttabilità di questa condanna perché vede l’incontro tra appartenenti a culture diverse come una opportunità di scambio e di riorganizzazione delle identità culturali, senza che nessuna di queste debba snaturarsi in nome dell’altra. La chiusura monoculturale tende, infatti, a far dimenticare o dare per scontate le proprie tradizioni, mentre una concezione positiva dello scambio tra culture, costringendo i protagonisti dello scambio a rivalutare le tradizioni e i riti propri delle rispettive etnie, può innescare anche una rivitalizzazione degli elementi della cultura autoctona. (Parrinello, 1993) In questa ottica sarebbe importante, nei lavori futuri, capire meglio i microprocessi in cui siamo coinvolti come operatori e come docenti. Passare cioè a ricerche qualitative sul campo, a progetti di formazione-ricerca, in cui i migranti possano essere coinvolti in modo attivo, nel modo di documentare la loro esperienza di stage, nel renderci più consapevoli della ricchezza e dello sforzo che comporta, anche sul piano cognitivo, l’inevitabile naturalezza della loro visione b i n o c u l a re; in definitiva, che essi potessero essere più esplicitamente i nostri partner nella ridefinizione dei setting formativi. Ciò comporterebbe senz’altro una rivitalizzazione delle nostre concezioni e nuove idee, nuove percezioni dei vincoli, come lo dimostrano già alcune ricerche che vanno in questa direzione124. Per il momento ci siamo limitati a consigliare un atteggiamento di cautela verso l’adattamento forzato, e un atteggiamento di generica consapevolezza della complessità dei diversi modelli di insegnamento-apprendimento che possono fare da filtro tra i migranti e le nostre scuole professionali. Abbiamo soprattutto invitato a non dimenticare la complessità dell’altro ed a costruire patti formativi che consentano di fare emergere questa complessità. Abbiamo sostenuto la opportunità di un atteggiamento che oscilla tra il mettersi nei panni dell’altro, per aiutare noi stessi a comprendere la complessità dello scambio in cui siamo coinvolti (allenamento alla doppia descrizione) e quindi ritornare immediatamente dopo nei propri panni, un po’ trasformati da questa migrazione nell’altro, per poter collaborare o aiutarlo davvero. Siamo davvero convinti che sia un modo di partire con il piede giusto. Ora, il desiderio, è andare oltre questa prima mossa. 124 Si vedano, ad esempio, i già citati: Massa e altri, 1994; Carlini G., 1991; Demetrio D., 1984,1992. 251 Bibliografia Arenzi L. Il tutor, stili e funzioni, Rassegna Cnos 10, pp.49-55 Roma, 1996. Balsamo F. (a cura di), Da una sponda all'altra del Mediterraneo, Harmattan Italia, Torino, 1997. Bateson G. (1972), Trad. it. Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976 Bateson G. (1979), Trad. it. Mente e natura, Adelphi, Milano 1984 Bateson M. C. (1984), Con occhi di figlia. Ritratto di Margareth Read e Gregory Bateson, Feltrinelli, Milano, 1985. Beer S., Prefazione in Maturana F. e Varela F. (1980), Autopoiesi e cognizione, Marsilio, Venezia trad. it. 1985. Besozzi E. (a cura di) Navigare tra formazione e lavoro, Carrocci Ed., Roma, 1988. Bettoni C. Vicentini G., Imparare dal vivo. L’italiano per stranieri, Boccacci Ed., 1996. Bocchi G. e Cerruti M. La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano, 1987. 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In una seconda fase l'utenza deve essere in gado di individuare l’orientamento formativo e professionale fattibile e spendibile nel paese che li ospita. L’obiettivo finale è rappresentato dall’inserimento del giovane in un percorso (che preveda la compresenza di più indirizzi) formativo e/o lavorativo da lui scelto ed accettato con cognizione di causa per il successivo ingresso nel mercato del lavoro. Note tecniche Luogo di svolgimento: Casa Di Carità Arti e Mestieri di Corso B. Brin, 26 Data d’inizio : 4 Maggio 1999 ore 14 Orario : lunedì/martedì/giovedì ore 14 - 17 Partecipanti : Minori Migranti in possesso di un secondo livello (basso) di alfabetizzazione e di età non superiore ai 18 anni. Per i Minori soli è sufficiente la presentazione della pratica/o presa in carico per l’ottenimento della tutela. Si richiede al Centro Interculturale di predisporre l’utilizzo di un Mediatore Culturale per 8 ore, e di Mediatori che stanno frequentando il corso alla Casa di Carità Arti e Mestieri e svolgono attività di