Genere e Precarietà - Pari opportunità

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Genere e Precarietà - Pari opportunità
Attribuzioni
Questo lavoro è responsabilità collettiva delle autrici. Tuttavia, per le
occasioni in cui il contributo individuale debba essere espressamente
riconosciuto, si tenga presente che Giulia Selmi è autrice del capitolo
1 e Annalisa Murgia dei capitoli 2 e 3.
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Indice
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Premessa
1. Genere e precarietà: traiettorie di ricerca possibili e proposte di
politiche
1.1. I contributi presentati al convegno nazionale “Genere e
Precarietà”
1.1.1. Le sessioni plenarie: quattro chiavi di lettura per interpretare la
relazione tra genere e precarietà
1.1.2. Le sessioni parallele
1.1.3. Genere e precarietà ai tempi della crisi: tavola rotonda conclusiva
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2. Genere e precarietà: sfide e trasformazioni del mondo del lavoro
2.1. Il lavoro contemporaneo in ottica di genere
2.2. Definire la flessibilità del lavoro
2.3. La tipicità italiana dei lavori atipici
2.4. Il lavoro temporaneo a livello nazionale e locale
2.5. Lavoro flessibile e prospettive di conciliazione
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3. Genere e precarietà: proposte di policy di contrasto
3.1. Tutelare il lavoro atipico attraverso la contrattazione
3.2. Le politiche integrate sul territorio
3.2.1. Sportelli di orientamento sui servizi di conciliazione
3.2.2. I servizi alla persona
3.2.3. L'armonizzazione dei tempi e degli spazi di un territorio
3.3. Politiche di flexicurity e di sostegno al reddito
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Riflessioni conclusive
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Riferimenti bibliografici
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Premessa
Questo lavoro trae spunto dal convegno “Genere e Precarietà”,
organizzato
dal
Centro
Studi
Interdisciplinari
di
Genere
dell’Università degli Studi di Trento, che ha avuto luogo il 13 e 14
novembre 2009 a Trento, con il patrocinio e il sostegno della
Commissione Provinciale per le Pari Opportunità tra Uomo e Donna
e della Consigliera di Parità.
La collaborazione tra questi diversi soggetti istituzionali è segno della
centralità che il tema della precarietà ha assunto negli ultimi anni per
le biografie individuali e per la società più in generale e soprattutto
delle significative implicazioni di genere che connotano tale
fenomeno. A partire da questa comune consapevolezza si è ritenuto
utile sviluppare una riflessione relativa allo scenario provinciale che,
attingendo alla ricchezza e all’incisività degli stimoli e delle analisi
presentate nell’ambito del convegno, fosse in grado di offrire elementi
di lettura e interpretazione e proposte di intervento per affrontare le
criticità che caratterizzano, pur nella sua specificità, anche il territorio
trentino.
Perché occuparsi di genere e precarietà
L’idea di organizzare un convegno sul rapporto tra genere e precarietà
è nata in primo luogo dall’attualità storica, potremmo forse dire
dall’urgenza che connota questo tema nella società contemporanea.
La dimensione della precarietà non è certo una novità nella storia
umana, anzi ne rappresenta in un certo senso una costante. Tuttavia
nel corso del secolo da poco concluso, la società occidentale si era via
via abituata a percorsi di vita sempre più stabili ed istituzionalizzati.
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Una abitudine durata purtroppo lo spazio di poche generazioni, dal
momento che negli ultimi anni la precarietà è tornata ad essere una
condizione
distintiva
globalizzazione,
della
l’aumento
vita
dei
sociale.
flussi
Fenomeni
migratori,
come
la
l’innovazione
tecnologica, i processi di deregolarizzazione del lavoro, fino all’attuale
crisi economica hanno contribuito in misura rilevante alla diffusione
dei processi di precarizzazione dell’esperienza di vita. La precarietà si
ripresenta
dunque
oggi
come
una
dimensione
pregnante
dell’esperienza sociale e individuale, con una fenomenologia che però
non è più quella del passato, ma che presenta caratteri inediti, che
richiedono nuove chiavi interpretative.
Al contempo è sempre più evidente che i processi di precarizzazione a
cui abbiamo assistito negli ultimi anni presentano evidenti
implicazioni di genere. E veniamo così alla seconda ragione che ci ha
orientato nella scelta di questo tema. Nel parlare di implicazioni di
genere non ci riferiamo solo alla dimensione lavorativa, dove è
evidente – e molti dei contributi che sono stati presentati lo hanno
messo chiaramente in luce – che l’affermarsi di modelli lavorativi
atipici e intermittenti, in assenza di adeguate protezioni sociali,
sembrano avere conseguenze diverse, o meglio, diversamente critiche,
in relazione al genere. Ci si riferisce in realtà anche ad una pluralità di
sfere e ambiti sociali, che vanno dalla precarietà nelle relazioni e nelle
scelte di vita (le relazioni familiari e di coppia, le scelte procreative),
alla precarietà legata ai fenomeni migratori, alla sfera dei diritti di
cittadinanza, insomma ad un insieme di domini in cui l’intreccio tra
genere e precarietà emerge con evidenza.
C’è infine un terzo movente che ci ha indotto ad occuparci di questo
tema, vale a dire il fatto che la precarietà tende spesso ad essere
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rappresentata
come
una
dimensione
storicamente
intrinseca
all’esperienza femminile, al suo instabile transitare tra diversi ambiti e
sfere. A questo proposito credo sia utile ricordare quale sia
l’etimologia della parola precarietà: l’aggettivo precario deriva dal
latino prex, preghiera. Precario significa dunque “ottenuto con
preghiera”. Indica cioè qualcosa che si può fare sulla base di un
permesso accordato da qualcun altro e che, in quanto soggetto
all’arbitrio di chi lo concede, non è durevole. Si tratta di una
immagine che evidenzia immediatamente la non neutralità del
concetto di precarietà, il fatto che ci sono norme e pratiche sociali che
rendono alcune vite più precarie e vulnerabili di altre. Una immagine
in grado di evocare molte pratiche di esclusione e di discriminazione
che hanno caratterizzato le relazioni di genere in diverse epoche e
contesti.
Cosa succede in provincia di Trento?
A partire da questo quadro teorico di riferimento, in questo contributo
si è cercato di concentrare in particolare l’attenzione su quanto
avviene all’interno della provincia di Trento, sulla base dei dati
attualmente disponibili sul mercato del lavoro. Sebbene il territorio
trentino
presenti
significative
specificità,
sia
rispetto
alla
configurazione del mercato del lavoro che al sistema di welfare, e si
connoti per una situazione nel complesso meno critica nei confronti
di altre aree geografiche, i dati consentono di mettere in evidenza
come anche qui il fenomeno della precarietà si declini diversamente in
base al genere, con conseguenze più problematiche sulla componente
femminile.
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Quali sono dunque le strategie perseguibili per affrontare tale
asimmetria? La direzione intrapresa dalla Provincia Autonoma di
Trento, nell'intento di superare la difficile congiuntura economica e di
rilanciare l'economia, ha portato allo sviluppo del cosiddetto
“pacchetto anticrisi”, che ha previsto l'introduzione di politiche di
sostegno al reddito e di misure di contrasto alla povertà e di
promozione dell'occupazione; interventi a sostegno delle imprese;
azioni strutturali per la produttività e la competitività del sistema; una
manovra straordinaria sugli investimenti a sostegno della domanda
interna. Se da un lato risulta dunque opportuno continuare in questa
direzione, che rappresenta un importante segnale rispetto alla volontà
di sostenere gli individui intrappolati nella precarietà, dall’altro
appare necessario un ulteriore sforzo per sviluppare sistemi di
intervento che colgano gli specifici rischi connessi all'instabilità
lavorativa (a prescindere dall'età, dalla provenienza geografica, dal
titolo studio, dal lavoro svolto, ecc.) e che pongano particolare
attenzione alla dimensione di genere, al fine non solo di evitare i
rischi di consolidamento delle attuali asimmetrie, ma anche di far sì
che la componente femminile possa essere percepita come risorsa
cruciale per affrontare e superare l’attuale frangente di crisi.
Barbara Poggio
Coordinatrice del Centro Studi Interdisciplinari di Genere
dell’Università degli Studi di Trento
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1. Genere e precarietà:
traiettorie di ricerca possibili
e proposte di politiche
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1.1. I contributi presentati al convegno nazionale “Genere e Precarietà”
Come anticipato nell’introduzione, principale caratteristica di Genere e
Precarietà è stato lo spirito interdisciplinare ovvero il tentativo di
riflettere sulle connessioni tra precarietà e genere facendo ricorso a
prospettive, paradigmi interpretativi e metodi di indagine provenienti
da un prisma composito di discipline. Per questo motivo, il convegno
si è articolato – sia nelle sessioni plenarie che nelle sessioni parallele –
attorno a quattro chiavi di lettura del fenomeno in oggetto: una
prospettiva letterario-culturale, una prospettiva sociologica, una
prospettiva economica ed una prospettiva giuridico-istituzionale. Nel
corso della tavola rotonda che ha concluso le due giornate, invece, si è
cercato di stringere il fuoco avviando una conversazione a più voci
sull’analisi della precarietà lavorativa al tempo della crisi economica e
discutendo alcuni strumenti di intervento virtuosi implementati sul
territorio trentino.
In questa prima sezione del testo verrà offerta una panoramica delle
riflessioni più significative elaborate nel corso delle due giornate: in
primo luogo verranno ripercorse le analisi presentate nel corso delle
sessioni plenarie attraverso le chiavi di lettura sopraindicate ed una
sintesi degli elementi più significativi emersi nel corso delle sessioni
parallele. In secondo luogo, verrà presentato un resoconto dei
principali spunti emersi nel corso della tavola rotonda con particolare
attenzione agli strumenti creati per il contesto locale.
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1.1.1. Le sessioni plenarie: quattro chiavi di lettura per interpretare la
relazione tra genere e precarietà
All’interno delle due giornate di lavori hanno trovato spazio le
principali letture che sono state offerte rispetto alle dinamiche che si
innescano negli intrecci tra genere e precarietà e alle diverse
conseguenze sociali che ne derivano. Le sessioni plenarie sono state,
dunque, l’occasione per esplorare il tema della precarietà con approcci
e punti di vista differenti attraverso la voce di autorevoli studiose
italiane che hanno accettato l’invito del Centro Studi Interdisciplinari
di Genere a leggere la precarietà che caratterizza le società
contemporanee in un’ottica di genere: Clotilde Barbarulli per la
prospettiva letteraria, Chiara Saraceno per la prospettiva sociologica,
Manuela Samek Lodovici per la prospettiva economica e Donata
Gottardi per la prospettiva giuridico istituzionale.
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Clotilde Barbarulli: la prospettiva letteraria 1
Se dovessimo dare un titolo all’intervento di Barbarulli potrebbe
essere: una sfida alla precarietà attraverso un casa di carta in divenire .
L’intervento di Barbarulli, infatti, ha offerto delle chiavi interpretative
per identificare le trasformazioni, e con esse i drammi, prodotti dalla
crescente precarizzazione sociale, ma anche una bussola per orientarsi
in quelle forme di resistenza – la letteratura prima di tutte – che si
oppongono ad essa. L’interpretazione di precarietà delineata da
Barbarulli, in linea con il taglio del convegno, è molto ampia e
include, a fianco della precarietà lavorativa, la generale condizione di
precarietà imposta dalla guerra globale e dal fenomeno delle
migrazioni. Sono, dunque, il clima di guerra permanente e le disparità
tra i paesi che costringono le persone a migrare le due caratteristiche
salienti della contemporaneità secondo l’autrice e sono proprio questi
fenomeni che più c’interrogano a trovare delle chiavi di analisi, ma
anche di resistenza al presente. L’instabilità del lavoro e la mancanza
di diritti, infatti, impone non solo una precarietà delle condizioni di
vita materiale, ma anche una forma di egemonia culturale, “una
cultura dell’eterno presente collocata nelle certezze del canone”, una
cultura che ha l’arroganza della doxa e si basa su un’informazione
studiata per occultare i dubbi, per alimentare paure e incertezze
1
Clotilde Barbarulli, italianista, svolge la sua attività di ricerca al CNR presso
l’Istituto dell’Opera del Vocabolario Italiano dell’Accademia della Crusca a Firenze,
è rappresentate di una realtà associativa particolarmente significativa per il
femminismo italiano quale “Il giardino dei ciliegi” di Firenze e ha dedicato le sue
ricerche alle autrici dell’ottocento e del novecento con particolare attenzione per le
scrittrici migranti. Fa parte del comitato organizzatore dei laboratori estivi di pratica
interculturale RACCONTAR/SI che si tengono a Villa Fiorelli a Prato e nel 2007
sono giunti alla sesta edizione. Ha curato con Liana Borghi le pubblicazioni che ne
raccolgono i lavori, tra cui ricordiamo Visioni in/sostenibili. Genere e intercultura (CUEC
2003) e Forme della diversità. Genere, precarietà e intercultura (CUEC 2006).
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offuscando la complessità e la ricchezza del reale.
Di fronte a questo scenario, Barbarulli suggerisce una via di uscita per
comprendere e decostruire la precarietà incombente: interrogare la
letteratura poiché essa può mettere in discussione la doxa e il canone e
offrirci degli spaccati di analisi e di esperienze solitamente assenti dal
discorso dominante. Nel corso del suo intervento, quindi, Barbarulli
ha offerto un viaggio nei testi di alcune autrici migranti – meglio
definibili come autrici a cavallo tra lingue e culture – provenienti
dall’Africa, dal Medio Oriente, dalla Ex-Yugoslavia, dall’Est Europa:
si tratta di autrici che scrivono in uno spazio letterario che Barbarulli
ha definito “poroso” capaci di oltrepassare il canone letterario poiché
il canone, così come la società odierna, può essere escludente e deve
essere sfidato. Si tratta di storie di donne che raccontano esperienze
diverse: esperienze di partenza dal proprio paese di provenienza, di
viaggi dolorosi e difficili, di arrivi in Italia altrettanto faticosi, ma
sono anche storie di sfida, di viaggi entro se stesse per comprendere il
presente sociale nel quale ci si trova a vivere, storie di resistenza alla
precarietà sociale imposta dal neo-liberismo su scala globale. Secondo
Barbarulli, infatti, nella dispersione che porta la migrazione, queste
contro-narrazioni hanno la possibilità di riscrivere il luogo e l’identità,
possono offrire una casa di carta in divenire. Senza dimenticare la
materialità delle ingiustizie e delle sofferenze prodotte dai processi in
atto, queste narrazioni offrono la possibilità di passare dalla precarietà
imposta
dal
neo-liberismo
ad
una
precarietà
di
molteplici
appartenenze, di soggettività cangianti, identità in movimento che
aprono uno spazio di ridefinizione della società attuale verso una
società giusta.
Barbarulli, dunque, ci invita a prendere in considerazione il nesso tra
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poetica e politica, quello spazio dove il simbolico si intreccia con
l’esperienza con il potere di modificarla. Uno spazio spesso svelato da
queste autrici tra lingue e culture attraverso l’ironia che permette di
distanziare il presente, di renderlo meno doloroso, ma anche di farne
una critica sociale poiché – come ricorda Barbarulli – l’ironia è “una
forma di resistenza ai paradigmi dominanti che svela il conflitto tra
visioni del mondo differenti”. Secondo la studiosa, dunque, queste
scritture di passaggio, femminili e migranti, sono in grado di sfidare
l’immobilità dell’eterno presente alla ricerca di una lingua fuori dalle
lingue capace di raccontare le soggettività precarie, sono scritture
utopiche contro ogni precarietà, “per ritrovare dentro la parola una
casa di carta in divenire, dove si sogna e dove si inventano nuovi mondi
di giustizia e di libertà, perché la casa di parola ha la porta aperta
verso spazi in cui transitare, interrogarsi, rifiutare ogni logica di
dominio e di esclusione, convivere fra diverse storie incrociate”.
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Chiara Saraceno: la prospettiva sociologica2
La prospettiva sociologica alla lettura del nesso tra genere e precarietà
è stata offerta dall’intervento di Chiara Saraceno. La studiosa ha
offerto un’analisi ad ampio spettro del fenomeno della precarietà in
ottica di genere concentrandosi su due aspetti in particolare: la
precarietà coniugale e le trasformazioni nella partecipazione di
uomini e donne al mercato del lavoro. Se, parlando di precarietà,
l’attenzione è sempre indirizzata primariamente al MdL, nelle società
contemporanee, secondo Saraceno, è necessario svolgere lo sguardo a
un ulteriore elemento di precarietà ovvero il modificarsi delle
relazioni di coppia. Se, infatti, il welfare state dei paesi occidentali era
organizzato attorno ad una continuità di lavoro per tutta la vita, lo era
altrettanto attorno ad una relazione matrimoniale per tutta la vita. Il
contratto sociale del dopoguerra su cui si sono rette (e parzialmente si
reggono ancora) le società occidentali, infatti, è fondato sulla
divisione di competenze tra famiglia e lavoro e, per essere efficace,
necessita di stabilità: detto in altri termini affinché questo patto
permetta alla donne e ai bambini di avere accesso al reddito
(beneficiando della posizione del marito e padre nel Mdl) e agli
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Chiara Saraceno, sociologa, ha iniziato la sua carriera accademica all’università di
Trento dove è rimasta fino ai primi anni ’90 per poi spostarsi alla Facoltà di Scienze
Politiche di Torino in qualità di professore ordinario di Sociologia della famiglia. A
fianco dell’impegno accademico, ha svolto numerosi incarichi istituzionali tra cui
ricordiamo la presidenza della Commissione di indagine sull'esclusione sociale dal
1999 al 2001 e la partecipazione come rappresentante dell'Italia al Social Protection
Commitee della Unione Europea dal 2000 al 2001. Attualmente è professore di ricerca
al Wissenschaftzentrum fur Sozialforschung di Berlino e si occupa di temi che riguardano
la famiglia, i rapporti tra le generazioni, i rapporti e le disuguaglianze di genere, la
povertà e sistemi di welfare. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: Genere. La costruzione
sociale del femminile e del maschile (con S. Picone Stella, Il Mulino 1996) Sociologia della
Famiglia (Il Mulino 2007) e Families, ageing and social policies (a cura di, Edward Elgar
Publishing 2008).
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uomini di avere accesso alla cura (beneficiando del lavoro di cura a
completo carico della moglie) è necessaria sia una stabilità lavorativa
che una stabilità coniugale. Il modello di lavoro definito fordista –
basato su un modello di lavoratore maschio, unico percettore di
reddito, con un contratto di lavoro prevalentemente subordinato e a
tempo indeterminato e full-time, che occupa in modo stabile e
continuato la medesima posizione nel MdL – che ora mostra la sua
inadeguatezza rispetto alle nuove configurazioni del mondo del
lavoro, presupponeva anche un preciso modello di famiglia e un
diverso “investimento” tra donne e uomini nella sfera produttiva e
riproduttiva. Sottolinea Saraceno, infatti, come le donne abbiano
storicamente investito di più nella famiglia in termini di sicurezza
sociale e di progetto di vita, mentre gli uomini abbiano da sempre
avuto un investimento maggiore nell’ambito del lavoro. Ed è proprio
questo diverso investimento nelle due sfere della vita produttiva e
riproduttiva a esporre uomini e donne non solo a maggiore o minore
rischio di vulnerabilità sociale, ma a rischi qualitativamente differenti.
Il rischio di cadere in povertà, per esempio, per le donne è
maggiormente connesso alla conclusione del legame matrimoniale
poiché, a fronte di un investimento maggiore in questa sfera, una
volta conclusa la relazione di coppia si concludono anche i benefici,
sia economici che di sicurezza sociale, ad essa connessi. Gli uomini,
invece, corrono un rischio di povertà direttamente connesso con la
loro permanenza o meno all’interno del mercato del lavoro, ma non
incorrono in rischi connessi alla conclusione del rapporto di coppia.
In questo senso, dunque, il rischio di povertà per le donne e i bambini
è connesso all’instabilità coniugale e, come in un circolo vizioso, le
possibilità delle donne di uscire dalla povertà sono ancora connesse
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all’inizio di un nuovo rapporto di coppia ovvero alla stessa causa che
le ha condotte ad una situazione di povertà.
Delineato questo scenario, Saraceno ha invitato a riflettere su come e
quanto esso si sia modificato. Di fronte alla convinzione diffusa che
questo modello sia profondamente cambiato e che lo scenario attuale
sia completamente nuovo, infatti, la studiosa invita a riflettere meglio
sulla dimensione del tempo: a quale tempo facciamo riferimento
quando diciamo che “un tempo” le condizioni di vita relazionale e di
lavoro erano diverse? Se prendiamo in considerazione un orizzonte
temporale breve – indicativamente dal secondo dopoguerra agli anni
’70 – è indubbio che vi sia stato un radicale processo di
stabilizzazione su entrambi i fronti. Sul fronte coniugale, infatti,
diminuendo la mortalità, nel periodo considerato i matrimoni
avevano una durata notevolmente maggiore rispetto a quelli della
generazione
precedente.
Tuttavia,
allargando
l’orizzonte
alle
generazioni ancora precedenti ritroviamo una situazione di instabilità
coniugale quantitativamente simile a quella attuale, seppure
qualitativamente differente poiché l’una era dovuta alle minori
aspettative di vita, mentre lo scenario coniugale attuale è ricondotto
alla possibilità di scegliere di interrompere il proprio rapporto di
coppia. Allo stesso modo, nel mercato del lavoro, la radicale novità
dello scenario contemporaneo viene scalfita nel momento in cui
prendiamo in considerazione, per esempio, lo scenario dell’immediato
dopoguerra dove la precarietà era la norma del mercato del lavoro. E’
interessante notare, però, sottolinea Saraceno, come la nostra
percezione di fronte all’instabilità del matrimonio venga ricondotta
all’universo della libera scelta, mentre di fronte alla precarietà del
lavoro si fa riferimento alla costrizione.
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Saraceno, dunque, introduce un ulteriore elemento nell’analisi della
precarietà contemporanea ovvero l’universo simbolico entro cui
questo fenomeno si inserisce. Ciò che si è maggiormente modificato,
infatti, è l’orizzonte entro il quale collochiamo le nostre aspettative.
Nel passato recente il lavoratore standard seppur faceva ingresso nel
