BAMBINI D`AMORE Di Fabrizio Russo

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BAMBINI D`AMORE Di Fabrizio Russo
BAMBINI D’AMORE
Di Fabrizio Russo
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CAPITOLO 1
Mi avvio incauto nell’ombra degli alberi, schivando le radici scoperte, per
paura di cadere.
Mi faccio luce con l’accendino, un dono di Gina, ma è quasi esaurito e i
rumori inquietanti intorno a me si fanno sempre più frequenti. Abbasso le
palpebre, impietrito dal terrore.
Pensavo che il guasto all’automobile che mi ha regalato mio padre fosse
facilmente risolvibile, invece mi sono dovuto arrendere all’evidenza che la
meccanica dei motori non è sicuramente la mia professione.
Ho dovuto prendere l’unico sentiero che si apriva tra la fitta vegetazione,
che fa spazio soltanto alla lunga lingua di asfalto che da Joport arriva a
Delay, cinquecento chilometri tra sterili lande sterrate interrotte solo da
giungle fittissime.
È quasi ora di colazione, ma la morsa che sento allo stomaco non è fame,
è piuttosto una sempre più insistente paura di preoccupanti incontri.
Mi sfiora il pensiero della bella automobile abbandonata sul ciglio della
strada. Avevo da poco lucidato la carrozzeria, invece avrei fatto bene a far
controllare l’efficienza del circuito di raffreddamento, perché il caldo
torrido che opprime questa regione nel mese di luglio ha mandato l’acqua
del radiatore in ebollizione, obbligandomi all’arresto, per non fondere il
motore. E adesso mi ritrovo a camminare in questo paesaggio avverso,
stretto nell’abbraccio soffocante di piante selvatiche e di alberi ad alto
fusto, di cui non conosco il nome.
Cammino nella speranza di una veloce soluzione, portandomi dentro la
paura, certo che la mia reazione potrebbe essere conclusiva, e non penso
sia giusto interrompere questa vita a trentasei anni, nel pieno delle forze
e delle certezze di esistere.
Mentre proseguo senza meta riaffiorano con naturalezza i ricordi delle
cose belle, delle avventure, dei sospiri, ma anche delle cose brutte, delle
tristezze e dei rancori.
La mia vita si divide ormai da dieci anni tra il lavoro, la famiglia e la
giustizia. Penso di avere la fortuna di poter perseguire le cause comuni,
illudendomi di saper riconoscere le azioni giuste da quelle sbagliate.
Dipingo la mia quotidianità con tre colori che per me hanno un senso e un
significato ben preciso; il bianco, il rosso e l’azzurro.
Ricordo, come fosse ora, l’atteggiamento duro e irremovibile di mia
madre, una figura femminile autoritaria, a dispetto dei lineamenti gentili.
Con poche parole caratterizzò la mia adolescenza, facendomi crescere con
la certezza di saper scegliere le strade più giuste.
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Ero un bambino biondo, con gli occhi neri dallo sfondo estremamente
pulito; la mia vita scivolava tra i giochi e lo studio, facendo della mia una
storia uguale a quella di tanti altri. Ho ancora sensazioni fantastiche di
certe chiacchierate che sembravano così importanti e che, con il passare
del tempo, hanno assunto valori irrisori.
Una famiglia normale e straordinaria la mia, mia sorella Gina, mia madre
Eliana e lui, un uomo forte e saggio, mio padre Giorgio. Alto e nobile nel
portamento, il vestito scuro a fargli da contorno, fasciando una figura
robusta e agile al tempo stesso. Mio padre aveva una dote che pochi
uomini possono vantare, sapeva ascoltare e con poche parole sciogliere
problemi intricati. Il perno fondamentale della mia esistenza, e non solo.
Mi sono identificato fin da bambino nel suo carattere taciturno, nella sua
sensibilità e nel suo buon cuore, lo stesso cuore con cui costruì un nido
per lei, quella che sarebbe diventata mia madre. È stato forse questo il
suo modo di dimostrarle quell’amore che faceva fatica a esprime a parole,
rendendo la casa così accogliente, così piena di piccoli particolari, di
nascondigli nei quali rifugiarsi. Ecco, un rifugio, è così che la sento
adesso.
È come se mio padre avesse voluto creare, per ognuno di noi, lo spazio
adatto in cui smaltire le debolezze, le rivalità della vita.
La camera bianca per Gina, con il letto fine Ottocento e le tende
drappeggiate, come se avesse voluto continuare a farle sognare di essere
una principessa, la sua principessa bambina, a farle mantenere la
speranza che arrivasse il suo bel principe azzurro e la portasse via dalla
grande finestra, così enorme da permettergli di entrare con il suo cavallo
alato.
Lei che principessa non lo è mai stata.
Reduce da amori folli, inconsapevolmente non è mai riuscita a distinguere
il sacro dal profano. Viene da un’esperienza atroce.
I suoi lunghi capelli color del grano maturo, gli occhi di perle nere pittati
di colori pastello tenui. Il naso regolare perfettamente orientato sul tondo
del viso e le labbra carnose come un filetto di chianina cotto al sangue,
senza sale. Mia sorella segnata da pochi, sofferti e intensi amori vive ora
finalmente una vita serena. Serenamente ha partorito due bimbi,
serenamente ha trovato l’uomo giusto. Eppure ancora mi torna in mente
la frase che uno dei suoi ”amori”, dopo averla picchiata a sangue, le
disse: “ricordati che nessun altro ti amerà come io ti ho amata, e nessun
altro ti amerà come avrei potuto continuare ad amarti.”
La mia camera, più piccola, più intima, con l’arredamento quasi
inesistente e quei pochi mobili di una esasperante semplicità. Un’intera
parete dedicata alla libreria composta da quadrati in legno; decine di libri
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coprono ogni spazio, li ho letti e studiati uno a uno, una fonte inesauribile
dalla quale appagare la mia sete di apprendere. Hanno rappresentato
venti anni della mia vita, fino alla laurea in giurisprudenza.
Poi il letto in legno anticato, dove ho combattuto tante lotte turbolente, la
scrivania, grandissima, color noce, sempre piena di carte, di cui soltanto
io riesco a capirne l’ordine, ammesso che ce ne sia uno.
La cucina ampia e luminosa, con il tavolo fratino, quello delle grandi
riunioni di famiglia, quando mia madre prendeva dal secondo cassetto
della dispensa la tovaglia candida di lino, ricamata a mano da lei, mentre
sognava di diventare donna, moglie e madre.
Il camino angolare, le pentole in rame lucidissimo e poi le scale in marmo
bianco per accedere al piano di sopra, alla camera da letto dei miei, piena
di misteri innocenti, come la sagrestia delle chiese.
Quella casa era l’orgoglio di mia madre e il confessionale delle incertezze
degli uomini e delle donne di quel piccolo paesino.
Joport è appoggiato delicatamente sulle rive del mare, dipinto da case
colorate, una macchia sfavillante di colori esuberanti, tra l’intenso verde
della vegetazione rigogliosa e l’azzurro delle acque marine, un vanto per
la piccola comunità di contadini e pescatori, orgogliosi di vivere in uno tra
i villaggi più belli della Costa Orientale.
Mi sembra di sentire ancora il profumo del pane tra i vicoli stretti, nella
prima domenica trascorsa in quel posto dopo il trasferimento della mia
famiglia.
Tra l’ombra fitta delle siepi noto uno strano chiarore, il primo, direi
l’unico. Una stradina bianca, un piccolo sentiero che non mi dice nulla, lo
seguo anche se non ho idea di dove mi porterà.
Sorrido al pensiero che avrebbe avuto Gina nel guardarmi in questa
circostanza, e dentro di me la ascolto emettere la sua affettuosa
sentenza: “Naturalmente proprio perché non sai dove ti porterà,
percorrerai questo sentiero.”
È proprio così, le strade ampie e già asfaltate che le percorrano gli altri. Io
non faccio che proiettarmi nella luce che forse i miei occhi hanno
inventato per orientarsi. La stradina è bella perché è bianca e perché
percorrendola tutta giungerò alla meta, qualsiasi essa sia.
Cammino e mi sento leggerissimo mentre il sole mi acceca gli occhi con il
suo bagliore. Perché qui sembra tutto più luminoso? I colori brillano di
più, sono radiosi, quasi innaturali, come quando alla televisione si spinge
il tasto per accentuare la fluorescenza.
E poi laggiù il chiarore della strada si confonde con quello del cielo e
l’orizzonte si fa più confuso. Vado avanti come sospinto da qualcuno alle
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mie spalle e la proiezione dei ricordi non mi fa sentire lontano
dall’automobile regalatami da mio padre, rimasta ferma laggiù.
C’è qualcosa di luminoso che non mi fa sentire solo.
Con un gesto inconsulto, improvviso, mi tolgo il gilet scuro e rimango con
la camicia leggerissima e bianca, come se volessi confondermi e diventare
tutt’uno con la luce che sento penetrare dolcemente nei vestiti e nella
pelle. Sento che le mie pupille si stanno facendo piccolissime, come
quando al cinema accendono le luci tra il primo e il secondo tempo di un
film. L’energia mi esplode dentro, e deflagrando lascia un senso di pace.
Sono cosciente, terribilmente cosciente, che ci sono intorno a me tante
ombre che mi sostengono, che non mi fanno quasi avvertire il peso del
mio passo sulla vegetazione disidratata, che non mi fanno annientare
dalla forza di gravità.
Mi sento come abbracciato.
Ecco, adesso intravedo tra quelle strane ombre bianche una sagoma color
indaco delinearsi e prendere forma. Sento nell’aria un odore pungente di
salsedine, le pietre della strada si fanno sempre più piccole,
microscopiche, simili a polvere grossolana, mi fanno venire in mente
l’odore del talco che hanno addosso i bambini appena finito il bagnetto
della sera. L’odore si fa più forte, dai miei occhi colmi di lacrime mi
accorgo di essere diventato più sensibile, di commuovermi più facilmente
davanti alla naturalezza delle cose semplici. Mi trovo catapultato
inaspettatamente su questo strano deserto, che non è altro che una
spiaggia meravigliosa. Mi ricorda il dépliant arrivato per posta con
un’offerta di sette giorni alle isole Maldive. Tolgo le scarpe, i calzini, mi
arrotolo i pantaloni, per farmi accarezzare dalla sabbia calda. Ora i miei
passi si fanno più veloci, hanno fretta di raggiungere ciò che finalmente
riesco a vedere, questa immensa distesa azzurra di acqua cristallina che
mi confonde, svelandosi invitante al mio sguardo. Non è una distesa
solitaria, perché quella sagoma color indaco si sta avvicinando. Sono
curioso, ma non temo nulla. La pace intorno, dentro, allontana ogni cosa;
il traffico delle automobili nell’ora di punta, la scrivania, lo squillo continuo
e martellante del telefono, l’intero mondo è così distante da sembrare un
universo parallelo.
Sorrido e penso a quanto ieri la mia ventiquattrore sembrasse pesante,
colma dei miei doveri, delle mie ansie, del mio dolore quotidiano,
dell’inutilità del mio studio.
«Dovevo giungere fin qui?» mi domando a voce alta, sentendomi
rispondere con un’esclamazione dalla mia stessa voce.
«Dovevo giungere fin qui!»
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Mi volto e mi sembra come di riflettermi in uno specchio. Di fronte ho un
uomo con le mie stesse sembianze, ma più compito di me, impeccabile
nella sua giacca, cravatta e occhiali scuri. Scuoto la testa, per tornare alla
lucidità, ma lui rimane piantato lì. Sono confuso, l’unico vero sollievo lo
avverto nel sentire l’acqua bagnare, silenziosa e discreta, i miei piedi.
L’altro me si avvicina, invitandomi a camminare ancora più avanti, proprio
con lo stesso garbo con cui avrei aperto la porta dello studio a un cliente.
Non sono solo, ma forse lo era la mia anima, tanto sola da andarsene via
per la strada della menzogna, della falsità quotidiana, degli amori finti e
dei piaceri fugaci.
L’altro me cerca disperatamente di indicarmi un uomo che più in là gioca
con dei bambini, con uno in particolare, dalla piccola figura esile. Cerco di
avvicinarmi attirando la sua attenzione, ma lui non si volta. È possibile
che non mi abbia sentito, quasi come non esistessi veramente.
Mi sembra di vivere l’ultimo incubo della mia vita.
