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ANTONIO GABBRIELLI (*)
LE VICENDE STORICHE E DEMOGRAFICHE ITALIANE
COME CAUSA DEI CAMBIAMENTI
DEL PAESAGGIO FORESTALE
In queste pagine si è cercato di mostrare, pur in ristretti limiti di spazio, il
rapporto che si è instaurato tra la popolazione e l’ambiente naturale, in particolare
forestale.
L’espansione demografica ha generato problemi politici, economici e sociali
che hanno fortemente condizionato l’ambiente in cui l’uomo è vissuto. Questo legame fra uomo e ambiente inizia in Italia fin dalla preistoria. Le popolazioni, che si
sono succedute sul suolo italiano come gli italici, i magno greci, gli etruschi, i celti,
i Romani, i barbari, gli arabi, i normanni e tutti gli altri hanno piegato l’ambiente
naturale alle loro esigenze economiche, sociali e politiche rimodellandolo, con le
proprie tecniche e le proprie leggi, tanto da fargli perdere del tutto i valori naturalistici primigeni.
Al crescendo ininterrotto della popolazione, il bosco viene sospinto sempre più
verso la montagna, dalle bonifiche delle pianure acquitrinose e malariche e da quelle collinari dove la popolazione si era ritirata. Vaste aree boschive verranno sostituite da seminativi e praterie in pianura, da seminativi con vigne ed olivi in collina
dove, fin da epoche remote, si insedierà una estesa coltivazione del castagno, nel cui
frutto quelle popolazioni avevano trovato una preziosa fonte alimentare, tanto che
si è potuto parlare di un paesaggio del castagneto da frutto, oggi quasi scomparso.
Lo stesso bosco, un tempo area naturale, è stato «coltivato» dall’uomo economico
ed è stato ripristinato, in epoca contemporanea, in molti luoghi da dove era stato
improvvidamente tolto.
Solo dopo l’ultimo conflitto mondiale, attenuatasi notevolmente la pressione
demografica nell’area montana e dell’alta collina, il bosco, non più tormentato
dall’uomo e dal bestiame, riprende vigore e tende a diffondersi sia pur guidato dalla
mano saggia del forestale in grado di aiutare l’ecosistema a vivere e prosperare.
INTRODUZIONE
Le famose parole di Chateaubriand, le foreste precedono gli uomini, i deserti li seguono, racchiudono in una drammatica sintesi la storia
(*) Accademia italiana di scienze forestali. Firenze.
ANNALI A.I.S.F., Vol. LV, 2006: 133-166
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dell’umanità nei suoi rapporti con la natura, rapporti in continua
evoluzione con i flussi e riflussi demografici rivelatisi di fondamentale
importanza nella stabilità degli ecosistemi forestali in particolare di
quelli dell’area mediterranea.
In Italia le varie fasi demografiche che si sono succedute dalla
Preistoria fino ai nostri tempi, hanno plasmato il paesaggio originario
frammentandolo nelle sue varie componenti: forestale, agricola, pastorale e urbana con una tale energia che le componenti «umanizzate»
sono sorte e si sono estese quasi sempre a scapito dell’elemento naturale che era la foresta. Anche il pastore fin dai primordi della civiltà,
nella presunzione di utilizzare convenientemente gli spazi boschivi,
a lungo andare vi ha inciso con tale intensità da farli scomparire in
parecchi casi.
La foresta è quindi la più evidente traccia rimasta dai tempi primitivi quando la terra era ancora un bene di tutti. Ridotta, sbocconcellata nei suoi contorni, travagliata all’interno da tanti terreni dissodati
nel corso dei secoli, essa, malgrado tutto, ha offerto tutela e benefici
non solo ai contadini per le abitazioni, il nutrimento, il riscaldamento,
gli strumenti di lavoro, il mobilio, la recinzione dei campi, il sostegno
delle colture e l’allevamento del bestiame ma è stata per tutti anche la
grande riserva di materie prime. Da ciò la presenza al suo interno di
tutto un popolo di lavoratori, di usuari, di animali che ne facevano un
mondo dinamico e febbrile infinitamente più vivo di oggi (GRAND e
DELATOUCHE, 1968).
La foresta, quindi, è stata uno spazio da consumare o, comunque,
da dedicare alle più varie attività caratteristiche del periodo in cui si
svolgevano.
Sarebbe vano quindi cercare oggi, anche nei più remoti recessi
montani, un bosco non toccato dall’uomo dopo che sul nostro suolo
si sono avvicendati popoli dalle civiltà più diverse, come gli Italici, i
Magno Greci, gli Etruschi, i Romani, i Celti, i Longobardi, gli Arabi, i
Normanni seguiti da tutti gli altri fino ai nostri giorni.
I grandi spazi boschivi si sono gradatamente ridotti in quantità e
in qualità e quelli che oggi abbiamo di fronte, da molto tempo non più
foreste ma boschi coltivati, sono l’effetto delle molte azioni negative e
delle poche costruttive prodotte dal succedersi delle umane vicende.
Questo è accaduto e tuttora accade, nella foresta mediterranea
che formatasi nel corso dei millenni nonostante un clima generale ad
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essa non favorevole, ha potuto accumulare quel tanto di humus necessario alla sua sopravvivenza. Quando la si apre, più o meno violentemente, con il taglio, l’incendio o il pascolo, si alterano le condizioni
favorevoli alla riproduzione delle specie più sciafile mentre quelle
xerofile prendono il sopravvento, l’humus si volatilizza e le piogge,
anche se scarse, spazzano il suolo avviandolo alla sterilità definitiva
(PAVARI, 1950).
LA PREISTORIA
La prima forma di utilizzazione del bosco fin dall’epoca della foresta primigenia, è stato, come si è detto, il pascolo degli animali man
mano addomesticati dall’uomo, dapprima in abbondante compagnia di
quelli selvatici, poi sempre più da soli.
Non va dimenticato che la civiltà pre etrusca, anteriore al VIII
secolo a.C., fu una civiltà pastorale (detta appenninica), portata da popolazioni immigrate da aree balcaniche che si stanziarono sul versante
orientale dell’Appennino. In seguito, valicate le montagne e dispersisi
nei territori del versante occidentale tirrenico, dettero origine ai primi
nuclei di un popolo che, con immissioni di altre stirpi, sarà il popolo
etrusco.
Esempi di pascolo in aree naturali sono stati, peraltro, rintracciati
per periodi molto più antichi. Gli scavi effettuati nella grotta Amare,
per esempio, posta sulle pendici occidentali del Gran Sasso, hanno
messo in luce negli strati inferiori databili al VI millennio a.C., tracce
riferibili alla presenza di pecore e capre domestiche assieme ad una
notevole quantità di resti di cervi e di caprioli. Negli strati intermedi
databili alla metà del IV millennio, il cervo è quasi scomparso mentre
è netta la presenza di bovini e di qualche suino, fenomeno che sembra
si possa interpretare pensando ad individui già stanziali che in precedenza erano, probabilmente, cacciatori nomadi. Infine negli strati
superiori, del X-IX sec. a.C. (civiltà appenninica) riferibili cioè al
periodo finale del bronzo, l’economia dell’area gravitante sulla grotta
Amare risulterebbe ormai di netta impronta agro-pastorale con una
presenza di ovini e bovini pari ai due terzi del totale dei ritrovamenti.
La grossa fauna selvatica è praticamente scomparsa, segno della presenza di un terreno da considerare ormai diboscato o, quanto meno,
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con un bosco fortemente diradato, dove sembra dominare la lepre,
animale tipico di spazi aperti (PRATESI, 1985). Come si vede, si è trattato di modificazioni lentissime elaborate dell’esigua popolazione di
allora, che hanno impiegato ben cinque millenni per poter cambiare il
paesaggio locale.
Anche per tutto il periodo del bronzo caratterizzato dagli abitati
palafitticoli e terramaricoli, possiamo ipotizzare solo una «leggera»
utilizzazione del bosco operata da una scarsa popolazione dedita alla
fusione dei metalli che furono il rame dapprima e poi bronzo. Si trattava di relativamente piccoli nuclei stanziali che non poterono incidere in maniera sensibile sulle vaste aree boschive che circondavano i
villaggi. I reperti bronzei rinvenuti negli scavi terramaricoli ed in altri
di quel periodo, furono, in maggior numero, le asce (scuri) di svariate
forme, probabile segno del bisogno di possedere uno strumento idoneo all’abbattimento di piante per le necessità del vivere quotidiano,
oltre che per la caccia e per la guerra.
Se questa fu la lenta evoluzione della civiltà umana nel periodo
preistorico, le fasi successive furono caratterizzate da cambiamenti
sempre più veloci e violenti prodotte da popoli più numerosi e con
caratteristiche sedentarie e urbane come fu il popolo etrusco.
IL PERIODO ETRUSCO-ROMANO
All’apice della civiltà etrusca (VII-V sec. a.C.) il paesaggio
forestale, nella ricostruzione tentata da NEGRI (1927), sembra fosse
segnato dal pino silvestre, dalla roverella, dal cerro e dalla farnia in
una gradazione di ambienti submontani dai più asciutti ai più umidi.
In quelli montani, assai più freschi, era certa la presenza del faggio, del carpino bianco, del frassino maggiore e dell’ontano bianco.
L’abete bianco inoltre non solo caratterizzava col faggio la cenosi
montana ma anche parte di quella sub montana e sino a quote più
basse di oggi, il che confermerebbe il carattere mesofitico e relativamente microtermo della foresta submontana primitiva. Si trattò
peraltro di consorzi vegetali che furono largamente sfruttati per la
produzione di legname di pregio, per combustibile e per pratiche
agricole e pastorali.
Sembra addirittura che si debba agli Etruschi se il faggio cominciò a prendere il sopravvento sull’Appennino, da quando nel bosco
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misto faggio-abete fu utilizzata troppo intensamente la resinosa (GABBRIELLI, 2001).
Altra formazione vegetale largamente utilizzata, deve essere stata
la primigenia macchia-foresta più o meno litoranea, a prevalenza
di leccio di cui gli Etruschi dovettero verosimilmente servirsi come
fonte di combustibile per la fusione di vari metalli cupriferi e ferrosi,
in particolare di quelli elbani quando dovettero abbandonare l’isola
per esaurimento della legna, spostandosi sul continente a Populonia.