mercato del lavoro con una situazione occupazionale precaria, aveva
non solo la certezza materiale di essere sulla strada della
stabilizzazione, ma si collocava in una cornice simbolica che
legittimava e sosteneva questo desiderio. Oggi, invece, seppure le
transizioni alla stabilità continuino a essere più alte di quanto si pensi,
la cornice simbolica si è modificata e non solo la narrazione
dominante invita a non investire su un progetto lavorativo stabile, ma
anche a non desiderarlo. Oltre allo scenario temporale, poi, Saraceno
invita a problematizzare lo spazio geografico nel quale conduciamo
queste riflessioni: esse, infatti, sono valide per l’Europa e per gli Stati
Uniti, ma sono completamente inadeguate nel momento in cui
volgiamo lo sguardo al mondo in senso più ampio e a quei paesi dove
la mortalità è ancora elevata, le migrazioni coinvolgono numeri
ingenti, i modelli di genere sono ancora estremamente tradizionali.
Dopo questa riflessione sulla relazione tra trasformazioni dei modelli
di coppia e trasformazioni del mercato del lavoro in una prospettiva
temporale ampia, Saraceno ha posto l’attenzione sulle “miopie” in
termini di genere con cui si analizza lo scenario contemporaneo, con
una particolare attenzione per la posizione occupata dalle donne in
queste trasformazioni. Per comprendere lo scenario del lavoro
contemporaneo non è sufficiente guardare alla de-standardizzazione
dei contratti, ma all’altra grande trasformazione ovvero l’ingresso di
massa delle donne nel lavoro retribuito. Esso, infatti, ha modificato la
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relazione tra lavoro e non lavoro ovvero quella distinzione netta tra
produzione e riproduzione per com’era stata stabilita nel cosiddetto
contratto sociale del dopoguerra. Non solo, infatti, molte lavoratrici
con carichi familiari si trovano nella situazione di dover negoziare i
confini e i tempi di queste due sfere, ma, in linea di principio, anche i
lavoratori maschi che storicamente non dovevano farlo, e le stesse
aziende, non possono più contare su un modello organizzativo che si
faceva carico esclusivamente della dimensione del reddito delegando
completamente alla sfera domestica i carichi di cura. Non è cambiato
solo il mercato del lavoro, ma il sistema famiglia-lavoro e, dunque,
l’interdipendenza tra lavoro pagato e lavoro non pagato. In un certo
senso, i lavoratori possono sempre meno delegare il lavoro
riproduttivo ad altre, non possono più “contare sulla moglie” quale
istituzione che rendeva possibile presentarsi ed essere competitivi sul
mercato del lavoro. Ciò detto, però, Saraceno sottolinea come queste
trasformazioni continuino ad avere effetti maggiormente negativi sulle
donne. Da un lato,
i modelli di genere prevalenti rendono le
lavoratrici precarie più vulnerabili dei colleghi maschi, le condizioni
di precarietà contrattuale le escludono dalle protezioni standard, ma,
soprattutto, vengono escluse – di principio e di fatto – da quelle forme
di protezione e di garanzia specifiche della condizione di lavoratrici
ovvero le forme di tutela legate alla maternità. Dall’altro, anche le
donne che si trovano in situazioni di coppia e di lavoro tradizionale
non possono più godere della stabilità di un tempo poiché il
breadwinner stesso non può più contare sulla solidità del proprio posto
di lavoro e, per converso, la homemaker non è più garantita
dall’istituzione del matrimonio.
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Manuela Samek Lodovici: la prospettiva economica3
L’intervento di Manuela Samek Lodovici ha fornito un quadro
interpretativo di taglio economico per comprendere come e quanto la
precarietà si distribuisce in modi diversi tra uomini e donne e a quali e
diversi esiti porti sia in termini di precarietà del lavoro che, in senso
più ampio, di precarietà dell’esistenza.
Il punto di partenza per esplorare le attuali condizioni del Mercato del
Lavoro e le disuguaglianze di genere che lo sottendono, secondo
Samek, è l’analisi del modello di flexicurity ovvero quel modello di
politiche del lavoro di matrice danese che combina flessibilità
occupazionale del mercato del lavoro a forti garanzie di sicurezza
sociale per lavoratori e lavoratrici come le politiche di sostegno al
reddito durante le transizioni tra lavori diversi o politiche di
riqualificazione e formazione professionale. Sebbene, infatti, questo
modello sia preso ad esempio da molti paesi europei, inclusa l’Italia,
per essere compreso ed implementato in maniera efficace, anche sotto
il profilo delle differenze di genere, è necessario soffermarsi a riflettere
su alcune questioni aperte: quali sono i confini tra flessibilità e
precarietà? Come si distribuiscono flessibilità e sicurezza nella
popolazione? Quali sono gli effetti sulla popolazione femminile?
3
Manuela Samek Lodovici, economista, è presidente dell’IRS – Istituto di Ricerca
Sociale – dove è anche direttore dell'Area Mercato del lavoro e relazioni industriali e
dell'Area Politiche per le imprese. Professore incaricato di Economia del Lavoro
presso l'Università Cattaneo (LIUC) di Castellanza e il Dipartimento di Sociologia
dell'Università di Milano-Bicocca, insegna inoltre Economia dell'Istruzione presso
l'Università Cattolica di Milano. Le principali attività di ricerca riguardano l'analisi
comparata delle tendenze del mercato del lavoro e dei sistemi di regolazione del
lavoro, la valutazione delle politiche del lavoro e di pari opportunità. Tra le principali
pubblicazioni segnaliamo: Le forme del lavoro. L’occupazione non standard: Italia e
Lombardia nel contesto europeo (con R. Semenza, Franco Angeli 2001) e Il lavoro parttime. Anomalie del caso italiano nel quadro europeo (con R. Semenza, Franco Angeli
2004).
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In primo luogo, infatti, nel lavoro flessibile vi sono delle opportunità e
dei rischi: da un lato, infatti, il farsi flessibile del mercato del lavoro ha
accresciuto il contenuto occupazionale della crescita, reso più veloci i
tempi di aggiustamento dell’occupazione al ciclo e aumentato le
opportunità di ingresso nel MdL a quei gruppi sociali che
tradizionalmente hanno difficoltà ad entrarvi come le donne e i
giovani. Dall’altro, però, ha aumentato la segmentazione nel mercato
del lavoro proprio per questi gruppi sociali: detto in altri termini se i
contratti atipici hanno reso più facile l’ingresso nel MdL, allo stesso
tempo aumentano il rischio di rimanere intrappolati in forme
contrattuali discontinue e a basso reddito se non si riesce entro un
periodo relativamente breve a transitare verso la stabilità sia
contrattuale che di percorso professionale crescente e con reddito
continuativo. In questo senso, la definizione di precarietà va
considerata sotto due dimensioni: la prima è connessa al superamento
dell’instabilità del lavoro e del reddito, sia nei termini dell’ottenimento
di una posizione contrattuale a tempo indeterminato, ma anche di un
percorso lavorativo in grado di garantire continuità e crescita del
reddito. Il contratto part-time, per esempio, seppur di tipo
indeterminato, pone delle questioni di precarietà di reddito poiché
non sempre garantisce la possibilità di piena autonomia economica.
La seconda, invece, riguarda il grado di volontarietà del proprio
percorso professionale ovvero quanto la scelta di essere occupati con
un contratto temporaneo o a tempo parziale dipenda da un proprio
desiderio o dall’assenza di alternative sul mercato del lavoro. In
questo senso, sempre il part-time, spesso rappresenta una “non-scelta”
per quelle donne giovani che avrebbero un pieno investimento sul
piano professionale, ma che non trovano altri spazi, se non questo, per
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inserirsi nel MdL. Queste due dimensioni, sottolinea poi Samek,
vanno considerate in relazione alle altre variabili sociali che
influiscono sulle proprie possibilità di ingresso e di permanenza nel
mercato del lavoro come l’età, il background familiare, il livello di
istruzione, il contesto geografico di residenza e, chiaramente il genere.
Se, infatti, guardiamo alla dimensione della precarietà in ottica di
genere, i dati mostrano come vi sia un’ineguale distribuzione di
flessibilità e sicurezza sociale tra uomini e donne. Se è vero, infatti,
nota Samek, che negli ultimi decenni è aumentata moltissimo la
partecipazione femminile, soprattutto di giovani donne, al MdL, essa
si è tradotta in una sovra-rappresentazione delle donne nel lavoro
flessibile e nel lavoro flessibile non volontario: nelle forme più
saltuarie e meno professionalizzanti, spesso nelle posizioni meno
qualificate e nei lavori a reddito più basso e, al sud, nel lavoro nero.
Nel 2008, per esempio, la quota di lavoro flessibile sull’occupazione
era pari a 37,5% per le donne rispetto al 13.3% per gli uomini. Si
tratta, dunque, di una flessibilità che espone le donne a percorsi
professionali meno stabili, a minore reddito e con meno prospettive di
sviluppo.
In Italia l’incidenza di lavoro temporaneo tra donne e uomini è più
elevata dell’Europa a 15 e, se per gli uomini si configura come una
forma di entrata nel MdL (come nel caso dei contratti di
apprendistato), per le donne si tratta di una forma “stabilmente
precaria” ovvero di forme di lavoro occasionale, discontinuo o di
sostituzione che non hanno l’esito di tradursi in una forma di lavoro
stabile. Se, infatti, si scende nel dettaglio delle forme contrattuali e sul
piano delle motivazioni, i dati mostrano che le donne sono impiegate
soprattutto in collaborazioni mono-committenza, con minore
25
retribuzione e con una minore volontarietà, anche a fronte di titoli di
studio molto elevati. Inoltre, le donne hanno una maggiore
permanenza in lavori temporanei o a tempo determinato e questo
significa una minore possibilità di uscire da questa condizione
transitando verso lavori a tempo pieno o a tempo indeterminato
nonché una maggiore probabilità di transitare da un lavoro
temporaneo verso la non-occupazione o la disoccupazione.
A fianco del lavoro temporaneo, poi, sotto il profilo del genere è
particolarmente interessante il lavoro a tempo parziale: in questo caso
i tassi di occupazione femminile part-time sono più bassi di quelli
dell’EU a 15, ma sono molto più alti i casi di non volontarietà di
questa scelta per le donne rispetto agli uomini. In questo caso, infatti,
se si scende nel dettaglio delle motivazioni le donne portano la
necessità di conciliazione dei carichi familiari come motivazione
principale, mentre gli uomini riconducono questa scelta al desiderio di
dedicare un tempo minore al lavoro o di conciliarlo con percorsi di
studio. In assenza di servizi per la cura, dunque, la decisione di
lavorare part-time si mostra come una forma di costrizione indiretta
basata su precisi modelli di genere di divisione del lavoro riproduttivo
piuttosto che come una libera scelta professionale.
A fronte di questo scenario, sostiene Samek, la questione, dunque,
non è soltanto il numero di donne presenti nel mercato del lavoro, ma
la qualità di questa presenza: queste disuguaglianze di genere nel
mercato del lavoro, infatti, condannano spesso le donne a rimanere il
lavoratore secondario della coppia, a non avere una piena autonomia
economica (né per se stesse né per i propri figli, soprattutto in caso di
divorzio) e, anche, ad avere un minore potere contrattuale nelle
decisioni familiari sull’allocazione delle risorse.
26
A questo scenario, infine, si aggiunge una minore protezione per le
donne dal sistema di sicurezza sociale che, anche a fronte di una
destandardizzazione dei percorsi lavorativi, si basa ancora sulla
continuità lavorativa esponendole a un maggiore rischio di povertà.
Per sicurezza sociale, nota Samek, però non è da intendersi solamente
la contribuzione a scopi pensionistici, ma anche le politiche attive di
sostegno alle transizioni, all’inserimento lavorativo e la formazione
continua in cui le donne sono significativamente meno coinvolte degli
uomini e, soprattutto, le politiche per implementare i servizi di cura. Il
pilastro della sicurezza sociale per rendere il modello di flexicurity
sostenibile, infatti, deve presupporre dei servizi per la cura che
permettano alle donne di sganciare il proprio percorso professionale
dai carichi familiari.
Per affrontare la nuova configurazione del mercato del lavoro,
dunque, è necessario, sostiene Samek, che la valorizzazione
dell’occupazione femminile diventi una priorità della politica
economica del paese ovvero trovare le risorse per investire nei servizi
di cura, incentivare una domanda di lavoro qualificata (sia sotto il
profilo del reddito, che della posizione contrattuale che del contenuto
del lavoro) per le donne e sostenere le transizioni tra i lavori e tra
lavoro e non lavoro. Da questo, non trarrebbero vantaggio
esclusivamente le donne, ma il paese nel suo complesso: l’aumento
del numero delle lavoratrici, infatti, aumenterebbe le entrate fiscali e
diminuirebbe le spese assistenziali poiché le donne avrebbero una
pensione sufficiente a garantire loro l’autonomia economica,
aumenterebbe i consumi e, più in generale, la crescita economica
poiché avremmo risorse istruite a cui attingere e, non in ultimo,
aumenterebbe la natalità. Per fare questo, conclude Samek, in primo
27
luogo è necessario rivedere la composizione della spesa sociale: se la
qualificazione dell’occupazione femminile diventa una priorità, è
necessario che le spese per i servizi di cura diventino un obiettivo delle
politiche economiche, per esempio dirottando parte delle spese per le
pensioni negli scarsi investimenti fatti per le politiche sulla famiglia.
In secondo luogo, è necessario coinvolgere le aziende stesse, per
esempio promuovendo la costituzione di un fondo per la parità di
trattamento da utilizzare per azioni di incentivo all’occupazione
femminile, alimentato sia dalle sanzioni fatte alle aziende che
discriminano che da percentuali di fatturato vincolate a questa
specifica azione.
28
Donata Gottardi: la prospettiva giuridico-istituzionale4
L’intervento di Donata Gottardi ha permesso di inquadrare il
fenomeno della precarietà in ottica di genere con una prospettiva
giuridico-istituzionale ed un’attenzione particolare per il contesto
europeo. Il primo aspetto su cui la giurista ha focalizzato l'attenzione
è la dimensione della maternità quale causa principale della precarietà
delle donne nel MdL. Da un lato, infatti, è con la nascita dei figli, e
con il conseguente aumento del lavoro di cura, che sorgono reali
problemi nel proprio percorso professionale e che le donne si trovano
ad affrontare situazioni di perdita del posto di lavoro, di difficoltà di
rientro dopo un periodo di assenza prolungata dal MdL o di
discriminazione. Se, infatti, il MdL italiano è caratterizzato da una
forte precarietà, lo è altrettanto da una forte rigidità per quello che
riguarda la possibilità di entrata e di uscita, anche dopo periodi lunghi
e non solo di transizione da un lavoro ad un altro, e la possibilità di
rinegoziare le proprie scelte di investimento tra cura e lavoro nel corso
della propria vita. Dall’altro lato, però, sottolinea Gottardi, la
maternità ha una rilevanza simbolica in quanto percepita come cifra
della presenza delle donne nel mercato del lavoro. Detto in altri
termini, vi sono delle discriminazioni che hanno luogo nel momento
della effettiva maternità e altre che sono connesse “alla potenzialità”
4
Donata Gottardi, giurista, è docente ordinaria di Diritto del lavoro presso la Facoltà
di Giurisprudenza all’Università di Verona dove è responsabile scientifica del progetto
IRIDE di tele-lavoro dell'Università di Verona, coordina l’Osservatorio sulle
trasformazioni del lavoro (O.T.L.A.), finanziato dal Comune di Verona e dirige il
Centro di ricerca in Responsabilità sociale di impresa (Ce.R.S.I.). Nella scorsa
legislatura è stata parlamentare europeo partecipando alle commissioni per i problemi
economici e monetari, per l’occupazione e affari sociali e per i diritti della donna e
uguaglianza di genere. Ha pubblicato numerosi articoli su riviste socio-giuridiche e
testi, tra cui segnaliamo: Lavori e precarietà, il rovescio del lavoro (con Bortone e
Damiano, Editori Riuniti 2004).
29
delle donne di diventare madri indipendentemente dai loro concreti
progetti di vita: si pensi per esempio alle prassi, nei colloqui di
assunzione in merito, di indagare i progetti procreativi della candidata
che, seppur vietati dalla legge sulla privacy e da quella antidiscriminazione, rimangono un’esperienza diffusa per le giovani
donne che si affacciano sul mercato del lavoro. Su questo aspetto, poi,
Gottardi nota come la vulnerabilità della maternità non si realizzi
solo nei lavori discontinui, ma anche nei lavori standard. Vi è, infatti,
una forma di precarietà connessa alla maternità nel lavoro
subordinato tradizionale che si moltiplica in quei soggetti precari che
hanno lavori discontinui.
Successivamente, Gottardi ha discusso due casi di intervento
normativo a livello europeo connessi alla presenza delle donne nel
mercato del lavoro per sottolineare come si tratti di riflessioni che si
muovono su un terreno scivoloso costretto tra la necessità di
promuovere “delle politiche della differenza” che sostengano il lavoro
femminile e quella di non rafforzare e consolidare gli stereotipi di
genere che spesso informano le politiche pubbliche. Ha, dunque,
analizzato
due
procedimenti
giuridici,
l’uno
connesso
alla
conciliazione e l’altro connesso alla valorizzazione del lavoro di cura,
per fornire un quadro europeo delle possibili strade giuridiche da
percorrere per realizzare normative giuste ed efficaci. In primo luogo,
ha illustrato un procedimento virtuoso condotto dal Parlamento
Europeo per impedire l’approvazione della normativa sui tempi di
lavoro proposta dalla Commissione Europea. La normativa, infatti,
prevedeva l’aumento dell’orario di lavoro fino a sessanta ore
settimanali su base trimestrale (ovvero una media di dieci ore al
giorno su sei giorni a settimana) e la considerazione del “tempo di
30
guardia inattivo” ovvero del tempo a disposizione del datore di lavoro
sul luogo di lavoro senza mansioni effettive come tempo non
calcolabile per la retribuzione. Si tratta, dunque, di una normativa
che, se approvata, avrebbe danneggiato profondamente la forza lavoro
femminile in particolare per l’impossibilità di competere con tempi di
lavoro così dilatati nel momento in cui si hanno anche carichi
familiari. In merito a questa decisione, Gottardi ha sottolineato come
il Parlamento Europeo abbia rifiutato la normativa – per la prima
volta dal trattato di Amsterdam – utilizzando come argomentazione
l’impossibilità della conciliazione ovvero l’impossibilità a fronte di
questa legge da un lato delle donne di conciliare tempi di vita e tempi
di lavoro, dall’altro degli uomini di modificare il proprio investimento
sul lavoro per farsi carico di parte del lavoro familiare.
In secondo luogo, ha discusso le linee guida sul patto tra generazioni
sul lavoro di cura elaborate all’interno della Commissione Donne del
Parlamento Europeo. Si trattava di un testo che, alla sua origine, aveva
l’intenzione di promuovere la valorizzazione del lavoro di cura svolto
dalle donne tanto da proporne il suo inserimento tra gli elementi di
valutazione del PIL dei paesi dell’UE. Al momento della sua
approvazione, però, ricorda Gottardi, la Commissione Donne ha
deciso di modificarne profondamente il contenuto a fronte dell’allora
presidenza di turno dell’UE – la Repubblica Ceca – che annoverava
negli obiettivi del suo mandato, la valorizzazione della maternità e
della cura come strategia per incentivare le donne a dedicarsi alla
famiglia e a non entrare nel MdL. In questo senso, dunque, si tratta di
normative a doppio taglio che, seppur pensate in principio come
strumenti di promozione della parità e di valorizzazione delle
differenze di genere, rischiano di tradursi in ulteriori processi di
31
consolidamento dei ruoli tradizionali, ingabbiando ulteriormente i
percorsi professionali ed esistenziali delle donne.
In
conclusione,
Gottardi
ha
suggerito
che
per
intervenire
efficacemente su queste dimensioni è necessario da un lato presidiare
le normative in vigore (come la legge anti-discriminazione o la legge
sulla conciliazione) adoperandosi per trovare strumenti giuridici che
permettano di renderle pienamente effettive. Dall’altro è necessario
adottare una prospettiva interdisciplinare non solo di analisi, ma
anche di intervento ovvero affrontare le trasformazioni del mondo del
lavoro nella loro complessità, valutando il concatenarsi dei diversi
dispositivi che le innescano e possono essere in grado di agire una
trasformazione di segno positivo: le trasformazioni dei modelli
organizzativi, le scelte di politica economica, gli interventi normativi,
le trasformazioni delle relazioni di genere.
32
1.1.2. Le sessioni parallele
A fianco delle sessioni plenarie, che hanno fornito un quadro
interpretativo ampio per leggere la relazione tra genere e precarietà,
sono state organizzate cinque sessioni parallele per articolare una
conversazione interdisciplinare approfondita su traiettorie di ricerca
specifiche. Nel corso delle sessioni sono stati discussi più di trenta
diversi contributi presentati da studiose e studiosi provenienti dalle
maggiori università italiane a testimonianza della ricchezza e della
salienza del tema nel dibattito accademico e sociale contemporaneo.
Per motivi di ordine narrativo, non ci è possibile riportare tutte le
molteplici riflessioni elaborate durante le sessioni parallele, di cui
riporteremo sinteticamente gli aspetti maggiormente significativi e il
titolo dei contributi presentati. Tuttavia, è possibile visionare il libro
degli abstract e i contributi per esteso presentati in ciascuna sessione
nella sezione “Atti del Convegno” del sito di Genere e Precarietà5.
Discorso e Rappresentazioni
Attraverso una cornice interpretativa ampia, la sessione “Discorso e
Rappresentazioni” è stata l’occasione per riflettere sulle implicazioni
simboliche, culturali e iconografiche della precarietà attraverso una
prospettiva di genere. Si è discusso, dunque, degli aspetti culturali e
simbolici della precarietà del mondo del lavoro, ma anche degli
sconfinamenti di essa in altre sfere della vita degli individui, quali le
relazioni interpersonali, fino alla discussione della precarietà dei corpi
5
http://events.unitn.it/genereprecarieta/atti-del-convegno
33
come sfida allo statuto dicotomico dei generi. In particolare, alcuni
contributi hanno posto l’accento sulle rappresentazioni della
precarietà e sulle possibilità di trasformazione sociale insite nella
creazione di nuovi linguaggi sia verbali che iconografici per parlare di
lavoro. Altri si sono focalizzati sulle narrazioni della precarietà (e
sulla precarietà come narrazione collettiva) esplorando come il
configurarsi di questo nuovo scenario si traduca anche nella creazione
di nuovi discorsi per rendere conto delle trasformazioni sociali in atto.
Altri ancora hanno interrogato il farsi precarie delle relazioni di
genere stesse esplorando come il cinema e la letteratura offrano spunti
particolarmente
interessanti
per
rendere
conto
di
queste
trasformazioni.
In particolare, nel corso della sessione sono stati presentati i seguenti
contributi:

Stefania Cavagnoli (Università di Macerata) e Elena Ioriatti
Ferrari (Università di Trento): Linguaggio giuridico, genere e
precarietà.Attila Bruni e Giulia Selmi (Università di Trento): Da
San Precario a Wonder Queen: rappresentazioni di genere nell'attivismo
precario italiano.

Caterina Satta (Università di Padova) e Elisa Bertolotti
(Politecnico di Milano): "La pancia che non c'è": corporeità e
desiderio nel lavoro intellettuale precario.

Annamarina Franceschi: Genere e precarietà: gli indiani d'America
raccontati da Joy Harjo.

Denis Giordano (Università di Trento): La narrazione della
precarietà: strumento di conoscenza e di condivisione di pratiche.

Antonia De Vita (Università di Verona): I giorni e i lavori. Ipotesi di
donne per sporgersi sul cambiamento.
34

Stephanie Knauss (Fondazione Bruno Kessler): Precarious
Differences: the Dissolution of Boundaries between Genders.
L’esperienza della precarietà
Nella sessione L’esperienza della precarietà si sono avvicendati contributi
che hanno permesso di esplorare come l’attuale configurazione
sociale incida diversamente sulle esperienze di uomini e donne. I
contributi presentati si sono concentrati su una molteplicità di aspetti
della precarietà: dalla precarietà lavorativa, a quella legata ai vissuti di
migrazione, al rapporto tra precarietà e conciliazione tra diversi
ambiti di vita, alla precarietà insita nei nuovi modelli di costruzione
del corpo. Nelle relazioni presentate, sebbene in diversi casi si sia
invitato ad evitare una rappresentazione vittimizzante e passiva del
lavoratore e della lavoratrice precaria, al contempo sono state messe
in evidenza le maggiori implicazioni critiche che i nuovi assetti di
lavoro tendono ad avere per la componente femminile. In particolare,
una dimensione richiamata in molti contributi è stata quella
dell’identità: l’identità deterritorializzata del biocapitalismo, l’identità
delle donne immigrate resa precaria dai riconoscimenti mancati, le
narrazioni e i posizionamenti identitari emergenti nelle storie di
uomini e donne precarie nella tensione tra tempo di lavoro e tempo di
non lavoro. Seppur con fuochi di analisi differenti, dunque, i
contributi presentati hanno suggerito che l’esperienza della precarietà
sfidi i modelli identitari dominanti e richieda una loro ridefinizione,
anche rispetto ai processi di costruzione identitaria di genere.
In particolare, nel corso della sessione sono stati presentati i seguenti
contributi:
35

Annalisa Murgia (Università di Trento): Racconti di mo(n)di
precari. Posizionamenti di genere in/stabili nel mercato del lavoro
contemporaneo.

Rete Precas: Segreti e Bugie. Le precarie dei saperi (dentro e fuori dal
mondo accademico) ovvero: come essere visibili ma nascondere lavori
inconciliabili con lo status di studiose.

Margherita Sabrina Perra (Università di Cagliari): Famiglia e
relazioni sociali nelle esperienze delle donne immigrate. Il riconoscimento
come antidoto alla precarietà.

Cristina Morini: Corpi precari nel biocapitalismo.

Renato Fontana (Università La Sapienza di Roma): Il corpo come
merce. Come cambiano le condizioni della transazione.

Sonia Bertolini (Università di Torino): Genere e precarietà tra lavoro
e famiglia: percezioni, aspettative e strategie delle giovani donne.

Nicola De Luigi e Alessandro Martelli (Università di Bologna):
Transizioni di genere fra tradizione, innovazione e precarietà.

Rosy Musumeci (Università di Torino): Il lavoro delle donne tra
precarietà occupazionale e vita di coppia in una città meridionale.
Il quadro giuridico e istituzionale
Nel corso della sessione sono state prese in considerazione varie
sfaccettature relative alla dimensione normativa, con specifico
interesse all’ambito lavorativo (sicurezza, salute, conciliazione,
congedi parentali), ma anche ampliando lo sguardo a questioni più
ampie, come ad esempio quella delle unioni di fatto. Sono stati inoltre
presi in considerazione alcuni dispositivi normativi utili per affrontare
il problema della precarietà, quali il sostegno al reddito, le misure in
36
materia di congedi, gli strumenti per favorire la flessibilità oraria e
discusse le politiche – ad oggi piuttosto deboli ed insufficienti –
attuate in Italia per contrastare questo fenomeno.
In particolare, nel corso della sessione sono stati presentati i seguenti
contributi:

Teresa Pasquino (Università di Trento): Le unioni di fatto tra norme
giuridiche e prassi giurisprudenziale.

Gisella De Simone (Università di Genova): The dark side of job
security (Precarietà vs stabilità, ma quale stabilità?).

Eleonora Stenico (Consigliera di Parità, Provincia di Trento): I
contratti di lavoro “precari” e la difficile tutela della maternità.

Roberta Nunin (Università di Trieste): Precarietà e tutela della
salute e sicurezza sul lavoro: una riflessione di genere.

Stefania Brun (Università di Trento): Il tempo di lavoro “scelto”:
una debole e incerta tutela nelle recenti riforme legislative.

Andrea Villa (Università di Firenze): Il diritto di accedere al lavoro.

Francesca Torelli (Università di Venezia): Parità di trattamento
nella fruizione dei congedi parentali: un diritto funzionale alla
conciliazione e alla presenza stabile della donna nel mercato del lavoro.

Fabiola Fontana (Università di Padova): Tempi di vita e di lavoro:
la conciliazione nel lavoro autonomo alla luce della normativa
comunitaria, nazionale e della regione Friuli Venezia Giulia.
Il quadro economico
Nella sessione sono stati presentati una serie di contributi basati
sull’analisi di dati quantitativi relativi alla composizione di genere del
mercato del lavoro e all’intreccio tra altre variabili: in particolare è
37
stato esplorato come le differenze di genere incidano nelle diverse
tipologie di lavoro flessibile e sul lavoro a tempo parziale, sul diverso
rischio di precarietà corso da uomini e donne, sui differenziali
salariali nonché sulle scelte familiari e riproduttive.
In particolare, nel corso della sessione sono stati presentati i seguenti
contributi:

Stefani Scherer (Università di Trento): Flexible employment and its
consequences. When men flexibilise the labour market and women have
to pay the costs.

Sara Corradini, (Università degli Studi di Napoli Federico II):
Donne e lavoro nero nella periferia nord di Napoli.

Paola Ungaro e Liana Verzicco (Istat): La precarietà nel mercato del
lavoro qualificato: un confronto tra percorsi professionali maschili e
femminili dei diplomati di scuola secondaria superiore e dei laureati
italiani.

Tindara Addabbo (Università di Modena e Reggio Emilia) e
Donata Favaro (Università di Padova): Part-time and temporary
employment: reasons and implications in a gender perspective.

Luisa De Vita e Katia Santomieri (Università La Sapienza di
Roma): Quando il lavoro part-time incontra la precarietà.

Giovanni S. F. Bruno (Università Bocconi) e Orietta Dessy
(Università Cattolica di Milano): Segregazione di genere e
differenziali salariali in Italia: un’analisi sui dati ‘matched employeremployee’.

Paolo Barbieri e Rossella Bozzon (Università di Trento): Does a
Latin model exist? The relation between partial and targeted labor
market deregulation and fertility postponement in Italy and Spain.
38
Welfare e Politiche sociali
All’interno della sessione “Welfare e Politiche Sociali” si sono discussi
lavori che hanno messo in evidenza la difficoltà che le persone con figli
incontrano nel conciliare le responsabilità familiari con gli impegni
professionali, tanto più in una situazione di precarietà lavorativa. In
particolare i contributi si sono focalizzati sulle nuove situazioni di rischio
in cui possono incorrere uomini e donne e a cui le politiche sociali
appaiono rispondere in maniera poco o per niente soddisfacente. Nel
loro complesso, i contributi discussi hanno messo in evidenza tre punti
rilevanti: in primo luogo, la rilevanza dell’Unione Europea nel
condizionare il dibattito italiano e soprattutto nel sollecitare interventi
(anche e non solo) in materia di conciliazione tra famiglia e lavoro; in
secondo luogo, il muro invisibile che separa il Nord dal Sud Italia e la
necessità che anche le politiche sociali siano trasferite sotto la
responsabilità del governo locale assieme ad adeguate risorse fiscali,
evitando tuttavia di aumentare il divario e le disuguaglianze tra diverse
aree del paese; in terzo luogo, la controversa relazione tra norme e
comportamento, tra regolamentazione di comportamenti sociali e la loro
creazione attraverso le politiche. In particolare, nel corso della sessione
sono stati presentati i seguenti contributi:

Rossella Ciccia (Università La Sapienza di Roma): Il mercato del
lavoro tra cura e welfare state: regimi di conciliazione famiglia-lavoro in
Europa.

Egidio Riva (Università Cattolica di Milano): La conciliazione ai
tempi della crisi.

Roberto Rizza e Mila Sansavini (Università di Bologna): Donne e
lavoro flessibile: rappresentazioni del femminile e conseguenze in termini
39
di politiche work-life balance.

Rita Palidda (Università di Catania): Diversamente atipiche,
Disuguaglianze di genere e costi delle flessibilità.

Anna Simonati (Università di Trento): Il gender auditing come
strumento di valutazione delle politiche di genere.