Al secondo tentativo il bambino si volta, non in risposta alla mia voce ma
a quella dell’uomo che lo chiamava urlando il mio nome. Mi avvicino
incerto e riconosco l’ombrellone che mio padre affondava nella sabbia,
sulla spiaggia, quando ero piccolo. C’è anche mia sorella, la barchetta con
cui giocavo, il pallone grande a scacchi colorati che volava sempre via col
vento, il costume di cui andavo tanto fiero con l’ancora bianca e blu
disegnata sopra. Riconosco la mia felicità nella spensieratezza di quel
bambino. I ricordi cancellati dalla memoria riaffiorano violenti, assumendo
un’importanza vitale. Riconosco la bellezza di mio padre mentre mi
insegnava a far volare l’aquilone e che, celando le sue preoccupazioni,
costruiva per noi castelli di sabbia.
Mi avvicino ancora per carpire almeno un dialogo e sento chiedere da mio
padre a quel fanciullo cosa avrebbe voluto fare da grande, ascolto la sua
risposta arrivare immediata, insolitamente seria per un bimbo di quell’età:
«Qualunque cosa mi faccia sentire libero, onesto, qualunque cosa mi
faccia sentire amato.» La schiettezza di questa affermazione mi fa
allontanare frettolosamente tra le lacrime, rendendomi conto di quanto io
non mi sia mai sentito davvero libero, ma sempre schiavo di meccanismi
eversivi, mai compreso nelle difficoltà e forse mai amato veramente.
Mi inginocchio sulla sabbia bollente, di fronte all’acqua, e piango come
mai ho fatto. Singhiozzi strazianti che sembrano uscire dall’anima. Piango
per non essere riuscito a soddisfare la promessa fatta a papà.
L’altro me si pone di fronte a questo uomo affranto, che ancora in
ginocchio, impreca per delusioni scontate, mi fa prendere in mano la
ventiquattrore e, con un gesto, mi invita a gettarla in mare, lontano. Con
la mia stessa voce mi dice di chiudere gli occhi, e all’improvviso sento
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freddo. Quando li riapro il mio doppio non c’è più, mi ritrovo però le sue
scarpe ai piedi; forse è questa l’unicità che andavo tanto cercando.
Credere e lavorare vivendo sempre in preda ai sentimenti. Mi sento così
forte, più giusto e più vero. Ma non sento ancora la brama di tornare
indietro. È come se ci fosse dell’altro, come se queste rivelazioni non
fossero finite qui.
Mi siedo svuotato e penso all’episodio che cambiò la mia vita, facendomi
percorrere una strada che non mi apparteneva veramente.
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CAPITOLO 2
Vestito bene, come per le grandi occasioni, cammino ansioso nel mio
studio, nell’abito blu, la cravatta intonata e le scarpe marroni coloniali,
con i lacci tesi, abbinati alla cintura con la fibbia dorata.
Sono così orgoglioso, con quanta volontà sono riuscito ad arredare quella
stanza, avuta in affitto dalla signora Brunilde. La scrivania bianca con gli
intarsi in legno di noce, la piccola lampada che illumina lo scrittoio, la
poltrona comoda di pelle nera, posta sotto al quadro con l’immagine del
Gesù Cristo sulla croce, adorato da due figure affrante in ginocchio. Alla
sinistra la grande finestra che si affaccia sul porto. Quando ho dato la
disposizione agli operai di sistemare quella stanza mi sono raccomandato
di non tralasciare il minimo particolare, incaricandoli di dipingere tutto di
bianco, velato da una leggera sfumatura di grigio e lasciare lo spazio
necessario alla sistemazione di una libreria, proprio tra le due pareti di
fronte alla finestra, simile a quella della mia infanzia. Mi faceva sentire
coccolato come tra le pareti della mia camera nella casa paterna.
Adesso è tutto sistemato. Il profumo del mare che entra dalla finestra
aperta penetra con forza nelle mie narici, dandomi l’illusione di essere
perduto in quell’immensa distesa azzurra, intervallata soltanto da qualche
macchia di colore dei natanti che corrono senza ostacoli. È una sensazione
bellissima, stare seduti a trentasei anni dietro a quella magnifica
scrivania, dopo averne trascorsi tanti di gavetta nei più grossi studi di
Joport, con lo spirito di chi riuscirà un giorno a conquistare il suo piccolo
mondo.
Davanti allo specchio, delimitato da una cornice antica, mi sorprendo a
gesticolare. Sto facendo le prove generali dell’impressione che susciterò ai
miei primi clienti. Sono considerato l’avvocato più promettente della costa
orientale. Nostro Signore mi ha omaggiato del dono dell’eloquenza e
quando parlo le persone rimangono come incantate ad ascoltare, e io
adesso mi sento così orgoglioso e imbecille davanti a quello specchio con
le mani che si muovono con sicurezza e devozione. Sono così fiero di me.
Al suono del campanello pesanti gocce di sudore mi scivolano dalla fronte
fino alle sopracciglia, urtando le lenti dei piccoli occhiali in celluloide.
Allora me li sfilo con movimenti rapidi, li pulisco, mi asciugo il sudore, mi
sistemo l’elegante cravatta che mi ha regalato mia madre, a righe blu e
grigio chiaro, e mi ritrovo affannato davanti alla porta di ingresso.
Pochi attimi interminabili prima di aprire al mio primo cliente. Pochi attimi
eterni da sembrare secoli, e la sensazione di vivere in un corpo non corpo
sostituisce la certezza di esistere lì, in quel momento antico, vissuto e
sognato.
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Nell’aprire l’uscio riacquisto il completo controllo della mente. Il cervello
dà i giusti impulsi agli arti e l’emozione confusa lascia il posto a una calma
sicura.
La visione di due donne mi sorprende, ma le faccio accomodare, facendo
in modo che non si accorgano del mio sguardo indagatore, penetrante. È
attraverso gli occhi delle persone che si può risalire alla loro anima, alle
loro debolezze. Nel mio lavoro è fondamentale poterle riconoscere, io per i
miei clienti devo essere un po’ confessore; è importantissimo carpire
anticipatamente i motivi che li hanno spinti da me.
La prima delle due donne, quella più alta, si pavoneggia nell’abito verde
smeraldo, non facendo niente per celare la sua esasperante convinzione
di essere la donna più bella mai creata dal Padre eterno.
Slanciata, i capelli rossi che incorniciano il volto roseo; le labbra piene
esaltate dal rossetto color carne e il nasino irregolare a fare da
spartiacque a due occhi verde giada, grandi, grandissimi.
Quando Marion si presenta, non posso fare a meno di sognare le sue
forme esuberanti vicino al mio corpo nudo, distese tra l’erba alta di un
campo.
Prende la parola presentandomi sua sorella Agatha, una donna minuta,
meno alta di lei, capelli corvini e occhi neri dai quale trapela una tristezza
inquietante, quella di chi non ha più niente da dare al mondo e che non si
aspetta più niente da esso. Nell’abito rosso che indossa le sue forme esili
sembrano perdersi come un bambino nel bosco.
«Prima di lei ci siamo rivolte all’avvocato Page, che certamente
conoscerà.» attacca Marion con fermezza «Ma il suo approccio
convenzionale alla questione ci ha profondamente deluso. Siamo certe
invece che un giovane professionista come lei potrà soddisfare le nostre
esigenze che il suo vecchio collega non è riuscito neanche a capire.»
Sto per replicare quando sento una vocina che intona una una ballata
infantile, una ninna nanna e vedo, seduta in terra, una bambina che gioca
con una pallina colorata, spiegazzando il suo abito azzurro. Non l’ho
sentita entrare e mi alzo incredulo per guardarla meglio. Nello stesso
istante lei volta la testolina bionda e si alza in piedi fissandomi con due
grandi occhi neri. Un fulmine mi penetra facendomi rabbrividire. Vedo
prima il bianco delle onde che si infrangono sulla vecchia scogliera, stanca
e consumata dal tempo, poi l’azzurro dei bagliori dei fuochi di artificio
quando si proiettano verso il cielo cercando rifugio per non tornare
sconfitti fino a terra, e infine il rosso della disperazione del sole nel
deserto, miraggi e presagi di vite finite.
«Le presento Rebecca.» dice Marion, «È per lei che siamo venute. È la
figlia che mia sorella ha avuto con suo marito nei quattro anni prima della
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separazione legale.» Marion mi fissa un istante, poi abbassando un po’ la
voce riprende a spiegare. «Agatha ha una forte depressione, causata da
un esaurimento nervoso. La colpa è del suo matrimonio, un matrimonio
violento, orribile.» Agatha distoglie lo sguardo da me, fissando la
collezione di elefanti in onice posti in sequenza sulla mia scrivania, mentre
Marion continua nel suo racconto «La bambina è stata affidata a mia
sorella ma il marito è venuto a sapere dello stato in cui si trova e ha
chiesto la modifica della sentenza. Rivuole la bambina con sé. Avvocato,
Rebecca è la vita di Agatha, la sua unica fonte di vita.» La interrompo
chiedendo alla sorella di fornirmi delucidazioni sugli episodi significativi
della sua vita matrimoniale. Quando al secondo tentativo non ottengo
risposta, capisco che il destino mi ha messo davanti alla cosa più brutta
della vita di un uomo: il più forte che vince sul più debole.
Una voce nella mia testa mi suggerisce di rifiutare l’incarico, quando
Rebecca si avvicina alla madre e porgendole la pallina le chiede di
tirargliela. Agatha, con scatto felino, raccoglie tutte le ultime forze nel
corpo esausto da lotte infinite, e con un gesto comandato, accompagnato
da un sorriso che la illumina, obbedisce come un cucciolo che risponde
all’ordine del suo padrone.
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CAPITOLO 3
Incamminandomi tra il bagliore delle ombre di fine estate, tra i vicoli e le
piccole finestre, il pentimento di aver accettato l’incarico si alterna
all’incertezza della buona riuscita. Penso a cosa avrebbe potuto significare
la sconfitta per la mia carriera appena iniziata, ma assalito dall’eccitazione
del primo impegno, mi rendo conto che avrei dovuto accettare tutto, ma
con distacco, non lasciandomi coinvolgere dai sentimenti. Con i piccoli e
vivaci occhi di Rebecca ancora in testa, capisco che devo fare di tutto per
salvarla dallo sguardo senza lucidità della madre e non renderla vittima
degli sporchi giochi del padre. E per farlo ho bisogno della necessaria
razionalità professionale.
Ma l’immagine di lei così tenera e fragile, che gioca con i timbri sulla mia
scrivania, lasciando sul foglio un cerchio composto dalle mie firme, non
riesce ad abbandonarmi. Mi emoziona il pensiero di lei che magari sta
giocando, facendo urtare le palline tra loro, mentre altri, me incluso,
decideranno il suo futuro. Se fosse mia figlia vorrei solo che sorridesse di
più, milioni di quei sorrisi ingenui che soltanto i bambini riescono a fare.
Ma perché i suoi occhi non fanno che rammentarmi quelli di mio padre,
così limpidi e sinceri, mai severi, mai ostili?
E poi Rebecca è così gentile, aggraziata nei modi, già così femminile,
sicuramente più di sua madre, che donna lo è da molto tempo.
Ho deciso di prendermi a cuore questo caso. Lavorerò con l’impegno che il
padre mette nello spiegare al figlio quanto è grande il dono di esistere che
ci ha fatto il Signore.
Appena sveglio, dopo una notte piena di incubi incomprensibili, inizio a
studiare i documenti, bevendo frettolosamente il caffè. Ripenso allo strano
sogno che ho fatto, cercando invano di dargli un significato; mi trovavo in
mezzo a un campo appena arato, intorno a me il fuoco, quando dalle
fiamme sento una voce cristallina gridare “Perdonami! Perdonami per
tutto quello che non ho potuto fare. Perdonami per non essere riuscita a
indicarti la giusta via, per essere rimasta immobile, mentre quei signori
davano fuoco al campo”. Io atterrito dalla paura e sudato per il gran
calore delle fiamme che divampavano tutte intorno, cerco di gridare aiuto,
ma dalla mia bocca escono soltanto frasi consolatorie.
Distolgo la mente da quelle immagini che mi sconvolgono anche da
sveglio e finisco di prepararmi per la giornata di lavoro.
A passi veloci arrivo allo studio, affaticato dalla corsa e dal turbamento
notturno. Mi siedo alla scrivania e dopo uno sguardo veloce al porto, che
ancora si intravede nonostante la foschia del primo mattino, mi tuffo
come un pazzo tra i documenti.