In questo contesto con la eliminazione graduale del leccio, particolarmente apprezzato per la produzione del carbone, forse prese il
sopravvento una formazione prevalentemente arbustiva sul tipo della
attuale macchia mediterranea policormica.
È altresì probabile che scomparissero dal paesaggio basso collinare dell’Etruria toscana e laziale, le formazioni a roverella per far posto
a quell’agricoltura in cui il popolo etrusco fu maestro ai successori
Romani. Come i vastissimi e ondulati campi che ancora oggi si vedono in quel Vulci, di Montalto di Castro e di Tuscania, che danno una
struggente e malinconica bellezza ad un paesaggio piano collinare che
verosimilmente doveva essere analogo a quello di duemilacinquecento
anni fa.
Gli Etruschi furono anche ottimi idraulici e attraverso ben studiati sistemi di canali, fosse e tubazioni riuscirono a prosciugare e
mantenere sane vaste regioni. I campi veronesi e mantovani ebbero,
infatti, scolo con le fosse Filistine e Clodia. Furono bonificate la piana
di Perugia, la Val di Chiana e buona parte della Maremma dove, a
ricordo della loro perizia idraulica, sono rimaste la Tagliata di Ansedonia ed il Ponte Sodo di Veio (BIGNARDI, 1969).
L’Etruria fu famosa anche per alcune selve il cui ricordo ci è stato
tramandato più tardi da autori latini.
Un lucus Feroniae si estendeva fra il Soratte ed il Tevere nella
terra dei Capenati dove un tempio ricchissimo fu saccheggiato da
Annibale nel 211 a.C. (PICCIOLI, 1917).
Altro bosco, famoso per la presenza di abeti, era in territorio
cerite presso l’odierna Cerveteri, del quale parla Virgilio nell’Eneide (VIII, 597) ingens gelidum lucus prope Caeritis amnem…et nigra
nemus abiete cingunt.
Un lucus Ferentinus era ai piedi del Monte Tuscolano presso Marino, denso di faggi, celebre per essere il luogo dei solenni
raduni delle 47 città latine confederate e dove Tarquinio il Super-
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bo rinnovò l’alleanza fra Romani, Latini, Volsci ed Ernici (PICCIOLI
1917, cit.).
Altra selva particolarmente famosa fu la Cimina, sacra per le adunanze federali dei 12 popoli etruschi, che, ammirata per gli elci giganteschi, fu nei primi tempi il confine meridionale dell’Etruria classica.
Dopo la conquista di Veio da parte di Roma (IV sec. a.C.) comincia la decadenza del popolo etrusco col rilassamento dell’agricoltura
e l’abbandono delle opere idrauliche. La malaria, endemica nella
Maremma, riprese vigore e tornò da padrona dove serpeggiava da
sempre (BIGNARDI, cit.).
Contemporaneamente alla civiltà etrusca, sorgeva quella della
Magna Grecia portata nell’Italia meridionale e in Sicilia, dalla immigrazione di popolazioni greche di varia provenienza. Nell’arco di
poco più di un secolo (VII-VI a.C.) i greci, introducendo sul suolo
italico il sistema della poleis che avevano nella madre patria, innescarono una serie di trasformazioni paesaggistiche pur apportando nuovi
fattori culturali (DEODATO, 2006). La individuazione di un’area da
dedicare all’impianto della città si svolgeva contemporaneamente alla
definizione del territorio circostante (chora) che doveva costituire la
sua base economica. Un esempio di questa delimitazione territoriale
si ebbe a Metaponto (fondata agli inizi del secolo VIII a.C. da popolazioni provenienti dal Peloponneso, assieme a Sibari e Crotone) dove
le foto aeree hanno potuto individuare una serie di assi, fra loro paralleli, fino a 12 chilometri dal litorale e distanziati di circa 200 metri
(DEODATO, cit.).
È lecito pensare quindi che i coloni magno greci abbiano agito
più o meno come gli Etruschi, diboscando quelle parti di territorio
necessarie all’impianto della loro attività agricola, scontrandosi con i
Lucani, e utilizzando i restanti boschi per la cottura delle loro ceramiche. Questa attività sarebbe comprovata dalle numerose fornaci a
pianta circolare rinvenute nell’area metapontina e databili fra il VI e il
IV secolo a.C. (LA STORIA, 2004).
Nel III secolo a.C., periodo delle guerre puniche, la popolazione italica si aggirava, secondo le stime del Beloch, sui 5 milioni di
abitanti. All’inizio dell’Era Cristiana era cresciuta a 7 milioni, dando
all’Italia il primato di regione più popolata dell’Europa occidentale
(BELLETTINI, 1987).
I Romani nel loro spirito di concretezza e praticità, ebbero chiaro
il concetto dell’importanza delle selve e del lungo tempo che occorre-
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va per allevarle, tanto che Virgilio, nel suo poemetto Culex ad Octavium, invocava da Augusto la protezione sui selvicoltori con questi
versi:
… sequi sit cura tenentes
Aereos nemorum tractus silvasque virentes
che tradotti, suonano:
Tuo sia il pensiero di seguir giovando
Gli ardimenti di chi gli aerei boschi
E le foreste di abitar si gode
In effetti al selvicoltore era affidato un compito per il quale
– come scriveva Cicerone – non si poteva far cosa maggiormente degna
di lode se non quella di unire alla teoria l’esercizio della pratica che in
particolare occorreva in una materia difficile come la selvicoltura, la
quale non poteva avere il beneficio del collaudo annuale delle esperienze tecniche usate, come invece aveva l’agricoltura (PICCIOLI, 1923).
Appena un secolo dopo la nascita di Roma, Anco Marzio riunì le
foreste al patrimonio pubblico per proteggerne la ricchezza ma anche
per poterle utilizzare nell’espansione della città. In seguito i boschi
pubblici si accrebbero con le conquiste (ager occupatorius) e lo Stato
vide l’opportunità di riservarsene la gestione sia per avere materiali
per costruzioni civili e navali sia come normale fonte di reddito.
Catone a chi gli domandava come ci si potesse arricchire con la
coltivazione dei campi e col bosco, rispondeva, nel suo De agri cultura
(II sec. a.C.), con le parole bene pascendo atque mediocriter pascendo
col chiaro significato che l’industria pastorale era quella più redditizia
anche se condotta mediocremente (NICCOLI, 1902).
I Romani, poveri e ricchi, convinti dalle parole del Maestro e
con la importantissima industria laniera da essi promossa, invasero i
boschi (saltus) col pascolo brado. L’elevatissimo numero di animali e
la loro continua presenza, in un tempo non troppo lungo, avviarono
un progressivo diradamento naturale ed artificiale delle aree boschive
dove il bosco finì per assumere la consistenza di un pascolo alberato
nel quale probabilmente si poteva fare anche un po’ d’agricoltura.
Dall’altro canto le continue guerre dei cinque secoli di Roma
repubblicana, abbisognavano di approvvigionamenti per l’esercito
e di allestimenti di flotte. Queste esigenze unite all’espandersi delle
costruzioni civili e religiose nella stessa Urbe, spogliarono ulteriormente i boschi di alto fusto che stentarono a rinnovarsi, per quanto
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si fosse allora in un periodo climatico fresco ed umido favorevole alla
vegetazione boschiva.
A quei tempi i querceti della Marsica rifornivano Roma di pregiato legname, che giungeva alla città per le acque dell’Aniene. Arrivavano a Roma, come ci informa Vitruvio nella sua Architectura (I sec.
a.C.), anche parecchi legnami dal nord fra cui il prezioso larice che,
lasciata la natia Retia, giungeva fino al Po e sulle sue acque navigava
fino a Ravenna. Da lì, caricato su navi, approdava a Ostia da dove,
risalendo il Tevere, era portato a Roma. L’Urbe, ormai caput mundi,
con più di un milione abitanti, aveva messo le mani anche su foreste
che prima di allora non avevano visto boscaiolo (PRATESI, cit.).
Tuttavia al tempo di Vitruvio esistevano ancora vaste ed inesplorate regioni selvose. Fra le più importanti sono ricordate la selva Litana in
Romagna, estesa dalla sommità dell’Appennino fino alla foce del Senio,
dove verso il 200 a.C., in un agguato dei Galli Boi, l’esercito romano,
condotto dal console Lucio Postumio, subì una pesantissima sconfitta
(PICCIOLI 1917, cit.).
La selva Gallinaria in Campania, oggi pineta di Patria, che andava
da Capo Miseno al Volturno, con i pini (forse marittimi o domestici)
utilizzati per la flotta romana di stanza a Miseno.
La Fetontea (silva magna) popolata di querce e di pini (forse silvestri) utilizzata da Etruschi e da Celti, della quale rimase, fino a qualche
secolo fa, un residuo nel famoso bosco del Montello.
La vastissima selva Bruzia che, da monte di Reggio in Calabria
giungeva nei dintorni di Cosenza, con una lunghezza di 700 stadi (129
km.) in metà della quale i Romani non misero mai piede. Essa fornì
molto materiale per costruzioni navali agli Ateniesi e a Gerone tiranno
di Siracusa e a Gregorio Magno le travi per la basilica romana di S.
Pietro e Paolo (PICCIOLI 1917, cit.). Sempre in Calabria era celebre il
lucus di Era (Giunone Lacinia) presso Crotone con bei pascoli, ombreggiati, come narra Tito Livio, da altissimi abeti lucus ibi, frequenti
silva et proceris abietis arboribus septus, laeta in medio pascua habuit
(PICCIOLI, 1915).
Gli stessi colli di Roma erano rimasti, ancora molto tempo dopo
la fondazione della città, vestiti di bosco. Il Celio detto un tempo mons
quercetanus, dalle molte querce ivi esistenti fu poi chiamato con tal
nome, da Cele Vibenna, capo etrusco, che lo aveva avuto in dono da
Tarquinio Prisco.
Un tempio di Giove era sul colle Capitolino ammantato anch’esso
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di querce sotto le quali si raccoglievano i contadini con le loro mandre
quando erano costretti ad abbandonare il piano per inondazioni o altro. Sull’Esqilino così chiamato per le ischie presenti, si trovava anche
un bosco di faggi (lucus faguetalis) (PICCIOLI 1917, cit.).
