Franca_Verda_Hunziker
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UN CAFFÈ CON... Franca Verda Hunziker Franca Verda Hunziker è una firma molto nota del giornalismo ticinese, in particolare di quello televisivo. Numerosissimi i suoi reportages. Anche là dove la terra scotta. Anche là dove le cose non sembrano come tutti le vedono. Anche là dove l’ingiustizia è evidente. Anche là dove mettere il naso è difficile, non richiesto. Quest’anno, Franca Verda Hunziker, figlia dell’indimenticabile Plinio Verda, direttore del Dovere ai tempi d’oro, ha ricevuto il premio Cornèr Bank-Atg (Associazione ticinese dei giornalisti) 2013 per il suo reportage sulla delicatissima questione delle atrocità nell’enclave serba del Kosovo, intitolato “Verità sequestrate” e trasmesso a Falò il 5 maggio 2011. Atrocità messe in luce da un rapporto scritto dall’ex senatore ticinese Dick Marty, per conto del Consiglio d’Europa, che hanno creato grande imbarazzo perché alcune verità nessuno le vuole né vedere, né sentire. L’abbiamo incontrata e parlato con lei della sua passione per il giornalismo, della sua lunga esperienza al fronte, e dei momenti forti che hanno segnato la sua carriera. Come ha cominciato? Da quanti anni lavora e per quali testate ha lavorato? Il giornalismo per me è stato all’inizio un hobby (“sempre meglio che lavorare” diceva Barzini, storico inviato del ‘Corriere della Sera’). Ho cominciato sui banchi del liceo, frequentavo i corsi di teatro per studenti di Alberto Canetta, attore, regista e produttore teatrale in radio. Fu lui a inserirmi a ‘Radio gioventù’. Eravamo dei… pionieri e ci divertivamo un mondo. Ricordo che utilizzavo un registratore MARSI a bobina, un cassone di quindici chili che trasportavo sul portapacchi del motorino. Ho cominciato così, per passione, sicuramente complici i geni ereditati da mio padre. Poi dai banchi dell’università ho continuato a collaborare con la RSI e con regolari corrispondenze per 'Il Dovere', il quotidiano diretto da mio padre e poi da Giuseppe Buffi che ne era stato il 12 Nel 2013 premio Atg suo vice. Un giorno seppi che cercavano un redattore al Telegiornale, allora centralizzato a Zurigo. Ho quindi portato a Dario Robbiani un dossier con i miei articoli e le attività che avevo svolto alla radio e lui mi mise subito alla prova: c’era penuria e poi ero già…”svezzata” e così mi buttai come praticante nella “cucina” della redazione: era il gennaio 1974. Ma ero inquieta e il primo maggio ero già a Lisbona sulla piazza del Rossìo, cinque giorni dopo la rivoluzione dei garofani! Fu per me un evento indimenticabile che segnò l’inizio della mia passione per quella stagione fortunata che pose fine alle colonizzazioni e a numerose dittature (da quella spagnola nel ’77 a quella cilena nell’89) passando dalla Namibia e dal Sudafrica. Lavorare con le immagini e il montaggio mi aprì subito nuovi orizzonti: all’inizio c’era ancora la pellicola bisognava sviluppare i film e poi montare in moviola: ci volevano tempi giurassici rispetto a oggi, eppure si lavorava sull’attualità del giorno! Il primo servizio all’estero -su pellicola- lo realizzai da praticante a Pompei, sull’apertura di un nuovo settore di scavi! Ricordo che riuscii a convincere i responsabili a lasciarmi entrare con la squadra a filmare gli affreschi erotici dei lupanari, fino allora vietati alle donne! In seguito arrivarono i nastri magnetici di vario formato fino alle cassette Beta che durarono fino agli anni 90. È stato un percorso molto lungo, con tante variazioni: da Zurigo coprivo l’attualità svizzera e quella estera solo in base ai dispacci d’agenzia, poi ci fu un’esperienza a Berna, ma la politica federale mi sembrava troppo ingessata…Mi indirizzai allora decisamente sulla politica estera che mi appassionava già da sempre ed era ancora poco trattata, di prima mano, nei nostri telegiornali. Eravamo in pochi con mezzi limitati, ma con Renzo Balmelli riuscimmo a creare una redazione esteri: ricordo servizi prevalentemente in Europa, vertici CEE, trattati sul disarmo a Vienna, elezioni in Germania e Svezia dove feci le prime interviste con grossi personaggi in campagna elettorale: Willy Brandt, Olof Palme (parlava un ottimo francese!). Nell’ottobre 1988 il Telegiornale di lingua italiana si trasferisce a Comano: si chiude un’epoca e se ne apre un’altra, si passa dalla Hermes meccanica al computer: uno vero shock, anche culturale, ma è stato bello aver vissuto anche questa rivoluzione, perché di rivoluzione si è trattato! Ho avuto l’opportunità