BAMBINI D`AMORE Di Fabrizio Russo
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BAMBINI D`AMORE Di Fabrizio Russo
BAMBINI D’AMORE Di Fabrizio Russo 1 CAPITOLO 1 Mi avvio incauto nell’ombra degli alberi, schivando le radici scoperte, per paura di cadere. Mi faccio luce con l’accendino, un dono di Gina, ma è quasi esaurito e i rumori inquietanti intorno a me si fanno sempre più frequenti. Abbasso le palpebre, impietrito dal terrore. Pensavo che il guasto all’automobile che mi ha regalato mio padre fosse facilmente risolvibile, invece mi sono dovuto arrendere all’evidenza che la meccanica dei motori non è sicuramente la mia professione. Ho dovuto prendere l’unico sentiero che si apriva tra la fitta vegetazione, che fa spazio soltanto alla lunga lingua di asfalto che da Joport arriva a Delay, cinquecento chilometri tra sterili lande sterrate interrotte solo da giungle fittissime. È quasi ora di colazione, ma la morsa che sento allo stomaco non è fame, è piuttosto una sempre più insistente paura di preoccupanti incontri. Mi sfiora il pensiero della bella automobile abbandonata sul ciglio della strada. Avevo da poco lucidato la carrozzeria, invece avrei fatto bene a far controllare l’efficienza del circuito di raffreddamento, perché il caldo torrido che opprime questa regione nel mese di luglio ha mandato l’acqua del radiatore in ebollizione, obbligandomi all’arresto, per non fondere il motore. E adesso mi ritrovo a camminare in questo paesaggio avverso, stretto nell’abbraccio soffocante di piante selvatiche e di alberi ad alto fusto, di cui non conosco il nome. Cammino nella speranza di una veloce soluzione, portandomi dentro la paura, certo che la mia reazione potrebbe essere conclusiva, e non penso sia giusto interrompere questa vita a trentasei anni, nel pieno delle forze e delle certezze di esistere. Mentre proseguo senza meta riaffiorano con naturalezza i ricordi delle cose belle, delle avventure, dei sospiri, ma anche delle cose brutte, delle tristezze e dei rancori. La mia vita si divide ormai da dieci anni tra il lavoro, la famiglia e la giustizia. Penso di avere la fortuna di poter perseguire le cause comuni, illudendomi di saper riconoscere le azioni giuste da quelle sbagliate. Dipingo la mia quotidianità con tre colori che per me hanno un senso e un significato ben preciso; il bianco, il rosso e l’azzurro. Ricordo, come fosse ora, l’atteggiamento duro e irremovibile di mia madre, una figura femminile autoritaria, a dispetto dei lineamenti gentili. Con poche parole caratterizzò la mia adolescenza, facendomi crescere con la certezza di saper scegliere le strade più giuste. 2 Ero un bambino biondo, con gli occhi neri dallo sfondo estremamente pulito; la mia vita scivolava tra i giochi e lo studio, facendo della mia una storia uguale a quella di tanti altri. Ho ancora sensazioni fantastiche di certe chiacchierate che sembravano così importanti e che, con il passare del tempo, hanno assunto valori irrisori. Una famiglia normale e straordinaria la mia, mia sorella Gina, mia madre Eliana e lui, un uomo forte e saggio, mio padre Giorgio. Alto e nobile nel portamento, il vestito scuro a fargli da contorno, fasciando una figura robusta e agile al tempo stesso. Mio padre aveva una dote che pochi uomini possono vantare, sapeva ascoltare e con poche parole sciogliere problemi intricati. Il perno fondamentale della mia esistenza, e non solo. Mi sono identificato fin da bambino nel suo carattere taciturno, nella sua sensibilità e nel suo buon cuore, lo stesso cuore con cui costruì un nido per lei, quella che sarebbe diventata mia madre. È stato forse questo il suo modo di dimostrarle quell’amore che faceva fatica a esprime a parole, rendendo la casa così accogliente, così piena di piccoli particolari, di nascondigli nei quali rifugiarsi. Ecco, un rifugio, è così che la sento adesso. È come se mio padre avesse voluto creare, per ognuno di noi, lo spazio adatto in cui smaltire le debolezze, le rivalità della vita. La camera bianca per Gina, con il letto fine Ottocento e le tende drappeggiate, come se avesse voluto continuare a farle sognare di essere una principessa, la sua principessa bambina, a farle mantenere la speranza che arrivasse il suo bel principe azzurro e la portasse via dalla grande finestra, così enorme da permettergli di entrare con il suo cavallo alato. Lei che principessa non lo è mai stata. Reduce da amori folli, inconsapevolmente non è mai riuscita a distinguere il sacro dal profano. Viene da un’esperienza atroce. I suoi lunghi capelli color del grano maturo, gli occhi di perle nere pittati di colori pastello tenui. Il naso regolare perfettamente orientato sul tondo del viso e le labbra carnose come un filetto di chianina cotto al sangue, senza sale. Mia sorella segnata da pochi, sofferti e intensi amori vive