Nel 201 a.C., secondo le istruzioni di Catone, fu impiantato a Roma
il primo bosco di pino domestico per fondarvi il culto della Grande
Dea Madre (PICCIOLI 1923, cit.).
Prima di lasciare questo periodo diamo uno sguardo alle tecniche forestali usate dai nostri antenati forestali. Per costoro il termine
conlucare alludeva alla normale gestione boschiva (diradamenti, tagli
incrementali, eliminazione di alberi deperiti) mentre con purgare intendevano la recisione fatta col pennato dei rami superflui, malvenienti o
scapezzati.
Sublucare era sia la potatura degli alberi adulti affinché crescessero
alti e dritti, sia la spollonatura dei giovani più fitti.
Il termine fodère indicava il dissodamento del terreno con l’eliminazione della vegetazione esistente.
La silva vulgaris era la fustaia detta anche silva incaedua al cui opposto stava la silva caedua, il nostro ceduo, detta palaris se fornitrice di
pali e pertiche, capitata se le piante erano tenute a capitozza.
Nella confezione del carbone, eseguita allora press’a poco come
oggi, i Romani sapevano bene che i rami giovani davano carbone migliore del legno vecchio e che la quercia a foglia larga (probabilmente
la farnia) era, per carbone, assai meno redditizia della rovere (PICCIOLI
1923, cit.).
Molti trasporti di legname avvenivano per fluitazione mediante
zattere (rates) e gli uomini addetti al trasporto, e più in generale al commercio, erano chiamati dendrophori la cui corporazione sorse per l’allestimento delle feste dendrophoriae in onore di Dioniso e Demetra.
Un ricordo dei dendrofori è stato decifrato in un frammento di
iscrizione latina rinvenuto nei pressi di Galeata, nel bacino del Bidente
in Romagna. Si pensò che la località di rinvenimento, Mevaniola, fosse
uno scalo per il concentramento di legnami prelevati dalla selva Litana,
ma che nel contempo potesse essere utilizzato anche come punto di
appoggio e di approvvigionamento di materiali per le legioni romane
che penetravano nella Gallia cispadana (PILLA, 1954).
Verso il IV secolo d.C., cioè verso la fine dell’Impero romano, la
popolazione italica aveva raggiunto gli 8 milioni e mezzo di abitanti.
Roma era racchiusa dalla mura Aureliane in un perimetro che com-
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prendeva un’area di 1400 ettari, una città che tale non si era mai vista
sulla terra (T.C.I. 2004).
L’industria pastorale, ancora dominante, aveva incorporato anche
i boschi in immensi latifondi privati i cui centri di gestione furono le
villae rusticae dei patrizi o degli speculatori arricchiti tra le quali quella famosa detta Settefinestre in agro di Cosa (Ansedonia). Nell’agro
veiente si trovava una villa ogni due km2 con una concentrazione particolare nei dintorni di Roma (POTTER, 1985).
La conoscenza dell’agricoltura praticata nelle villae resta incerta.
Si presume un allevamento di pecore, capre, buoi e maiali, ma in agro
capenate, a Monte Canino, sono stati trovati dei torchi da vino e da
olio come hanno rivelato anche le villae del golfo di Napoli. Un’altra
attività del ager veientanus era la cottura dell’argilla locale ed era quindi logico che venissero impiantati i centri produttivi in località fornite
di legna e di acqua risorse abbondantemente reperibili nell’agro veiente (POTTER, cit.).
Nella dissoluzione dell’Impero, le villae diventarono centri di aggregazione per la popolazione contadina rimasta nelle campagne quando il latifondo, abbandonato per mancanza di mano d’opera servile, fu
frazionato in poderi, sorte che probabilmente toccò anche ai boschi.
Osservava il NICCOLI (cit.), che i curatores e i procuratores romani
addetti alla gestione tecnica dei boschi, si limitarono di fatto a provvedere agli affitti di questi e alla riscossione dei relativi canoni. Si arrivò,
in tal modo, ad una gestione più amministrativa che tecnica, più portata al fiscalismo che alla buon governo dei boschi. Malgrado i molti
Numi protettori – prosegue il Niccoli con ironia – non poche fustaie
caddero o sotto la scure del boscaiolo o sotto il dente degli animali al
pascolo.
Comunque se nella pratica, le fustaie non godettero nell’antica
Roma di un buon governo, i cedui, specie quelli di corredo ai fondi
coltivati, ebbero cure assidue ed intelligenti quali forse sarebbero consigliabili anche oggi (GABBRIELLI, 2002).
In questo periodo tardo Imperiale, il clima diventò siccitoso sì
da provocare grandi migrazioni di popoli, i cosiddetti barbari, dalle
steppe orientali e dalle paludi settentrionali verso località meridionali
ed occidentali. Inoltre il minore apporto idrico dei fiumi favorì il ristagno delle acque presso le foci con il conseguente rincrudimento della
malaria che respinse i popoli verso le colline più interne, la cui messa
a coltura accentuò il dissesto idrogeologico.
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IL MEDIOEVO
Nei quattro secoli che vanno dal IV al VII d.C., la popolazione
italica si ridusse a circa 4 milioni, mentre i barbari con le loro genti invadevano la penisola. L’abbandono più o meno forzato della
terra costrinse le masse rurali ad arroccarsi in piccoli centri posti
su alture inespugnabili, accresciuti anche da difese artificiali quali
fossati e torri (castra e castella). Sicurezza e protezione erano i caratteri distintivi di questi centri e tali rimasero per tutto il Medioevo
(POTTER, cit.).
In una tale situazione si avviò la cosiddetta «reazione selvosa»
testimoniata anche dall’editto di Rotari del 643, attraverso le molte norme in esso contenute relative alla gestione della foresta e del pascolo.
Nel VII secolo Roma semi deserta non contava più di 35.000 abitanti e
nel IX fu saccheggiata da un esercito arabo.
Già fin dal sacco di Roma del 410 ad opera dei Visigoti di Alarico, Costantino il Grande aveva concesso alla Chiesa i boschi che
possedevano gli antichi templi pagani, cosicché nell’abbandono in cui
furono lasciate le selve nell’alto Medioevo solo le chiese e gli ordini
religiosi poterono contribuire alla loro gestione e conservazione ed in
alcuni casi anche al loro aumento (PICCIOLI 1923, cit) nonostante le
continue incursioni saracene che si intensificarono nel secolo IX.
Si ricordano intorno al XI secolo, le selve di proprietà della
chiesa di Cremona adiacenti alle mura della città; le disposizioni degli
statuti ravennati in pieno secolo XIII, che ordinavano l’abbattimento
di silve e salatre addossate alle mura; gli statuti parmensi del Duecento
che imponevano di abbattere tutti gli alberi non fruttiferi della città ad
eccezione di quelli che sostenevano le viti o che crescevano nei chiostri dei monasteri (RINALDI, 1988). Mentre il risorgere delle città dai
rovi e sterpaglie cresciuti spontanei tra le rovine e il loro distacco dalla
campagna circostante fu assai lento.
Nella desolazione di quei tempi fece eccezione la Sicilia, divenuta
per gran parte feudo della Chiesa che fu in grado di frenare la rapacità del fisco bizantino. La coltivazioni agrarie continuarono, tanto che
dall’Isola si poterono esportare grandi quantità di grano verso Roma,
mentre non fu mai abbandonata la coltura della vite e l’allevamento del
bestiame.
Analogamente, gli Arabi nei due secoli e mezzo della loro dominazione (827-1091) riuscirono ad esportare dall’isola anche il legname,
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oltre agli altri ben noti prodotti come lo zucchero di canna, il riso, l’uva
passa, ed altre frutta (NICCOLI, cit.).
In Italia il ritorno del bosco sugli antichi campi non dura a lungo,
poiché, già prima dell’anno Mille, riprende una intensa attività diboscatrice e colonizzatrice favorita dagli ordini religiosi, specialmente
Benedettini, che erano rimasti l’unica forza vitale e aggregante su un
territorio reso semi deserto.
Nel Medioevo, infatti, il termine runcare era la tipica espressione
per indicare un diboscamento e la messa a coltivazione di un territorio. Era una clausola contrattuale che si incontrava spesso negli atti
del X ed XI secolo come, ad esempio, in quelli dell’abbazia di Pomposa (BARUZZI, MONTANARI, 1988). In definitiva la ripresa dell’attività
agricola fu, nel Medioevo, una «riconquista» sul paesaggio dell’incolto
e del bosco.
Le pianure furono le prime ad essere investite da ampie trasformazioni produttive e da grandi opere di bonifica. Le zone intorno a
Pomposa, a Chiaravalle e Morimondo nei pressi di Milano, a Nonantola nel Modenese, a San Benedetto Polirone nella bassa mantovana, a
Staffarda in Piemonte, furono oggetto di ampie bonifiche che daranno
terre da coltivare a molte famiglie, raggruppate nelle antiche villae di
origine romana, ma che porteranno ad una ulteriore eliminazione dei
boschi di pianura ancora superstiti.
Tuttavia nell’alto Medioevo i nuclei abitati piccoli e grandi ebbero di corredo aree boschive, talvolta di tale estensione da dominare nel
paesaggio. Un caso simile si verificava nell’ambiente lacustre ferrarese.
Quivi la presenza del bosco è testimoniata da una silva Adriana, da un
nemus Capitigauri, da una silva de Vaccolino e da tutta l’Insula nemorosa pomposiana. Nei secoli X e XI si allivellarono e si concessero in
enfiteusi selve con la clausola cappellando et pabulando da adibire cioè
a tagli periodici e a pascolo. Inoltre alle generiche attività di far legna,
pascolare, cacciare e pescare, si aggiungeva spesso una clausola che
interessava l’eliminazione dell’incolto e del bosco e che variava nelle
seguenti formule: si runcaverimus; si terra de valle vel de bosco excusserimus; si roncabimus silvam et vallem. Con queste locuzioni si desiderava che gli affittuari mettessero a coltura zone più o meno ampie
secondo le loro capacità lavorative. È verosimile che questa assidua
attività del runcare, portasse ad una penuria di alberi utili per l’alimentazione dei bestiami e per materiali da costruzione. Per questo motivo
il nemus Capitigauri (il bosco di Codigoro) doveva essere perlustrato
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almeno due volte al mese. Frassini, olmi e roveri non potevano essere
tagliati senza il permesso del cavarzelano (specie di sovrintendente alle
acque e ai boschi) né si poteva esportare legname dal bosco e dalle
valli di Codigoro e dall’Isola pomposiana (BACCHI, 1988).