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Non mi rendo neanche conto che sono passate più di due ore, quando
suona il campanello. Alla vista di Marion rivivo la stessa emozione della
prima volta che l’ho vista, ancora più bella e sfuggente con quell’aria di
sufficienza costruita. Entra, pavoneggiandosi all’interno del mio studio, si
mette seduta e accavallando le gambe mi dice «Ho creduto opportuno
tornare a farle visita, perché voglio assicurarmi che lei stia già studiando il
nostro caso. Non possiamo permetterci di perdere tempo. Dobbiamo
trovare in modo rapido una soluzione a noi favorevole.»
D’istinto mi alzo e e quasi senza rendermene conto timidamente mi
avvicino a lei prendendole la mano. Lei si alza a sua volta, come impaurita
da quel gesto improvviso, ma al tempo stesso incuriosita da un’azione che
probabilmente faceva parte del suo modo di fare e che non si aspettava
potesse provenire da un uomo come me, non di certo al secondo incontro.
Ci guardiamo negli occhi, sguardi dai quali trapelano turbamenti di amori
passati, presagio di tempeste ormonali che sciolgono le metafisiche
aspirazioni.
In quel momento esatto decido che sarà la compagna della mia vita.
Mi rimetto a lavoro, dopo aver congedato Marion con un invito a cena
quella stessa sera alle venti. Acceso da questa passione inaspettata, ma
così forte e cosciente, cominciai, con rinnovato entusiasmo, a sfogliare le
carte che lei stessa mi aveva procurato. Un certificato medico attira la mia
attenzione. È con quel certificato che il marito di Agatha ha richiesto la
revoca dell’affidamento al giudice. Si legge su una carta intestata della
clinica psichiatrica Santa Teresa che la donna è afflitta da una forte
depressione, non è violenta ma ha gravi problemi nella socializzazione e
nel reinserimento in società. Le cure adottate durante la sua
convalescenza, pur alleviando alcuni sintomi, non hanno dato i risultati
sperati. La lettura di questo documento mi sconvolge. Mi rendo conto che
i quindici giorni che ho a disposizione per ribaltare queste tesi e
dimostrare il contrario sono veramente pochi. Decido quindi di andare di
persona alla clinica Santa Teresa per acquisire le informazioni sulle reali
condizioni di salute di Agatha.
L’istituto è collocato a pochi chilometri da Joport, vicino alle colline
dell’Angelo Azzurro, le splendide alture che incorniciano il paesino. Senza
pensarci troppo salgo in macchina e mi avvio verso quella destinazione.
Suono al citofono di un imponente cancello in ferro battuto. Una voce
ferma risponde e dopo essermi presentato fa scattare, tra gli scricchiolii, il
serramento, lasciandomi entrare.
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Un lungo viale alberato, curatissimo e profumato dell’erba appena
annaffiata, precede una costruzione regolare di inizio Novecento. La
facciata in cortina e gli infissi in legno scuro la rendono rassicurante.
Vengo ricevuto da un’infermiera, una donna di mezz’età, con i capelli tinti
di biondo, di media altezza, esile e imponente allo stesso tempo. Mi
accoglie in una saletta di attesa e dopo avermi chiesto i motivi della visita,
mi invita a seguirla lungo un corridoio largo come lo spazio che ti rimane
in metropolitana durante l’ora di punta, sporco come il cielo nuvoloso. In
quel corridoio ti sembra di percorrere gli ultimi venti metri della tua vita, i
più disperati. Giungiamo davanti a una porta a vetri opachi, sulla quale
“Prof. Brown” sembra scritto con inchiostro di seppia.
Saranno all’incirca quaranta gli uomini, le donne, i bambini e gli
adolescenti ricoverati in questa struttura; li incontro tutti, anzi loro
incontrano me. Sembrano avere tutti la stessa faccia e lo stesso profumo,
evidentemente utilizzano il medesimo sapone per la loro igiene; vestiti di
tute celesti, si rincorrono, si urtano, stanno accoccolati in un angolo o
sono assorti in giochi incomprensibili. Qualcuno muove le mani curate,
con moto ansioso, cercando invano la giustificazione dei propri sensi di
colpa. Ma l’espressione che non dimenticherò mai è quella dei loro occhi.
Sguardi in cui si intravede il senso del vivere senza una meta precisa,
senza un ricordo glorioso, o un futuro dignitoso. Quel vivere lontano dal
mondo, senza la paura di essere frantumati dal sereno di una calma
apparente. Il senso del esistere ancora nella confusione trasparente della
vita trascorsa a raggiungere qualcosa o qualcuno che non c’è. Sembra che
abbiano tutti quanti lo stesso colore.
La certezza che anche loro pensino le stesse cose di me, mi provoca un
sottile stato d’inquietudine.
La voce dell’infermiera che mi presenta al professore, mi distrae da quei
pensieri e il veloce colloquio con il dottore sulle condizioni di Agatha mi fa
capire che i miei sforzi di oppormi alla richiesta di revoca dell’affidamento
sarebbero stati vani, e che avrei dovuto impostare la causa in modo che
la bambina non corresse il rischio di trovarsi tra la poca lucidità della
madre e la violenza del padre.
Decido allora di telefonare all’assistente sociale incaricata del caso, per
cercare di dimostrare le reali condizioni della situazione e i possibili
pericoli che potevano gravare sulla bambina.
Devo assolutamente escogitare qualcosa.
Stanco delle emozioni di quella interminabile giornata, mi ritiro a casa,
aspettando con impazienza l’ora dell’appuntamento con Marion.
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CAPITOLO 4
Arrivato a casa di Marion, mi viene ad aprire un cameriere di colore che
con fare cordiale mi conduce nello studio del nonno di Rebecca, che aveva
espresso la volontà di conoscermi. Tra l’imbarazzo e l’emozione mi
accomodo nella stanza, dopo le presentazioni di rito.
Il padre di Marion è un uomo alto e robusto, con i tratti somatici marcati,
le folte sopracciglia fanno da cornice ad occhi a fessura color nocciola, e
un grosso naso aquilino, sopra le labbra sottili, spicca in un viso rotondo.
Guardandomi intorno mi rendo conto che l’imponenza della sua scrivania
in legno antico dà l’impressione della grandezza che si prova davanti a
uno stadio di calcio pieno di spettatori, e con la stessa ansia che ti
trascina al fischio di inizio, ascolto cosa sta per dirmi, seduto sulla sua
poltrona di pelle marrone.
«Noto con estremo piacere che mia figlia ha finalmente scelto un cavaliere
degno di questo nome.» comincia lui accendendosi una sigaretta, «So che
si è preso a cuore il problema di Rebecca. Mi raccomando, avvocato, non
deluda le nostre aspettative.»
Si accomoda sulla sua enorme poltrona di pelle e continua «Mi rendo
conto che mia figlia Agatha non è certamente in grado di badarle, ma noi,
come può vedere, siamo in grado di non farle mancare nulla.»
Fa una pausa per dare maggior enfasi a cosa sta per dire «Io sono un
commerciante di pellami e la fortuna non mi è mai mancata. È una dote
che se unita alle capacità, ti permette di vivere una vita agiata. Voglio un
bene profondo a quella bambina, che pensarla vicino al padre mi
pietrifica. Quell’uomo è una persona di grande voracità. Dopo aver messo
incinta Agatha, e non è stato sicuramente un incidente, l’ho preso a
lavorare con me, affidandogli un incarico di estrema fiducia. Si occupava
dell’importazione delle pelli, della loro scelta e del loro pagamento. Mi
aveva incantato con quel suo modo di fare, ed è stata la prima volta che
mi sono sbagliato sulla valutazione di una persona. A pochi mesi dalla sua
assunzione, i numerosi ammanchi di cassa stavano mettendo in crisi la
mia azienda, ma non sono mai riuscito a dimostrare che fosse lui il
colpevole. Quando poi sono stato costretto a licenziarlo è come impazzito,
concentrando tutta la sua rabbia contro la moglie e la figlia, dando segni
di un squilibrio terrificante.»
Fa una pausa mentre la cameriera ci serve il caffè, per poi riprendere
«Comunque sia i miei uomini lo hanno punito a dovere, senza lasciare
segni. Ho dovuto riprendere il comando dell’azienda con tutte le energie e
trovare nuovi investimenti e investitori. A ogni modo oggi posso
considerarmi uno degli uomini più ricchi della costa.»
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Fa una pausa per permettere alle sue ultime parole di rimanere come
sospese nell’aria, a sottolineare il suo potere. «Le ho fatto questa
premessa per farle capire che le mie figlie sono sempre protette da uno
scudo inattaccabile. Da quando è morta la loro madre ho cercato di non
far mancare loro l’affetto, provvedendo a ogni bisogno. Vivono come
principesse e non permetterò mai a nessuno di far loro del male. Sono
disposto a tutto, usando qualsiasi mezzo, lecito o meno. Nel caso di
Rebecca non mi hanno permesso di intervenire perché hanno paura che io
scenda a compromessi irragionevoli, anche se avrei voluto risolvere la
cosa a modo mio, come ho fatto per la separazione e per tutte le cause
che ho perseguito.»
Rimasi ad ascoltarlo per tutto il tempo, senza mai interrompere la
crudezza delle sue parole. Mai avrei pensato di poter provare quelle
spiacevoli sensazioni dinanzi a tanta povertà d’animo, io che non ho mai
giudicato le persone dal valore di ciò che indossano, mi trovo catapultato
in un mondo che non mi appartiene. Sto per diventare schiavo di quello
che da sempre disprezzo.
La voce di Marion interrompe i miei pensieri. Mi volto. È bellissima in quel
suo abito blu, che sembra cucito intorno alle sue forme. I capelli ondulati
scendono morbidi sulle spalle scoperte. La pelle bianca è una sintesi
perfetta di una mela e una pesca.
Si avvicina al padre e mentre lo bacia gli sussurra in un orecchio poche
frasi, che io con uno sforzo riesco a percepire «Papà, ti piace? Non è
bellissimo? Ne sono già innamorata.»
Nell’udire quelle parole, il mio cuore comincia ad avere un andamento
inconsueto. La consapevolezza di provare anche io gli stessi sentimenti mi
fa sentire immensamente felice ed è in quel momento che abbandono
tutti i pensieri, tranne quello di una serata magnifica, con la certezza che
sarà indimenticabile.
Siamo seduti a un piccolo tavolo rotondo in un ristorante sul mare,
mentre ci raccontiamo tutto di noi, con la speranza di capirci subito e dare
sfogo a quel desiderio che sento appartenere a entrambi. Le verso del
vino bianco ghiacciato che lei stessa ha scelto. Non sbaglia una mossa, è
simpatica, dolce, sensuale, estremamente accattivante.
Sono completamente rapito .
L’unico brivido, spiacevole nella sua forza, lo percepisco quando con una
coppa di champagne a fine cena brindiamo alla felicità di Rebecca. Mi
sento per un attimo proiettato nei miei pensieri e mi arrendo all’evidenza
di dover per forza illudermi di amare questo nuovo mondo,
inaspettatamente lontano e disonesto. Ma non voglio che finisca il mio
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sogno d’amore, per questo forse non faccio che cercare in lei ciò che di
giusto non c’è in suo padre. Per questo desidero innamorarmi, per
ritrovare in quel mondo così contorto qualcosa di più semplice, di più
vero.
“Se il fine è nei soldi, tutto è lecito”. Questo é l’articolo che non è sancito
in nessuna Costituzione. Lecito è persino il dolore di una madre che dà
alla luce un bimbo che non vedrà mai, perché tutti, dai medici alla polizia,
agli investigatori privati constateranno morto, mentre lui è vivo, ma senza
più la sua identità; è vivo e lontano, è di un’altra donna che magari lo
amerà e lo vizierà più della sua vera madre, considerando la spesa che ha
dovuto affrontare per saltare dall’ultimo al primo posto nella lista delle
adozioni.
Una volta ingenuamente ho domandato a mio padre perché il Signore
rende possibili certe brutte azioni dell’uomo, e lui mi ha risposto «Sono gli
uomini che rendono brutte le loro azioni, Dio amandoci profondamente ci
ha concesso la liberta. Noi odiandoci, la usiamo nel modo peggiore.»