di vivere momenti storici in prima persona, di costruire la notizia al fronte e di capire anche la grande responsabilità che un inviato assume al momento di raccontare quanto accade. Devi avere molta fiducia in te stessa e nel tuo…naso, perché non hai l’agenzia a portata di mano e in quegli anni non c’erano internet e telefonini! Oggi c’è purtroppo una grande omogeneizzazione dell’informazione: spesso la comunicazione s’infiltra e si confonde con l’informazione, il tempo per verificare stringe e ci si affida al copia-incolla. Quanto ci viene servito è sempre una piccola fetta di una realtà complessa. E se hai la fortuna di poter andare sul posto, hai la possibilità d’avere un aggancio in più per spiegare certe realtà. Che poi magari la gente non vuol sentire, ma questa è un’altra storia. L’esperienza più forte: il Sudafrica dell’apartheid Cosa le ha dato e ancora le dà questo mestiere? Molto. Ho avuto tante opportunità, anche se molte me le sono dovute conquistare in… “battaglia” e renderle pure compatibili con la famiglia. Oltre ad avermi fatto incontrare persone straordinarie, questo mestiere mi ha dato la possibilità di farmi un’idea precisa su certe realtà lontane o meno, spesso camuffate dall’opportunismo politico o da interessi geostrategici. Ho avuto la possibilità di entrare in contatto con situazioni che mai mi sarei potuta sognare di vivere facendo un altro lavoro. Ho guadagnato in coraggio e in consapevolezza perché quando impari a conoscere situazioni che suscitano paure, la paura si dissolve, ti si apre la mente e vuoi approfondire per capire sempre di più. Non solo realtà politiche e sociali, ma anche un pensiero, una filosofia o una religione diversa dalla nostra. La conoscenza che acquisisci sul campo ti dà la possibilità d’essere più tollerante verso tutto quanto è diverso. E questo vale in ogni situazione, anche nella nostra piccola realtà. Quale la sua esperienza più forte? Ce ne sono state molte. Ma senz’altro, quella vissuta in Sudafrica fra il periodo di transizione dal regime di apartheid alla democrazia è l’esperienza che mi ha maggiormente coinvolto. È stato un processo che ho seguito dal 1989 – con l’elezione dell’ultimo presidente bianco Frederick de Klerk- alle prime storiche elezioni multirazziali dell’aprile del ’94. Già da giovanissima avevo partecipato a manifestazioni per la liberazione di Nelson Mandela, la mobilitazione era grande e le battaglie in favore dei diritti umani mi hanno sempre motivato. Essere testimone di questo peRivista di Bellinzona Ottobre 2013 La dedica di Mandela riodo che pose fine al regime di apartheid, era per me molto importante sia dal punto di vista personale che professionale. Ho seguito in cronaca diretta la liberazione di Mandela con il cuore che batteva forte, poi l’ho incontrato nel giugno del 1990 a Ginevra. Trovarsi di fronte a una personalità di questa statura e carisma è sicuramente un’esperienza indimenticabile. Devo ammettere però che l’esperienza forte che ti dà emozione la puoi vivere anche incontrando gente molto semplice: dai sopravvissuti di un barcone di clandestini che ti raccontano la loro odissea, alle donne indifese che hanno subito abusi in terapia qui in Ticino, da un ragazzo disabile che suona in un’orchestra, ai molti rifugiati che fuggono la guerra, la più recente e purtroppo ancora attuale quella in Siria. Lì ti accorgi proprio di quanto sia tremenda la guerra che scardina vite distruggendo beni, valori e dignità. Quando realizzi documentari come questi, vuoi far capire alla gente che queste persone non sono solo numeri. Vorresti avere la presunzione di riuscire a comunicare il loro dramma, ad aprire la mente e i cuori di chi ci guarda, perché solo incontrando queste persone disperate in fuga, solo passando ore con loro ti rendi conto davvero in quali situazioni siano costretti a vivere e di quanto dipendano dalla nostra solidarietà. Un incontro dietro la telecamera che non può dimenticare? Sicuramente indimenticabile è stato proprio l’incontro con Nelson Mandela, nel giugno del 1990 a Ginevra in occasione del suo primo viaggio in Europa dopo la sua liberazione pochi mesi prima, l’11 febbraio. A Ginevra, lo avvicinai con uno stratagemma infiltrandomi nella fila dei rappresentanti dei movimenti di libe- Al fronte a Teboulba in Tunisia con il cameraman Daniele Caldelari durante il tournage di 'Capitani coraggiosi...' sul salvataggio degli immigrati clandestini sui barconi. 