In Sicilia più della metà dei nemora si concentrava nell’area montuosa dei Nebrodi, delle Madonie, dei Peloritani e dell’Etna. Il Vallum
Nemorum (Val Demone), nome già in uso in età musulmana, designava una vasta e ininterrotta area boschiva su tutto il versante settentrionale di queste catene montuose. Altrove un altro gran bosco scendeva
dal centro dell’isola verso sud, traversando Vizzini fino all’altopiano
ibleo, dove Edrisi famoso geografo arabo del XI secolo, segnalava la
pineta di Buccheri e parlava di boschi attorno al casale di Buscemi.
Boschi più frammentati e sparsi erano presenti nella Sicilia occidentale
con qualche macchia più estesa verso Palazzo Adriano e Caltabellotta
(dall’arabo, rocca delle querce)(CORRAO, 1988).
A comprovare la presenza di rilevanti risorse forestali, le fonti del
X secolo segnalano il ruolo fondamentale del legname siciliano nelle
costruzioni marinare musulmane, ruolo continuato anche in epoca
normanna i cui sovrani riservarono le aree boscose al demanio regio.
Comunque cospicue risorse forestali sarebbero rimaste per tutto il
periodo normanno e svevo, in considerazione tra l’altro dell’esistenza
di poche norme di tutela, probabilmente non troppo necessarie data
l’abbondanza dei boschi (CORRAO, cit). Infatti il Fazello storico domenicano vissuto nel XVI secolo, che in venti anni visitò tutta la Sicilia,
segnalava nella sua opera De rebus siculis decades duae, che i boschi di
querce davano, ancora al tempo suo, gran quantità di legname e che
molti rivi che scendevano dai monti al mare erano perenni di acque
(PICCIOLI 1923, cit).
Da ricerche recenti si sa però che in Sicilia iniziava proprio nel
XV secolo la sistematica distruzione dei boschi costieri per soddisfare
le necessità della produzione zuccheriera, distruzione che subirà una
impennata nei due secoli successivi con la ripresa demografica e con
la conseguente forte espansione del seminativo (CORRAO, 1989).
L’espandersi delle coltivazioni e l’aumento delle produzioni
agricole anche nel resto d’Italia, furono causa ed effetto di un progressivo aumento di popolazione e della rinascita di numerosi centri
urbani, alcuni dei quali provenienti dalle antiche villae romane, che
furono all’origine dei liberi comuni medievali, importanti nella storia
dell’Itala settentrionale e centrale. Infatti all’inizio del XIII secolo la
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popolazione era tornata al livello di mille anni prima, otto milioni e
mezzo, livello che venne abbondantemente superato nella prima metà
del Trecento quando raggiunse 12 milioni di abitanti.
In montagna, da sempre classica sede di vaste foreste, era della
massima importanza la conservazione dei boschi e la loro attenta e
misurata gestione. La presenza di numerosi eremi per i quali la selva
fu sempre un indispensabile fattore di isolamento e di mistico raccoglimento, fu testimone di questa volontà conservatrice. Vallombrosa,
Camaldoli, La Verna, Montecassino, Serra San Bruno, San Colombano di Bobbio, Cava dei Tirreni, Certosa di Trisulti, Certosa di Padula,
con i loro patrimoni terrieri, spesso immensi, furono esempi di buona
agricoltura e di oculata selvicoltura.
Sappiamo, ad esempio, che nelle terre dell’abbazia di Cava dei
Tirreni vi fu nella prima metà del XI secolo, una massiccia espansione
del castagneto da frutto con innesti di varietà pregiate fra le quali le
rubiole, dette zenzale, tanto che negli antichi documenti si parlava
di zenzaleti più che di castagneti. Analoga espansione del castagno si
verificò nello stesso periodo, anche nella zona di Amalfi dove le zenzale erano oggetto di esportazione verso l’Africa (ANDREOLLI, 1989).
Numerosi documenti segnalano che il monastero di San Colombano di Bobbio possedeva nel IX secolo dai 5000 ai 7000 ettari di
querceti sparsi su una vastissima area dell’Appennino piacentino, parmense e genovese. L’estensione di quei boschi veniva valutata, nelle
scritture degli atti di acquisto, permuta, enfiteusi e simili, in numero
di porci che vi potevano esservi alimentati, la cui misura oscillava dal
mezzo ettaro ad un ettaro e mezzo per animale (GALLETTI, 1988).
Al potere religioso si unisce quello laico dei comuni e della nobiltà rurale e feudale la cui presenza copre tutta l’Italia dai Longobardi
in poi. Il feudo permarrà nell’Italia meridionale fino alla sua abolizione agli inizi del XIX secolo.
Anche i Comuni furono proprietari di vasti patrimoni fondiari
provenienti dal diritto comune che le popolazioni avevano sulla terra.
Essi dovettero provvedere alla conservazione dei boschi, usati allora per soddisfare sia i bisogni materiali dei singoli appartenenti alla
comunità sia le relative entrate finanziarie (vendita di legnami, fida di
pascoli, di semina, di raccolta di fieno, di foglia, di frutti, ecc).
Per la nobiltà feudale il bosco oltre ad essere ovviamente fonte
di reddito, fu elemento di prestigio sociale e di svaghi venatori, anche
se essa dovette vedersela costantemente con la popolazione del feudo,
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talvolta numerosa, che vantava accanitamente i propri diritti d’uso
su quelle terre fin da quando queste erano utilizzate in comune. Sarà
una lotta secolare che, con alti e bassi, i feudatari combatteranno con
altrettanta ostinazione, cercando di controbilanciare le varie concessioni di legna, di erba e di terra da seminare con compensi in natura e
aggravi personali.
Un esempio di simile antagonismo fu quello che corse fra il
monastero di Nonantola unito al vescovo di Bologna e la Comunità di
San Giovanni in Persiceto nella bassa bolognese. Oggetto del contendere furono i nemus Castri Veteris e nemus Litis. La loro proprietà ed il
relativo sfruttamento interessavano sia il singolo colono che la Comunità, mentre ai feudatari ecclesiastici interessava limitarne l’uso per consentire la sopravvivenza di una fornace di laterizi e di un fabbro posti
nelle vicinanze, probabilmente loro buoni affittuari in quanto grandi
consumatori di legna. La raccolta di questa, la caccia, la pesca ed il
pascolo degli animali erano risorse indispensabili per i singoli rustici
mentre l’uso collettivo della risorsa, regolato del Comune, rafforzava
la coesione sociale garantendo l’autonomia economica e nel contempo
spronava il popolo alla lotta rivendicatrice (CREMONINI, 1988).
Se la feudalità fu un fenomeno politico ed economico prevalente
nell’Italia meridionale (l’80% dei comuni del Regno di Napoli era infeudato), in quella settentrionale e centrale la presenza di liberi Comuni
ben presto costringerà la nobiltà rurale e laica a inurbarsi, poiché il
Comune vuole estendere il suo potere politico, economico e giuridico
anche sul contado. Questi inurbati costituiranno quelle grandi casate
nobiliari di cui ogni regione italiana fa sfoggio, alcune delle quali si resero famose e benemerite nell’agricoltura e nella gestione dei boschi.
Ma il periodo Comunale, nonostante i provvedimenti di difesa
forestale adottati nella legislazione statutaria, anche se questi riguardavano per lo più la gestione del castagneto, accelerò certi processi
di scadimento di molte aree boschive in pianura e bassa collina. Se
da un lato si dovette far posto alle colture agrarie conseguenti al forte
aumento demografico del XII e XIII secolo, dall’altro molti legnami
si resero indispensabili per far fronte alle fastose costruzioni cittadine
civili e religiose che si innalzavano in quel periodo.
Nella letteratura statutaria del Duecento degno di nota in fatto
di tutela boschiva, fu il Costituto del Comune di Siena del 1262. Tra
le norme più importanti si citano: la dichiarazione di inalienabilità di
certi boschi, la disciplina dei relativi diritti d’uso, il regolamento per
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il pascolo, le norme per la prevenzione e l’estinzione degli incendi,
l’apertura di strade, l’obbligo di giuramento da parte dei boscaioli di
non tagliare nelle selve comunali senza permesso, l’obbligo del giusdicente di recarsi personalmente nel bosco per provvedere alla sua
conservazione e difesa et se ne le predette cose fusse pigro et negligente
et in colpa, perda del suo salario 4 libre di denari senesi (PICCIOLI 1923,
cit). Piussi e Redon nelle loro ricerche, hanno confermato con maggior dettaglio certe indicazioni, mettendo in evidenza che già allora
si conosceva bene la tecnica della suddivisione particellare del bosco
ceduo in prese annuali e l’adozione di turni di taglio dai 10 ai 14 anni
a seconda della specie, turni che sarebbero rimasti in vigore fino a
tempi recenti (PIUSSI, REDON, 2001).
Analogamente, gli statuti di Alessandria, anch’essi della fine del
Duecento, stabilivano che il bosco di Oviglio (fra Tanaro e Bormida)
di uso collettivo, si dovesse dividere in sette parti per tagliarne una
ogni anno ed altrettanto per il bosco della Cerreta di cui si doveva
tagliare un quinto ogni anno (CARAMIELLO, 1988).
Nel periodo comunale fu molto probabile, per i motivi su accennati (ampliamento delle colture ed espansione edilizia), che si verificasse una sensibile diminuzione del bosco in genere e di alto fusto in
particolare, in specie quercino. Fornitore di buon materiale da costruzione fu certamente diradato e i vuoti finirono per colmarsi di polloni
andando a costituire un soprassuolo dalla fisionomia di ceduo matricinato o composto, più adatto a fornire combustibile sia alla popolazione
sempre in crescita, che alle varie industrie della città fra le quali quella
dei laterizi, allora attivissima per l’espansione edilizia.