Stage. Informazioni e iscrizioni Sportello Orientamento Lavoro Migranti C. so B. Brin, 26 Tel. 011/258488 Orari: lun. 15 - 18; mart. 18 - 21; merc. e ven. 9 - 12. Sportello Orientamento Migranti della C.d.C. presso il C.T.P. Parini e Braccini in collaborazione con i referenti scolastici 258 PROGRAMMA DEL CORSO 1. ARGOMENTI • Accoglienza e relativa mappa di riferimento (paese d’origine e paese d’arrivo) • Contatto e presa in carico dei servizi nel territorio locale OBIETTIVI Far emergere le competenze, le abilità acquisite dal Migrante nel suo Paese d’origine, nella sua storia passata coniugandole con le opportunità offerte dalla rete territoriale locale attraverso un percorso strutturato di orientamento alla formazione e al lavoro. CONTENUTI DA TRASMETTERE a. b. c. d. SUSSIDI E STRUMENTI DIDATTICI • Brain storming con il sostegno del Mediatore culturale • Esercizi individuali e di gruppo sostenuti dal Mediatore culturale • Decodifica dei messaggi avendo particolare attenzione del substrato culturale del Migrante • Schede sinottiche Il recupero della memori; Comparazione con il Paese d’arrivo Raccolta dati personali Prima definizione della scelta formativa e lavorativa 2. ARGOMENTI • Rappresentazioni degli interessi e delle motivazioni • Presentazione delle risorse - servizi offerti dal territorio ai cittadini Migranti • Orientamento e primo bilancio di preferenze OBIETTIVI L’allievo dovrà essere in grado di definire: quali sono e proprie caratteristiche personali, quali sono i suoivincoli in un contesto monoculturale ed interculturale, quali sono le sue preferenze nel definire un progetto professionale, avendo presente le risorse che il territorio offre per svolgere una proficua attività di ricerca del lavoro. CONTENUTI DA TRASMETTERE a. Analisi del Sé b. Bilancio di interessi personali e i vari atteggiamenti culturali c. I servizi territoriali SUSSIDI E STRUMENTI DIDATTICI • • • • • Scheda personale Scheda rappresentazione interessi e motivazioni Bilancio di preferenze e di competenze Schede servizi territoriali Brain-Storming 259 3. ARGOMENTI • • • • Presentazione dei profili professionali Fabbisogni lavorativi richiesti dal territorio locale Vincoli e prospettive Carta dei Mestieri OBIETTIVI Far emergere i profili professionali previsti dai corsi professionali al lavoro nei vari Centri associati in rete. Tale attività dovrà evidenziare i vincoli, i pre-requisiti e le prospettive collegati allo svolgimento della mansione prevista dal profilo professionale presentato. Al termine di questa fase ciascun utente effettuerà una prima scelta cercando di evidenziare le caratteristiche di un mestiere di sua scelta. CONTENUTI DA TRASMETTERE a. La motivazione e i bisogni umani b. La motivazione come strategia per il successo c. I criteri di scelta di un mestiere d. Figure professionali in crescita e in declino e. Tendenze del mercato del lavoro in riferimento ai migranti SUSSIDI E STRUMENTI DIDATTICI • Scheda personale • Scheda rappresentazione motivazioni • Repertorio dei profili professionali e delle opportunità lavorative e formative offerte dal territorio • Schede servizi territoriali • Brain-Storming 4. ARGOMENTI • Stage orientativo (visita realtà formative, consultive, lavorative) OBIETTIVI Presentare attraverso una serie di visite guidate le reali opportunità di formazione professionalizzante offerte dal territorio. Inoltre gli utenti avranno l’opportunità di visitare centri territoriali che si occupano di mettere in contatto domanda e offerta di lavoro e una serie di realtà produttive selezionate in base ai possibili sbocchi professionali individuati. CONTENUTI DA TRASMETTERE a. Visita guidata presso l’agenzia formativa b. Visita guidata presso l’Agenzia per l’impiego SUSSIDI E STRUMENTI DIDATTICI • • • • 260 Scheda personale Stage orientativo Autovalutazione orientativa Brain-Storming 5. ARGOMENTI • Nuovo colloquio • Progetto personale OBIETTIVI Formalizzare il livello di orientamento maturato dal Migrante attraverso un nuovo colloquio fra l’Utente, il tutor orientativo e il mediatore culturale. Alla luce di quanto emerso dal percorso di orientamento verrà formulato un progetto personale o patto formativo che conterrà la scelta di indirizzo formativo finale da intraprendere. CONTENUTI DA TRASMETTERE a. Raccolta dati personali b. Definizione della scelta c. Rinegoziazione del progetto SUSSIDI E STRUMENTI DIDATTICI • • • • Scheda personale Progetto personale Contratto Presenza del Mediatore culturale 261 DESCRIZIONE ANALITICA DEL PROGRAMMA e SOGGETTI REFERENTI 1. DESCRIZIONE DELLE FASI DEL PERCORSO Accoglienza e contatto con successiva presa in carico In questa fase l’utente è invitato a prendere conoscenza del percorso di orientamento proposto e a formalizzare la sua partecipazione a esso. Modalità : sportello presso la Parini e la Braccini con l’utilizzo di due mediatori e presentazione e finalità dell'orientamento all'utenza minore. SCHEDA D’ISCRIZIONE AI CORSI D’ORIENTAMENTO PER GIOVANI CITTADINI MIGRANTI MINORI COGNOME E NOME: INDIRIZZO: n. PRESSO: Tel. NATO/A A: il NAZIONE: PRATICA DI REGOLARIZZAZIONE: REFERENTE (eventuale tutela): ISCRIZIONE AL CORSO DEL: MATTINO POMERIGGIO RICEVUTA D’ISCRIZIONE COGNOME E NOME: Data d’iscrizione: 262 CAP Prov. Fase 1 : accoglienza L’utente viene accolto nel centro, vengono presentate le modalità e le finalità del percorso e, contestualmente, viene effettuata una prima ricognizione della sua storia personale e delineata una prima mappa dei servizi con i quali ha avuto contatti. Fase 2 : primo bilancio di competenze L’utente, guidato dal tutor orientativo e coadiuvato dal mediatore culturale, procede ad un’analisi, sia pure approssimativa e provvisoria, delle proprie competenze conseguite nel paese d’origine e all’estero, interessi, desideri, potenzialità. Propedeutica a questa fase è il confronto tra usi, costumi, tradizioni, modi di vita, di organizzazione del sapere e del lavoro nella cultura d’origine e in quella d’arrivo. In tale fase l’approccio sarà in parte collettivo, in parte individuale. Fase 3 : presentazione dei profili professionali Vengono presentati i profili professionali previsti dai corsi di preparazione al lavoro nei vari Centri associati in rete. Tale attività dovrà evidenziare i vincoli, i pre-requisiti e le prospettive collegati allo svolgimento della mansione prevista dal profilo professionale presentato. Al termine di questa fase ciascun soggetto effettuerà una prima scelta dell’indirizzo che intende seguire. In subordine è prevista la possibilità di orientare e accompagnare nella ricerca del lavoro quei soggetti che presentano già una sufficiente professionalità per l’entrata nel mondo del lavoro. Fase 4 : stage orientativo Vengono presentate attraverso una serie di visite guidate le reali opportunità di formazione professionalizzante offerte dal territorio. Inoltre gli utenti avranno l’opportunità di visitare centri territoriali che si occupano di mettere in contatto domanda e offerta di lavoro (CILO, Orientamento lavoro Migranti - Sportello O.L.M., Agenzia per l’Impiego…) e una serie di realtà produttive selezionate in base ai possibili sbocchi professionali individuati. Fase 5 : progetto personale e contratto E’ previsto un nuovo colloquio fra l’utente, tutor orientativo e mediatore culturale. Alla luce di quanto emerso dal percorso di orientamento verrà formulato un progetto personale o patto formativo che conterrà la scelta di indirizzo formativo finale da intraprendere. 263 2. ÉQUIPE E’ composta dai diversi tutor del dispositivo (i tutor orientativi gli insegnanti che gestiscono le lezioni d’orientamento- quelli dello sportello, il mediatore culturali), dal coordinatore professionale, e da quanti altri siano coinvolti nella rete (scuola, servizi orientativi e di politiche del lavoro, sportelli per Migranti, imprese,...) 3. VERIFICA • In itiner e: sarà compito dei tutor orientativi e del mediatore culturale cogliere ed evidenziare le modificazioni che intervengono nella rappresentazione del sé, da parte delle diverse agenzie (scuole, F.P., aziende) e registrarle all’interno della scheda personale. • Finale : la valutazione finale sarà rappresentata dalla stesura del progetto personale di formazione e dalla adesione ad un successivo percorso educativo, formativo, lavorativo. 