Il telefono di Marion comincia a squillare, riportandomi alla realtà. Lei si
allontana e dopo qualche minuto ritorna, con la faccia di chi ha preso a
pugni un suo amico e questo gliene ha resi il doppio. Sconvolta dalle
lacrime, mi riferisce che Agatha è stata di nuovo ricoverata in clinica,
colta da una crisi furiosa. Udendo quelle parole, mi pento di non aver
fissato l’appuntamento con l’assistente sociale; mi rendo conto che ogni
minuto concesso alla quotidianità della vita è un minuto sottratto alla
tranquillità di una bambina che ho conosciuto soltanto il giorno prima, ma
che ha già catturato ogni più piccola parte del mio cuore.
Lascio Marion davanti casa sua, un veloce bacio affettuoso è la
conclusione indesiderata della notte che immaginavo come la più bella
della mia vita. Lei mi chiede di andare a prenderla il giorno dopo e di
accompagnarla dalla sorella. La tentazione di sottrarmi all’invito, così da
evitare le forti emozioni che mi aveva provocato la visita pomeridiana,
viene spazzata via da un suo tenero e morbido abbraccio.
Alzatomi di buon ora, vestito con cura, mi fermo in edicola per acquistare
il solito quotidiano. Una notizia su tutte mi fa sussultare “Si indaga su un
traffico illecito di bambini”. Distratto dal traffico, non leggo il resto e
quando mi ricordo della notizia, Marion sta già salendo in macchina, un
bacino e poi muti per tutto il tragitto.
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È l’insistenza di Marion, forse il potere che ha su di me, che mi induce a
far visita ad Agatha. Mentre entriamo la osservo e mi accorgo che è
veramente in contrasto con il contesto in cui ci troviamo.
Lei, così esuberante, fasciata in un vestito color prugna della stessa
sfumatura dei suoi capelli e il rossetto, è l’unico tocco di colore nella
cupezza in bianco e nero dell’edificio.
L’elegante incedere di Marion lascia dietro di sé la scia del profumo
impresso sul foulard leggerissimo che ha intorno al collo, di colore identico
a quello dei suoi occhi; una nota vezzosa, come tutto ciò che le
appartiene e che non guasta affatto.
Finalmente, dopo un’attesa interminabile, accompagnati dalla stessa
infermiera che mi aveva accolto il giorno prima, ci incamminiamo.
Alcuni particolari che mi erano sfuggiti mi fanno rabbrividire. Il corridoio è
privo di finestre, solo luci al neon. Perdendo il senso dell’orientamento,
accediamo a un’ala della clinica che non avevo visto. Un corridoio
lunghissimo e ingrigito dall’ansia di chi lo ha percorso per anni, precede
una porta di legno, imbottita di materiale gommoso. Un urlo terrificante
distoglie la mia attenzione dai particolari. L’uscio alla mia sinistra, che non
avevo notato, viene spalancato dall’infermiera che scusandosi entra con
decisione nella stanza. Estrae dalla tasca una siringa riempita di una
“pozione magica” e l’effetto dell’endovena è subito efficace sulla
poveretta, che appoggiandosi al letto, continua a fare schiuma dalla
bocca.
L’infermiera, tornando indietro, incrocia il mio sguardo e con la tranquillità
di un operaio in fabbrica sussurra poche crude parole, «Ora si calmerà.»
Attraversati altri due corridoi dove l’unico cenno di vita sembra essere il
rumore dei tacchi alti e quadrati di Marion, l’infermiera apre una porta e ci
fa accomodare in una saletta con ai lati tante sedie, sostenute e collegate
l’una all’altra da un tubo metallico. Al centro della stanza una pianta
liofilizzata. Niente che mi riporti alla vita.
Dopo circa venti minuti arriva Agatha, sulla porta è quasi trasparente e
stento a riconoscerla. Lo sguardo è senza vita. I bei capelli corvini sono
raccolti, ben pettinati a tal punto che penso tra me che forse tutto questo
tempo di attesa è servito per renderla decente ai nostri occhi.
È vestita con una specie di camice bianco, informe, che non lascia
intravvedere nemmeno il piccolo seno, il viso è esangue, senza trucco,
inespressivo.
Nel vederla Marion si alza in piedi, per nulla turbata da quella visione.
Sorridendo nel sentirsi osservata dalla sorella si avvicina a lei indicandosi
il vestito «Ti piace? L’ho acquistato ieri questo. La commessa me lo ha
consigliato dicendo che il suo colore mi dona particolarmente.», e poi
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comincia a simulare l’andamento di un’indossatrice sulla passerella,
voltandosi in prossimità della porta. Agatha risponde con un’altra
domanda «Rebecca come sta? Le hai comprato le calze con Topolino?»
Mi alzo all’improvviso e mi avvio di spalle verso la finestra cercando di
trattenere la commozione e i mille pensieri che passano nella mia mente.
Mi aggrappo alla speranza che Rebecca possa avere una madre presente,
lucida e affidabile.
Marion assicura la sorella di aver effettuato l’acquisto.
«Allora dobbiamo chiamare gli invitati, al matrimonio deve essere tutto
perfetto. Rebecca sarà la sposa più bella dell’anno.». Agatha vuole
immaginare sua figlia già grande e sistemata. Si vuole lasciare morire
serenamente, come già sta facendo, uccidendo in me la speranza di
riuscire a farle riaffidare la bambina. Sono così turbato, così confuso.
Voglio fuggire da quel posto, da quegli occhi spiritati, dalle urla della
pazzia. Voglio tornare a casa mia, vedere il mare, assaggiare il vento,
mordere la vita. Comunico questa mia intenzione a Marion, che
rimanendo in piedi vicino alla sorella, mi congeda dicendo che avrebbe
preso un taxi.
Mi ferisce questo suo modo di esserci e non esserci.
Esco rapidamente a testa bassa dall’edificio, senza guardarmi intorno e
non curandomi delle persone che incontro nel veloce incedere verso
l’uscita. Salgo sulla mia automobile, lasciandomi alle spalle l’irrazionalità
di quel luogo, il pallore dei volti, la reclusione. Freno di scatto alla vista di
un pallone da calcio che rimbalza velocemente in mezzo alla strada, per
paura che dietro di esso ci sia un bimbo a rincorrerlo. Mi torna in mente
Rebecca.
Mi sorprendo a pregare per lei, così, a voce alta. Al semaforo un uomo
che chiede l’elemosina mi guarda in modo strano e visibilmente sorpreso
si allontana. Gli sarò sembrato un pazzo. Ma chi può stabilire cosa sia la
vera pazzia, chi può giudicare pazza una donna, a cui è stato sottratto
tutto, l’amore, la gioia, la maternità?
Forse la vera follia è quella di Marion, che nella stanza con la pianta
liofilizzata, voleva fare l’amore con me, proprio là, nel grigiore di quella
dolorosa attesa. Il ricordo è nitido, lei che si alza, mi abbraccia, si volta di
spalle e prendendomi le mani le conduce sul suo seno e mi dice «Ti voglio
adesso, subito.» Le conduce più giù fino al suo sesso, e con un gridolino
di eccitazione, mi invita a muovermi.
Ma la mia reazione è solo di distacco, di indifferenza. Mi sono ritratto di
fronte alle sue labbra vogliose, così desiderate, ma non per puro sfogo.
Voglio decidere io quando fare l’amore. Credo che in realtà lei non si
renda bene conto del dolore che provo nel vedere gli altri soffrire. Forse
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ancora non mi conosce, forse mi illudo che veramente solo guardandosi
negli occhi basti per capirsi, forse due giorni sono troppo pochi per
illudersi di amarsi.
Decido in quell’istante che appena giunto a studio chiamerò l’assistente
sociale per fissare con lei un appuntamento.
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CAPITOLO 5
L’assistente sociale mi riceve il giorno dopo nel suo studio. Una stanza
bianca, bianche la lampada e la scrivania, così come la finestra con gli
infissi dello stesso colore. Suggestionante la trasparenza del sole che
attraversando i vetri illumina l’interno di una luce surreale.
La dottoressa mi accoglie con simpatia e la nostra conversazione ci porta
all’unica conclusione possibile. Constatata la denuncia di percosse che
grava sul padre di Rebecca e il certificato medico dell’instabilità psichica di
Agatha, la bambina deve essere assegnata momentaneamente a un
istituto per l’infanzia fino a quando il giudice non si pronuncerà per
l’affidamento definitivo e chiuderà la pratica. Siamo ridotti così, il futuro di
una bambina è diventato una pratica. Che male avrà mai fatto per
meritarsi un padre folle e una madre instabile?
Non ho più energie, me ne torno a casa per immergermi in un bagno
caldo. Abbandono tutti i muscoli del mio corpo con la speranza di non
pensare a Rebecca. Mi impongo di andare a visitare l’istituto Santa Lucia
dove avrebbero portato la piccola tra una settimana.
Ho scelto questo lavoro ed è stata per me una scelta ponderata. Sento di
possedere un forte istinto di protezione, che fin da bambino manifestavo
nei confronti di mia madre, quando portavo al posto suo le buste della
spesa o quando a scuola aiutavo i miei compagni di studi in difficoltà.
Cerco di convincermi di essere in grado di poter sopportare tutto, anche
questo caso che mi strazia il cuore e la visione del posto in cui mi sto
recando.
È sera quando finalmente giungo davanti all’istituto, una costruzione
moderna, alta non so quanti piani. Da qui le luci che provengono dalle
finestre mi fanno pensare al tabellone della tombola elettronica che ho
regalato a mio nipote a Natale. Mi torna in mente la sua voce sussurrata
all’orecchio quando estraeva il numeretto dalla sacca di similpelle rossa,
«…E questo, zio, dove lo metto?»
Io stando al gioco, e senza farmi notare dagli altri parenti gli indicavo il
punto in cui posizionare il tondino di plastica, che per magia, appena
appoggiato, si accendeva, mentre mio nonno a ogni numero estratto
pronunciava la sua cantilena «Cinquanta, Pietro suona e Gaetano canta.
Venticinque Natale è passato ma Capodanno non è ancora arrivato.»
Suono al citofono. Mi aprono senza chiedere il nome. Non posso far a
meno di pensare alle difficoltà avute nell’entrare nella clinica da Agatha. È
come se lì fosse incentivata la reclusione, qui l’apertura a tutti. Mi sembra
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di entrare in un negozio, accolto dai sorrisi e dalle gentilezze delle
commesse eleganti e ben truccate che sperano nei miei acquisti.
Mi accoglie appena entrato una donna sui cinquant’anni, dal sorriso dolce.
Mi dà la mano, scusandosi per la sua tenuta. Indossa una specie di
grande grembiule bianco a cuoricini blu e rosa. «È l’ora della cena ed ero
a mensa. Venga con me. Cominciamo così la sua visita panoramica.»
La grande porta a vetri, dietro la quale si sente un gran chiasso, si apre
su tanti, tantissimi bambini, almeno sessanta, sessanta musetti. Stanno
seduti su minuscole seggiole con grandi bavagli al collo, ognuno con il
proprio nome stampato. Sulle pareti sono disegnati grandi alberi, dalla
chioma verde. Il soffitto è dipinto di azzurro. Si respira l’aria di libertà. C’è
un gran profumo di pollo. La dottoressa, porgendomi una delle sedie più
alte, mi invita a sedermi e a mangiare con loro. Non so perché, ma con
naturalezza, accetto. Prendo in mano la piccola busta trasparente con
dentro le posate di plastica e cercando di imitare i gesti del medico
davanti a me, provo a mettermi a mio agio.
Mi sembra di partecipare a un picnic sull’erba, tra volti e sorrisi di bimbi
che giocano tra loro.
«Che fai qui?» mi chiede il piccolo seduto accanto a me e io, già
sfilandomi la giacca e la cravatta, gli rispondo che sono qui per mangiare
con tutti loro. Mi sorride e lo ritrovo accoccolato istintivamente sulle mie
ginocchia. «Ma tu sei forse il papà di qualcuno di noi?» mi chiede ancora e
leggo dal suo sguardo vispo e implorante l’attesa di una risposta
affermativa. «Giacomo, è così che ti chiami vero? Lo leggo sul tuo
bavaglino. Mangia tutto il pollo altrimenti non ti crescono i muscoli.»
Comincia a piegare il braccio, convinto di ciò che gli dico. Poi si rivolge a
me di nuovo «Sei simpatico. Se torni ti faccio trovare un bel disegno.»,
poi si alza dalle mie ginocchia con il buon proposito di finire tutta la cena.