Esempi di simili casi furono la scomparsa di una piccola abetina
sulla vetta di Monte Morello dovuta alla richiesta di materiali per la
costruzione della chiesa di Santa Croce a Firenze e il vano tentativo
di ripristinarla; l’impianto di una fornace di laterizi voluta dal Brunelleschi per cuocere i mattoni e altri laterizi speciali usati nella fabbrica
della cupola del Duomo e durata diversi anni; lo scempio dei boschi
della Val Grande in Piemonte per il prelievo dei legnami utilizzati
nella costruzione del Duomo di Milano che arrivavano in quella città
fluitati sulle acque del Ticino.
Riguardo al combustibile e ad altro materiale legnoso necessario
nelle città italiane del Trecento prima della famosa peste nera, si pensi
ai fabbisogni di Milano la cui popolazione si aggirava su 150.000 abitanti, quelli di Venezia con 120.000, Firenze con 100.000, con oltre
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80.000 Siena, Genova e Napoli. Senza esagerazione sembra lecito
parlare di metropoli, se in quello stesso periodo Londra aveva appena 40.000 abitanti e Parigi, la città europea più popolosa, ne aveva
200.000 mentre la grande Costantinopoli appena 35.000 (GINATEMPO,
SANDRI, 1990).
Con tutta quella massa di gente le cui necessità, non solo alimentari, andavano necessariamente ad interessare un territorio circostante che si deve pensare vastissimo anche per le scarse rese agricole
dell’epoca, i boschi della bassa e media collina scomparvero in breve
tempo per far posto a vigneti e oliveti inframmezzati da seminativi
nudi. In molti casi il querceto fu sostituito dal castagno il cui frutto si
era reso sempre più prezioso per l’alimentazione di una popolazione
in costante aumento. La sua coltivazione, iniziata prima del XI secolo,
si diffuse velocemente occupando spazi sempre più ampi spesso ben
al di fuori dell’areale ecologico della specie.
Con la peste nera trecentesca, l’Italia perse circa 5 milioni di
individui. Ritornò l’abbandono dei campi e dei borghi che erano
risorti dalla spinta demografica dei secoli precedenti. La palude e l’incolto riguadagnarono molti terreni sui quali dilagò indiscriminato un
pascolo ovino e bovino favorito sia dagli alti prezzi della lana sia dalla
necessità di disporre di aree per allevarvi bestiame idoneo a riprendere il lavoro dei campi (BELLETTINI, cit.).
La ripresa demografica dei due secoli successivi, recupererà quasi
tutte le perdite dovute alla epidemia. Alla vigilia della nascita degli
Stati nazionali la popolazione italiana raggiungeva 11 milioni e mezzo
di abitanti dei quali circa la metà nella sola Italia centrale.
In questo momento della storia d’Italia (XV secolo) si valuta che
i boschi coprissero una estensione complessiva di circa 11 milioni di
ettari.
L’ETÀ MODERNA
Il nuovo assetto politico che si instaurò con le Signorie e con i
Principati, innescò ambiziose manifestazioni di prestigio e di potenza
nazionali che non si riveleranno favorevoli ad una avveduta gestione
forestale anche se le comunità rurali continueranno a governarsi con
i propri statuti che di lì a poco, peraltro, dovranno subire il controllo
ed il benestare del Principe.
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Il bosco venne così a trovarsi stretto fra le esigenze delle popolazioni locali e quelle di una oligarchia mercantile e militare tesa al proprio credito locale e internazionale dove l’abbondante disponibilità
di risorse legnose fu un elemento strategico della politica del tempo.
Tipico esempio di una tale situazione furono Venezia e Genova. Tuttavia Firenze, Milano, Roma, Napoli ed anche altre minori facenti capo
ai feudi più cospicui e popolosi, non furono da meno.
In una Italia, segnata al sud dal feudalesimo e al centro nord dalle
varie Signorie, era naturale che dal XV secolo in poi gli spazi boschivi
andassero assumendo sempre più i connotati e i valori di beni pubblici, in quanto elementi determinanti di autorità e di prestigio. Sotto
questo profilo è ovvio che essi siano stati fatti segno a molta attenzione
dato che, già allora, ci si era resi conto del loro progressivo e sensibile
scadimento in quantità ed in qualità.
Quindi nei diversi Stati, piccoli e grandi, la sollecitudine nei
riguardi di una efficiente gestione e conservazione di questi spazi si
attuò attraverso un gettito continuo di leggi, bandi e provvedimenti
che si protrassero per quattro secoli. Ma il continuo reiterare di provvedimenti prescrittivi e proibitivi fu palese dimostrazione di inefficacia degli stessi. Tuttavia alcuni fra quelli emanati dalla Repubblica di
Venezia, assursero a modello di selvicoltura d’avanguardia che peraltro furono inoperanti per la caduta della Serenissima.
In questo contesto i problemi che si posero alla prudenza dei
governanti furono oltre che politici, economici e sociali. Le esigenze
erano molteplici: approvvigionamento di combustibile per le popolazioni dei grandi centri; fornitura di materiali per costruzioni civili e
militari, terrestri e marittime; fabbisogno di combustibile per industrie
varie (ferro, vetro, laterizi) e, non ultima, la necessità fondamentale di
mantenere i boschi biologicamente efficienti per assicurarne la conservazione e la stabilità e con esse una più sicura ed efficace difesa del
suolo.
Questi punti di attenzione andarono peraltro a sommarsi alle
altrettanto gravose esigenze delle popolazioni del contado e dei centri
minori, innescando difficili soluzioni per un giusto equilibrio tra produzione e consumo di legno. Tanto difficili che fra le utilizzazioni per
le esigenze dello Stato, quelle delle popolazioni locali per l’esercizio
dei diritti di uso, l’onnipresente e gravoso pascolo, le varie pratiche
gestionali poco ortodosse ma indispensabili alla misera vita delle
comunità rurali, non poterono evitare il lento frantumarsi di vaste
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aree boschive in appezzamenti di minore o di nessuna importanza
economica, sociale e idrogeologica, che finirono per creare un paesaggio costituito da un mosaico di boschi, colture agrarie e pascoli nudi.
I problemi a cui si è fatto cenno, furono, come qui di seguito
vedremo, una significativa peculiarità di quasi tutte le regioni italiane.
Nella Liguria del XVII secolo grave ed estesa fu l’occupazione
delle terre delle Comunaglie per metterle a coltura con la pratica del
ronco o dell’innesto quando si trattava di castagneti. Il ronco, diversamente da altre regioni, non era il classico taglio raso ma un diradamento forte con sramatura delle piante adulte (MORENO, 1978).
I querceti di Taggia, a loro volta, erano stati presi di mira dalle
molte richieste di materiale per i cantieri navali genovesi in quanto
quei boschi erano ritenuti i migliori e più accessibili. Così Genova
decise di riservarsene lo sfruttamento esclusivo suscitando le proteste
dei tabiesi che trovavano nel bosco l’integrazione al reddito dei campi
(legna e soprattutto pascolo) (QUAINI, 1968).
Per la zona della Val d’Orba (Selva d’Orba), la colonizzazione
dei Cistercensi, insediatisi nel Medioevo a Tiglieto nell’alta valle,
impresse una impronta decisamente agricola alla bassa valle collinare e padana, conservando verso la montagna ampie zone boschive
per l’esercizio del pascolo e per la raccolta della legna. Si crearono
così due ambienti distinti, quello boscoso dell’alta valle appenninica
rimasto nel tempo abbastanza inalterato e quello agricolo della bassa
(MORENO, 1971).
Nel Piemonte, oppresso dalle richieste di legname sia da parte
delle popolazioni che delle molte industrie, Vittorio Amedeo II
ordinava, nel 1725, un censimento generale dei boschi attraverso la
denuncia da parte dei rispettivi proprietari. Nel frattempo proibiva
ogni taglio che non fosse autorizzato dall’Intendenza. Nel divieto
rientrava il taglio di tutti i legnami utili per la marina e degli olmi per
l’artiglieria. In ogni area boschiva era delimitato un fondo di piante da
tagliare solo in caso di accertata necessità ed in quell’occasione venne
stabilito il contrassegno da applicare sulle piante da riservare: per le
querce e i faggi un colpo di raschietto sulla corteccia del tronco, per
gli abeti ed i larici un segno con tinta rossa ad olio (BIBLIOTECA CASANATENSE, 1991).
Il rigore delle leggi e la severità delle pene si rivelò molto spesso
inefficace ad impedire malgoverno e devastazioni. Alla metà del Settecento era già molto avanzata l’opera di distruzione e si erano gene-
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ralizzate la pratiche più negative nelle utilizzazioni boschive anche in
Piemonte. Vasti diboscamenti erano avvenuti nel Monferrato dove la
coltura viticola aveva cacciato il bosco dalle colline con la conseguente
penuria di paleria. Estesi ronchi erano stati aperti nel Pinerolese e vi
era stata una generale sostituzione di macchie e di boschi con campi
di grano e risaie nel Vercellese, tanto che, in quella provincia, soltanto
13 comunità avevano ancora sufficienza di legna (PRATO, 1908).
Nella sperduta ed isolata Val d’Ossola bosco e pascolo furono
tenuti in gran cura codificata nei capitoli degli statuti compilati con
buon senso e con perfetta cognizione dei luoghi e delle esigenze degli
uomini. Grande sviluppo ebbe la coltivazione del noce (fino a 1200
metri di quota) in quanto esso era l’unica fonte di olio per condire e
illuminare. In generale i boschi furono ben conservati in modo tale
che vi fosse legname sufficiente per tutti ed in particolare quando la
solidarietà tra comunità vicine imponeva un taglio straordinario per
soccorrere coloro che erano stati ridotti in miseria perché colpiti da
carestia o da disastri meteorologici (BROCCA, 1932).
La Val Grande, oggi Parco Nazionale istituito nel 1991, invece,
subì la sorte di una vera e propria miniera di legname, prima per la
fabbrica del Duomo di Milano ed in seguito per le varie industrie.
Fino alla metà del Cinquecento non si conobbero vendite di tagli
boschivi. Successivamente la situazione cambiò improvvisamente e le
liti fra comunità non riguardarono più, come prima, qualche sconfinamento di pascoli, ma solo utilizzazioni di legname. I conflitti si ampliarono e si inasprirono quando entrò in scena la Fabbrica del Duomo di
Milano con la quale iniziò l’epoca del vero diboscamento della Val
Grande che dal XVI secolo si concluderà nel 1953! (RIZZI, 1996).