4. CONCLUSIONE DELLE ATTIVITÀ DI ORIENTAMENTO Al termine del corso di Orientamento di 30 ore il corpo docente ha deciso di consolidare i rapporti di rete dei servizi territoriali che hanno collaborato, con soddisfazioni delle parti, all’attuazione dei corsi. I formatori considerano importante organizzare un incontro con i referenti della rete territoriale da tenersi presso il Ns/C.F.P nel mese di giugno In questa sede sono stati trattati i seguenti punti: • i dati raccolti sul corso di Orientamento svolto dai giovani Migranti; • l’eventuale possibile corso di formazione da svolgere da parte del giovane Migrante nell’A.F. 1999/2000; • l’eventuale pre-iscrizione; • le strategie da attuare per rendere possibile l’ottenimento del Permesso di Soggiorno. • • • • • • • I referenti della rete territoriale sono: Parini, Braccini; Cooperativa A.M.M.C; Ufficio minori stranieri; Caritas; Comunità; I.R.E.S.; Centro Interculturale; Si considera utile informare i Giudici tutelari e l’Ufficio stranieri della Questura. 264 5. GESTIONE DELLA RACCOLTA DATI E LORO RISERVATEZZA Tutti i dati personali raccolti, a livello informativo, sull’utenza migrante che ha frequentato i due corsi di Orientamento di 30 ore, hanno la seguente funzione: • Comparare i dati all’interno della rete strutturata, attraverso una collaborazione coordinata e progettata a monte, che permetta di veicolare i giovani migranti nel doppio binario integrato tra Formazione professionale e Licenza media rispettivamente nell’anno formativo e nell’anno scolastico 1999/2000; • Permettere una più stretta collaborazione tra i servizi sociali del Comune e le Associazioni private che promuovono le azioni di Assistenza e di Soggiorno residenziale; • Rendere visibile agli organi giudiziari competenti il lavoro professionalizzante messo in atto dai servizi territoriali (tra cui la formazione professionale), con l’obiettivo di promuovere azioni che facilitino l'inserimento del giovane migrante nel tessuto sociale. Tutti i dati personali raccolti sui giovani Migranti sono utilizzati all’interno della Formazione professionale, della Formazione scolastica e della rete cittadina che collabora nelle azioni di recupero dei giovani Migranti. 6. FINALITÁ DEI DATI RACCOLTI E INFORMAZIONI RELATIVE ALLE FREQUENZE Tutti i dati personali raccolti, a livello informativo, sull’utenza Migrante che ha frequentato i due corsi di Orientamento di 30 ore, hanno la seguente funzione: • Comparare i dati all’interno della rete strutturata, attraverso una collaborazione coordinata e progettata a monte, che permetta di veicolare i giovani migranti nel doppio binario integrato tra Formazione Professionale Regionale e Licenza media rispettivamente nell’anno formativo e nell’anno scolastico 1999/2000; • Permettere una proficua collaborazione tra i servizi sociali del Comune e le Associazioni private che promuovono le azioni di Assistenza e di Soggiorno residenziale ; • Rendere visibile agli organi giudiziari competenti il lavoro professionalizzante messo in atto dai servizi territoriali (tra cui la formazione professionale), con l’obiettivo di promuovere azioni che facilitino l'inserimento del giovane migrante nel tessuto sociale. Tutti i dati personali raccolti sui giovani Migranti sono utilizzati all’interno della Formazione professionale, della Formazione scolastica e della rete cittadina che collabora nelle azioni di sostegno e di recupero dei giovani Migranti. 265 Dati quantitativi: Numero totale allievi orientati dalle scuole: Numero allievi frequentanti su quelli orientati dalle scuole: Numero allievi non frequentanti su quelli orientati dalle scuole: 35 30 5 Osservazioni: da questi dati emerge la serietà del lavoro di rete svolto: intervento dei mediatori all’interno delle scuole; presentazione del corso da parte degli orientatori; accordo a monte tra CFP e scuole sia in ambito organizzativo, sia in quello inerente la selezione: 2° livello di alfabetizzazione; “presa in carico” professionalizzante da parte degli operatori. Braccini Parini Non frequentanti 12 17 1 Anno di nascita dei corsisti: 1980 n: 1 1981 n: 4 1982 n: 19 1983 n: 6 Mesi di presenza in Italia: 5 mesi 6 mesi 8 mesi 9 mesi 10 mesi 11 mesi 12 mesi dai 13 mesi ai 16 mesi oltre 24 mesi n: n: n: n: n: n: n: n: n: 2 2 7 3 6 2 3 3 2 Collocazione residenziale: Camunità stabili (Madiam…) 1a Accoglienza Con solo padre fratello, zio, cugino in famiglia n: n: n: n: n: 10 6 1 11 2 Regolarizzazione: Domanda di tutela/senza tutela n: 22 con tutela n: 6 con permesso di soggiorno n: 2 Scelte formative dell’allievo, loro significato e preiscrizioni nei corsi per Migranti e nei corsi P.A.L.( Preparazione al Lavoro). 266 Allegato n. 2 ESEMPI DI SCHEDE DI RESOCONTO INDIVIDUALE a) Al momento dell’iscrizione al Corso di Orientamento b) Al momento dell’iscrizione al Corso Professionale c) Esempio di modello operativo 267 268 269 270