«Era tutto gustoso.» dico alla signora che tutti i bimbi chiamano mamma
Beatrice. Ci alziamo e lei mi invita a prendere le scale per salire ai piani
superiori. A lato noto una pedana. Beatrice sembra leggermi nel pensiero
mentre mi dice «È per i bimbi che stiamo andando ad incontrare.»
Soffro già al pensiero di quello che mi aspetta.
Ci troviamo davanti a una porta con il disegno di una finestra con quattro
testoline che fanno capolino. Su ogni testolina, come in una vignetta, ogni
bimbo si presenta, dicendo il suo nome.
Nell’aprire la porta sento il sangue raffreddarsi nelle vene. Vedo quattro
sedie a rotelle accantonate all’angolo, proprio davanti ai miei occhi.
Quattro angioletti senza ali, che non possono volare eppure sembrano
farlo con i loro occhi languidi che mi fissano dai lettini, coperti fino alla
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bocca dal copriletto di lana. «Sei venuta a darci la buonanotte, vero
mamma Beatrice?» sussurra uno di loro.
Da dove mi trovo vedo solo un groviglio di lucidi capelli biondi. Quando mi
avvicino mi scontro con due occhioni verdi trasparenti, tristi, che mi
ricordano un libro letto da bambino, tra i singhiozzi.
Il bimbo biondo mi fissa con circospezione, poi mi sorride e con una
vocina gentile, mi chiede se mi andrebbe di fargli un massaggio alle
gambe. «Facciamo un patto, se lo farai stasera dirò una preghiera anche
per te.»
È incredibile l’autenticità dei bambini, è incredibile il loro sapersi
accontentare di piccoli gesti di amore. Il loro saper essere eroici di fronte
al dolore, comprendendo l’essenza delle cose.
Ecco proprio d’amore si tratta, di quell’amore che manca a queste
creature come a tanti altri che la signora Beatrice definisce con
delicatezza come bimbi che hanno qualche “problemino”. «Non importa.»
mi rassicura la signora «So già che nessuno li vorrà, ma non importa,
cresceranno qui con me e se il buon Dio mi concederà la salute necessaria
riuscirò a farli camminare, perché a volte più della medicina è la forza
dell’amore a guarire.»
Ascolto affascinato le belle parole, continuando a massaggiare le
gambette inerti. Quando il bimbo si addormenta, cullato dalle mie
carezze, la tenerezza mi invade e mi fa piangere così, senza rumore,
come fossi bambino anche io. La signora Beatrice mi guarda e, per non
mettermi in imbarazzo, fa finta di non vedermi, mentre forse, vinta dalla
mia stessa commozione, tira fuori dalla tasca del grembiule a cuoricini un
fazzoletto e si asciuga gli occhi buoni.
Quante volte ho dato per scontato l’alzarmi dal letto al mattino, poggiare i
piedi per terra e camminare serenamente, dopo aver inveito contro il
suono della sveglia? Quante volte ho dissentito con i miei genitori, non
considerando il dono grande mi è stato regalato nell’averli? Visibilmente
scosso mi avvio verso l’uscita dell’istituto, dopo aver congedato
frettolosamente la signora Beatrice, dicendole che si era fatto troppo
tardi. Nella sua risposta tutta la sensibilità e l’intelligenza di una donna
che ha votato l’esistenza a ognuno di questi poveri cuccioli soli e
abbandonati dalla vita «Non è tardi, forse per lei è troppo presto!»
Una telefonata al cellulare arriva come un presagio. La voce insolitamente
preoccupata di mia madre mi riferisce solo poche parole «Torna presto a
casa, tuo padre non sta bene.»,
Senza trovare il coraggio di chiedere chiarimenti, decido immediatamente
di tornare a casa.
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Sono in viaggio, stanco, e il rito regolare dei tergicristalli mi fa quasi da
ninna nanna. Vorrei tanto chiudere gli occhi e dimenticare l’ansia, la
paura, la consapevolezza che se non ci fosse stato qualcosa di grave mia
madre non avrebbe certamente chiamato al telefonino a quest’ora della
notte.
Prego solo Dio di farmi arrivare in tempo per poter imparare ancora la vita
da mio padre, per poter ancora parlare con lui, in tempo per vedere
insieme il sorgere del sole domani, davanti al mare. Mi accorgo, dal suono
della freccia di aver viaggiato per tutto il tempo sulla corsia di sorpasso e
di correre come un pazzo. Lo vedo dagli alberi ai lati della strada che non
faccio in tempo a focalizzare.
Eccomi, sono arrivato a casa.
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CAPITOLO 6
Sono le tre del mattino e da qui noto che la luce della camera da letto dei
miei è ancora accesa. Apro la porta, forse Gina sta dormendo, salgo le
scale a quattro a quattro e busso alla stanza di mio padre. La sua voce mi
dà il permesso di entrare. Provo sollievo nel sentirla, io che immaginavo
chissà cosa.
Entro nella stanza e lui è nel letto, seduto con due cuscini dietro la
schiena. Mi fa cenno di parlare piano per non disturbare mia madre che si
è addormentata, seduta sulla savonarola.
Anche adesso che non si sente bene si preoccupa per lei, come ha sempre
fatto nella vita.
Da questo mi rendo conto che mio padre supererà tutto, anche il piccolo
infarto che ha avuto la scorsa settimana e che mi ha tenuto nascosto per
non farmi preoccupare e lasciarmi lavorare serenamente. Al rimprovero
che gli faccio per avermelo celato, lui mi risponde «Sapevo che non sarei
morto, perché tu devi sapere troppe cose ancora da me. E poi ti devo
parlare di tuo nonno.»
«Dimmi papà, dimmi tutto. Ti ascolto.» dico dolcemente a mio padre,
notando in lui una certa ansia nel dover comunicare, come se dovesse
togliersi un gran peso dall’anima.
Nei suoi occhi lo sguardo di un uomo pronto a pronunciare parole difficili.
«Sai, figlio mio» comincia allora lui «Io non sono stato esattamente
l’uomo che tu credevi che io fossi. Non sono stato così perfetto, come tu
mi hai sempre visto. Prima di conoscere tua madre, ho avuto tante
donne, tanti amori così finti e sbagliati, da farmi quasi perdere la ragione,
per poi lasciarmi dentro uno strascico di dolore indefinibile. Arrivai al
punto di vergognarmi di me stesso.»
Per un attimo interrompe il suo racconto, chiedendomi dell’acqua, e poi
riprende «Anche tuo nonno, proprio come me, si perse nei meandri di un
mondo falso, sbrigativo, dove l’unico fine erano i soldi. Quando aveva
vent’anni e combatteva per la Patria, si innamorò della bellissima figlia
bionda del Sindaco del suo paese. Quando lei scoprì di aspettare un
bambino da lui, non volle sapere niente né di tuo nonno né di suo figlio,
perché era povero. Allora lui vendette l’unico bene che possedeva, una
macchina fotografica a cui teneva moltissimo, e le diede i soldi per farla
abortire. Voglio che tu sappia queste cose perché è l’unico modo per farti
capire l’uomo che ero prima che tu nascessi.»
Fa un sospiro, come per raccogliere tutte le sue forze e poi sussurra
«Adesso però devo raccontarti la storia che cambiò definitivamente la mia
vita…»
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Non ho il coraggio di interromperlo e gli dico solamente «Papà, tutto
quello che mi hai detto e che stai per dirmi non cambia né cambierà mai
l’opinione che ho di te. È vero, ti ho sempre visto come un uomo perfetto,
ma ti ci vedo anche ora, ora che hai trovato il coraggio di confidarmi le
tue debolezze. Spero soltanto di essere riuscito, durante tutta la mia vita,
a dimostrarti la mia grande aspirazione, che rimane e rimarrà sempre,
quella di assomigliarti. E ora dimmi, papà. Dimmi pure.”
Lui continua il suo racconto fino all’alba, quando esausto si addormenta,
certo di aver dato le giuste indicazioni al proprio figlio. E io rimango tutta
la notte accanto a lui a vegliare sul suo sonno e a riflettere sulla persona
che sono grazie agli insegnamenti e all’amore di questo grande uomo, che
ora affaticato nel suo letto, mi sembra così piccolo e indifeso.
Il giorno dopo il papà di Marion mi convoca nel suo studio con urgenza.
Quando squilla il telefono, appena dopo le otto del mattino, mi sembra
quasi di capire dall’intensità e al tempo stesso dal fastidio che provo per
quel suono che si tratta di lui. Dopo una notte insonne passata al
capezzale di mio padre e una rapida doccia passando da casa, sono a
studio da un’ora e ho un milione di cose da fare e organizzare, ma alla
sua richiesta di vederci prendo immediatamente la giacca, salto in auto e
corro verso casa sua, come sospinto da una forza attrattiva potente e
oscura.
Nella precedente visita serale non avevo notato i mastodontici leoni di
marmo ai lati del grande cancello, simbolo della potenza terrena che
sovrasta qualsiasi disputa, qualsiasi incertezza. Con la loro imponenza
trasmettono al visitatore una trasparente obbligazione nei confronti della
proprietà.
Durante il tragitto pensavo al motivo della convocazione, collegandola al
caso di Rebecca, anche se, probabilmente, aveva avuto la soluzione
migliore.
Entro accolto da una cameriera con un candido grembiule di pizzo bianco,
bianchissimo. L’uscio è posto tre gradini sopra l’atrio, li discendo
velocemente, imbarazzato da quel momentaneo predominio. Mi fa strada
con gentilezza, mentre mi conduce nello studio del padre di Marion. Poso i
piedi su morbidi tappeti a pelo alto e cammino tra i costosi mobili antichi,
facendo spazio soltanto alla splendida scala in granito, che conduce ai
piani superiori.
La cameriera bussa alla porta dello studio. Entro.
Dopo avermi fatto mille elogi per la soluzione momentaneamente adottata
per Rebecca, mi fa notare compiaciuto che tutto l’arredamento della casa
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è opera del buon gusto di Marion «È una ragazza meravigliosa, non
crede?»
Rispondo d’impulso «Credo di essermi innamorato di sua figlia al primo
sguardo. Le chiederò di sposarmi.»
Mi ritrovo a parlare così a questo sconosciuto con una temibile
naturalezza. L’uomo che prima era seduto davanti a me, si alza in piedi.
«È con vero piacere che ricevo per primo una notizia che mi lusinga al
punto tale di farmi dimenticare tutte le preoccupazioni che mia figlia mi
ha dato in questi anni. Anche se è decisamente poco che vi frequentate
sono profondamente convinto dei sentimenti che vi uniscono.»
Visi bil mente comm osso mi porge la mano destra e acco sta
volontariamente le sue gote alle mie per due volte e poi continua «Sono
onorato che mia figlia diventi la moglie di una persona come lei, educata,
colta e con la forza necessaria per diventare in poco tempo il miglior
avvocato della costa. Naturalmente d’ora in poi sarà lei ad occuparsi dei
miei affari, a difenderci dalle ingiurie che ci scagliano contro ogni
momento. Sono sicuro di non commettere l’errore di valutazione che in
passato mi stava costando tutti i sacrifici di anni e anni di duro lavoro.»
Annuisco affascinato a ogni parola pronunciata. Sogno a occhi aperti lo
splendido futuro che mi aspetta. «L’attendo qui questa sera alle
diciannove per presentarle i miei soci»
Con questa frase, che assomiglia a una sentenza, mi congeda con aria
soddisfatta.
Accompagnato dalla cameriera, il tragitto a ritroso nel corridoio ha tutto
un altro sapore, più familiare. Lo sento accogliente. Ha abbandonato
quell’aspetto gelido di poco prima. Incrocio lo sguardo interrogativo di
Marion. È bellissima con il completino da tennis, gonnellino e canottiera di
uno sgargiante color pesca «Hai parlato con mio padre?» mi chiede
incuriosita. Le rispondo d’impulso «sposiamoci a ottobre, è il mese che
amo di più. I colori dell’autunno mi hanno sempre dato un senso di allegra
tristezza. E poi in quel mese non si sposa quasi nessuno. E io e te siamo
così unici.»
Mi corre incontro e mi stringe in un abbraccio fortissimo, baciandomi
ripetutamente sulle labbra, come se già fossimo d’accordo. «A stasera,
amore mio» mi sussurra salutandomi e chiudendo dietro di sé il portone in
legno finemente intarsiato.
Torno a casa per cambiarmi, mi sento davvero felice. Avrò accanto a me
una donna meravigliosa che ho desiderato fin dal primo momento e avrò
modo di dimostrare a tutti le mie capacità professionali. La mia vita
sembra prendere proprio la direzione che avevo sempre sognato.