In Trentino la diffusissima proprietà collettiva della terra fu il
retaggio lasciato dalle popolazioni retiche che i Romani sottomisero
rispettandole nei loro antichi diritti. La conseguenza storica è stata
che oggi i Comuni trentini possiedono l’80% dell’area boschiva della
provincia. Inoltre parecchi di essi riuscirono a formare col tempo dei
latifondi boschivi e pascolivi a gestione collettiva come i Monti Nembino, Zeledria e Malghette nella Val Rendena. Altri comuni ancora
riscattarono e rigenerarono antiche foreste feudali come nel Pinetano,
in Val di Fiemme e nell’alta valle del Vanoi (GORFER, 1989).
Nel Veneto la Serenissima, intenta a contenere l’espansione turca
nel Mediterraneo orientale, produceva in patria una serie di ordinamenti volti da una parte a tenere in freno le richieste di legna e di
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pascolo delle popolazioni delle comunità rurali e dall’altra a produrre
catasti e terminazioni per i suoi boschi sparsi nell’entroterra sia da mar
che per la città lagunare.
Per le necessità finanziarie delle forti spese della guerra di Candia
(1648-1689), Venezia emanava la legge sulla vendita dei beni comunali
superflui. I comuni di terraferma ne approfittarono immediatamente
per tenersi i pascoli e per vendere molti boschi che furono prontamente distrutti. Andarono perduti, nella seconda metà del Settecento,
molti boschi della Lessinia, le abetine del Vicentino e i castagneti delle
basse colline friulane (DE BÉRENGER, 1965 e CACCIAVILLANI, 1984).
Sull’altipiano e sulle colline lombarde, dove erano stati fatti larghi acquisti di terre dalla borghesia industriale e mercantile, si fecero
ampi diboscamenti e dissodamenti per destinare quelle terre alla
nascente coltura del gelso (SERPIERI, 1957). Più tardi, nella prima metà
dell’Ottocento, l’intensa attività siderurgica obbligò, a chiudere rapidamente i forni e le ferriere della Valtellina per esaurimento di combustibile, dato che solo due forni fusori, consumavano ben 15.000 m3
di legname ogni anno. Le conseguenze della spoliazione dei boschi
per produrre carbone sono state ben visibili fino ad una ventina d’anni fa anche perché al taglio seguiva spesso un pascolo incontrollato.
Altri boschi scomparsi a seguito della produzione di carbone
per fonderie, furono quelli della Val Cavargna (Como) sede di vari
forni fusori fino alla metà dell’Ottocento. Le pendici montane della
valle, pur essendo favorevoli allo sviluppo del bosco, erano ancora
nel 1987 completamente spoglie ed utilizzate per un magro pascolo.
Stessa situazione per le pendici a ridosso di Dongo dove il bosco, oggi
superstite, arriva a mala pena al limite superiore del castagneto. Analoga situazione nell’alto versante occidentale del lago di Como (Valle
Albano, Valle del Livio, Valle del Liro) con le pendici tuttora denudate e coperte da una vegetazione arbustiva e da pochi relitti di faggeta.
Conseguenze: alluvioni e danni ai centri abitati di Dongo, Gravedona,
Gera Lario (MONTAGNA, 1987).
Nella Inchiesta Jacini di fine Ottocento il quadro della montagna
lombarda era contraddistinto dal cronico antagonismo fra pastorizia e
selvicoltura. Il pascolo invadeva tutti i boschi in cui riusciva a penetrare distruggendone la rinnovazione. Il fogliame era asportato (per farne
lettiera agli animali) da non lasciarne abbastanza per mantenere al
terreno una conveniente fertilità mentre il contadino col suo sarchiello
tagliava cespugli e arbusti che fornivano una sia pur modesta prote-
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zione del suolo. L’apertura delle strade in montagna dette il colpo di
grazia alle foreste di resinose il cui legname era ricercatissimo nella
pianura e molte selve vennero in tal modo distrutte accentuando un
già grave dissesto idrogeologico. Sembra che in Valtellina, prima dell’Ottocento, si verificasse una piena disastrosa dell’Adda ogni 51 mesi.
Nel ventennio dal 1831 al 1852, periodo in cui la devastazione fu massima, si ebbero piene rovinose ogni 20 mesi (INCHIESTA, 1883).
In Toscana le cose andarono un po’ meglio sia per la tradizionale
vocazione agricola che ebbe sempre bisogno di un supporto boschivo e sia per l’assolutismo del Principe che incamerò estesi boschi
al patrimonio della Signoria, in parte per ritorsioni politiche verso
vassalli ribelli ed in parte per meri interessi economici della propria
famiglia. Non minore importanza ebbero le grandi casate nobiliari
con le loro vaste proprietà rurali. Gli Strozzi, i Corsini, i Ricasoli, i
Guicciardin, i Ridolfi, furono in grado di sviluppare una efficiente
agricoltura a complemento della quale fu fondamentale avere un
corredo boschivo gestito con parsimonia e lungimiranza. Comunque
anche i toscani approfittarono della piena libertà forestale concessa
loro da Pietro Leopoldo nel 1780 ed i maggiori diboscamenti avvennero proprio fra la fine del Settecento e la prima metà del secolo successivo. I monasteri e gli eremi benedettini e di altri ordini religiosi,
continuarono nella loro preziosa opera di conservazione e di accorta
gestione delle foreste montane tanto da invogliare lo stesso Granduca
ad emette un Motuproprio, rimasto peraltro lettera morta, per l’acquisto da parte dei monaci camaldolesi, vallombrosani e cassinesi di
zone montane per provvedere alla conservazione delle relative macchie (GABBRIELLI, 1985a).
Andò assai peggio nelle Marche dove i boschi, rimasti abbastanza inalterati fin verso la metà del Settecento, subirono dopo questa
data, la massima falcidia nella bassa collina marittima con l’abnorme
ampliamento della coltura agraria, destinata ad una granicoltura
indirizzata più al commercio sopra mare che all’alimentazione della
popolazione. Il bosco, disperso in nuclei più o meno estesi, si raccolse
sui monti, nelle proprietà comunali ed in quelle delle Comunanze,
sempre oppresso da un pascolo accanito e onnipresente, nel grande
mosaico montano di selve e di prati pascolo sui quali la siccità estiva
faceva spesso mancare l’erba.
Nel Lazio, ancora feudale e con vaste proprietà collettive, sia
comunali che di associazioni agrarie, dominava l’uso civico che si cer-
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cava di tenere a freno. La coscienza dell’esaurirsi di una risorsa ritenuta disponibile proprio perché naturale, stimolò da parte del Potere
centrale l’emanazione di una serie di editti specifici in materia validi
per tutto lo Stato Pontificio che dimostravano la sua determinazione
verso una gestione più aperta della risorsa che risiedeva molto spesso
nella mani di privati (SANZA, 1997).
Tuttavia il passaggio da una gestione delle aree boschive orientata
sulla base di conoscenze tanto semplici quanto precise della popolazione utilista, ad un’altra proveniente da «bisogni» esterni legati alla
produzione urbana e manifatturiera, non fu senza aspri contrasti.
Questi si connotarono in una estrema e strenua difesa delle risorse da
parte dei ceti subalterni che si vedevano esclusi dai loro diritti di uso
sul bosco dal nascente capitalismo (SANZA, cit.).
L’equilibrio sarà compromesso quando Papa Sisto IV ordinerà il
dissodamento di un terzo di ogni proprietà fondiaria dell’Agro Romano, comprese quelle boschive. In tal modo scomparve il bosco di Baccano sulla via Cassia, con la scusa di essere rifugio di briganti. In altri
casi il bosco riuscì a salvarsi, in particolare se di grande estensione e
dotato di piante pregiate, come accadde per i querceti di Cisterna dei
principi Caetani almeno fino a quando essi poterono alimentare l’arsenale di Civitavecchia e le ferriere di Astura e di Conca. Quei boschi
scompariranno con la bonifica pontina e non ne resterà che il ricordo
attraverso i toponimi.
Nell’Italia meridionale l’antico ordinamento sociale basato sul
feudo (dei 2000 Comuni del Regno di Napoli 1600 erano infeudati)
non ebbe, in genere, riflessi particolarmente negativi per la conservazione degli spazi boschivi, almeno fino a quando questo ordinamento
rimase in piedi. All’inizio del Settecento la popolazione del Regno era
ridotta ad appena 2 milioni di abitanti (SERPIERI, cit).
Mentre la nobiltà terriera partenopea nella quale spiccarono i
nomi dei Caracciolo di Torchiarolo e di Brienza, dei Pignatelli d’Aragona, dei Serra di Gerace, dei Carafa di Castel San Lorenzo, dei
Sanseverino di Bisignano, dei Ruffo di Bagnara, cercava, con alterne
fortune, di mantenere un certo equilibrio fra campo, pascolo e bosco
nelle contrastanti esigenze fra vassalli e feudatario, l’Autorità regia
emanava leggi per la protezione dei boschi. Per diversi motivi esse
restarono inapplicate: mancanza di buon senso nella formulazione
della legge, mancanza di controlli sull’operato dei comuni e dei singoli
utenti, povertà di terre da seminare e cronica miseria della popolazio-
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ne rurale che cercava nei prodotti del bosco una possibilità di sopravvivenza.
In Puglia, ad esempio, i diboscamenti sembra risalissero a circa
la metà del Settecento. Il vandalismo silvestre, perpetrato con maggiore intensità dopo la dura carestia del 1763-64, si protrasse fino
alla fine del secolo. Il De Salis Marschlin, che viaggiò per il Regno
di Napoli nel 1789, osservava le grandi foreste della zona di Bovino
ormai ridotte a pascoli alberati da quando Ferdinando IV concesse
a tutti illimitata libertà di dissodare. Si aggiunsero le quotizzazioni
dei demani comunali con le terre assegnate alla «classe povera» che
aveva tutto l’interesse a sfruttarle con la coltura agraria e le numerose usurpazioni e dissodamenti abusivi da parte dei «galantuomini»
inseriti nell’oligarchia comunale. Sta di fatto che in otto anni, tra
il 1869 ed il 1877 nella sola Capitanata, furono concessi cambi di
coltura su terreni in parte saldi e in parte boschivi per oltre 52.000
ettari ed alla fine dell’Ottocento era stata svincolata una superficie
superiore al 45% di tutta quella boschiva della provincia di Foggia
(GABBRIELLI, 1987).