Emiliana Armano (Università statale di Milano - Sistema
Informativo
Attività
Produttive)
e
Barbara
Chiavarino
(Associazione datoriale Casartigiani Torino): Collaboratrici e
coadiuvanti famigliari: la rappresentazione del precariato all’ombra delle
imprese familiari artigiane piemontesi, fra valore e vulnerabilità.
40
1.1.3. Genere e precarietà ai tempi della crisi: tavola rotonda conclusiva
Il convegno si è chiuso con una tavola rotonda in cui è stata affrontata
la questione dell’impatto della crisi economica sui fenomeni della
precarietà, mettendo in luce le diverse conseguenze su donne e
uomini e focalizzando le riflessioni sul territorio trentino. Questa
conversazione a più voci, moderata da Silvia Gherardi, professore
ordinario di Sociologia del lavoro e membro della Commissione Pari
Opportunità della Provincia Autonoma di Trento, ha visto la
partecipazione di Giovanna Altieri, direttore dell’IRES, di Michele
Colasanto, Presidente dell’Agenzia del Lavoro di Trento, di Laura
Castegnaro, direttore dell’ufficio Programmazione e Coordinamento
del Servizio Politiche Sociali e Abitative della Provincia Autonoma di
Trento e di Paola Villa, professore ordinario di Economia del lavoro
dell’Università di Trento.
Ha aperto la tavola rotonda Giovanna Altieri che ha fornito una
lettura di genere del mercato del lavoro italiano a fronte dell’attuale
crisi economica. In primo luogo, Altieri ha delineato un quadro della
condizione dell’attuale mercato del lavoro in linea di continuità con le
riflessioni articolate in altri interventi nel corso del convegno. Ha
sottolineato, infatti, come le due grandi trasformazioni degli ultimi
quindici anni sono sia la destandardizzazione del lavoro e la
proliferazione di lavori temporanei sia l’ingresso in massa delle donne
nel MdL e come le donne siano maggiormente rappresentate in lavori
precari e con scarse tutele di sicurezza sociale. Seppure le occupazioni
flessibili hanno offerto maggiori occasioni di lavoro alla popolazione
femminile, allo stesso tempo sono state l’elemento che ha bloccato la
crescita e la qualificazione della presenza delle donne nel MdL. Nel
41
momento in cui, infatti, i lavori temporanei sono accompagnati da
redditi bassi, da discontinuità, da assenza di garanzie per la maternità,
essi promuovono l’uscita dal MdL delle stesse donne a cui queste
tipologie di contratti avevano offerto una porta di ingresso, nonché
contribuiscono a consolidare i modelli tradizionali di genere sulla
divisione sociale del lavoro.
Come ha inciso su questo scenario l’attuale crisi economica? Come
noto, sostiene Altieri, in linea generale la crisi ha ridotto
l’occupazione per tutti, uomini e donne, si è ridotta soprattutto
l’occupazione temporanea, a fronte di una tenuta dell’occupazione a
tempo indeterminato sia per gli uomini che per le donne. Tuttavia,
assumendo una lente di genere, emergono alcuni elementi
interessanti: in primo luogo è interessante notare come, mentre tra gli
uomini crescono i tassi di disoccupazione, tra le donne la crisi ha
portato a una crescita dell’inattività. In secondo luogo, mentre si è
ridotta l’occupazione dei cittadini italiani, l’occupazione di persone
straniere si è mantenuta a livelli simili, in particolare l’occupazione
per quelle donne straniere impiegate in lavori di cura a conferma del
bisogno delle famiglie di servizi per la cura della persona. Altamente
penalizzati, invece, sono stati i giovani impiegati con contratti
temporanei, di cui le donne sono la parte più consistente, che si
trovano a pagare il costo più alto dell’attuale situazione del mercato
del lavoro. Inoltre, se la crisi produce una crescita generale del tasso di
inattività, è interessante notare come incida diversamente sulla vita di
uomini e donne: gli uomini, infatti, a fronte della mancata offerta di
lavoro spesso ripiegano sullo studio e sulla formazione per
riqualificarsi e tentare un nuovo ingresso nel MdL. Le donne, invece,
a fronte della difficoltà, si ritirano dal MdL per farsi carico del lavoro
42
familiare finendo con il riprodurre ancora di più i modelli tradizionali
di divisione sociale del lavoro. Come sottolineato da altri interventi
nel corso delle due giornate, dunque, anche Altieri ha posto l’accento
sull’importanza di implementare strumenti di sicurezza sociale che
permettano alle donne di non rimanere schiacchiate tra il desiderio (e,
in tempi di crisi, sempre più la necessità) di avere una posizione nel
mercato del lavoro e il carico del lavoro familiare. Non solo nell’ottica
di qualificare la presenza femminile nel MdL, ma anche come
strategia per scardinare i ruoli di genere e la tradizionale divisione
sociale del lavoro.
Dopo il quadro interpretativo fornito da Altieri, la parola è passata a
Michele Colasanto che ha declinato la relazione tra genere e
precarietà in tempi di crisi a partire dal contesto locale della provincia
di Trento. A fronte della crisi economica e più in generale nel MdL
trentino, Colasanto ha rilevato una condizione di relativo vantaggio e
di controtendenza rispetto alla situazione nazionale. I dati
amministrativi del territorio a disposizione dell’Agenzia del Lavoro,
infatti, mostrano che a pagare il prezzo più alto della crisi ad oggi
sono gli uomini per i quali vi sono maggiori licenziamenti, mentre le
donne conservano maggiormente il proprio posto di lavoro ed hanno
maggiori occasioni di assunzione. Nonostante la crisi, infatti, il
territorio trentino continua a mantenere una situazione occupazionale
favorevole accompagnata da una solidità delle istituzioni, una
sociabilità ovvero un sistema di relazioni sociali virtuose capace di
attivare esperienze di aiuto formale e informale nonché un sistema di
politiche sociali forti che permette forme di sostegno sia generali che
specifiche in tempo di crisi economica, come il sostegno al reddito. La
specificità del territorio trentino, dunque, è connessa all’investimento
43
ingente di risorse nelle politiche attive sul lavoro, su specifiche misure
anti-crisi e su politiche volte a promuovere la parità di uomini e donne
nel MdL: si tratta di dispositivi ad hoc che vanno dal sostegno alle
transizioni tra lavoro e non lavoro, al reddito per la cassa integrazione,
al progetto Audit Famiglia e Lavoro che si propone di certificare le
aziende che promuovono forme di conciliazione tra tempi di vita e
tempi di lavoro. In questo senso, sostiene Colasanto, il modello
trentino è un modello virtuoso ed esportabile che ha mostrato di aver
investito nel lungo periodo in politiche efficaci capaci sia di ridurre le
disuguaglianze presenti nel MdL, sia attraverso questo di promuovere
delle trasformazioni sociali più ampie nei modelli di genere e di
divisione sociale del lavoro.
Dopo l’intervento di Colasanto, la parola è passata a Laura
Castegnaro che ha illustrato un dispositivo, elaborato dalla Provincia
Autonoma di Trento all’interno delle misure anti-crisi, di sostegno a
persone che si trovano in gravi difficoltà economiche. Si tratta di un
reddito di garanzia elaborato a livello nazionale, ma che poche realtà
– tra cui la Provincia Autonoma di Trento – sono riuscite ad oggi a
rendere operativo. Si tratta di un dispositivo con due funzioni: una
funzione anticongiunturale volta a dare una risposta veloce ed efficace
all’attuale crisi economica e una funzione strutturale perché il reddito
di garanzia sostituisce il precedente “minimo vitale” e dunque si
configura come uno strumento che, sul lungo periodo, ha l’obiettivo
di contrastare la povertà dei diversi attori sociali nel territorio trentino.
Dal punto di vista operativo, il reddito di garanzia è un’erogazione
monetaria che integra il reddito familiare a partire da una scala di
idoneità basata sull’ICEF ovvero sulla valutazione trentina della
condizione economica delle famiglie residenti nella provincia di
44
Trento. Il dispositivo, ha illustrato Castegnaro, prevede due forme di
attribuzione, l’una automatica e l’altra subordinata alla valutazione
dei servizi sociali. La prima risponde a un bisogno esclusivamente
economico e prevede sostanzialmente che i componenti delle famiglie
che ne fanno richiesta rientrino nei parametri ICEF elaborati dalla
Provincia, siano residenti in provincia di Trento da almeno tre anni e
si rendano immediatamente disponibili alla ricerca attiva del lavoro.
Si tratta, dunque, di un dispositivo strettamente connesso al lavoro
che sposa l’idea di workfare elaborata anche su scala nazionale ovvero
subordinare
gli
aiuti
agli
individui
in
difficoltà
alla
responsabilizzazione e alla disponibilità a reinserirsi nel mercato del
lavoro non appena vi è una concreta possibilità. Si tratta di un
contributo che può essere erogato per quattro volte per un massimo di
quattro mesi ciascuna nell’arco di due anni, il cui rinnovo prevede la
verifica delle condizioni di difficoltà economica che avevano
determinato la richiesta la prima volta. A questa modalità di
attribuzione ordinaria ne è stata affiancata un’altra, gestita in concerto
con i servizi di assistenza sociale, per riuscire ad intercettare e
rispondere ai bisogni di coloro che sono fuori dal mercato del lavoro e
che presentano bisogni di tipo sociale a fianco di quelli di tipo
economico. In questo caso, l’attribuzione del reddito minimo è
subordinata a una verifica dei servizi sociali e prevede un piano
personalizzato di intervento elaborato dai servizi sociali nei casi in cui
ve ne sia necessità. Sia i tempi che le modalità di erogazione sono
quindi maggiormente flessibili e permettono ai servizi sociali di tarare
l’intervento sui diversi casi specifici. In entrambe le situazioni, poi, è
stato inserito un meccanismo premiante nei casi in cui la persona inizi
a lavorare nel corso del periodo in cui gode del reddito di garanzia e
45
conservi il lavoro per almeno dodici mesi continuativi: si tratta,
dunque, di un dispositivo pensato come aiuto non solo al reddito in
senso stretto, ma come incentivo a trovare e mantenere un lavoro nel
territorio locale.
Infine, ha concluso la tavola rotonda l’intervento di Paola Villa che
dopo il focus specifico sul contesto trentino e sulle politiche possibili
per contrastare la precarietà ha riallargato lo sguardo offrendo alcune
considerazioni conclusive di carattere più generale. L’intervento di
Villa si è focalizzato sull’incidenza della crisi tra uomini e donne:
nella rappresentazione mediatica (e non solo) della crisi, infatti, è
diventata nozione comune che la crisi abbia colpito di più i lavoratori
uomini poiché i tassi disoccupazione maschile si sono alzati
notevolmente. Tuttavia, sostiene Villa, se si volge lo sguardo oltre la
dinamica della disoccupazione e si guarda ai redditi e alle sicurezze
sociali, emerge come per le donne sia molto più bassa la probabilità di
godere di integrazioni del reddito poiché, come è stato ricordato più
volte nel corso del convegno, le donne sono collocate in posizioni
meno protette ovvero in lavori che per le loro caratteristiche
contrattuali non danno accesso alle forme di protezione sociale. Se,
dunque, la crisi colpisce direttamente gli uomini in maniera più
visibile, nello scenario italiano dove le grandi riforme del MdL non
hanno mai seriamente preso in considerazione una ridefinizione degli
ammortizzatori sociali, la crisi colpisce molto di più le donne e la loro
richiesta di autonomia economica. Allo stesso tempo, la crisi colpisce
il reddito e il potere di acquisto della famiglia e, in questo senso,
penalizza le donne non solo all’interno del MdL, ma anche nel
contesto familiare nel quale, a fronte di una diminuzione della
capacità di acquistare servizi all’esterno, aumenta la richiesta di
46
erogazione di tempo per servizi interni alla famiglia di cui sono le
donne a farsi carico. In questo senso, nota Villa, lo strumento
elaborato sul territorio trentino, si configura come una strategia
efficace per fornire a tutti, e quindi anche alle donne che ne fanno
richiesta, una possibilità di autonomia economica e di contrasto alla
povertà. Si tratta, infatti, di un dispositivo di tipo strutturale e non
saltuario (a differenza dei dispositivi una tantum proposti dal governo)
che può permettere non solo di affrontare periodi di recessione
economica come quello attuale, ma anche di contrastare gli effetti
collaterali della flessibilità rendendola una condizione del mercato del
lavoro che non incide su tutte le altre dimensioni della qualità della
vita.
La discussione degli strumenti elaborati sul territorio trentino ci
traghetta alla seconda sezione di questo testo dove verranno proposte
alcune chiavi di analisi delle molteplici relazioni tra genere e
precarietà, che saranno affiancate dalla presentazione dei dati sulla
precarietà del mercato del lavoro trentino in ottica di genere e
dall’elaborazione di alcuni spunti di riflessione per implementare
politiche di contrasto.
47
48
2. Genere e precarietà:
sfide e trasformazioni
del mondo del lavoro
49
50
2.1. Il lavoro contemporaneo in ottica di genere
Gli studi sulle trasformazioni del lavoro contemporaneo mettono in
luce lo sviluppo di nuove forme di organizzazione del lavoro nei paesi
a capitalismo avanzato. Nell’interpretazione di tali trasformazioni i
diversi
contributi
sottolineano
aspetti
differenti
e
a
volte
contraddittori, ma concordano sul fatto che ci troviamo in una fase
storica di passaggio, nella quale il lavoro e l’organizzazione sociale si
stanno ridefinendo.
La società in cui viviamo si distingue in particolare per la perdita di
alcune caratteristiche di stabilità: nei tempi del lavoro (oggi i lavori
diventano parziali, a tempo determinato, a progetto, somministrati, in
affitto, on call), nelle retribuzioni, nei percorsi professionali, nelle
garanzie e nelle tutele dei diritti, nella stessa localizzazione fisica. In
virtù dei cambiamenti tecnologici e delle trasformazioni dell’impresa,
infatti, il lavoro non è più collocabile esclusivamente in quei luoghi
della produzione fisicamente definiti (la fabbrica, l’ufficio), che sono
stati
storicamente
luoghi
di
costruzione
di
identità
sociali
relativamente stabili, in parte anche identificabili con determinate
identità politiche. In linea generale, tali caratteristiche di stabilità sono
state a lungo identificate con il lavoro dell’epoca cosiddetta fordista,
intesa come una forma sociale di organizzazione della produzione e
della riproduzione, dal momento che, intorno al lavoro stabile, che
consisteva anche in una istituzionalizzazione e standardizzazione dei
cicli di vita, ruotava e si fondava l’organizzazione del welfare state
(Curli 2004). Il fordismo è stato infatti impiegato come concetto
generale con cui rappresentare non solo i modelli di produzione, ma
un intero ordine sociale (Crouch 2001), organizzato sugli schemi di
51
produzione taylorista e sulla contrattazione collettiva, sulle politiche
keynesiane e sulla complementare estensione dei sistemi di assistenza
sociale. Sebbene nella realtà storica non si sia concretamente
verificata una reciproca integrazione tra gli elementi richiamati, le
interconnessioni e i legami istituzionali sono stati traslati nella
rappresentazione di un intero assetto economico e politico.
Al paradigma di produzione fordista corrispondeva inoltre una
specifica condizione, un modello di lavoratore e di relazioni sociali di
lavoro abbastanza stabile e omogeneo. Il tipo ideale era quello del
cosiddetto male breadwinner, un uomo adulto, padre di famiglia e unico
percettore di reddito, con un contratto di lavoro a carattere
prevalentemente subordinato, a tempo indeterminato e full-time il
quale, dopo una formazione professionale relativamente corta,
occupava in modo stabile e continuato lo stesso impiego nella stessa
impresa o almeno nello stesso settore professionale, fino al momento
della sua uscita dal mercato del lavoro (Supiot 1999).
È a partire dalla metà degli anni Settanta che il mondo del lavoro nei
paesi occidentali inizia progressivamente a cambiare la propria
struttura e fisionomia. Da un punto di vista economico, infatti, il
mercato dei prodotti di massa comincia a saturarsi comportando una
stagnazione imprevista della produzione e degli indici di crescita
economici
nazionali.
Allo
stesso
tempo
i
processi
d’internazionalizzazione dell’economia spingono a ridurre le barriere
alla libera circolazione dei capitali e delle merci. Viene avviata di
conseguenza una delocalizzazione di molte attività produttive di tipo
standardizzato in paesi a basso costo di manodopera, con lo scopo di
realizzare un risparmio sui costi di produzione. Contemporaneamente
le strategie d’impresa, alla ricerca da un lato della qualità e dall’altro
52
della competitività, cercano di adattare la produzione alle richieste
sempre più esigenti e personalizzate dei consumatori, con l’obiettivo
di eliminare le rigidità burocratiche e di snellire l’organizzazione
dell’azienda, in modo da rispondere alle sfide del mercato e alla
concorrenza.
Tali caratteristiche, che definiscono lo scenario economico dei paesi
occidentali, sono accompagnate da diversi processi di trasformazione
del lavoro contemporaneo, altrettanto complessi e articolati. Insieme
allo sviluppo di forme snelle di produzione, infatti, prende il
sopravvento l’economia immateriale della conoscenza, che richiede
un alto livello di capacità di tipo linguistico e comunicativo (Marazzi
1994, Virno 2001, 2004). In quest’ottica risultano centrali nel processo
produttivo le relazioni tra gli individui, i gruppi e le organizzazioni, lo
sviluppo delle conoscenze e l’accesso alle capacità di gestione di
transazioni di diverso tipo, comprese quelle cognitive, affettive,
ludiche e culturali (Moulier Boutang 2002, Gorz 2003). Assistiamo in
questo senso ad un progressivo ampliamento dei contenuti
relazionali, di creatività e di iniziativa personale, fenomeni
strettamente legati all’espansione della società dei servizi e alla
progressiva diffusione di nuove tecnologie ed in particolare delle ICT
(Bruni e Gherardi 2007).
Un ultimo aspetto delle trasformazioni del lavoro contemporaneo, legato
in particolare al processo di terziarizzazione, riguarda la cosiddetta
“femminilizzazione del mercato del lavoro” (Lash 1999, Adkins 2002). In
questo senso risulta evidente il fatto che la ridefinizione dell’assetto
economico, e più in generale del mondo del lavoro e dell’organizzazione
sociale, è stata caratterizzata da forti connotati di genere, per quanto
riguarda sia le realtà del lavoro, sia le sue rappresentazioni. Al punto che
53
questo passaggio da una società moderna ad una postmoderna viene
frequentemente descritto come uno spostamento della domanda da lavori
a tempo pieno, “maschili” e manifatturieri, a lavori part-time, “femminili”
e nei servizi (Crompton 1999, Hobson 2000). Con la presunta
“femminilizzazione del mercato del lavoro” (Lash 1999, Adkins 2002) in
letteratura si intende, da un lato, l’elevato incremento della partecipazione
delle donne al lavoro retribuito (una delle tendenze maggiormente evidenti
degli ultimi trent’anni) e la diffusione della loro presenza nei settori
tradizionalmente considerati maschili (Fontana 2002, Gherardi e Poggio
2003), dall’altro, l’acquisita importanza nella nuova economia di capacità
di tipo comunicativo e relazionale (Marazzi 1994, Borderías et al. 2000),
ritenendo che tali competenze siano “naturalmente” possedute dalle
donne. Il concetto di femminilizzazione è stato peraltro spesso utilizzato
per dar conto della precarizzazione e della progressiva flessibilizzazione
del lavoro contemporaneo, indipendentemente dal sesso di lavoratori e
lavoratrici: Beck (1999) parla ad esempio di “femminilizzazione del
lavoro” per descrivere non l’entrata delle donne nel lavoro retribuito, ma il
fenomeno dell’ingresso degli uomini nei lavori precari. Questa categoria
mette quindi in luce il persistere nei rapporti professionali di specifiche
forme di mascolinità, egemoniche e dominanti rispetto alle altre possibili,
maschili o femminili (Alvesson e Billing 1992, Collinson e Hearn 1994),
secondo cui le caratteristiche associate alla femminilità vengono svalutate,
negate o non riconosciute (Acker 1992, Davies 1996).
Sebbene le dinamiche che innescano discriminazioni di genere siano
da tempo riconosciute nell’analisi dei percorsi professionali di uomini
e donne, la diffusione del lavoro atipico ne ha accentuato alcune
caratteristiche, talvolta in maniera persino paradossale. A questi
specifici aspetti sarà dedicato il presente rapporto di ricerca.
54
2.2. Definire la flessibilità del lavoro
Nell'intento di fare chiarezza sul tema oggetto di analisi, cerchiamo in
primo luogo di comprende gli intrecci e i confini tra i concetti di
flessibilità e precarietà, spesso erroneamente sovrapposti nel dibattito
relativo alle diverse forme di lavoro temporaneo. Gli studi sociologici
sul lavoro hanno proposto numerose classificazioni rispetto alle forme
di flessibilità possibili (Atkinson 1984, Esping-Andersen e Regini
2000, Chiesi 2005), che possono essere così elencate:

flessibilità temporale, relativa all’orario di lavoro, che
riguarda non solo la possibilità di variare la durata della
prestazione a seconda delle esigenze della domanda, ma
soprattutto la collocazione della prestazione nell’arco della
giornata, del mese e dell’anno;