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Sono pronto, ancora alla soglia di questo portone. Attendo Marion alla fine
delle scale. Eccola, la mia principessa sta scendendo. È meravigliosa. Le
tendo la mano e lei appoggia delicatamente la sua sulla mia, liberandosi
dell’ultimo gradino. Sfioro le sue dita e la sensazione di aver conquistato il
mondo invade immediatamente il mio spirito. Le lunghe dita affusolate
con le unghie curatissime e smaltate di un colore trasparente, fanno da
meravigliosa cornice all’anello che le ho comprato. Oro bianco con un
cuore di brillanti incastonato.
Insieme raggiungiamo la sala delle feste, dal quale proviene un concitato
brusio che tenta quasi di sovrastare la musica di una piccola orchestra.
Entriamo e lo spettacolo che mi accoglie, mi lascia quasi senza fiato.
Siamo circa quaranta persone tra uomini e donne, vestiti alla moda. Noto
immediatamente una certa stravaganza di due particolari personaggi, dai
lunghi capelli puliti e lucidi di gelatina, barba fatta dal barbiere, vestiti
impeccabili e stivali a punta quadra in coccodrillo, che si intonano alle
borse delle donne che li accompagnano, in elegante abito nero da sera,
lungo fino alla caviglia con la scollatura tonda, di altri tempi.
Mi vengono presentati per primi. Si tratta dei soci del mio futuro suocero.
Due uomini con una spiccata eloquenza che non smettono mai di parlare.
Trattano diversi argomenti sfoggiando un’arguzia fuori dal comune, e io
penso che sono sicuramente i soci giusti per il padre di Marion.
Mi sembra di essere a mio agio in questo ambiente. I lampadari grandi di
cristallo non fanno che riflettere le luci di mille lampadine in ogni angolo
del grande salone. I quadri di autori importanti quasi scompaiono se
confrontati allo sfarzo dei mobili antichi, ai tappeti persiani, ai
soprammobili di ogni epoca e di ogni parte del mondo. Il ricco buffet
regna maestoso sopra alle tovaglie bianche ricamate. I calici di cristallo
disperdono la loro lucentezza tra i denti degli invitati. Eppure mi sembra
tutto così familiare. Mi sembra di conoscere tutti da tanto tempo. Mi trovo
a parlare con una disinvoltura tipica di chi ha sempre frequentato questo
ambiente.
Marion non fa che raccogliere complimenti e adulazioni. Improvvisamente
mi si accosta, mi prende per mano e mi conduce con sé, chiudendo a
chiave dietro di noi la porta dello studio del padre.
Mi trovo davanti a lei a pochi centimetri. Accosta le sue labbra alle mie,
cominciando a mordicchiarmi, facendomi morire di desiderio. Mi guarda,
mi fissa negli occhi e mi ordina letteralmente di spogliarla. Appoggia le
mie mani dietro la sua schiena, facendomi aprire la chiusura lampo. È
bellissima e così pronta ad amarmi. Me ne accorgo dal ritmo dei suoi
sospiri, uguali ai miei. È come se da tutta una vita non avessi aspettato
che questo momento. Lei mi spoglia velocemente, attirandomi sopra di sé
27
sul divano in velluto rosso e mi chiede senza nessun preambolo di venire
dentro di lei. Entrare nel suo corpo è una sensazione indimenticabile. Lo
sento fremere, danzare insieme al mio. Sa come far godere un uomo. La
osservo per un attimo, prima di richiudere gli occhi per assaporare ancora
le sue labbra. Vedo nell’apertura delle sue gambe, nei suoi capezzoli
turgidi di eccitazione una sensualità irreale. Lei così esperta ha capito che
ora il mio corpo è immobile nel suo, per paura che muovendosi il seme
sfugga. Con un gesto veloce e con forza inaspettata mi solleva facendomi
alzare. Si alza anche lei per poi farmi ricadere sul divano. Ora è sopra di
me. Guida il mio sesso dentro il suo. Afferra le mie mani per farsi
accarezzare il seno. La sento urlare improvvisamente di piacere. Il suo
grido è accompagnato subito dal mio, meno violento, meno invadente. Lei
continua a muoversi, mentre tutto in me sembra sciogliersi, lasciando
posto a un senso di appagamento e soddisfazione, di rilassamento.
Lei visibilmente ancora eccitata, dopo essersi scostata, prende la mia
mano e la guida sul suo sesso bagnato di lei e di me e, alla ricerca di un
piacere infantile, fa in modo che le mie dita lambiscano dolcemente il
clitoride «Toccami, toccami ancora» mi implora. La sento gridare ancora
di piacere.
Solo ora che sono a casa, con la lucidità del senno di poi, rifletto sul fatto
che nessuno di noi due in quel frangente abbia parlato di amore. Ma
perché non riesco ancora a immaginarla vestita da sposa? Eppure ha tutte
le caratteristiche che cerco da sempre in una donna. Forse non riesco a
immaginarla madre di miei bambini. E pensare che in questo mese ne ho
visti tanti, tanti orsetti smarriti, che si attaccano soltanto alla certezza di
esistere.
Mi addormento cullato dallo sguardo di mamma Beatrice che dolcemente
allevia i loro dolori e sogno gli occhi dei piccoli tristemente felici.
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CAPITOLO 7
Dopo quella sera, la mia vita cambia in modo repentino. Il mio studio
diventa rapidamente preda dei problemi della gran parte dei cittadini di
Joport e soprattutto il rifugio delle difficoltà del padre di Marion e dei suoi
soci. Riesco comunque a districarmi in tutti i casi che vengono posti alla
mia attenzione. Passo dalle piccole pratiche alle questioni di importanza
sopravvalutata. Ma una cosa su tutte mi sconvolge, si tratta sempre e
comunque di denaro: tasse di successione, fratelli che quasi si uccidono
nel mio studio per dividersi una proprietà accumulata dai genitori con
sacrifici inumani e che alla fine viene odiata, oltraggiata.
Mentre la mia vita quotidiana comincia ad assumere quel valore tanto
respinto, mi rendo conto che il potere dei soldi inizia a farmi desiderare
cose che per me non avevano mai avuto valore.
Compro un orologio magnifico, comincio a vestirmi alla moda, una
macchina nuova sportiva, una due posti scintillante, dove con Marion
corriamo su e giù per tutta la costa con la sua compagnia. Valori surreali
di felicità incomprese.
Simpatici i suoi amici, non certo dei rivoluzionari. Si possono
colpevolizzare soltanto perché danno importanza vitale all’aspetto, ai
capelli, alle scarpe, alle automobili.
Chissà quanti nostri coetanei invidiano questa sarabanda di ricchi
avventurieri, che per poter sorridere hanno bisogno di parlare di sesso, di
droghe, di cose futili. Eppure io sono lì, vivo e maturo con loro. Non penso
più né mi viene in mente di farlo. Sono sconvolto dalla mia felicità, da
quanto amo Marion. Non rimpiango niente di tutto questo, le mie angosce
e le mie paure, la voglia di fare. Ora le mie serate le passo a fare
l’amore, con amore, forse, ma quale?
Il padre di Marion mi affida un caso di estrema difficoltà. Si tratta di un
trasporto di pelli mai arrivato, un carico che sfiora la ricchezza del valore
che un impiegato dello Stato non riuscirebbe ad accumulare in trenta vite.
Sono partite dal Sud-Est asiatico e mai arrivate, non si trovano i
documenti di trasporto, né si sa con certezza se siano mai partite.
Prendo la decisione di andare a controllare di persona la lealtà del
mittente, ma mi impediscono di farlo e io, anche senza chiedere
spiegazioni, comincio a nutrire dei dubbi ancora indefinibili, ma che
iniziano lentamente a scavarmi dentro. Perché non mi hanno fatto
andare? Quali sono le ragioni che li hanno spinti a non farmi fare le
dovute indagini su questo caso? Cosa mi stanno nascondendo?
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Voglio accendere il fuoco nel camino di casa mia, ma non riesco a trovare
nella solita cassetta la carta necessaria, allora vado in automobile e trovo
un vecchio giornale pieno di notizie ormai vecchie, ma senza dubbio utile
allo scopo. Accartoccio la prima pagina e prendo un fiammifero, ma
mentre un angolo comincia a prendere fuoco, la notizia che aveva
suscitato il mio interesse quando l’avevo acquistato, cattura di nuovo la
mia attenzione. Soffio sulla fiamma per spegnerla, riapro il foglio
spiegazzato e comincio a leggere: “Un traffico illecito di bambini dal SudEst asiatico sta per essere scoperto. Il ripostiglio dove venivano rinchiusi
è stato portato alla luce dalle autorità giudiziarie. Si tratta di una fetida
fossa scavata nel terreno e ricoperta di cianfrusaglie.” Mi siedo
continuando a leggere, sempre più inquieto. “Gli elementi raccolti fanno
immaginare che una cinquantina di creature abbiano pernottato per due
notti all’interno della fossa. Sono stati rinvenuti escrementi umani, tracce
di urina, qualche pezzo di giocattolo e logori frammenti di stoffa. Un
elemento su tutti ha fatto inorridire le autorità: un piccolo orsacchiotto
giallo lasciato in un angolo della buca, una traccia inconfondibile del
passaggio di un’anima disperata, che nella disumana sofferenza, ha
dimenticato l’unico oggetto, segno di una vita trascorsa tra gli affetti di
chissà quali genitori, consapevoli o no della fine del loro bambino.”
Questa parte dell’articolo mi sconvolge. Mi passa anche la voglia di
accendere il fuoco.
Mi incammino verso la casa di Marion con la speranza di recuperare
l’entusiasmo e la serenità appena distrutta da quella lettura.
All’ingresso della casa incontro mio suocero che, con la solita aria di
scontata sufficienza, mi ricorda che mancano solo quindici giorni al
matrimonio e mi prega di raggiungerlo nel suo studio, subito dopo aver
salutato Marion.
Lei mi accoglie con la solita euforia e tra abbracci e baci, mi accompagna
nello studio del padre. Oramai ho del tutto abbandonato quell’aria di
prostrazione che guidava i miei passi, ogni volta che entravo all’interno di
quella stanza e anche se lui non fa altro che ricordarmi con i suoi
atteggiamenti che gli devo il mio benessere, riesco a mantenere le
distanze di chi fa finta di non capire, oppure non vuole dare peso a
quell’atmosfera un po’ squallida. «Allora Robert, purtroppo, ci siamo
dovuti arrendere. Quel carico di pelli non giungerà mai a Joport e
l’assicurazione, dopo le solite obiezioni, ci pagherà il settanta per cento
dell’importo perso. Comunque è in arrivo un’altra spedizione dal Brasile.
Questa passerà soltanto per il nostro Paese per poi essere destinata in un
centro di trasformazione. Ti prego di trovarmi un posto isolato, ben
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refrigerato e con sufficiente areazione, adatto a conservare le pelli per
due giorni prima della loro partenza.»
Lo saluto rassicurandolo, ignorando le domande che la mia intelligenza mi
sta suggerendo.
«Ho chiuso gli occhi come tu mi hai chiesto» dico a Marion sorridendo,
mentre lei cingendomi con le braccia continua a condurmi chissà dove,
giocando come una bambina a mosca cieca. «Siamo arrivati, puoi aprire
gli occhi» mi dice divertita.
Di fronte allo specchio, lei è splendida. Indossa un abito da sposa. Questa
visione mi commuove. Malgrado il candore del rosa pallido e lucido di raso
del vestito, Marion emana ancora una volta sensualità. «Porta male far
vedere l’abito allo sposo» le dico impulsivamente «Ho sempre creduto in
queste leggende popolari.»
Pentito dal tono duro di quell’esclamazione mi avvicino, rapito dalla sua
figura, tolgo il fermaglio che le tiene raccolti i capelli vaporosi e la bacio
appassionatamente. Il vestito è così aderente che non permette di essere
alzato. «Aspetta» mi dice, facendo scorrere la lunga chiusura lampo. In
un attimo è qui, davanti a me, pronta ad amarmi.
Il mio sguardo sull’unica cosa rimastole addosso, una giarrettiera celeste,
un ultimo tono vezzoso. Sorrido, nel vedergliela togliere poggiando la
gamba su una sedia, proprio come avrebbe fatto una ballerina di can-can.