Contro la cattiva legislazione forestale borbonica si scagliò nel
1792 Gianfilippo Delfico con la Memoria per la conservazione e riproduzione dei boschi della Provincia di Teramo. Dimostrava infatti il
Delfico quanto la legge forestale del 1759, dedicata appunto alla conservazione e riproduzione dei boschi del Regno, fosse contraria a tale
scopo. In particolare Delfico se la prendeva con la norma del divieto
assoluto di taglio delle piante di alto fusto adatte alle esigenze della
marina. Esse rappresentavano la quasi totalità delle latifoglie (querce,
cerri, ischie, farnie, olmi, lecci, faggi, frassini e pini) per cui, sosteneva
l’economista teramano, qualunque albero da costruzione che la natura
avesse fatto sorgere sul suolo era oggetto di terrore e di esecrazione da
parte del proprietario che ne provocava in ogni modo la distruzione.
A tale proposito il Nostro notava nei suoi viaggi per la provincia, che
alberi da costruzione non esistevano più nella maggior parte dei luoghi visitati e nemmeno si erano riprodotti (GABBRIELLI, 1990).
Durante il XVIII secolo la popolazione italiana raddoppia, portandosi a 20 milioni di abitanti all’inizio dell’Ottocento (SERPIERI, cit.).
L’abolizione della feudalità, imposta nel Mezzogiorno dalle leggi
napoleoniche, spartì fra ex feudatari, Comuni e popolazione rurale,
una ingente massa di terre, calcolata pari a circa il 10% dell’intera
superficie produttiva del Regno delle Due Sicilie. Di questa si stima-
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va che fosse stata boschiva circa una quarta parte che subirà i guasti
maggiori.
Con l’elevata pressione demografica alla ricerca di nuove terre da
coltivare sia per gli scarsi raccolti dovuti all’arretratezza della tecnica
agricola del tempo sia, più che altro, per gli elevati prezzi di mercato
dei grani che invogliavano a seminare dovunque, si ampliarono i coltivi nell’Abruzzo marittimo, in Puglia ed in Campania mentre si avviava
il grave e secolare problema della terra ai contadini.
In definitiva il forte aumento demografico verificatosi nel secolo
XIX nel Regno di Napoli, quando la popolazione passò in appena
sessant’anni, da 5 milioni di abitanti a oltre 6 milioni e mezzo, infranse
l’esile equilibrio fino allora esistito.
In effetti le quotizzazioni dei demani comunali, le cui terre erano
spesso delle peggiori in quanto le più redditizie erano già state accaparrate dai rappresentanti dell’oligarchia locale, non soddisfecero
gli aventi diritto. Da ciò violenze ed invasioni di campi e di boschi
con incendi e devastazioni al grido di morte alla giamberga che era la
redingote indossata dai benestanti (GABBRIELLI, 1988).
Tra l’altro due energiche rivoluzioni una del 1820 e l’altra del
1848 infersero un duro colpo alla consistenza dei boschi nelle regioni
meridionali. La prima fu opera dei cosiddetti galantuomini che volevano conservare le terre usurpate, la seconda fu quella dei contadini che
scontenti delle ripartizioni delle terre ex feudali ed offesi dalla rapacità dei rappresentanti locali, invasero, tagliarono, bruciarono molti
boschi in varie regioni (ARMIERO e PALMIERI, 2002). In tale situazione
anche gli usi civici diventarono sempre più intensi e vandalici per il
restringimento degli spazi disponibili.
In Sicilia le cose non andarono diversamente. I feudalesimo conservò i boschi oltre che per l’indolenza del barone anche per mancanza di
braccia che coltivassero gli immensi latifondi. Inoltre non vi fu durante
il periodo feudale un particolare consumo di legnami per l’industria e
per la marina. Quando il feudalesimo fu abolito e con esso la pratica del
fedecommesso, iniziarono le divisioni delle grandi proprietà che portarono a compravendite, assegnazioni, e alienazioni di ogni specie a cui non
si sottrassero i boschi. Da allora in poi i diboscamenti e i dissodamenti
furono continui e a poco valsero i provvedimenti abbondantemente
elargiti dal governo borbonico per arrestarli, poiché questo non fu in
grado di farli rispettare dato che alla bisogna era stato posto del personale per la maggior parte digiuno di scienza silvana (VENTURA, 2002).
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In Sardegna il regime feudale che durò più di quattro secoli,
tenne in considerazione prevalentemente l’agricoltura e la pastorizia.
Nei Capitoli di corte (Capitula curiarum) la preoccupazione maggiore
restava sempre quella di impedire il pascolo abusivo e di comminare
pene ai pastori che incendiassero boschi e macchie per migliorare i
pascoli. Solo verso la fine del Settecento si incontrò qualche attenzione da parte del governo spagnolo che vietò il taglio abusivo delle
piante da parte dei baroni e dei possessori di foreste. Tuttavia è facile
immaginare come le città, che avevano il privilegio di poter tagliare
legna in un raggio di 30 miglia, abbiano trattato questa vasta superficie anche se non potevano usare un tale privilegio per gli alberi ghiandiferi, privilegio peraltro difficile da controllare.
Già nel primo Ottocento vi erano state in Sardegna forti speculazioni sui boschi da parte di imprenditori genovesi. I boschi della piana
del Sarcidano, della foresta di Scano e di quella di Monte Rasu erano
pressoché scomparsi. Né poteva essere altrimenti se le patenti albertine del 1844 lasciavano ai proprietari di boschi il diritto di usarne
liberamente.
La legge del 1877 dette il colpo di grazia ai boschi sardi quando
ne furono svincolati ben 171.000 ettari sotto la pressione di avidi speculatori. Con la legge del 1886 si tentò di porre riparo a tanto disastro, istituendo i boschi inalienabili del Goceano e dei Sette Fratelli,
tentando, nel contempo, di frenare la vendita dei boschi ex ademprivili. Ormai era troppo tardi e lo scempio che nella seconda metà
dell’Ottocento fu fatto dei boschi di leccio e di sughera per farne
carbone, non poté essere impedito dalle recriminazioni della stampa
nazionale e da quanti avevano a cuore le sorti dei boschi dell’Isola
(GABBRIELLI, 1985).
L’ETÀ CONTEMPORANEA
All’inizio del XIX secolo la popolazione italiana, come abbiamo
visto, era di circa 20 milioni. Ottant’anni più tardi, al momento del varo
della legge forestale nazionale, essa era già salita a 28 milioni (SVIMEZ,
1961) e la difesa del bosco, ormai tardiva, era spinta all’estremo. Dai
presumibili 11 milioni di ettari di superficie boschiva esistenti all’inizio
dell’età moderna, si era passati ad una superficie di poco più di 5 come
risultava dalla prima statistica forestale del 1870.
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Nubi procellose seguirono l’unità nazionale e si addensarono minacciose sulla sorte dei superstiti boschi italiani.
Un primo fatto positivo, anche se di dimensioni modeste, fu l’incameramento al patrimonio dello Stato di molti boschi demaniali appartenuti ai vecchi stati preunitari e di alcuni altri di proprietà di corporazioni religiose, soppresse nel 1866.
Altri eventi, certamente favorevoli per la politica e per l’economia
generale del paese ma con risvolti negativi per i boschi, furono lo sviluppo della rete ferroviaria, l’espansione urbana delle grandi e medie
città, e, ironia della sorte, proprio la prima legge forestale nazionale.
Una rete di oltre 13.000 chilometri quale era quella ferroviaria
italiana alla vigilia della prima guerra mondiale, relativa ai soli tronchi
statali, esigeva, per l’armamento di un chilometro di binari, un consumo di 12 m3 annui di legname fra primo impianto e successivo mantenimento. È facile capire a quale enorme tributo di legname abbiano
dovuto sottostare i boschi italiani, specialmente quelli di quercia e di
faggio, fra produzione di traversine, costruzione di carrozze, armature
di ponti e varie altre necessità. In effetti già nel 1891 risultava che per
ottenere i due milioni e mezzo di traversine annue occorrenti, si sarebbero dovute abbattere 360 mila piante e cioè una superficie a bosco di
3.600 ettari che, per un turno di 100 anni, diventavano 360.000 ettari,
pari a circa il 10% di tutta la superficie forestale vincolata di allora
(ZANOTTI CAVAZZONI, 1907).
Per l’espansione urbana si pensi soltanto a quella di Firenze e di
Roma, capitale provvisoria la prima e definitiva l’altra, che in breve
tempo si estesero e non di poco, oltre il cerchio delle antiche mura.
La legge forestale del 1877 se da un lato pose il vincolo ai boschi
posti oltre il limite superiore della zona castagno, che nell’Italia meridionale può raggiungere anche i 1000 metri di quota, dall’altro sciolse
da ogni vincolo circa 800.000 ettari di terre boschive e 350.000 di
terre cespugliate, per metà delle quali si trattava di boschi estremamente deteriorati che potevano essere salvati con qualche riceppatura
e con la proibizione del pascolo (SERENI, 1947).
Tuttavia un effetto positivo dobbiamo riconoscerlo anche alla
legge del 1877 poiché essa dette il riconoscimento ufficiale ai consorzi
di rimboschimento (art. 11) che erano sorti pochi anni dopo l’Unità.
Sulla scia di quello di Cuneo, istituito ufficialmente nel 1872 ma già
operante dal 1867, nacquero in quel torno di anni, fra Stato, Provincia e Comuni, i consorzi di rimboschimento de L’Aquila, di Genova,
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di Firenze, di Messina e di Cosenza (M.A.I.C., 1915). Essi furono gli
enti pionieri del ripristino forestale di molte tra le più martoriate zone
montane dove il bosco era da molto tempo scomparso.
In circa cinquant’anni, dal 1867 al 1914, furono rimboschiti
37.600 ettari fra Amministrazione forestale e Consorzi. Le province
maggiormente (oltre i 500 ettari) interessate furono: Cuneo (1780),
Sondrio (1760), Verona (1082), Genova (5200), La Spezia (1340),
L’Aquila (4200), Teramo (1030), Avellino (850), Potenza (2950),
Catanzaro (2000), Cosenza (2120), Messina (920). L’aumento
annuo di superficie forestale, in questo primo periodo fu minimo
intorno a 800 ettari ed il maggiore sforzo fu sostenuto dai Consorzi
(Patrone, 1953).