flessibilità
spaziale,
connessa
alla
frammentazione
dell’impresa sul territorio e alla riduzione della dimensione
aziendale. Si parla anche di placeless society (Gallino 2001),
proprio per indicare la fine della grande impresa, che delimitava
in maniera netta il luogo di lavoro, da quello privato della casa e
della famiglia. Sono molte le persone per cui il lavoro si svolge a
casa, in treno, in albergo o in autostrada;

flessibilità funzionale, che riguarda la facoltà del datore di
lavoro di spostare il/la lavoratore/trice su diverse posizioni
lavorative e mansioni, in funzione delle necessità delle
ristrutturazioni, dei flussi di produzione e dell’innovazione
tecnologica;
55

flessibilità salariale, relativa alla possibilità di variare la
retribuzione dell’unità di tempo lavorata, a seconda dei risultati
aziendali;

flessibilità numerica, che consiste nella possibilità di
licenziare o di non rinnovare il contratto.
Questa ultima forma di flessibilità fa quindi riferimento all’aspetto
contrattuale del rapporto di lavoro, ed è legata alla diffusione delle
tipologie contrattuali definite “atipiche”, in quanto si discostano dal
modello di lavoro considerato “tipico” e “standard”, a tempo pieno e
indeterminato: part-time 6, lavoro somministrato, apprendistato,
contratto di inserimento, lavoro a chiamata, ripartito, associazione in
partecipazione, collaborazione coordinata e continuativa, contratto a
progetto, ecc. La temporaneità del rapporto di lavoro, l'intermittenza
del reddito e le scarse tutele e garanzie associate a queste forme
contrattuali, sono alcuni degli aspetti che spesso determinano un
involontario scivolamento da una situazione di flessibilità a una
condizione percepita come precaria, non soltanto in termini
lavorativi, ma legati anche agli altri ambiti di vita sociali e personali.
6
Il lavoro a tempo parziale non può formalmente considerarsi un rapporto speciale,
in quanto la sua disciplina è modellata su quella del rapporto di lavoro a tempo pieno,
salvo alcune regole particolari richieste dalla riduzione quantitativa dell’orario di
lavoro. Viene considerato una categoria dei lavori atipici perché può rappresentare il
frutto di una strategia dell’impresa per tagliare i costi di lavoro e perché è una forma
di impiego occupata talvolta involontariamente, a causa dell’impossibilità di ottenere
un lavoro a tempo pieno.
56
2.3. La tipicità italiana dei lavori atipici
Come
precedentemente
sottolineato,
il
sistema
di
tutele
dell’occupazione dipendente stabile e in particolare la figura del male
breadwinner, hanno rappresentato in Italia, a partire dagli anni
Cinquanta, il cardine della costruzione del lavoro e dello stato sociale
italiano. Un uomo adulto, padre di famiglia e unico percettore di
reddito, con un contratto di lavoro prevalentemente di tipo
subordinato, a tempo pieno e indeterminato il quale, dopo una
formazione professionale relativamente corta, occupava in modo
stabile e continuato lo stesso impiego nella stessa impresa o almeno
nello stesso settore professionale, fino al momento della sua uscita dal
mercato del lavoro (Supiot 1999).
Tuttavia, come è stato ampiamente dimostrato dalla sociologia e
dall’economia del lavoro negli anni Ottanta e Novanta, a tale rigidità
si sono affiancate altre forme di flessibilità (Bagnasco 1988, Trigilia
1998, Reyneri 2002): la presenza di sistemi di piccole imprese
decentrate con minori vincoli all’assunzione e al licenziamento; la
larga diffusione del lavoro sommerso (che ha segnato tutta la fase di
sviluppo industriale del paese) e del lavoro autonomo (nelle sue
diverse
forme);
il
ricorso
ad
ammortizzatori
sociali
(cassa
integrazione, pre-pensionamenti, liste di mobilità), che hanno
facilitato la ristrutturazione e la riconversione industriale delle grandi
imprese, riducendo gli effetti della disoccupazione di massa. Le
imprese in Italia hanno inoltre sempre avuto dei buoni margini di
flessibilità nell’uso del tempo di lavoro, in particolare attraverso il
ricorso allo straordinario e al lavoro a turni, regolati essenzialmente
dalla contrattazione decentrata a livello di impresa. In altri termini,
57
alla presenza di vincoli in uscita e di scarse possibilità all’entrata, ha
fatto riscontro una buona flessibilità nell’utilizzo della prestazione di
lavoro (flessibilità funzionale combinata alla flessibilità temporale),
tale da rendere il sistema produttivo in grado di affrontare i
cambiamenti del mercato (Semenza 2004).
Dal punto di vista della regolazione del mercato del lavoro, in Italia il
quadro incomincia a cambiare in modo sostanziale all’inizio degli
anni Novanta attraverso una progressione di riforme, fino a quella più
recente del 2003. Sino a tempi recentissimi, in particolare dopo la
stipulazione dell’accordo tripartito del 23 luglio 1993 7 e del Patto per il
lavoro del settembre 19968 era però prevalso un modello di flessibilità
controllata, imperniato sul ruolo negoziale riconosciuto alle
organizzazioni dei lavoratori. Con la legge 24 giugno 1997, n. 196 (il
cosiddetto “pacchetto Treu”) le norme in materia di occupazione
iniziano invece ad orientarsi in maniera evidente verso una
liberalizzazione dell’utilizzo di forme contrattuali “atipiche”. In
particolare la legge rivisita in termini di maggior flessibilità istituti già
previsti nella precedente legislazione, quali il part-time, il contratto di
formazione e lavoro, l’apprendistato, l’orientamento e i lavori
socialmente utili, e consente, attraverso l’introduzione di una specifica
modalità, il cosiddetto lavoro interinale. Nel 2003 il quadro delle
fattispecie contrattuali ha ulteriormente e in modo radicale mutato la
sua configurazione: attraverso la sequenza rappresentata dalla
presentazione di un Libro Bianco (ottobre 2001), dal Patto per l’Italia,
7
Su tale accordo si posero le basi per una politica dei redditi funzionale
all’adeguamento dell’Italia ai parametri macro-economici richiesti dagli accordi di
Maastricht per l’adesione alla moneta unica europea.
8
Con il Patto per il lavoro del 24 settembre 1996, fortemente incentrato sulle dinamiche
occupazionali, prese corpo la riforma del collocamento (superamento del monopolio
pubblico, decentramento istituzionale, parziale apertura ai privati) e fu introdotto
nell’ordinamento il nuovo istituto del lavoro interinale.
58
dall’approvazione della legge delega del 14 febbraio 2003, n. 30 e dal
successivo decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, si è andata
tracciando la mappa di un mercato del lavoro molto diverso da quello
sino ad allora conosciuto. La recente riforma è, infatti, caratterizzata
da una miscela fatta di individualizzazione dei rapporti di lavoro, da
un forte incremento della precarietà e dall’emarginazione dei
sindacati nella gestione delle regole relative alle nuove tipologie
contrattuali
prefigurate,
con
esiti
agevolmente
prevedibili
di
accresciuta segmentazione del mercato del lavoro ed aumento delle
disuguaglianze e delle povertà (Roccella 2004).
Il mercato del lavoro italiano continua a differenziarsi dalla maggior
parte di quelli degli altri paesi dell’Unione Europea per la meno
accentuata diffusione del lavoro a tempo parziale (da qualche anno
comunque in crescita), soprattutto per il fatto che il lavoro atipico in
Italia ha riguardato sinora piuttosto il lavoro a tempo determinato,
nelle varie forme in cui esso può presentarsi.
Nel nuovo quadro regolamentare emerso con l’approvazione della
legge 30, il mercato del lavoro italiano risulta caratterizzato da ben 21
differenti rapporti di lavoro diversi dall’impiego “standard” i quali,
secondo la stabilità del contratto o della durata del regime orario,
possono essere applicati secondo 48 modalità diverse. Di queste, 34
possono essere valutate come pienamente atipiche, mentre le altre 14
possono essere considerate solo parzialmente atipiche. 28 modalità
diverse sono caratterizzate dall’assicurazione al lavoratore del
godimento di pieni diritti previdenziali, mentre altre 20 modalità
offrono una tutela previdenziale ridotta o nulla (Istat 2004).
Per una maggiore completezza si riporta il prospetto riassuntivo
proposto dall’Istat delle tipologie di lavoro introdotte o revisionate dal
59
decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, attuativo della delega
conferita con la legge 14 febbraio 2003, n. 30. Le varie forme
contrattuali
sono
state
raggruppate
secondo
quattro
aspetti
fondamentali: il carattere di stabilità del rapporto (permanente o
temporaneo), il regime dell’orario di lavoro (tempo pieno o parziale),
il riconoscimento (intero, ridotto o nullo) di diritti sociali derivanti
dalla relazione lavorativa, e la natura piena (celle a sfondo bianco) o
parziale (celle a sfondo grigio) dell’atipicità. Nello schema vengono
presi in considerazione anche il lavoro a domicilio e il telelavoro, che
non sono oggetto della recente riforma del mercato del lavoro, ma che
possono in qualche modo essere accostati agli altri rapporti di lavoro
“atipici”. Dal punto di vista economico-sociale costituiscono, infatti,
delle
strategie
imprenditoriali
di
decentramento
produttivo.
L’elemento di atipicità del lavoro a domicilio e del telelavoro è
ovviamente costituito principalmente dal luogo di svolgimento della
prestazione lavorativa.
60
Fig. 1 – Classificazione dei rapporti di lavoro atipici
RAPPORTI
DI LAVORO
Regime
Orario
Tempo
pieno
Permanente
Tempo
parziale
o orario
ridotto
Tempo
pieno
Temporaneo
Tempo
parziale
o orario
ridotto
Diritti sociali (previdenza)
Ridotti
Autonomi (di
Dipendenti
Dipendenti
fatto)
Pieni
Staff leasing
Lavoro a domicilio
Telelavoro
Staff leasing
Lavoro intermittente
Job sharing
Part-time a tempo
indeterminato
Lavoro a domicilio
Telelavoro
Contratto di
formazione e lavoro
Contratto a tempo
determinato
Lavoro
somministrato a
tempo determinato
Lavoro a domicilio
temporaneo
Telelavoro a termine
Lavoro stagionale
Contratto di
formazione e lavoro
Contratto a tempo
determinato
Lavoro
somministrato
Lavoro intermittente
Job sharing
Lavoro a domicilio
Telelavoro
Lavoro stagionale
Contratto di
inserimento
Stage
Tirocinio
estivo di
orientamento
Apprendistato
Co.co.co.
Lavoro a
progetto
Collaborazione
occasionale
Associazione in
partecipazione
Contratto di
inserimento
Stage
Tirocinio
estivo di
orientamento
Apprendistato
Co.co.co.
Lavoro a
progetto
Collaborazione
occasionale
Associazione in
partecipazione
Lavoro
accessorio
Fonte: Istat, “Dinamiche dell’occupazione, qualità del lavoro e
comportamenti individuali”, in Rapporto annuale. La situazione del
Paese nel 2003, Roma, cap. 4, pp. 207-313.
61
2.4. Il lavoro temporaneo a livello nazionale e locale
Come più volte messo in luce nel corso di questo lavoro, la
ridefinizione dell’assetto economico, e più in generale del mondo del
lavoro e dell’organizzazione sociale, è strettamente legata a nuove
dinamiche di segregazione occupazionale di genere. Nonostante i
processi di mutamento in corso, le dinamiche del mercato del lavoro
negli ultimi anni hanno consentito solo in piccola parte di colmare la
distanza ancora notevole che separa l’Italia dagli obiettivi dell’Unione
europea, vale a dire il raggiungimento, entro il 2010, di un tasso di
occupazione femminile del 60%. Se il tasso di occupazione maschile
risulta simile al resto d'Europa (70,3%, cioè 14.064.000 occupati),
quello femminile resta invece ampiamente al di sotto della media
degli altri paesi (47,2%, vale a dire 9.341.000 occupate) (Istat 2009).
Le donne partecipano quindi al lavoro retribuito in misura molto
minore rispetto agli uomini. Tuttavia, se prendiamo in considerazione
le occupazioni con contratti a termine, risulta evidente un'elevata
sovrarappresentazione della componente femminile.
Tab. 1 Occupazione per sesso (calcolata sull’occupazione dipendente) 2008
Tempo determinato
Tempo indeterminato
v.a.
%
v.a.
%
Uomini
3.123
48,2
22.011
55,8
Donne
3.352
51,8
16.583
44,2
Totale
6.475
100,0
38.594
100,0
Fonte: Istat, Rilevazione continua forze lavoro, 2009.
62
Si rilevano inoltre rilevanti differenze anche per quanto riguarda la
relazione tra l'instabilità del lavoro e i titoli di studio. Da un lato
emerge che le donne, quando dispongono di bassi livelli di istruzione,
hanno maggiori difficoltà rispetto agli uomini ad ottenere posti di
lavoro pienamente garantiti. Dall’altro, la loro scarsa presenza tra i
lavori atipici altamente qualificati sembra mostrare che anche le
lavoratrici con elevata formazione incontrano maggiori ostacoli nel
cogliere i risvolti positivi di alcune tipologie di lavoro flessibile
(Saraceno 2002, 2005, Semenza 2004). Si rileva in generale una
maggiore instabilità lavorativa per i/le giovani laureati/e, fatta
eccezione per coloro che sono inseriti da lungo periodo nel mercato
del lavoro.
Tab. 2 Occupazione per sesso e titolo di studio – 2008
Tempo determinato
Tempo indeterminato
Uomini
Donne
Uomini
Donne
Nessun titolo
19,1
20,2
80,9
79,8
Licenza elementare
14,8
19,9
85,2
80,1
Licenza media
12,2
18,2
87,8
81,8
Diploma 2-3 anni
11,9
12,5
88,1
87,5
Diploma 4-5 anni
12,1
15,3
87,9
84,7
Laurea triennale
32,0
38,7
68,0
61,3
Laurea specialistica
37,5
55,6
62,5
44,4
Laurea quadriennale
10,0
17,5
90,0
82,5
Master
12,4
26,7
87,6
73,3
Dottorato
14,0
21,9
86,0
78,1
Fonte: Istat, Rilevazione continua forze lavoro, 2009.
63
La sovrarappresentazione delle donne nel mercato del lavoro flessibile
rimarca inoltre l’asimmetria nella distribuzione dei compiti tra uomini
e donne, sia in ambito privato, sia professionale (Gherardi e Poggio
2003, Bertolini 2006). La temporaneità del contratto incide infatti non
solo sulla programmazione della propria vita lavorativa, ma anche di
quella privata (Fullin 2004), inducendo in particolare a cambiare i
rapporti di coppia (Salmieri 2006, Piccone Stella 2007), rimandare
convivenze e matrimoni (Blossfeld et al., 2005) e a posticipare la
nascita del primo figlio (Schizzerotto e Lucchini 2004).
Le differenze di genere nel mercato del lavoro risultano peraltro
particolarmente interessanti rispetto all'attuale crisi economica e
occupazionale. Come nelle passate recessioni, si sono persi più posti
di lavoro nei settori a prevalente occupazione maschile, cioè
manifattura, costruzioni e trasporti. Ma al quarto posto nella
classifica dei posti di lavoro persi troviamo il settore finanziario e
subito dopo settori prima protetti, come l’istruzione e la pubblica
amministrazione, in cui è particolarmente elevato il tasso di
occupazione femminile. Inoltre, nonostante il lavoro retribuito delle
donne sia stato relativamente meno colpito rispetto a quello degli
uomini, non altrettanto può dirsi per il lavoro non retribuito,
domestico e di cura, che cresce sia per compensare il calo complessivo
del reddito familiare, che per i tagli di budget a livello locale e
nazionale e la conseguente riduzione dei servizi sociali (Bettio, Smith
e Villa 2009). Le crescenti difficoltà nel trovare un impiego, che si
traducono in una maggiore permanenza nella disoccupazione e in
una diminuzione del tasso di uscita verso l’occupazione, stanno
provocando scoraggiamento, soprattutto nelle aree più svantaggiate.
Aumenta infatti il tasso di chi esce dalla disoccupazione verso
64
l’inattività, abbandonando quindi la ricerca di un lavoro.
In particolare, all'interno del quadro generale del mercato del lavoro,
uomini e donne con contratti a termine rappresentano il gruppo più
esposto ai rischi della crisi. Negli ultimi mesi del 2008, infatti, si è
registrata una caduta del numero di dipendenti temporanei: sono stati
proprio questi i primi a sperimentarne i costi, dato che al momento
della scadenza i contratti non sono stati rinnovati. Tali tipologie
contrattuali non hanno pertanto svolto un ruolo sostitutivo rispetto ad
altre forme di occupazione in una fase di crisi del mercato del lavoro;
ne sono state al contrario maggiormente colpite, come mostra
l’incremento dei tassi di uscita verso la disoccupazione. La riduzione
dei fabbisogni di manodopera e la forte incertezza hanno inoltre
spinto le imprese a ridurre anche gli orari di lavoro, facendo ricorso al
tempo parziale al posto del tempo pieno (Cnel 2009).
In sintesi, fino a tutto il 2008, la crisi ha interessato in particolar modo
alcuni profili occupazionali sia “standard”, sia atipici: il piccolo
lavoratore in proprio, l’operaio a tempo indeterminato nell’industria,
il collaboratore e la collaboratrice. Si tratta di figure molto eterogenee,
caratterizzate tra l’altro da diversi livelli di tutela. Per di più, il rischio
legato allo svolgimento di un lavoro temporaneo riguarda sempre più
anche gli occupati adulti, da molti anni presenti nel mercato del
lavoro, spesso con ruoli di responsabilità familiare (solo un quarto
degli atipici è alla prima esperienza di lavoro e nell’80% dei casi si
tratta di occupati con almeno 35 anni di età).
Nella distribuzione di genere dei ruoli occupazionali, nonostante la
crisi stia colpendo a prima vista in misura maggiore la componente
maschile, persistono delle profonde differenze di genere. Infatti, il
lavoro dipendente standard (a tempo pieno e indeterminato) coinvolge
65
per il 64,6% gli uomini e per il 35,4% donne, dati che arrivano
rispettivamente al 75,7% e 24,3% se si considera il lavoro autonomo
standard. La situazione cambia radicalmente se si considera il lavoro
parzialmente standard (lavoro a tempo parziale, sia autonomo che
dipendente a tempo indeterminato), in cui sono coinvolti il 20,3%
degli uomini e il 79,7% delle donne). Anche nel caso dei lavori atipici
(dipendenti con contratti a termine e collaboratori/trici) sono
maggiormente presenti le donne (51,7% a fronte del 48,3% degli
uomini) (Istat 2009).
Se dal quadro nazionale passiamo ad un'analisi focalizzata sul livello
locale, anche in provincia di Trento, da una prima analisi dei dati
disponibili sul lavoro atipico, sia esso autonomo o dipendente,
emergono delle ampie differenze di genere. Nonostante l’84,9%
dell’occupazione sia composta da rapporti alle dipendenze e a tempo
indeterminato, occorre rilevare che la presenza di lavori atipici risulta
superiore rispetto al Nord-Est, dove questi contratti incidono
sull’occupazione alle dipendenze per il 12,4%, e perfino rispetto alla
media nazionale, dove rappresentano il 13,3%. Se in parte tale
fenomeno è spiegabile con la forte incidenza del lavoro stagionale, è
tuttavia innegabile che da anni l'occupazione a termine abbia
acquistato un maggior peso, passando dal 12,9% del 2004 al 15,1%
del 2008 (Osservatorio del Mercato del Lavoro PAT, 2010).
66
Tab. 3 Occupazione per sesso temporanea (calcolata sull’occupazione alle
dipendenze) per settore di attività in provincia di Trento (2007-2008)
2007
2008
v.a.
%
v.a.
%
Uomini
500
32,5
600
31,8
Donne
500
63,6
400
56,9
Totale
1.000
43,4
1.000
38,3
Uomini
3.700
9,0
3.400
8,2
Donne
1.200
12,9
900
10,7
Totale
4.900
9,7
4.300
8,7
Uomini
6.500
12,6
7.200
14,2
Donne
14.700
21,6
14.200
19,3
Totale
21.300
17,7
21.400
17,2
Uomini
10.700
11,4
11.300
11,9
Donne
16.500
21,0
15.400
18,7
Totale
27.200
15,8
26.700
15,1
Agricoltura
Industria
Altre attività
Totale
Fonte: Osservatorio del Mercato del Lavoro PAT, 2010
Concentrandoci sull'analisi dei settori, considerando il mondo del
terziario, il più sviluppato nel mercato del lavoro locale, nel 2008 in
provincia di Trento ha lavorato con un contratto dipendente a termine
il 14,2% degli uomini e il 19,3% delle donne. Inoltre, se da un lato si
osserva una forte concentrazione del lavoro atipico nelle fasce di età
più giovani (45,2%), d'altra parte le donne risultano essere coinvolte in
67
forme di lavoro non standard molto più a lungo rispetto ai colleghi
uomini. Le donne tra i 25 e i 44 anni hanno un contratto atipico
(dipendente) nel 19,3% dei casi, a fronte del 10,5% degli uomini. Si
tratta peraltro delle fasce di età in cui sono maggiori i carichi familiari
e in cui si avrebbe maggiore necessità di accedere a strumenti di
conciliazione, quali la maternità o i congedi parentali, scarsamente
utilizzati da chi ha un lavoro a termine, sia per mancanza di diritti che
per paura di un mancato rinnovo contrattuale.
Tab. 4 Occupazione per sesso temporanea (calcolata sull’occupazione alle
dipendenze) per classe di età in provincia di Trento (2007-2008)
2007
2008
Uomini
Donne
Totale
Uomini
Donne
Totale
15-24
39,7
59,8
47,8
39,6
53,9
45,2
25-44
9,6
20,8
14,9
10,5
19,3
14,7
45-54
6,1
12,6
9,0
5,4
10,9
8,0
+55
7,5
8,0
7,7
9,8
8,1
9,0
Totale
11,4
21,0
15,8
11,9
18,7
15,1
Fonte: Osservatorio del Mercato del Lavoro PAT, 2010
Le dinamiche relative all'attuale crisi economica, anche in provincia
di Trento, necessitano una specifica lettura di genere dei fenomeni in
corso. Se in generale sono stati maggiormente colpiti gli uomini del
settore secondario e in particolare le persone straniere, non si deve
tralasciare il fatto che nell'industria a cadere di circa 1.000 unità è
stato proprio il lavoro delle donne, rilevando il permanere di una
condizione di maggiore debolezza, quantomeno all'interno di questo
68
settore.
A fronte di un calo di lavoratori nell'industria e nelle costruzioni, si
rileva invece una consistente crescita del settore terziario, che
coinvolge in misura maggiore le donne rispetto agli uomini. I servizi
restano tuttavia il settore che fa maggior uso del contratto a tempo
determinato. Occorre inoltre sottolineare che anche in Trentino, così
come a livello nazionale, diminuisce la componente pubblica (-15,3%,
con calo progressivo nel corso dell'anno).
Guardando alle forme contrattuali delle assunzioni nel mercato del
lavoro in provincia di Trento, nel 2008 si conferma l’andamento
positivo del contratto a tempo determinato, che rappresenta il 73,7%
del totale delle assunzioni, le quali sono avvenute nell'11% dei casi
con contratto a tempo indeterminato e nell'89% dei casi con
assunzioni a termine. In particolare, il tempo determinato, rispetto al
2007, ha registrato un incremento del 2,8%, portandosi a un totale di
101.829 assunzioni nel 2008. Analizzando la crescita di questo tipo di
contratto, se da un lato notiamo un aumento nel terziario, settore in
espansione anche in periodo di crisi economica e occupazionale,
dall'altro
si
rileva
un
andamento
negativo
sia
nel
settore
manifatturiero (-8,6%) che nelle costruzioni (-5%).
Sono invece in calo quasi tutte le altre forme contrattuali atipiche:
l'apprendistato subisce una diminuzione del 35,1% rispetto al 2007,
rappresentando solo il 5,5% delle assunzioni totali, e il lavoro
somministrato diminuisce dell'11,1%, soprattutto a causa della crisi
che ha investito industria e costruzioni. È in calo, d'altra parte, anche
il contratto a tempo indeterminato (-4%), con andamenti differenti tra
uomini (-10,4%) e donne (+4,7%).
Tab. 5 Occupazione per sesso e tipologia contrattuale in provincia di Trento
69
2008
Var. % 08/07
Uomini Donne
Totale Uomini Donne
Totale
Tempo indet.
7.901
6.735
14.636
-10,4
+4,7
-4,0
Tempo det.
44.820
57.009 101.829
+2,3
+3,2
+2,8
Somministrazione
6.443
4.616
11.059
-15,3
-4,3
-11,1
Apprendistato
4.399
3.218
7.617
-30,9
-40,0
-35,1
Altro
1.140
1.868
3.008
-21,8
-15,0
-17,7
Totale
64.703
73.446 138.149
-4,9
-0,9
-2,8
Fonte: Osservatorio del Mercato del Lavoro PAT, 2010
In generale si osserva un quadro negativo per l'occupazione, sia nella
maggior prudenza rispetto alle nuove
assunzioni, sia nella
diminuzione delle stabilizzazioni, vale a dire nella trasformazione di
contratti a termine in contratti a tempo indeterminato. Se si
considerano le stabilizzazioni comunicate ai Centri per l'Impiego
provinciali, tra il 2007 e il 2008 si è assistito ad una decrescita del
33,1% (da 6.849 a 4.582)
Risulta inoltre interessante sottolineare il forte aumento dei rapporti di
lavoro con maggiori caratteristiche di flessibilità. I dati disponibili per il
semestre del 2009 vedono le “altre forme contrattuali” passare da 395
assunzioni nel primo semestre del 2008 a 2.940 nello stesso periodo del
2009 (5,4% dell'occupazione totale). Si tratta soprattutto di contratti a
chiamata, probabilmente preferiti dalle imprese per la maggiore
flessibilità, sia rispetto alla durata, sia rispetto all'orario di lavoro.
In generale, cresce la richiesta di lavori ad orario ridotto. Lo stesso
contratto a tempo determinato aumenta solo nella modalità del tempo
parziale (nel 2008, su un totale di 31.136 assunzioni part-time, 26.289
sono contratti a termine). Se le assunzioni a tempo pieno
70
diminuiscono rispetto al 2007 (-4,5%), il part-time registra al contrario
un
andamento
positivo,
con
interessanti
tendenze
relative
all'andamento per sesso e per settore. Tra le donne, tradizionalmente
maggiormente coinvolte da questa forma contrattuale, si è registrato
un aumento del part-time del 7,9%, che arriva al 27,4% per gli
uomini, soprattutto nel settore privato (+8,2%), mentre si registra, in
generale, un minor utilizzo da parte del pubblico impiego (-13,6%).
Un'ultima dimensione dei rapporti di lavoro a termine da tenere in
considerazione riguarda il mondo dei parasuboradinati. Se in generale
non c'è stata una rilevante flessione come accaduto per gli altri
contratti a termine – fatta eccezione per il tempo determinato – vi
sono tuttavia delle differenze da evidenziare tra settore privato e
pubblico. Nel primo semestre del 2008 sono stati comunicati ai Centri
per l'Impiego 3.809 contratti (di associazione in partecipazione,
co.co.co., occasionali, a progetto), leggermente diminuiti nel corso
dell'anno, fino ad arrivare a 3.736 nello stesso periodo del 2009. Se
però si considera esclusivamente il pubblico impiego, si registra un
crollo da 670 del primo semestre del 2008 (297 uomini e 373 donne) a
176 (47 uomini e 129 donne) alla stessa data dell'anno successivo.
Il settore in cui queste forme contrattuali risultano maggiormente
presenti è senza dubbio il terziario (nel 94,5% dei casi nel 2008),
soprattutto il comparto dell'istruzione (31% del totale). Le fasce d'età
interessate sono soprattutto quelle più giovani e quelle centrali, con
delle interessanti differenze di genere. Gli uomini fino ai 45 anni
rappresentano il 65% del lavoro parasubordinato maschile, mentre le
donne della stessa fascia di età costituiscono ben l'80% del totale
femminile. Le minori tutele associate a un lavoro parasubordinato
sono peraltro un elemento che contribuisce alla maggior vulnerabilità
71
delle donne, non solo per la temporaneità del rapporto di lavoro, ma
anche per la difficoltà di costruire un progetto di vita, a partire dal
raggiungimento dell'autonomia economica, fino alla conquista
dell'indipendenza abitativa e alla messa in atto dei propri desideri di
vita privata, di coppia e/o di famiglia. Si ricorda in particolare la
quasi assoluta mancanza di tutela della maternità, de jure o de facto,
per le lavoratrici parasubordinate.
2.5. Lavoro flessibile e prospettive di conciliazione
Parlare di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro con riferimento
alla riforma del mercato del lavoro posta in essere dalla legge 14
febbraio 2003, n. 30 e dal suo decreto attuativo 10 settembre 2003, n.
276, è compito non facile. Dalla lettura del testo appare infatti con
chiarezza come nelle modifiche introdotte ad alcune tipologie
contrattuali – il lavoro interinale e il lavoro a tempo parziale, o alcuni
nuovi contratti di lavoro, come il contratto a chiamata o di
inserimento – manchi un’attenzione verso le esigenze di alcune
categorie di lavoratori, quali soggetti con carichi familiari. Anche il
part-time ha perso il suo carattere di orario “conciliativo” per
accentuare la sua valenza di orario modulare, adatto soprattutto ad
esigenze organizzative aziendali (Galantino 2005).
Già nel passaggio dal Libro Bianco alla legge delega si è assistito ad
un ridimensionamento del ruolo centrale del/la lavoratore/trice, per
lasciare spazio alle esigenze del mercato e delle imprese. Un esempio
in questo senso può ricavarsi dalla scomparsa, nel decreto attuativo, di
gran parte degli intenti legati alle politiche di pari opportunità, alle
quali il Libro Bianco dedicava un intero paragrafo (Maiani 2005).
72
Considerata l’evoluzione del mercato del lavoro in Italia, e tenendo
conto del persistere di ampie differenze tra uomini e donne, gli orari
di lavoro sono un forte elemento di criticità per la conciliazione, che si
va sommando alla crescente precarizzazione. Come precedentemente
sottolineato, se si confrontano gli occupati in forme non standard,
l’incidenza dell’impiego a tempo determinato è nettamente più
elevato tra le donne che tra gli uomini. In particolare, tra le persone di
35-44 anni in coppia con figli, la diffusione del lavoro a termine delle
donne è superiore di 6,2 punti rispetto agli uomini (Istat 2008).
L’incremento dei lavori non standard è inoltre ancora più incisivo per
le donne nei casi in cui il lavoro venga prestato abitualmente con
questa modalità (Tempia 2005). La legge 30 appare allora come un
ulteriore tassello di una strategia occupazionale che prevede di far
pagare una maggiore occupazione delle donne con una diminuzione
dei diritti delle donne stesse (Piazza 2005).
Per promuovere le pari opportunità e andare incontro alle esigenze dei
lavoratori e delle lavoratrici bisognerebbe attuare degli interventi
finalizzati a garantire la possibilità di armonizzare i tempi di vita e
quelli di lavoro, le esigenze della riproduzione con quelle della
produzione. Ciò che appare contraddittorio nella discussione intorno
alle “pari opportunità” è il considerarle come una questione che
riguarda esclusivamente le donne, così come accade per le politiche di
conciliazione, confermando la “doppia presenza” femminile nella
sfera domestica e lavorativa (Balbo 1978, Zanuso 1987). Poggio
(2006) mette a tal proposito in luce come i concetti di “flessibilità” e
di “conciliazione” nascondano entrambi (non a caso) un riferimento
alla “docilità” (sapersi piegare, essere accomodanti) degli individui
rispetto sia ai cambiamenti in atto e alle crescenti pretese del mercato,
73
sia alle tradizionali ripartizioni dei compiti e delle responsabilità
familiari. Anche quando le strategie di conciliazione sono rivolte
indifferentemente a uomini e donne9, sono infatti le lavoratrici ad
usufruirne in maniera nettamente superiore, a conferma del fatto che
anche laddove sia presente una normativa rivolta sia agli uomini che
alle donne, prevale una cultura dominante che non favorisce l’utilizzo
di strumenti di conciliazione da parte di entrambi i sessi.
La sovrarappresentazione delle donne nel mercato del lavoro flessibile
rimarca inoltre la asimmetria nella distribuzione dei ruoli, sia in
ambito privato, sia professionale. Oltre a contribuire al persistere dello
stereotipo secondo cui la conciliazione tra la sfera lavorativa e
familiare è una problematica che riguarda le donne, la forte incidenza
femminile nei lavori atipici contribuisce alla dipendenza economica
delle donne dal proprio partner (male breadwinner model) o dallo Stato.
Si tratta di forme contrattuali che comportano in svariati casi (si pensi
ad esempio ai rapporti di lavoro parasubordinati) l’esclusione non
soltanto dalle protezioni che riguardano in generale i contratti a
tempo indeterminato, ma da quelle specifiche che riguardano il lavoro
dipendente (in particolare la legge 53/2000 sui congedi genitoriali) e
che facilitano, almeno in parte, la conciliazione delle responsabilità
familiari e lavorative e la rinegoziazione della divisione del lavoro
entro la coppia e la famiglia (Trifiletti 2003). Le tematiche della
9
La legge 53/2000 (ora in gran parte trasfusa nel d.lgs. n. 151/2001) a sostegno delle
responsabilità genitoriali è orientata in questo senso, incentivando la condivisione
delle responsabilità paterne e materne nella primissima infanzia dei figli. Tuttavia, a
conferma del fatto che la regolazione non si esaurisce nella norma di legge, ma è un
processo sociale che richiede di essere accolto dagli attori sociali, sono
sostanzialmente solo le donne ad usufruirne. Si ricorda inoltre che la legge sui
congedi parentali, con la quale è stata recepita nell’ordinamento italiano la direttiva
Ce 3 giugno 1996, n. 96/34, è applicabile in modo molto ristretto ai chi lavora con un
contratto “atipico”, prevedendo il diritto al congedo opzionale per il coniuge solo se
con contratto dipendente.
74
conciliazione e delle politiche di pari opportunità non sono state,
infatti, in alcun modo messe a fuoco nella riforma del mercato del
lavoro del 2003, né dal governo e dal legislatore, e neppure dagli stessi
sindacati (Saraceno 2005). La flessibilità del lavoro di conseguenza,
oltre a tenere le donne imbrigliate in percorsi frammentari e
discontinui, rafforzando il “tetto di cristallo” che le tiene lontane dalle
posizioni di maggiore prestigio (Bombelli 2000), conferma le
asimmetrie e le disuguaglianze sulla base di stereotipi di genere nei
luoghi di lavoro e riduce le tutele dirette alle lavoratrici, in particolare
rispetto alle proprie scelte procreative.
Un’analisi delle forme di lavoro flessibile e delle prospettive di
conciliazione implica quindi il ripensamento delle azioni mirate
all’armonizzazione dei tempi di vita e di lavoro, soprattutto per chi
esperisce quotidianamente situazioni di precarietà. In questo senso
occorrerebbe ragionare su diversi livelli, coinvolgendo più attori
sociali (Piazza 2005):