Il trillo del telefono così invadente e continuo mi distrae. Vorrei non
sentirlo e continuare ad amare Marion, ma anche lei è visibilmente
infastidita, e dopo il sesto squillo mi dice con fermezza di rispondere alla
telefonata, visto che probabilmente il padre non è in casa.
Alzo la cornetta, ma in realtà mio suocero ha già risposto, chissà da quale
stanza di quella villa enorme. Sto per riagganciare ma qualcosa mi induce
a non farlo. «È tutto pronto» dice una voce maschile all’altro capo del
telefono, «Il carico di pelli è partito in nave.»
Capisco allora che stanno parlando delle importazioni di cui tanto si
interessa il padre di Marion, che ascolto rispondere «Stanno abbastanza
comodi? Hanno da mangiare? Non vorrei che succedesse come l’altra
volta, che due li abbiamo dovuti ricoverare.»
Riaggancio sbalordito e mi accorgo solo ora dello sguardo di Marion
posato su di me, delle sue mani che nel frattempo mi hanno sbottonato
con avidità i pantaloni per poi arrendersi alla mia evidente, improvvisa,
mancanza di desiderio. «Chi era?» mi chiede sorpresa. «Nessuno, hanno
riagganciato» le rispondo imbarazzato. Mi stacco da lei scusandomi, poi
mi ricompongo mentre la lascio con un gelido “a stasera”.
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Nel percorso a ritroso verso la porta, mi sembra di camminare al
rallentatore, incamerando ogni dettaglio; i tappeti, i mobili, i drappeggi, i
quadri, cose troppo costose per chi guadagna denari onestamente.
Ma perché mi sento così svuotato nell’anima?
Sono certo di quello che ho sentito, sono certo di non sbagliare. La realtà
è evidente.
Commercio di pelli, così lo chiama lui, il boss. Commercio di pelli, o
meglio, di pelle, cioè di bimbi che arrivano stremati dopo lunghi viaggi,
occhi che piangono di fronte a realtà terribili.
Come si può vivere nello sfarzo, sacrificando il dolore di povera gente?
Ora devo capire tutto. Sono inquieto, sorpreso, offeso dalla mia ingenuità.
Come ho potuto non accorgermene prima? Forse non ho voluto. Forse
quel mondo mi attraeva così tanto da imporre alla mia coscienza di farsi
domande.
Devo ritrovarmi, devo ricollocare la mia anima, devo capire quanto Marion
sappia di tutto ciò, quanto abbia ereditato dell’indole spietata del padre,
devo capire chi è in realtà la donna che sto per sposare. Non mi sembra
più di conoscerla. È come se nulla in questo mondo mi appartenga
veramente.
Voglio tornare a casa, andarmene via.
Sono in macchina, anche i lampioni gialli che tanto mi piacevano, ora
assumono un’aria spettrale.
Mi fermo a un semaforo rosso, ancora sul cruscotto, quel giornale,
quell’articolo, quell’indizio.
Poi, improvvisamente, un flash, gli stivali in pelle di coccodrillo della sera
in cui venni presentato ufficialmente come il fidanzato di Marion. Ogni
uomo indossava quelle calzature orrende e le donne, inclusa la mia
fidanzata, delle borse della stessa pelle fatta di squame di striscianti
serpenti, così simili a tutti coloro che erano lì a divertirsi, ignorando o
fingendo di farlo, la vera natura dei loro guadagni.
Mi torna in mente la signora Beatrice, Rebecca, i bimbi paralitici. Un
clacson distoglie i miei pensieri, il semaforo è diventato verde.
Devo andare da Agatha, devo subito parlare con lei.
Sono sotto la doccia da mezz’ora, l’illusione che l’acqua possa lavare le
mie ignare colpe. Mi giustifico e poi mi riaccuso. Non posso pulirmi dentro,
non posso lavare il malessere scaturito dalla mancanza di stima in me
stesso. Difendere suo padre, difenderlo dai suoi stessi inganni, conoscerli
e non poter far niente, se non negare tutto, inventare storie di fantasmi,
inventare storie lecite per giustificare i miei sensi di colpa. Mi ritrovo a
piangere con lacrime che mi bruciano sulla faccia più dell’acqua bollente
32
che scende dalla doccia. Pianti incompiuti e strozzati dallo sbattere di
piedi, contrasti di anime frequentemente turbate, soluzioni incoscienti.
E io mi ritrovo a galleggiare nelle acque torbide, di un azzurro inesistente.
Grido per gridare. E poi rimango in silenzio per cercare di rincorrere
aggrapparmi a quei mesi pieni di luce, ma così bui, offuscati da nubi
gonfie di ipocrisia. Adombrati da uomini che vivono nel coraggio vigliacco
del potere, aspettando soltanto le gocce di sangue di altri uomini assenti.
Scritte, fiabe, cuccioli che danno il senso della vita ma che riportano senza
tregua al tormento mai espiato. Anni di lotte senza influenze, capaci
soltanto di farti vivere senza sfiorare veramente il bene, quello prezioso,
giusto. La spia luminosa della segreteria telefonica non fa che
lampeggiare, segnalando di premere il tasto dell’ascolto dei messaggi
giunti. Non sono sicuro di voler sentire la voce di Marion, ho paura che in
questo momento potrebbe risultarmi sconosciuta.
Mi torna in mente mio padre, la sera che mi ha aperto il suo cuore.
33
CAPITOLO 8
«Figlio mio» riprende la sua narrazione fissandomi negli occhi «Quando
ero più giovane, deluso da mille storie inconcluse, sia affettive che
lavorative, era forte la sensazione che il mio cuore fosse più grande delle
menzogne nelle quali mi trovavo a vivere per diventare qualcuno, per
prendermi delle rivincite che soltanto adesso giudico assurde.»
Inspira aria fino a riempirsi completamente i polmoni per poi buttarla fuori
velocemente. «Mi rendo conto che sono rivincite solamente con noi stessi.
Mi sono ritrovato su un sentiero che percorsi come sospinto da una strana
energia. Lentamente la stradina bianca divenne sabbia e mi ritrovai
riflesso in uno specchio d’acqua, rivedendo la mia vita. Come successe a
mio padre, anche io fui disprezzato, umiliato, ferito per la mia povertà, al
punto tale che la donna di cui ero profondamente innamorato e dalla
quale aspettavo un figlio, non volle né me né il frutto del mio amore.»
Mi chiede ancora dell’acqua per sciogliere il nodo venuto alla gola «È
incredibile come il destino di un padre ed un figlio possano essere simili,
perché, vedi, certi lutti ti rimangono dentro per sempre. Ho sempre
creduto che quella bambina, perché ero certo fosse femmina, stesse in
cielo, lì da qualche parte ad aspettarmi, bionda e dolcissima, come sua
madre. Quando l’altro giorno sono stato male, ho perso conoscenza, ma
ho avuto la netta sensazione di essere avvolto da tenere braccia
di
essere sfiorato da capelli morbidi. Sulla spiaggia, quel giorno di cui ti ho
parlato, credo di averla vista per pochi istanti. Saltava e correva e i suoi
piedi sembravano non toccare la sabbia.»
Fa una pausa, un respiro profondo e continua «Volevo dirti che nulla si
dissolve, figlio mio. Ricorda che nulla si disperde e che anche gli
avvenimenti che sembrano non avere nessuna importanza riescono nella
nostra vita a trovare la degna collocazione. È stato tuo nonno dal mondo
della verità eterna ad accompagnarmi laggiù quel giorno, a darmi la gioia
di conoscere quella figlia mai dimenticata. È stato lui ed è lui che ci sta
accanto, che ci consola e ci guida. Credimi forse ti sei preso così a cuore il
caso di Rebecca, perché tuo nonno vuole comunicare con te, con me.
Vuole che i bimbi siano amati, come né lui né io abbiamo potuto fare. Tu
invece puoi per rendere giustizia ai nostri piccoli angeli, proprio salvando
e facendo sentire amati quelli già nati e non voluti. Contiamo su di te, sul
tuo buon cuore, sulle tue capacità!»
Solo ora riesco a comprendere fino in fondo il discorso che con tanta
fatica papà era riuscito a farmi. Prima di me aveva intuito che anche io
stavo per perdermi in un mare di menzogne senza trovare via di uscita.
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Labirinti consapevoli che non lasciano né lo spazio né il tempo di
ritrovarsi.
Eppure io mi sento sincero, io credevo di amare il benessere, ma quale?
Quello dei valori veri, del cuore, dell’anima.
Ora mi scopro amante di oggetti preziosi, costosi, ma anche di
rispecchiarmi nella semplicità, in cose altrettanto pregiate, forse
impagabili. Come i sorrisi di Rebecca, la dolcezza e la schiettezza di Gina,
l’amore incondizionato e disinteressato della signora Beatrice.
Penso al fatto che Dio non mi ha fatto mai pagare nulla, nessun biglietto
per vedere il mare, nessuna obliteratrice per guardare il cielo.
Improvvisamente ho voglia di indossare una maglietta bianca e un paio
di jeans e di correre bagnato di pioggia fino allo sfinimento, e poi di
buttarmi sul prato contrastato dai colori autunnali.
Rientro in ufficio e con un gesto meccanico spingo il tasto della segreteria
telefonica, forte della convinzione che nessun messaggio potrà ormai
cambiare l’opinione che ho su di loro.
La voce calda di Marion proveniente dalla registrazione sembra ancora più
suadente “Non voglio aspettare. Vieni subito”. Ha tutta l’aria di essere un
comando. Tutto sembra spettarle di diritto, soprattutto io!
Spengo la lampada vicino al telefono, spengo la luce su questa giornata
che mi ha riservato momenti difficili, ma dentro ho un grande senso di
pace. Programmo la sveglia per le sette della mattina dopo. Andrò di
primo mattino a trovare Agatha.
È forse il mio desiderio di libertà, di far riaffiorare la parte più intima di
me stesso che mi induce a vestirmi senza far caso agli abbinamenti. Mi
avvio verso la macchina dimenticando persino la ventiquattrore e
infilandomi il telefonino in una delle tante tasche del mio giubbotto
sportivo.
Arrivo davanti alla clinica, solita trafila interminabile per entrare.
Sono troppo deciso a incontrare Agatha, troppo preso dalle domande che
dovrò porle per soffermarmi sui particolari che la prima volta mi hanno
fatto tanto soffrire. Aspetto con impazienza nella sala d’attesa con la
pianta liofilizzata.
Mi fa sorridere con disprezzo il pensiero, il ricordo di quel primo giorno lì,
con Marion. La mia voce sembra appartenere a un altro mentre sussurro
«Come ho potuto?»
«Come ha potuto fare cosa? Innamorarsi di lei? Non si sorprenda, capita a
tutti gli uomini»
È Agatha, di fronte a me, lucidissima. I suoi capelli sciolti sulle spalle
mettono in risalto la sua delicata bellezza, così simile a quella della figlia.
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«Ha scoperto tutto, non è vero?» continua guardandomi dritto negli occhi,
quai con rassegnazione «Altrimenti non sarebbe qui, da solo, informale,
pronto a farmi mille domande per non soffrire, disperato al punto che
vuole farsi consolare da una povera folle. Sicuramente avrà scoperto
anche la provenienza della ricchezza di mio padre. Io l’ho scoperta già da
qualche tempo. Ma loro sono più forti di me al punto da farmi impazzire,
anzi, da farmi credere di essere una folle, da farmi rinchiudere. Io sono
diventata il personaggio scomodo, colei che sa ma che essendo pazza non
sarà mai considerata credibile»
Si interrompe improvvisamente, poi prendendomi le mani, continua «Io
ho sofferto quanto te. Mi hanno delusa, umiliata, tormentata, solo perché
non ero d’accordo. Solo perché so cosa vuol dire essere madre. So quanto
vale un figlio. So che il mio amore per Rebecca è talmente forte che può
proteggerla da loro e purtroppo non riesco a trovare migliore protezione
se non il distacco.»
Stringe le mie mani con vigore «Grazie a te mia figlia è al sicuro. Io qui
sono in pace. Ora pensa a te, pensa a mettere in salvo la tua anima»
Si allontana lasciandomi solo, stordito. Poi mentre la guardo allontanarsi
trovo la forza per gridarle «Ti tirerò fuori di qui e metterò dentro gli altri.
Te lo prometto.»
Si volta, mi sorride e mi dice con un filo di voce «Ci conto, non perderti
anche tu.»
Torno a casa distrutto, ancora morsi allo stomaco, ancora la maledetta
spia della segreteria “So che sei andato da Agatha”, dice la voce
registrata di Marion serissima, decisa, quasi non sembra la sua.