Se questi dati possono oggi farci sorridere per la loro esiguità,
si pensi all’epoca cui si riferiscono. Si trattò di un impegno notevole
e gravoso che dovette superare molte difficoltà fra le quali la scarsa
volontà politica verso il bosco in quanto protesa al risanamento della
finanza pubblica e le scarse conoscenze e attrezzature tecniche dell’epoca. Ma soprattutto si dovettero affrontare le più aspre difficoltà
che erano presenti in un ambiente agricolo e pastorale nettamente
ostile al rimboschimento, ambiente che allora occupava, nella media
nazionale, il 60% della popolazione attiva ma dove certe regioni meridionali superavano largamente questa media con punte massime in
Abruzzo e Molise (72%), Basilicata (73%) (SVIMEZ, cit.).
La legge Luzzatti del 1910, fece fare al settore forestale un passo
avanti di grande qualità, dato che essa può essere considerata il primo
strumento per una politica forestale integrale. Infatti con questa legge
nasceva L’Azienda del demanio forestale ed iniziava la vera restaurazione del manto boschivo e del riassetto idrogeologico delle nostre
montagne. Avvio, che purtroppo venne immediatamente frenato dalle
esigenze della prima guerra mondiale che infersero un colpo gravissimo a non pochi boschi sparsi in tutta la Penisola. Fra questi il querceto di Annone Veneto fu raso al suolo, gli alti bacini montani del
Sesia e del Toce furono completamente denudati con la conseguenza
di inondazioni ed interrimenti per 2-3 metri di altezza, l’abetina reale
di Civago nell’alto Appennino reggiano fu completamente tagliata e
così pure quella della Cella di Sant’Alberico in Romagna. La Selva
Piana di Pecopennataro subì la stessa sorte e la pineta di Cervia soffrì
una gravissima falcidia di piante dalla quale non si riebbe (GABBRIELLI, 1994). A guerra finita fu calcolata da SERPIERI (1920) una massa
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legnosa complessiva utilizzata di 65 milioni di m3 su una superficie di
circa un milione di ettari, ipotizzando una intensificazione dei tagli di
almeno 6 volte quelli di anteguerra.
Tuttavia nonostante la guerra, nel periodo 1914-1924 furono
rimboschiti 16.900 ettari ad un ritmo medio annuo addirittura doppio
rispetto a quello del periodo precedente, mentre la popolazione agricola nel 1921 era ancora più della metà di quella attiva. Dei rimboschimenti effettuati, le province più interessate furono: Torino (580),
Treviso (550), Verona (530), Genova (889), Bologna (570), Perugia
(920), Potenza (540), Catanzaro (1090), Cosenza (1920), Cagliari
(790) (PATRONE, cit.) come si vede con superfici assai più modeste di
quelle del periodo precedente.
L’azione restauratrice riprese nel dopoguerra sotto la guida della
legge Serpieri del 1923 che attribuiva al bosco la valenza di strumento
fondamentale di difesa e conservazione del suolo.
La superficie rimboschita dal 1924 al 1933, fu di 44.200 ettari. Le
province più interessate furono: Cuneo (1360), Torino (1430), Trento
(620), Belluno (690), Treviso (2030), Udine (990), Verona (860), Bologna (2490), Forlì (986), Ravenna (830), Arezzo (890), Grosseto (963),
Pistoia (2010), Pesaro (890), Perugia (1920), L’Aquila (650), Cosenza
(2140), Reggio C. (1190), Messina (1260), Palermo (660), Cagliari
(2170), Sassari (1960).
Dal 1934 al 1940 il complesso dei rimboschimenti eseguiti fu
di ettari 57.340. Le province con la maggiore superficie rimboschita
furono: Torino (1480), Vercelli (1030), Como (5840), Bolzano (710),
Belluno (960), Udine (1390), Bologna (1040), Piacenza (890), Arezzo
(2490), Firenze (1620), Grosseto (1700), Pistoia (930), Pesaro (1070),
Perugia (1680), Latina (1160), Pescara (1270), Teramo (1140), Salerno (780), Foggia (1070), Potenza (1120), Catanzaro (1580), Cosenza
(1220), Messina (1040), Cagliari (1330), Nuoro (820).
Nel 1936 la popolazione rurale, nella media nazionale, era scesa al
48% di quell’attiva ma presentava ancora le punte massime del 74% in
Abruzzo, del 75% in Basilicata, del 68% in Calabria (SVIMEZ, cit.).
Dal 1941 al 1946 furono rimboschiti 20.170 ettari. Le province
più interessate furono: Trento (950), Genova (1260), Arezzo (1020),
Grosseto (1100), Pistoia (610), Catanzaro (1040), Sassari (640).
Infine nel quinquennio 1946-1950 si rimboschirono altri 18.500
ettari. Le province più interessate furono: Sondrio (930), Savona
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(1160), Genova (570), Frosinone (670), L’Aquila (770), Potenza (800),
Caltanissetta (1090), Cagliari (580).
Nel 1951 gli addetti all’agricoltura erano (media nazionale) ulteriormente scesi al 43% della popolazione attiva, ma sempre con il
73% in Basilicata, il 65% in Abruzzo, il 63% in Calabria. Tanto per
un confronto, la Toscana aveva nel 1951 una popolazione agricola del
40% ed il Piemonte del 33%.
Nel complesso, dalla Unificazione nazionale al 1950 furono rimboschiti un po’ meno di 200.000 ettari la metà dei quali si concentrò
nelle Alpi, Prealpi e nell’Appennino centrale (PATRONE, cit.).
In novant’anni, quindi, fu tenuta una «velocità» media generale
di ripristino forestale di poco più di 2200 ettari annui rimboschiti.
Non è certo una gran cifra ma lo sforzo fu assai impegnativo e gravoso, in particolare se si considera che in questo periodo si sono avute
cinque guerre di cui due micidiali e tre o quattro terremoti di cui due
gravissimi (Marsica e Reggio-Messina) che oltre ad aver sottratto forze
di lavoro drenarono importanti risorse finanziarie.
L’ATTUALITÀ
In una situazione socio economica radicalmente mutata dopo
l’ultimo conflitto ma con una popolazione prossima ai 50 milioni di
abitanti (SVIMEZ, cit.), problemi di nuovo tipo si sono presentati per la
protezione del bosco e del suolo.
Esodo dalle colline e dalle montagne più disagiate, forte espansione urbana e delle infrastrutture, aumento della mobilità della popolazione e conseguente esplosione turistica. In definitiva una crescita generale
di benessere ed una sempre maggiore disponibilità di tempo libero.
In questo quadro i problemi forestali hanno riguardato ancora
il recupero delle superfici da restituire a bosco ma anche una attenta
gestione dei boschi superstiti, che sarà rivolta, con particolare sollecitudine, alla protezione dagli incendi e dalle speculazioni fondiarie.
I rimboschimenti eseguiti dal 1950 fino agli anni Settanta, sia
nel quadro della difesa del suolo ma anche con chiari intenti sociali,
hanno coperto una superficie di poco superiore ai 700.000 ettari, dei
quali 560.000 di nuovi boschi e 150.000 di boschi degradati ricostituiti. I rimboschimenti volontari hanno raggiunto appena il 4% degli
interventi dello Stato a dimostrare chiaramente come le lunghe e
rischiose attese fino alla maturità economia dei soprassuoli, non potes-
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sero essere sopportate dalla proprietà privata (MURA, 1973). Peraltro
a molti dei rimboschimenti eseguiti dallo Stato in questo ventennio,
mancarono spesso adeguate provvidenze finanziarie per le susseguenti
operazioni colturali (ROMANO, 1987).
Contemporaneamente a questa azione di ripristino, si è assistito
negli stessi anni, ad un dilagante turismo di massa con forti attacchi
ai delicati equilibri costieri e a quelli di alta montagna. La situazione
è stata fronteggiata, non sempre con successo, fino al freno, forse un
po’ tardivo, della legge 431 del 1988 (la cosiddetta legge Galasso) che
ha vincolato tutti i boschi come beni di spiccato interesse paesistico
ambientale da assoggettare ad un particolare regime di tutela.
Riguardo al cambiamento del paesaggio forestale, conseguente
all’abbandono del territorio ed all’uso che oggi viene fatto del bosco,
si nota che il castagneto da frutto è praticamente scomparso e le
superfici in perdita si sono trasformate in cedui ed in impianti di conifere. Alcuni castagneti si sono evoluti naturalmente in boschi misti di
frassino, acero e betulla nell’Italia settentrionale e di carpino nell’Italia meridionale. Molti cedui di faggio, specialmente di proprietà pubblica, sono stati convertiti in fustaie mentre in qualche zona è stato
mantenuto il tipico ceduo a sterzo. Quelli di roverella ancora utilizzati
ma con turni abbastanza lunghi, consentono di raccogliere economicamente solo la legna con diametri superiori ai 4-5 centimetri.
Tra le ombre che si proiettano sul futuro di certi boschi lasciati
alla libera evoluzione, c’è il rischio che dai quei popolamenti derivino
soprassuoli ben diversi da quelli che ci potremmo aspettare. Da ciò
l’esigenza di una somma di interventi, modesti ma diffusi, con mutamenti e riadattamenti continui, necessari affinché l’ecosistema continui
a vivere e produrre.
La conclusione è lasciata ad un pensiero di Giovanni HAUSSMANN
(1992) noto agronomo e naturalista.
Dalla storia dei rapporti tra uomo e ambiente si devono trarre valide
indicazioni che facciano da guida alla società, verso un atteggiamento
di simbiosi mutualistica con la natura, sanando la frattura apertasi con
quest’ultima e di cui si vogliono risolutamente scongiurare le catastrofiche conseguenze. Frattura che, ampliatasi col tempo, è stata la conseguenza di una crisi culturale della società, da quando in essa, anche per
una eccessiva pressione demografica, ha preso il sopravvento l’azione
speculativa nell’ottenere i prodotti della terra, che precedentemente
erano ricavati per vitali esclusive necessità.
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