i singoli individui, donne e uomini, considerati nella pluralità
delle loro scelte, relazioni e bisogni personali e/o familiari;

le aziende e i luoghi di lavoro, con i loro contratti e sistemi di
orari. Le politiche organizzative dovrebbero andare nel senso di
una maggiore flessibilità che risponda non solo alle esigenze delle
aziende, ma anche a quelle degli uomini e delle donne che vi
lavorano, seguendo il principio base che la soddisfazione del
cliente esterno passa per il benessere dei clienti interni, cioè dei
propri dipendenti;

la città e il territorio circostante con il complesso dei servizi
erogati dal pubblico, dal privato e dal non-profit.
Questi tre sistemi dovrebbero interagire in modo da supportare i
75
percorsi di vita e di lavoro di uomini e donne, e da innovare le
politiche del lavoro e del territorio. Nella terza parte di questo lavoro
verranno presentate le azioni finora attuate, nonché alcune proposte
di intervento in ottica di genere, relative alla sostenibilità di un lavoro
atipico e alle possibili forme di conciliazione tra i diversi ambiti di
vita, nell'intento di far fronte al progressivo espandersi del fenomeno
precarietà e di raggiungere un maggior equilibrio tra donne e uomini
sia nel lavoro retribuito, sia nella condivisione del lavoro non
retribuito.
76
3. Genere e precarietà:
proposte di policy di contrasto
77
78
3. Proposte di policy di contrasto alla precarietà in ottica di genere
Per affrontare il fenomeno della precarietà – soprattutto se inteso in
ottica di genere – occorre ragionare su vari livelli. Gli interventi e i
miglioramenti rispetto alla situazione di chi lavora con un contratto a
termine possono essere promossi in primo luogo a livello legislativo,
attraverso la normativa che regola il mercato del lavoro o attraverso
l’approvazione di norme specifiche che modifichino le disposizioni
relative
all'utilizzo
di
particolari
forme
contrattuali.
Azioni
migliorative possono inoltre essere portate avanti nel corso delle
contrattazioni sindacali, che possono portare alla stipula di accordi
specifici con l'azienda rispetto al lavoro atipico. Le aziende possono
infatti svolgere un ruolo determinante nell'offrire strumenti e servizi
di conciliazione ai/lle propri/e dipendenti, a prescindere dal tipo di
contratto con cui svolgono la propria prestazione lavorativa. Un ruolo
importante è inoltre ricoperto dai servizi pubblici e privati, dai tempi e
dagli spazi delle città e dalle politiche sociali attive sul territorio.
3.1. Tutelare il lavoro atipico attraverso la contrattazione
Un’analisi delle carriere atipiche e delle prospettive di conciliazione
implica il ripensamento delle politiche organizzative, in modo da
coinvolgere anche chi non ha un impiego stabile. Oltre al livello
legislativo un ruolo importante è infatti ricoperto dalle aziende, in
primo luogo attraverso lo svolgersi delle contrattazioni sindacali.
Tuttavia nei contratti aziendali, che più del livello nazionale
potrebbero occuparsi di come conciliare le esigenze professionali e
personali di chi lavora con un contratto atipico, vi è una scarsa
79
presenza di esperienze significative e innovative in questo senso.
D’altra parte, sia nel settore pubblico che in quello privato, inizia a
diffondersi la consapevolezza dell’utilizzo sempre maggiore di queste
tipologie contrattuali, che ha dato luogo alla stipulazione di diversi
protocolli di intesa sulle forme di lavoro flessibile, con particolare
riguardo ai contratti a progetto e di collaborazione coordinata e
continuativa (Murgia 2007). Tra i diritti e le tutele sindacali che si
potrebbero allargare ai/lle collaboratori/trici sia del settore pubblico
che di quello privato, in parte già previste dalla normativa, vi sono:

ampia autonomia nella definizione dei tempi, orari e modalità
di esecuzione;

possibilità di svolgere la propria attività anche presso terzi,
purché tale attività non sia incompatibile con le competenze
dell’ente;

compenso minimo stabilito in apposite tabelle che fanno
riferimento ai compensi autonomi per quella mansione, o ai
compensi corrisposti dall’ente al personale dipendente;

compenso garantito ogni mese;

rimborso di spese di viaggio, vitto e alloggio, relative a
trasferte
debitamente
e
preventivamente
autorizzate
dal
committente;

accesso
ai
corsi
di
aggiornamento
a
carico
dell’organizzazione;

maggiore sicurezza sui luoghi di lavoro attraverso la
necessaria formazione sulla normativa della sicurezza sul lavoro;

diritto a partecipare alle assemblee sindacali e ad avere una
propria rappresentanza sindacale;

tutela di infortunio (fino a guarigione medica), malattia (90
80
giorni nell’anno solare), maternità (180 giorni con proroga del
contratto), gravi motivi personali e congedi parentali (30 giorni
l’anno).
Inoltre, per quanto riguarda specifici interventi organizzativi rivolti ai
lavoratori e alle lavoratrici atipici/che, in diversi contesti è stato
sperimentato l’impiego di voucher, prevalentemente rispetto ad attività
formative, di orientamento e di conciliazione.
3.2. Le politiche integrate sul territorio
Il raggiungimento di un sostanziale equilibrio di genere non riguarda
esclusivamente la dimensione individuale e/o familiare, ma chiama in
causa l’intera collettività, a partire dalle organizzazioni lavorative,
sino al più ampio insieme delle politiche territoriali. Le politiche di
genere rappresentano in questo senso un sistema complesso,
caratterizzato dall’intreccio e dall’interazione tra diversi attori: le
donne e gli uomini, ma anche le aziende, il sistema dei servizi
pubblici e privati e il sistema di welfare.
Rispetto alle tradizionali sperimentazioni e politiche aziendali, le
politiche integrate sul territorio coinvolgono un maggior numero di
attori e si esprimono in una tipologia diversificata di azioni che
cercano di incidere, in maniera coordinata, su diversi ambiti che
vanno, appunto, dagli individui e le famiglie, al mondo del lavoro, al
territorio.
In
questo
senso
risulta
importante
una
stretta
collaborazione tra chi nel contesto locale si occupa di lavoro (aziende,
sindacati, centri per l’impiego, ecc.) e chi si occupa dei servizi alla
persona (organi istituzionali, Comuni, piani di zona, ecc.), partendo
dal presupposto che le performance occupazionali di una determinata
81
area geografica sono strettamente connesse alla qualità della vita delle
persone che la abitano.
La progettazione di politiche a livello territoriale dovrebbe facilitare
l’integrazione
delle
iniziative
di
diverse
tipologie
di
attori,
estendendone territorialmente il raggio di azione attraverso la
creazione di nuovi servizi e il miglioramento di quelli esistenti,
l’armonizzazione degli orari di lavoro e di apertura di esercizi, di
trasporti e servizi pubblici, l’accesso a forme di agevolazioni
finanziarie e fiscali per lavoratori/trici e per le famiglie, l’attenzione
alla salute e all’educazione, e così via.
Un ulteriore aspetto da tenere in considerazione riguarda il fatto che
tali azioni sono rivolte ai cittadini e alle cittadine, a prescindere dalla
loro situazione occupazionale e/o dalle forme contrattuali con cui
lavorano (autonome, temporanee, ecc.). Vale la pena ricordare, come
già messo in luce nell’analisi delle difficoltà di conciliazione per chi
lavora con contratti a termine, che alcune tipologie contrattuali
escludono non soltanto dalle protezioni che riguardano in generale i
contratti a tempo indeterminato, ma anche da quelle specifiche che
riguardano il lavoro dipendente. Per tale ragione, soprattutto per
quanto riguarda le problematiche relative alla conciliazione tra vita
lavorativa e vita privata, risulta indispensabile uno spostamento verso
azioni di sensibilizzazione a livello territoriale, in grado di consentire
a fasce più ampie della popolazione una migliore gestione dei propri
tempi di vita e di lavoro (Poggio, Murgia e De Bon 2010).
Tra le più diffuse esperienze di politiche integrate sul territorio
troviamo: sportelli di orientamento professionale e informazione sui
servizi di conciliazione, servizi di assistenza domiciliare e familiare
(asili nido, ludoteche e spazi gioco, ma anche servizi di assistenza a
82
domicilio, sia di baby sitting, sia rivolti ad anziani e a persone non
autosufficienti), servizi di prossimità per lo svolgimento di attività
domestiche di vario tipo, strumenti che riorganizzano i tempi e i servizi
di pubblica utilità in un territorio, banche del tempo in cui poter
scambiare prestazioni usando il tempo come moneta di scambio. È
importante infine ricordare che la legge n. 53/2000 ha ampliato le
tipologie dei progetti finanziabili, che prevedono non solo piani
formativi aziendali, ma anche territoriali, concordati tra le parti sociali
e i progetti basati su scelte individuali. Allo strumento del congedo, per
consentire la partecipazione a interventi formativi, di orientamento e di
riqualificazione, è inoltre stato affiancato il “voucher di conciliazione”10
per l’acquisto di servizi di vario tipo (assistenza all’infanzia, ad anziani
e a familiari non autosufficienti, sostituzione di imprenditrici e
lavoratrici autonome) mentre si frequenta un corso di formazione.
In questo senso il far fronte alle problematiche relative alla
segregazione occupazionale di genere non dovrebbe riguardare
soltanto il mercato del lavoro, ma tutti gli elementi alla base di una
generale crescita del territorio: la creazione di nuovi posti di lavoro, la
realizzazione
di
azioni
per
l’innalzamento
dell’occupazione
femminile, l’introduzione di incentivi per il prolungamento della vita
attiva e di interventi contro la dispersione scolastica, strumenti ed
ammortizzatori che favoriscano transizioni più efficaci, sia tra scuola
e lavoro che tra un impiego e l’altro. L’impegno per la realizzazione di
politiche integrate a livello territoriale può in tale prospettiva tradursi
10
Si ricorda che, nell'intento di liberare tempo al lavoro femminile di cura e di
sostenere la partecipazione delle donne al lavoro retribuito, la Provincia Autonoma di
Trento – all'interno degli interventi straordinari di supporto alle fasce deboli – ha
stanziato 6 milioni di euro destinati al supporto dell'occupazione femminile attraverso
l'implementazione di voucher per l'acquisto di servizi di cura privati per chi ha figli
tra i 3 mesi e i 16 anni.
83
in una strategia vincente per la crescita economica e sociale di un
territorio, che coinvolga le imprese e le organizzazioni sindacali, ma
anche l’organizzazione dei tempi e dei servizi presenti a livello locale.
3.2.1. Sportelli di orientamento sui servizi di conciliazione
Un’equilibrata partecipazione di genere al mercato del lavoro è spesso
compromessa dalla presenza di discriminazioni e pregiudizi che
rendono
difficile
alla
componente
femminile
ottenere
un
riconoscimento adeguato sia dal punto di vista professionale che
economico. Per tale ragione i primi centri e sportelli creati nei diversi
contesti territoriali italiani si sono rivolti esclusivamente alle donne,
con l’intento di affrontare e superare questi ostacoli, offrendo un
supporto in termini di orientamento, ingresso o re-ingresso nel
mercato del lavoro. I numerosi “sportelli donna” – promossi dalle
autorità locali e/o mediante l’impiego di fondi europei – forniscono
consulenze solitamente gratuite, capaci di rispondere alle esigenze sia
delle disoccupate, sia delle occupate che intendono sviluppare la
propria professionalità, sia di chi semplicemente ha bisogno di
informazioni sul mercato del lavoro e sui servizi esistenti legati alla
conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Si tratta peraltro di servizi
che si offrono come guida sui diritti e i doveri di ogni lavoratrice,
continuamente aggiornati sulle normative (aspetti contrattuali, leggi
di cui beneficiare) e sulle risorse presenti sul territorio. Vengono
inoltre messi a disposizione dei veri e propri piani d’azione per
identificare percorsi di sviluppo personale e professionale verso
l’inserimento o il reinserimento lavorativo, il lavoro autonomo e/o la
creazione di impresa (documentazione specialistica, corsi di
84
orientamento, formazione professionale, tirocini, preselezione per
aziende, ecc.).
Nella convinzione che gli squilibri di genere nel mercato del lavoro e
nella sfera domestica e familiare debbano essere affrontati non soltanto
attraverso il supporto alle donne, ma anche e soprattutto tramite
interventi a livello organizzativo e sociale, nel corso degli anni gli
sportelli rivolti alla sola componente femminile sono stati affiancati da
centri informativi per la conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro
rivolti sia a uomini che a donne, con l’intento di incidere sulla cultura di
genere e sui modelli organizzativi di tutti gli attori presenti sul territorio. I
cambiamenti sociali e soggettivi prodotti dalle nuove regole del mercato
del lavoro e i mutati bisogni individuali e familiari rendono infatti
necessaria la ricerca di soluzioni adeguate per una migliore qualità della
vita, a partire da una condivisione e da un maggiore equilibrio tra uomini
e donne nel lavoro retribuito e non, fino ad una riorganizzazione di
interventi e di politiche integrate. Questo tipo di iniziative si colloca
spesso all’interno di una più ampia cornice di riferimento, quale ad
esempio la diffusione della cultura della responsabilità sociale d’impresa
e delle politiche di genere presso le imprese e gli interlocutori economici
ed istituzionali sul territorio di riferimento. L’informazione su
opportunità e agevolazioni per l’avvio di azioni positive in tema di
armonizzazione vita - lavoro in un’ottica di responsabilità sociale
permette infatti di favorire l’introduzione di strumenti di conciliazione
nelle organizzazioni e di diffondere iniziative di formazione e materiali
promozionali per una capillare diffusione della tematica della
responsabilità sociale d’impresa e della conciliazione sul territorio,
nonché dei vantaggi che le aziende possono ricavare dall’adozione del
bilancio sociale, del codice etico (d. lgs 231/2001) e delle politiche family
85
friendly.
Alle diverse e molteplici proposte esistenti per quanto riguarda i centri
informativi fisici si affiancano inoltre numerosi sportelli virtuali,
sviluppati in maniera autonoma o in supporto alle reti locali. Si tratta
di portali informatici per la realizzazione di banche dati, l’incontro
domanda/offerta di lavoro, la diffusione di eventi e normative relative
alle politiche di genere e l’archiviazione delle buone prassi e delle
azioni positive realizzate da soggetti diversi, al fine di capitalizzare le
esperienze più significative.
3.2.2. I servizi alla persona
In Italia i servizi non ospedalieri di cura ed assistenza per anziani e
persone non autosufficienti, di tipo residenziale o domiciliare, sono
decisamente al di sotto del fabbisogno, non sempre di buona qualità e,
se privati, tendenzialmente molto costosi. Sono a tutt’oggi ancora
molte le donne che non entrano nel mercato del lavoro o lo
abbandonano perché i servizi alla persona, che potrebbero essere di
supporto nei carichi di cura, sono insufficienti, non tengono conto
degli orari di lavoro, o sono troppo costosi, al punto da non rendere
vantaggioso continuare a lavorare (Saraceno 2003). In altri termini,
una concreta risposta alle esigenze di conciliazione tra lavoro (e
flessibilità aziendale) ed esigenze private (familiari, personali, ecc.) si
realizza anche con la presenza di adeguati sistemi di servizi alla
persona, quali infrastrutture di assistenza all’infanzia (asili nido, spazi
gioco,
ludoteche,
baby-sitting,
iniziative
per
l’estate,
diverse
modulazioni degli orari scolastici nelle scuole per l’infanzia e
elementari, mense, trasporto scolastico, ecc.) o per le persone anziane
86
o disabili (assistenza domiciliare, assistenza domiciliare integrata,
centri diurni, servizi residenziali, ecc.).
L’invecchiamento delle reti familiari ha cominciato negli ultimi anni a
fare emergere problemi di conciliazione lavoro-famiglia non solo nella
fase della formazione della famiglia, ma anche in quella della
maturità. Se consideriamo le strutture di accoglienza per l’infanzia, i
due fuochi attorno a cui si dispongono i bisogni dei soggetti rispetto al
sistema pubblico di copertura sembrano essere la richiesta di nuova
flessibilità degli orari e l’urgenza di nuovi modelli e tipologie
integrative per coprire i tempi differenziati (Poggio, Murgia e De Bon
2010).
Nelle articolazioni dei servizi attivati, interessanti sono le esperienze
realizzate in alcune regioni che hanno introdotto nuove figure quali:
l’educatrice familiare che si occupa al massimo di tre bambini/e
presso il domicilio di una delle famiglie; la tagesmutter che si prende
cura sempre di un numero ridotto di bambini/e (al massimo cinque)
ma presso il proprio domicilio o in un altro spazio dedicato; la
collaborazione gestionale tra ente statale e ente comunale per
l’inserimento di nidi all’interno di scuole per l’infanzia statali. Ci sono
poi gli interventi con finalità non solo di conciliazione, ma anche di
socializzazione, come gli spazi-gioco, i baby parking convenzionati, i
servizi integrativi al nido, i servizi di prolungamento di orario della
scuola materna, i servizi pre e post scuola (soprattutto per la scuola
primaria), i servizi di scuola-bus per zone poco servite, la mensa, le
ludoteche. Infine, i servizi extra-scolastici includono i centri educativi
e ricreativi pomeridiani, i centri estivi, i servizi specifici per i periodi
di vacanza.
Per quanto riguarda la cura delle persone anziane, molti servizi sono
87
erogati dalle Aziende Sanitarie Locali come i servizi a domicilio a
livello sanitario-infermieristico o gli interventi di fornitura di servizi
“di gestione della quotidianità” (spesa, pasti, trasporto). Altri servizi
agli anziani comprendono le case protette, vale a dire delle strutture
residenziali
che
garantiscono
assistenza
sociale,
sanitaria
e
riabilitativa ad anziani non autosufficienti, e le Residenze Sanitarie
Assistenziali (RSA), strutture residenziali che si caratterizzano anche
per un forte intervento sanitario per malati cronici. In alternativa alla
fruizione di strutture residenziali, che spesso hanno lunghe liste di
attesa, viene talvolta corrisposto un assegno di cura. Molti Comuni
negli ultimi anni hanno introdotto, accanto ai servizi domiciliari e ai
buoni servizio per acquistare servizi di cura sul mercato, qualche
forma di rimborso (assegni di cura) per il l'assistenza prestata ad un
parente. Ciò rappresenta indirettamente un riconoscimento del costo
economico del lavoro di cura per chi lo presta, ma anche un
incoraggiamento alle donne nelle famiglie a basso reddito a farsene
carico, benché ciò non comporti diritti pensionistici, aumentando il
rischio di vulnerabilità nel momento in cui saranno a loro volta
anziane e non avranno risorse economiche proprie (Saraceno 2003).
Se l’insieme di questi interventi, soprattutto se utilizzati per un
periodo limitato, può essere utile per diminuire la perdita di reddito
legata all’aumento dell’impegno di cura, tuttavia è opportuno pensare
a politiche e servizi basati su un modello familiare basato su un
maggior equilibrio di genere sia nel lavoro retribuito che in quello non
retribuito.
88
3.2.3. L'armonizzazione dei tempi e degli spazi di un territorio
Tra le politiche integrate sul territorio un ruolo rilevante è ricoperto
dalla gestione dei tempi e degli spazi della città. Le dimensioni
spaziali e temporali portano infatti alla luce la complessità
dell’esperienza
della
vita
quotidiana
contemporanea,
dando
trasparenza alle differenze di genere e alle relazioni tra individuo e
società. Le trasformazioni dei tessuti urbani, così come quelle legate
al mondo del lavoro e della vita sociale, rendono il tempo una risorsa
sempre più scarsa e preziosa, ma anche sempre più complessa e
differenziata, in termini di bisogni e di stili di vita. Per tale ragione la
qualità e la vivibilità di un territorio sono strettamente connesse alla
sua capacità di restituire tempo ai cittadini, consentendo a uomini e
donne di conciliare tra loro tempo di lavoro, tempo della cura e della
famiglia e tempo per sé (Zajczyk 2000). In questo senso le politiche
pubbliche che sperimentano una più efficace gestione in tema di orari
portano non solo benefici economici per gli individui, le famiglie e le
imprese, ma aumentano anche l’equità sociale e la garanzia di
condizioni di pari opportunità nell’accesso ai servizi e ai beni urbani e
nelle strategie di impiego del tempo (Bonfiglioli 1993).
I luoghi della città differenziano le donne dagli uomini e i diversi
gruppi sociali in base agli spazi che sono loro offerti e alla loro
presenza o assenza. Ciò vale per gli spazi materiali, per i luoghi di
associazione e di rappresentanza e per i luoghi della produzione o
della riproduzione. I tempi della città, inoltre, parlano della
differenziazione di genere nell’accesso al giorno e alla notte, al tempo
libero e al tempo di lavoro, retribuito e non (Belloni e Bimbi 1997).
In Italia le politiche temporali urbane hanno avuto inizio nel corso
89
degli anni Novanta, nel quadro di un cambiamento normativo che ha
interessato la pubblica amministrazione e in particolare i Comuni,
attraverso l’affidamento ai sindaci del compito di coordinare gli orari
di apertura dei servizi pubblici e degli esercizi commerciali con le
esigenze degli utenti e dei cittadini. Attualmente la legge n. 53/2000
“Disposizioni per i congedi parentali, il diritto alla cura, alla
formazione, e per il coordinamento dei tempi della città” prevede che
i Comuni con popolazione superiore ai 30.000 abitanti debbano
dotarsi di Uffici Tempi e formulare Piani territoriali dei tempi e degli
orari coordinati con gli altri strumenti, come ad esempio i Piani
regolatori. In tal modo la legge vigente – che affronta in maniera
ampia e complessa la tematica dell’armonizzazione dei tempi di vita –
si propone di:

favorire la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro dei
cittadini e delle cittadine (con particolare attenzione agli effetti
sulle pari opportunità) attraverso l’offerta di un’ampia gamma di
prestazioni;

migliorare i sistemi di mobilità sia per motivi di lavoro e
studio, sia per la fruizione dei servizi, con ricadute positive sui
livelli di inquinamento;

riorganizzare i sistemi degli orari di lavoro e dei servizi
tramite l’introduzione di innovazioni tecnologiche, in modo da
coniugare gli obiettivi di sviluppo socioeconomico con livelli
adeguati di integrazione sociale.
In sintesi emerge un sistema urbano in cui servizi, comunicazioni,
mobilità, strumentazioni tecnologiche, consumo di energia e impatto
ambientale, costituiscono un insieme di elementi interdipendenti da
tenere in considerazione per un’efficace gestione dei tempi e degli
90
spazi di un territorio. Questi interventi, di solito implementati dalle
autorità locali, possono peraltro prevedere forme di consultazione e di
negoziazione con rappresentanti delle realtà imprenditoriali, delle
organizzazioni sindacali e della cittadinanza. L’intervento sul tempo
dovrebbe essere, infatti, il risultato di scambi e relazioni in cui ogni
soggetto (individuale o collettivo) esprime le proprie necessità e cerca
di confrontarle e armonizzarle con quelle degli altri soggetti.
L’organizzazione dei tempi e degli spazi di un territorio emerge in tal
modo dalla negoziazione tra attori diversi e molteplici che pur
muovendo da punti di vista diversi, e talvolta distanti, trovano dei
punti di accordo in virtù di un miglior funzionamento e di una
maggiore vivibilità della città.
La scomparsa di un modello temporale dominante, che prevedeva
ritmi di lavoro e di riposo abbastanza omogenei e sincronizzati tra
loro, impone la capacità da parte delle amministrazioni pubbliche di
gestire gli spazi e i tempi di un territorio in modo da rispondere in
maniera efficace alla progressiva flessibilizzazione del lavoro e del
tempo libero. Se da una parte quindi i mutamenti in corso spingono
verso un graduale declino dei tradizionali “sincronismi sociali”,
dall’altra essi richiedono la ricerca di una nuova idea di
organizzazione e armonizzazione temporale, fondata su una
relazione dinamica tra tempo di lavoro e tempo di vita.
3.3. Politiche di flexicurity e di sostegno al reddito
L'ultimo tipo di policy di contrasto alla precarietà in ottica di genere
che prendiamo in considerazione fa riferimento alla promozione di
politiche di flexicurity, con un'attenzione all'integrazione e alla
91
valorizzazione delle politiche di genere a sostegno di lavoratrici e
lavoratori atipici. Nell’ambito della rinnovata strategia di Lisbona,
l’Unione Europea sta infatti promuovendo una strategia di
flessicurezza del mercato del lavoro, che riunisce la flessibilità delle
modalità contrattuali, la sicurezza occupazionale (garanzia di
mantenere il proprio posto di lavoro o di trovarne un altro
rapidamente) e la gestione adeguata dei periodi di transizione.
La sicurezza, in questo senso, non può essere intesa come
esclusivamente dipendente dalla condizione contrattuale in un dato
momento. Essa dipende dalla presenza di diversi fattori, tra i quali si
possono elencare: le condizioni socio-anagrafiche; la continuità
occupazionale; la percezione di un reddito di lavoro adeguato; la
garanzia di buone condizioni di lavoro; l'accesso ad un adeguato
livello di protezione sociale (malattia, maternità, sussidi di
disoccupazione, diritti pensionistici, ecc.); l'accesso ad opportunità di
conciliazione dell'attività lavorativa con la vita privata; l'accesso al
credito, ecc.
Negli anni recenti il concetto/principio di flexicurity ha visto un
crescente interesse sia tra gli accademici che tra chi si occupa di
politiche sociali (Auer 2007), dal momento che è stato considerato
come una strada per far fronte alle nuove sfide che devono affrontare i
mercati del lavoro europei. La globalizzazione e la rapida
innovazione tecnologica insieme al processo di invecchiamento della
popolazione, a tassi di disoccupazione e di inattività piuttosto alti (e
che riguardano specialmente i gruppi più vulnerabili di lavoratori,
come donne, giovani, immigrati, ma anche lavoratori anziani quando
perdono il posto di lavoro) e all’accresciuta segmentazione dei mercati
del lavoro tra “insiders” (molto protetti) e “outsiders” (non protetti),
92
stanno ponendo serie sfide alle imprese e a lavoratori e lavoratrici
(Pacelli et al. 2007). Tuttavia, in letteratura c'è ampio accordo sul fatto
che non vi sia un modello unico per introdurre la flexicurity nei diversi
paesi (Bredgaard, Larsen 2005), dato che dipende da fattori che
hanno a che fare con l’assetto del mercato del lavoro, con la struttura
del welfare, con il dialogo sociale, ecc. Il bilanciamento della
flessibilità e della sicurezza non può inoltre essere riferito a una
singola regolamentazione o normativa, quanto all'esito complessivo
derivante dall'interazione tra le norme del diritto del lavoro, della
protezione sociale e della contrattazione collettiva, nonché tra le
diverse iniziative di policy che si rivolgono al mondo del lavoro, quali
ad esempio i servizi per l'impiego, le iniziative di formazione
professionale, gli sgravi fiscali, ecc.
La via italiana alla flessibilità, come visto, è stata principalmente
connotata dalla diffusione di forme contrattuali “atipiche”, differenti
dal lavoro dipendente, a tempo pieno e indeterminato. Gli obiettivi
delle riforme che l'hanno promossa sono stati molteplici: l'incremento
della competitività delle imprese, l'aumento dell'occupazione e della
partecipazione al mercato del lavoro, soprattutto da parte delle donne
e dei giovani, e più in generale la costruzione di un mercato del lavoro
in grado di adattarsi rapidamente alle esigenze delle imprese e dei
lavoratori. A partire dal cosiddetto “pacchetto Treu” del 1997 l'Italia
ha infatti proceduto in una direzione che coincide con quella a suo
tempo indicata dal Jobs Study dell'Ocse. Se però il mercato del lavoro
in Italia è cambiato notevolmente, non altrettanto si può dire del
sistema di protezione sociale, dove la ricerca del contenimento della
spesa senza modificare lo squilibrio esistente a favore dei vecchi rischi
sociali (ad esempio la vecchiaia) e a sfavore di nuovi (disoccupazione,
93
esclusione sociale, carichi familiari) ha prevalso su visioni di riforma
di più ampio respiro (Samek Lodovici e Semenza 2008, Berton,
Richiardi e Sacchi 2009).
Come è stato precedentemente sottolineato, il problema reale per le
occupazioni instabili in Italia, che determina il passaggio da una
situazione di flessibilità a una di precarietà, è da un lato un problema
di welfare, che ha a che fare con la minore possibilità di accesso ai
diritti sociali che queste forme di impiego consentono (diritti
pensionistici,
congedi
retribuiti
di
maternità,
trattamenti
di
disoccupazione, ecc.); dall’altro, riguarda la specifica distribuzione del
“rischio” di detenere un’occupazione instabile a garanzie ridotte
(Barbieri e Reyneri 2007), che si addensa su specifici gruppi sociali: in
particolare sui giovani e sulle donne, per i quali il rischio di non
riuscire ad accedere ad un lavoro “stabile” – almeno nel breve-medio
periodo – è significativamente più elevato che per il resto degli
occupati (Barbieri e Scherer 2007, Villa 2007).
Ciò che ci interessa approfondire in questa sede, fa specifico
riferimento alle politiche di sostegno al reddito per chi lavora in
maniera temporanea, ormai attive in quasi tutti gli stati europei, fatta
eccezione per Italia, Grecia e Ungheria. In Italia la sperimentazione
del Reddito Minimo di Inserimento (RMI), istituita con il Decreto
legislativo n. 237 del 18 giugno 1998, ha riguardato – tra il 1999 e il
2002 – 307 Comuni, ma è stata interrotta nel 2003, senza prospettive
concrete per il futuro. La legge finanziaria per il 2004 (legge 24
dicembre 2003, n. 350) ha istituito il Reddito di Ultima Istanza (RUI),
quale strumento di accompagnamento economico ai programmi di
reinserimento sociale, ma l'ambiguità di tale istituto (che non
chiarifica come si differenzia dall’RMI), e la mancata emanazione
94
delle norme attuative, non ne hanno consentito lo sviluppo (Pizzolato
2005, Sacchi 2005).
Sono tuttavia seguite delle sperimentazioni, adottate dalle Regioni,
che hanno introdotto provvedimenti simili. La prima è stata la
Campania, che rappresenta l’esperienza del genere più lunga, la quale
nel 2004 ha avviato un progetto triennale di reddito di cittadinanza.
Poi la Basilicata, con il progetto “Cittadinanza solidale”. A seguire
l’esperienza del Friuli-Venezia Giulia, dove il reddito di base per la
cittadinanza, attivato nel novembre del 2007, è durato solo un anno.
Infine le esperienze della Sardegna, con una sperimentazione in
crescita ma con un futuro incerto e la provincia di Bolzano dove le
misure di sostegno economico hanno storicamente avuto un largo
sviluppo.
Distinguendosi all'interno del panorama nazionale per innovazione e
articolazione del provvedimento, la Regione Lazio e la Provincia
Autonoma di Trento hanno recentemente introdotto lo strumento del
reddito minimo garantito. In particolare, in Trentino è stato
implementato lo strumento del reddito minimo di garanzia, con la
deliberazione della Giunta provinciale n. 2216 di data 11 settembre
2009, un intervento di sostegno economico previsto dall'articolo 35,
comma 2 della legge provinciale 27 luglio 2007, n. 13. Tale esperienza
si colloca all'interno di un ampio quadro di interventi volti a superare
la difficile congiuntura economica e a rilanciare l'economia e mira
esplicitamente alla promozione di una nuova concezione di welfare,
più vicina a quella del resto d'Europa, attraverso l'istituzione di una
soglia minima di reddito, garantita a tutti i cittadini residenti da
almeno 3 anni e, per i nuclei con persone in età da lavoro, che abbiano
avuto entrate da attività lavorative negli ultimi anni. L'importo è stato
95
fissato in un massimo di 6.500 euro annui per il singolo, una soglia
che sale a seconda della numerosità del nucleo familiare. Sono
destinatari degli interventi di sostegno al reddito i lavoratori e le
lavoratrici a tempo determinato, iscritti in lista di mobilità senza
diritto ad indennità, licenziati per inidoneità sopravvenuta o
superamento del periodo di comporto, apprendisti, co.co.pro e
associati in partecipazione. Si tratta di un sussidio monetario, ma non
a somma fissa, stabilito sulla base delle condizioni economiche,
valutate attraverso l’Icef e indicatori di consumo per particolari
situazioni di reddito nullo o marginale. Ai soggetti beneficiari di
sostegno al reddito è inoltre proposta l’adesione ad offerte formative
di carattere specifico, a contenuto professionalizzante. L'intervento ha
una durata di 4 mesi, rinnovabile al massimo tre volte nei due anni
decorrenti dalla prima concessione (massimo 16 mesi su 24). Il
rinnovo è subordinato ad una verifica del perdurare dello stato di
bisogno economico e ad una verifica in connessione con i Centri per
l’Impiego
del
mantenimento
della
disponibilità
immediata
all’accettazione di un impiego. Da sottolineare in particolare il fatto
che si tratti di un intervento di tipo strutturale, non vincolato a
sperimentazioni o agli effetti della recessione.
Dai dati di un primo monitoraggio risulta che a gennaio 2010 sono
già pervenute 1.740 richieste di cui 152 respinte. Nella maggior parte
dei casi i motivi della richiesta sono da imputare a licenziamenti per
giustificato motivo (534 casi) e alla mancata proroga, rinnovo o
trasformazione del contratto (915 casi). Anche in questo caso,
tuttavia, si registrano delle notevoli differenze tra uomini – che sono
beneficiari di azioni di sostegno al reddito per oltre i due terzi dei casi
– e le donne, che raggiungono solo le 492 richieste (Osservatorio del
96
Mercato del Lavoro PAT, 2010).
Ciò che si vuole sottolineare, nell'analisi delle politiche di flexicurity, è
il fatto che nessuna di esse si sia finora specificamente concentrata
sulle relazioni tra lavoro retribuito e lavoro di cura non retribuito e
sulle profonde disuguaglianze di genere che vi sono legate (Lewis e
Plomien 2009). Nonostante molteplici studi in diversi paesi d'Europa,
e in misura ancora maggiore in Italia, abbiano dimostrato il maggior
coinvolgimento delle donne nel fenomeno della flessibilità e nelle
transizioni dentro e fuori il mercato del lavoro (Gazier 2006, Schmid
2008), non c'è stata l'attesa attenzione per le rilevanti differenze di
genere nella progettazione di tali strumenti. L'esigua letteratura che si
è interrogata sui rapporti tra genere e flessicurezza tende peraltro ad
essere critica rispetto a questo tipo di politiche, sostenendo che non ci
sia alcun riferimento all'abbattimento di barriere istituzionali e
strutturali per incrementare l'uguaglianza di genere nel mercato del
lavoro (Fredman 2004, Hansen 2007, Jepsen 2008).
Lo strumento del reddito minimo di garanzia, di recente
implementazione in provincia di Trento, necessita di un'accurata
valutazione per comprendere in qual modo effettivamente riuscirà a
promuovere l’acquisizione di un pieno diritto di cittadinanza, a
prescindere dalle tipologie contrattuali con le quali si lavora.
L'adozione di un'ottica di genere per la valutazione di questo tipo di
politiche potrebbe senza dubbio fornire un contributo significativo alla
comprensione sistemica degli effetti del lavoro atipico sui rapporti di
genere: sui singoli individui, donne e uomini, considerati nella
pluralità delle loro scelte, relazioni e bisogni di armonizzazione dei
tempi di vita; ma anche sui territori di riferimento, con il complesso
dei servizi erogati e delle politiche messe a disposizione.
97
In particolare, l'attuale crisi economica e occupazionale impone
un'analisi maggiormente approfonditamente delle differenze tra
uomini e donne, i/le quali ne sono coinvolti/e in maniera differente.
La maggiore occupazione femminile rispetto alle altre recessioni e la
sottostima di alcuni dati possono infatti portare a sottovalutare
l’impatto della crisi sull’occupazione femminile e l'aumento
dell'asimmetria di genere nel lavoro non retribuito. Ma se tutti e due i
sessi sono parte del problema-economia, le donne oggi possono essere
parte della soluzione (Bettio, Smith e Villa 2009). Perché questo sia
possibile, le politiche anti-crisi – ed in particolare le politiche di
flessicurezza – dovrebbero formulare i sistemi di sostegno contro la
disoccupazione in ottica di genere e spostare gli investimenti verso le
infrastrutture sociali.
98
Riflessioni conclusive
Il presente rapporto si è concentrato sul tema della precarietà, a
partire dai suoi aspetti contrattuali – cioè i rapporti di lavoro a
termine – per espandersi alle implicazioni sui diversi ambiti di vita
delle donne e degli uomini che possono essere coinvolti da questo
fenomeno in progressiva diffusione.
Il frantumarsi dei confini tra lavoro e non lavoro e la scomparsa di
un repertorio socialmente condiviso di carriere tipiche cui attingere
ha portato alla necessità di trovare nuove possibilità interpretative
alla luce di categorie che mettano in discussione gli apparati teorici
costruiti esclusivamente su determinanti economiche e strutturali.
La costruzione del percorso personale e lavorativo, infatti, avviene in
un contesto più aperto che in passato, ma anche più incerto e
indeterminato. Analizzare il variegato ed eterogeneo fenomeno della
precarietà ci consente di mettere in luce una situazione in cui
persistono – a diversi livelli – evidenti dinamiche di segregazione di
genere, spesso più marcate di quanto accade nei lavori e nei percorsi
biografici caratterizzati da una maggiore stabilità e certezza. In
questo senso la precarizzazione da un lato ha ridotto le differenze
tra uomini e donne, seppure verso il basso, ma dall’altro ha creato
nuove forme di subordinazione, dal momento che le donne
continuano a dover far fronte al lavoro non retribuito e a quello per
il mercato, per di più in una situazione di progressiva crisi del
welfare.
L'esperienza della precarietà è infatti legata a specifici punti critici
attraversati da donne e uomini nel corso dei propri percorsi
professionali
e
biografici
(i
periodi
99
di
occupazione
e
di
disoccupazione, il dover far fronte ad eventi quali la malattia, la
maternità e l'articolazione dei diversi ambiti di vita, quali il lavoro
retribuito e non retribuito, gli affetti, il tempo libero, ecc.). Si tratta
di eventi e situazioni in corrispondenza dei quali sarebbero attesi
interventi delle politiche, ma che invece possono lasciare porzioni di
vita scoperte o non abbastanza protette (Mayer e Muller, 1986,
Heinz 1996). Lo scollamento tra l’assetto del mercato del lavoro e
dello stato sociale ha dato luogo, in Italia, ad un divario aumentato
nel corso degli anni tra il lavoro dipendente e a tempo
indeterminato, a cui sono associate tutele e garanzie, ed altre forme
contrattuali che danno accesso a diritti sociali ridotti (Borghi 2007).
Il problema sembra essere in questo senso non tanto la flessibilità del
lavoro, ma l’assenza di un modello di sviluppo che affianchi alla
crescita economica la qualità sociale e la sostenibilità delle nuove
forme di lavoro, in modo da tutelare il passaggio tra un’occupazione
e un’altra e più in generale una piena acquisizione dei diritti. La
frattura sempre più netta tra soggetti inclusi ed esclusi si traduce
infatti in un aumento delle disuguaglianze sociali legate a differenti
fattori istituzionali. In quest’ottica il fatto che i contratti atipici
rappresentino un elemento di precarizzazione o possano costituire
un’opportunità anche per i lavoratori e le lavoratrici dipende non
solo dalle risorse culturali e sociali dei soggetti, ma anche da scelte
politiche che sappiano precisarne i limiti, soprattutto in contesti,
come quelli del lavoro, dove potrebbero essere a rischio gli stessi
valori di cittadinanza.
Delle politiche che mirino ad incidere sulle differenze di genere nel
mercato del lavoro e più in generale all'interno della società
dovrebbero in questo senso prestare attenzione non tanto ai
100
lavoratori e alle lavoratrici e al tipo di contratto che hanno, ma
piuttosto ai diritti di cittadinanza che dovrebbero essere loro
riconosciuti, dentro e fuori il mercato del lavoro.
101
102
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