“Immagino quello che la sua pazzia le ha fatto dire”. Si ferma per un
attimo interminabile, poi continua “Se tu mi lascerai, mi ucciderò. Dammi
almeno la possibilità di parlarti. Ti aspetto per cena.”
Un amore morto in fondo al cuore non può spingere una persona a fare
un gesto che non vuole fare, ma la curiosità di vedere fino a che punto
può arrivare la bassezza umana, la menzogna e l’ipocrisia mi fa accettare
l’invito. Ma chi voglio prendere in giro? È proprio solo la curiosità a
spingermi fuori da questa casa? O forse la speranza di scoprirla
completamente estranea e di continuare ad amarla?
Ho il timore che con il suo fascino riesca a convincermi, con i suoi “tipregocredimi”, con i suoi “telogiurosumiamadre”. Ho paura che si finisca
come al solito a fare l’amore, ma stavolta è diverso. Non mi lascerò
coinvolgere. Lo devo a me stesso. Alla mia dignità.
La domestica mi accoglie con la sua solita gentilezza. Mi accompagna
davanti alla scala di granito e mi invita a salire in camera, dove Marion mi
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sta aspettando. Salgo le scale, consapevole del significato recondito di
questo invito.
Sull’uscio c’è lei, in un completino di pizzo nero che non mi piace, lo trovo
estremamente volgare. Ma è bellissima sempre e comunque. Mi guarda e
comincia a implorarmi di crederle, facendo uscire una lacrima che non mi
è indifferente. «Io non ne so nulla degli affari di mio padre, sto scoprendo
tutto ora, come te. Gli ho detto che andrò via, rinuncerò a questa vita
agiata pur di averti accanto.»
Non riesco ad avvicinarmi a lei, a sentirla vera. Poi, eccolo, il momento
che aspettavo.
“Ti giuro su mia madre, la persona che ho amato di più in vita mia, prima
che arrivassi tu, che quello che ti sto dicendo è tutto vero.»
Sembra così sincera che ho una voglia fortissima di crederle, di fidarmi
almeno di lei, quando dallo specchio alle sue spalle vedo la sua mano
muoversi in un gesto infantile, che quasi mi fa sorridere nella sua assurda
naturalezza: due dita incrociate dietro la schiena, a segnalare uno
spergiuro. La guardo con incredulità e disprezzo «Mi fai venire la nausea.
Non voglio più vederti, mai più!»
Sono furioso. La rabbia mi travolge togliendomi il respiro. Scappo via. Ho
bisogno di aria pura. Dall’alto delle scale sento il suo grido, che ancora
risuona nella mia testa, ora che sono lontano “T-I A-M-O”.
Non l’avevo mai sentito gridare da lei con tanta disperazione, forse non
glielo avevo mai sentito neanche sussurrare. Non faccio che sentire l’eco
di quelle due parole. È come se non volessi ammettere, che in qualche
angolo nascosto il mio cuore si stia domandando “e se fosse tutto vero?
Se lei non fosse che un’altra vittima del mostro?”. Poi la logica prende il
sopravvento, la mia lucidità mi riporta a ragionare, a vedere come in un
film le sue dita incrociate riflesse nello specchio. Ripenso alla sua pelle
morbida e vellutata, così diversa da quella a squame delle sue scarpe, ma
così simile a un serpente che ti incanta prima di avvolgerti, quasi ti
stritola. La notte sta arrivando. Mi sento invadere da uno strano
malessere, lo stesso di questa mattina.
Brividi e poi caldo. Gelo e poi tepore. Sensazioni insopportabili che
percorrono tutto il mio corpo. Ho la fronte che scotta, mi sembra che il
fuoco del camino che non ho più acceso stia bruciando, attanagliando
come in una morsa tutta la mia pelle.
Mi sembra di dormire, di sprofondare in un vortice. Ho come la sensazione
di essere in bilico sull’orlo di un grattacielo altissimo, sotto di me il vuoto.
Mi alzo all’improvviso, sedendomi al centro del letto. Sono svuotato e ho
freddo. Ho avuto un incubo.
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La sveglia segna le tre del mattino e risprofondo nel sonno. Vedo uno
sguardo implorante nel buio. Gli occhi di Rebecca, ai quali si
sovrappongono quelli di Marion che nel sogno continua a gridare “T-I AM-O”, come se stesse bestemmiando. Sento le sue mani delicate su di
me, le sento percorrere tutto il mio corpo. La vedo, i suoi occhi chiari
brillano nell’oscurità della stanza. Durante il sonno ho un momento di
lucidità, mi sembra che sia tutto reale. Sento il peso del suo corpo sul
mio. Mi sembra di morire tra le sue braccia, tra le sue gambe. Sento i suoi
sospiri. Mi sembra di entrare in lei, di svelare ancora una volta il mistero
che si nasconde sotto le sue carezze, sempre più veloci sul mio volto; del
suo corpo che danza sul mio fino a farmi urlare, all’apice del piacere, il
suo nome, rimane solo una sgradevole sensazione di umido piacere.
Mi sveglio, scosso dalla mia stessa voce e dalle lenzuola che odorano del
mio seme.
Mi domando se fosse solamente un sogno e la risposta non mi interessa
perché continuo ad aver bisogno di lei, dei suoi occhi, della sua pelle, del
suo amore. Entro in bagno, sono già le sette. Il suono del telefono guasta
il grande senso di beatitudine che la doccia mi stava regalando, ma
continuo a lavarmi con tranquillità. Ascolterò poi i messaggi in segreteria.
Ho ancora l’accappatoio addosso, non ho proprio voglia di vestirmi questa
mattina. Poso la tazza con il cappuccino bollente sul tavolino del telefono
e ascolto i messaggi della segreteria. La voce che esce dall’apparecchio è
stranissima, non distinguo chi stia parlando “Marion si è tagliata le vene,
ora è in ospedale con prognosi riservata, ti prego va da lei.” In
quell’implorazione tutto il dolore di un uomo che non è abituato a chiedere
qualcosa senza ordinarla. In quella richiesta, così simile a una preghiera,
tutta la sofferenza di un uomo che si sente colpevole di uccidere il proprio
figlio.
Eppure questa notte era così viva, proprio qui accanto a me. Io la amavo
mentre lei si stava uccidendo. Mentre mi vesto velocemente, mi
sorprendo a pregare Cristo, pensando alla sua Passione; trascinato
nell’orto, tradito e ripudiato dagli uomini e lasciato al suo consapevole
destino. Infinite folle si alzano per fare festa e incredibilmente ritorna il
tradimento di quella razza umana così amata. Un simbolo, la croce, e io
non posso fare a meno di piangere davanti alla natura sterile. Ma sono
tanto carico di quell’energia pura, che irrazionalmente accomuna gli
uomini agli alberi, gli animali all’erba, la stanchezza alla virilità. In
ginocchio, senza tregua, prego l’unico essere che può giudicare, al di
sopra delle parti, l’unico costantemente presente nel presagio di una
salvezza innaturale, e per questo ancora più ambita.
Signore non farla morire, ti prego.
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Arrivo in ospedale non scandendo il tempo, la sua stanza è situata
all’ottavo piano. Prendo l’ascensore e durante la salita rivivo la discesa
dell’incubo di questa notte. È tutto così piccolo da quassù. Davanti a una
porta a vetri opachi, che oscilla come quella di un saloon di un film
western l’incertezza di entrare lascia il posto alla ferma volontà di vederla.
Lei è di fronte a me, sul letto, i capelli disordinati, il volto ancora così
rosa, da sembrare semplicemente addormentato dopo una notte d’amore.
Gli occhi sono chiusi e un tubo partendole dal naso si collega a un
macchinario accanto al letto. C’è un gran silenzio, rotto solo dai battiti del
suo cuore amplificati e regolari. È comunque bella. Le accarezzo il volto,
sembra una bambina e la bocca appena socchiusa e senza rossetto, mi
invita a posare le mie labbra sulle sue, con una delicatezza mai usata fino
a ora. Ora è così vulnerabile, con i polsi fasciati per curare le ferite. Si
stava uccidendo per me. Il gesto disperato che ha compiuto non può non
significare nulla; mi sorprendo a inveire contro me stesso per non averle
creduto, per aver tratto conclusioni senza diritto di replica, solo per aver
intravisto da uno specchio un gesto che poteva significare qualsiasi cosa,
uno scatto di nervi, un gioco stupido. Quando mi affiora nella testa il
pensiero che io, accecato dalla rabbia e dalla convinzione della sua
colpevolezza, possa soltanto aver immaginato quelle dita incrociate, il
senso di colpa che mi travolge è così violento che rischio di svenire
addosso a quel corpo fragile disteso sul letto.
Le sussurro, illudendomi che lei possa ascoltare, «Ti amo così tanto che
vorrei viverti accanto per sempre.»
Un flebile sorriso le appare sulle labbra. Sembra avermi sentito. Un
medico entra nella stanza e mi chiede delicatamente se Marion fosse mia
moglie e io gli rispondo che lo sarà presto. Mancano pochi giorni al nostro
matrimonio. «È molto debole» dice il medico «Ha perso molto sangue, ma
stia tranquillo oramai è fuori pericolo e per quel giorno sarà splendida.»
«Signore, ti ringrazio» dico rivolgendomi al Gesù fluorescente che è dietro
alle mie spalle.
Con l’anima intorpidita dai sensi di colpa, mi avvio in ufficio. Riesco a
distogliere i pensieri dal letto di Marion solo quando mi immergo subito
nei documenti del mio futuro suocero. Ho scoperto dove nasconderanno il
nuovo carico di pelli in arrivo, la data coincide con il giorno successivo al
mio matrimonio. Decido che avviserò le autorità il giorno stesso e poi
partirò per il viaggio di nozze, consapevole della bomba che innescherò
ma soddisfatto della decisione presa. Voglio interrompere una volta per
tutte questo orribile traffico di vite umane, destinate alle adozioni illegali o
peggio.
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EPILOGO
È il giorno più bello della mia vita. Elegantissimo, salgo sull’automobile
che mi ha regalato mio padre, che oramai non utilizzavo da tempo, e mi
incammino sulla strada che da Joport arriva a Delay, qualche chilometro
per raggiungere la chiesa, dove il mostro mi darà in sposa sua figlia.
Accendo il motore, che scoppiettando non tradisce la mia fiducia. Mentre
guido rifletto su tutto quello che mi è capitato.
“Comunque si rimane soli. Depositi milioni di elementi che credi
fondamentali nella parte più recondita del cervello, con la speranza di
tirarli fuori quando ne capiterà l’occasione. Eppure quando ti servono non
li ricordi mai. E poi incredibilmente riaffiorano quando sei solo e allora li
cancelli arrabbiato per non averli potuti utilizzare quando ti servivano.
Siamo sicuri che tutte quelle informazioni siano così importanti?
Dobbiamo necessariamente consolidare le nostre idee, bisognerebbe
cercare di agire, qualche volta, con l’istinto guidato dal buon senso.
Dovremmo cercare di possedere il tempo, determinando con calcoli
precisi, le differenze tra il dover vivere e il saper vivere. Leggi nei riflessi
inconsueti che la nostra mente ci offre le possibilità che ti vengono date,
e scegli. Nella vita è comunque difficile percorrere la strada del pensiero,
bisognerebbe riuscire a elevare lo spirito e credere. Credere nelle cose
belle, nelle giustizie efficienti, sorvolare i dettagli nascosti nell’ironia della
sorte e cavalcare come su un destriero di razza, le occasioni che si
presentano.
Consolati con le cose pure che ti capitano e scegli sempre il meglio non
trascurando mai la sofferenza degli altri e, non paragonarti mai agli uni,
sei solo nella pazza competizione della vita, lo spirito ti aiuta a capire, tu
sei un uomo e come tale scrivi le pagine della tua storia, depositandole
sul davanzale incrinato della giustizia universale, che cancella con un
cenno i sacrifici dei pensieri sconvolti soltanto dai poteri reali, insoddisfatti
veramente da soddisfazioni labili.”
Senza un apparente motivo rivedo il sorriso di Marion all’ospedale, pochi
giorni prima, quando le avevo dichiarato il mio amore.
Un sorriso così sincero, piantato dolcemente tra le fossette di guance che
mi erano sembrate estremamente colorite, per essere così a corto di
sangue…
All’improvviso l’automobile comincia a singhiozzare, si sta fermando.
E adesso cosa faccio.
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