13 razione venuti a rendergli omaggio. Riuscii così e a fargli una breve intervista. Il suo “angelo custode” cercò di impedirmelo con uno strattone, ma lui alzò la mano in un gesto autorevole e disse: “She’s a lady!” Fu l’unica volta che mi tremarono letteralmente le gambe. Ai giornalisti era stato detto che non avrebbe rilasciato interviste. E, infatti, in nessun altro paese Europeo toccato in quel periplo ne avrebbe concesse. Era uscito da pochi mesi dopo 27 anni di isolamento in prigione e non era ancora abbastanza informato su quanto succedeva, anche per questo era stato istituito uno speciale cordone di protezione. A Ginevra – durante una conferenza stampa- aveva ringraziato la Svizzera per quanto aveva fatto contro l’apartheid! Da notare invece che la Svizzera – pur condannando formalmente il regime dell’apartheid- aveva sempre aggirato le sanzioni imposte dall’ONU ed io intervenni per farglielo notare suscitando un mormorio di disapprovazione fra le centinaia di colleghi accorsi per l’occasione. Il suo consigliere che gli stava vicino, gli sussurrò qualcosa all’orecchio, e lui mi ringraziò dell’informazione. Come detto, lo incontrai qualche ora più tardi e dopo l’intervista si ricordò di quel mio intervento e mi ringraziò di nuovo. Io presi coraggio, sfilai dalla borsa l’unica biografia autorizzata esistente allora di Mandela, quella di Mary Benson e gli chiesi una dedica. Fu una grande emozione, un momento indimenticabile. Quell’uomo così alto ed esile emanava un grande carisma, ma anche una forza, una determinazione e un’autorevolezza che si rivelarono poi fondamentali nel portare il suo paese verso la riconciliazione e la democrazia quattro anni dopo. Grazie a quell’incontro e a quella dedica fui ammessa- unica giornalista svizzera – alla grande festa per la sua vittoria alle presidenziali al Carlton Center di Johannesburg – allora quartier generale dell’ANC durante le elezioni. Non ha mai avuto paura trovandosi in situazioni non sempre tranquille e prevedibili? L’imprevedibilità in questo mestiere è spesso la regola anche in situazioni tranquille, ci vuole comunque sempre una buona preparazione quando vai in un posto in cui ci sono dei rischi. Bisogna attenersi alle regole: per esempio, se vige il coprifuoco- come quello imposto a Johannesburg prima delle elezioni a causa degli attentati quasi quotidiani degli estremisti razzisti- devi rispettarlo anche se ti limita enormemente nel lavoro. Ci sono stati anche dei pericoli “calcolati”; per esempio quando ero in Libano per documentare la ricostruzione dopo i bombardamenti israeliani del 2006. Nel sud tutti i campi agricoli erano letteralmente pieni di ordi- 14 ta coperta da alcune nazioni come fosse un dettaglio insignificante e fastidioso. Io ho voluto realizzare un documentario-inchiesta seguendo sul terreno le tracce del rapporto Marty, trovando testimoni di fatti incontestabili, ma purtroppo ancora oggi la verità stenta a uscire veramente alla luce del sole, perché è troppo scomoda e potrebbe cambiare e smentire “mezze verità” frettolosamente consegnate alla storia. Proprio per questo l’ho intitolato “Verità sequestrate”. Questo lavoro e il premio attribuitomi dimostrano come anche noi giornalisti di un ente televisivo di servizio pubblico di un piccolo paese neutrale, possiamo contribuire ad aprire squarci di verità su vicende politiche e umane di là dai giochi di potere e sopra gli interessi dei governi mondiali che hanno deciso altrimenti. Il premio ricevuto mi fa piacere per questo e il reportage, pur non avendo avuto un picco di audience altissimo (non è il genere che spopola!), è stato ripreso dalla Televisione Svizzero tedesca e in Germania. Ma il riconoscimento più importante, per me giornalista, l’ha espresso lo stesso Dick Marty in una sua lettera scritta per la cerimonia di premiazione mentre si trovava in Cambogia: ...“Non è vero che ci si abitua a tutto. Nonostante quanto ho visto e sentito a Kigali, Gro- sny, Goma, Bukavu, o Haïti, il documentario di Franca mi ha strappato le lacrime. Lacrime di emozione, parecchie di quelle vittime le avevo incontrate anch’io. Lacrime di rabbia per la bestialità degli uomini, per la vigliaccheria di chi nel nome della ragion di stato continua a raccontare mezze verità, che, come disse una volta la Corte di cassazione italiana, sono le peggiori menzogne. Franca è stata coraggiosa, non ha esitato ad andare controcorrente. Coraggiosa nel senso di Jean Jaurès: Le courage c’est de rechercher la vérité et de la dire... “Verità sequestrate” ha dato voce alle vittime, non solo a certe vittime. Un atto nobile di giustizia.” Un giorno anche la Storia gli darà ragione. A chi siede in poltrona e attaccato a un telecomando guarda un reportage in tv, può dare qualche suggerimento per sviluppare un occhio critico? Oggi con l’immensa offerta di reti a disposizione, districarsi è una sfida. Purtroppo c’è tantissima spazzatura in circolazione. La prima cosa per sviluppare un occhio critico è imporsi una scelta, guardare un programma e restare su quello. La costanza è molto difficile, l’attenzione media dello spettatore è disarmante. Penso che questa isteria del telecomando sia deleteria perché si rimane sempre in superficie e non si approfondisce niente. La televisione rimane comunque un potente mezzo d’informazione e di divulgazione, nel bene e nel male. Ma non basta, non bisogna informarsi solo guardando la tv. Chiaramente è comoda, ti offre tutto su un piatto d’argento, ma purtroppo ha i suoi limiti e raramente basta per capire una situazione. Penso che l’occhio critico si sviluppi anche imparando a conoscere certe regole e certi meccanismi del mezzo televisivo e poi non accettando tutto quello che ti propinano. Sempre porsi delle domande perché il dubbio è l’alleato migliore, mai dare niente per scontato. “Informarsi è una grande fatica”: parola di Ignacio Ramonet, storico direttore de ‘Le Monde diplomatique’ che resta per me un punto di riferimento. Oggi c’è anche la rete, i siti di contro-informazione e i blog si contrappongono ai media mainstream, ma vale la stessa regola: sempre col beneficio del dubbio! Il motore? L’amore per la giustizia e la libertà gni inesplosi delle bombe a grappolo, ci si muoveva su strade distrutte con il rischio di trovarsi su una mina. Allora, con la mia squadra, ho raggiunto il centro di sminamento dell’Onu a Tiro, dove c’erano degli esperti svizzeri che avevano inventato un piccolo robot per scovare questi ordigni inesplosi nascosti nel terreno sabbioso. Seguendo il team di sminamento e di bonifica abbiamo realizzato il reportage con un certo margine di sicurezza, documentando come si disinnesca e si distrugge un ordigno con questi piccoli robot. I rischi però non sono solo fisici, possono esserci pressioni politiche, minacce di gruppi d’interesse o resistenze di funzionari corrotti che ti rendono la vita difficile, come mi capitò nel 2007 in Etiopia. La regola è sapere dove vai, con chi hai a che fare e prendere le dovute precauzioni che sono poi l’avere le carte in regola, il buon senso, la negoziazione e il saper farsi rispettare, cosa che in certi paesi, come donna, non è così evidente. E rabbia? Rabbia di documentare storie drammatiche che tali resteranno perché la voce della denuncia può cadere nel vuoto? Sono una persona che ha fatto questo mestiere mossa da un grande amore per la giustizia e la libertà. Vedendo le ingiu- stizie, spesso provi un sentimento di ribellione. Quando denunci queste cose, devi però stare molto attenta a questo sentimento di rabbia, perché fai in fretta a trasformare il tuo reportage in una denuncia esasperata. La denuncia dev’essere sempre accompagnata da evidenze che la rendano credibile, il dolore non deve mai essere spettacolarizzato, il campo dev’essere lasciato ai protagonisti e il giornalista deve evitare l’esibizionismo. Anche nelle situazioni più tremende che non possono non suscitare indignazione, bisogna sempre cercare, per quanto possibile, di essere obiettivi, di contestualizzare e di mantenere un certo distacco. Solo una denuncia credibile ha qualche probabilità di essere raccolta. Spesso bastano le immagini, sono le nostre armi. Questo non significa mancare di empatia, questa te la porti dentro comunque, come la ribellione e il dolore. «La certezza di essere ben assicurato.» <wm>10CAsNsjY0MDAy0bUwNjU2MAEAqIylPQ8AAAA=</wm> <wm>10CFWMoQ7DMAwFv8jRe3GcxDOsyqqCadxkGu7_oypjBcfu7jjCCv5s-_nZ30GgNplqihbmXkCPRhbnDHRqBfVFazQb5MOXMeEVyOUIulCTJjpEkZ09qeuQqwbL9f3dA2D3A4AAAAA=</wm> Agenzia generale Bellinzona, Michele Masdonati Via San Gottardo 2, 6500 Bellinzona Tel. 091 601 01 01, www.mobibellinzona.ch Che significato ha per lei aver ricevuto un riconoscimento per il documentario “Verità sequestrate”? “Verità sequestrate” è un lavoro che ho realizzato spinta proprio da un sentimento di giustizia. La storia del traffico di organi umani, che c’è stata in Kosovo e che è stata dimostrata dal rapporto di Dick Marty al Consiglio d’Europa, è sta- Consulenti per il Bellinzonese: 079 337 46 56 Claudio Ostini Marco Nobile 079 175 25 63 Gabriele Rigozzi 079 686 62 86 Rivista di Bellinzona Ottobre 2013 15