ora finalmente una vita serena. Serenamente ha partorito due bimbi, serenamente ha trovato l’uomo giusto. Eppure ancora mi torna in mente la frase che uno dei suoi ”amori”, dopo averla picchiata a sangue, le disse: “ricordati che nessun altro ti amerà come io ti ho amata, e nessun altro ti amerà come avrei potuto continuare ad amarti.” La mia camera, più piccola, più intima, con l’arredamento quasi inesistente e quei pochi mobili di una esasperante semplicità. Un’intera parete dedicata alla libreria composta da quadrati in legno; decine di libri 3 coprono ogni spazio, li ho letti e studiati uno a uno, una fonte inesauribile dalla quale appagare la mia sete di apprendere. Hanno rappresentato venti anni della mia vita, fino alla laurea in giurisprudenza. Poi il letto in legno anticato, dove ho combattuto tante lotte turbolente, la scrivania, grandissima, color noce, sempre piena di carte, di cui soltanto io riesco a capirne l’ordine, ammesso che ce ne sia uno. La cucina ampia e luminosa, con il tavolo fratino, quello delle grandi riunioni di famiglia, quando mia madre prendeva dal secondo cassetto della dispensa la tovaglia candida di lino, ricamata a mano da lei, mentre sognava di diventare donna, moglie e madre. Il camino angolare, le pentole in rame lucidissimo e poi le scale in marmo bianco per accedere al piano di sopra, alla camera da letto dei miei, piena di misteri innocenti, come la sagrestia delle chiese. Quella casa era l’orgoglio di mia madre e il confessionale delle incertezze degli uomini e delle donne di quel piccolo paesino. Joport è appoggiato delicatamente sulle rive del mare, dipinto da case colorate, una macchia sfavillante di colori esuberanti, tra l’intenso verde della vegetazione rigogliosa e l’azzurro delle acque marine, un vanto per la piccola comunità di contadini e pescatori, orgogliosi di vivere in uno tra i villaggi più belli della Costa Orientale. Mi sembra di sentire ancora il profumo del pane tra i vicoli stretti, nella prima domenica trascorsa in quel posto dopo il trasferimento della mia famiglia. Tra l’ombra fitta delle siepi noto uno strano chiarore, il primo, direi l’unico. Una stradina bianca, un piccolo sentiero che non mi dice nulla, lo seguo anche se non ho idea di dove mi porterà. Sorrido al pensiero che avrebbe avuto Gina nel guardarmi in questa circostanza, e dentro di me la ascolto emettere la sua affettuosa sentenza: “Naturalmente proprio perché non sai dove ti porterà, percorrerai questo sentiero.” È proprio così, le strade ampie e già asfaltate che le percorrano gli altri. Io non faccio che proiettarmi nella luce che forse i miei occhi hanno inventato per orientarsi. La stradina è bella perché è bianca e perché percorrendola tutta giungerò alla meta, qualsiasi essa sia. Cammino e mi sento leggerissimo mentre il sole mi acceca gli occhi con il suo bagliore. Perché qui sembra tutto più luminoso? I colori brillano di più, sono radiosi, quasi innaturali, come quando alla televisione si spinge il tasto per accentuare la fluorescenza. E poi laggiù il chiarore della strada si confonde con quello del cielo e l’orizzonte si fa più confuso. Vado avanti come sospinto da qualcuno alle 4 mie spalle e la proiezione dei ricordi non mi fa sentire lontano dall’automobile regalatami da mio padre, rimasta ferma laggiù. C’è qualcosa di luminoso che non mi fa sentire solo. Con un gesto inconsulto, improvviso, mi tolgo il gilet scuro e rimango con la camicia leggerissima e bianca, come se volessi confondermi e diventare tutt’uno con la luce che sento penetrare dolcemente nei vestiti e nella pelle. Sento che le mie pupille si stanno facendo piccolissime, come quando al cinema accendono le luci tra il primo e il secondo tempo di un film. L’energia mi esplode dentro, e deflagrando lascia un senso di pace. Sono cosciente, terribilmente cosciente, che ci sono intorno a me tante ombre che mi sostengono, che non mi fanno quasi avvertire il peso del mio passo sulla vegetazione disidratata, che non mi fanno annientare dalla forza di gravità. Mi sento come abbracciato. Ecco, adesso intravedo tra quelle strane ombre bianche una sagoma color indaco delinearsi e prendere forma. Sento nell’aria un odore pungente di salsedine, le pietre della strada si fanno sempre più piccole, microscopiche, simili a polvere grossolana, mi fanno venire in mente l’odore del talco che hanno addosso i bambini appena finito il bagnetto della sera. L’odore si fa più forte, dai miei occhi colmi di lacrime mi accorgo di essere diventato più sensibile, di commuovermi più facilmente davanti alla naturalezza delle cose semplici. Mi trovo catapultato inaspettatamente su questo strano deserto, che non è altro che una spiaggia meravigliosa. Mi ricorda il dépliant arrivato per posta con un’offerta di sette giorni alle isole Maldive. Tolgo le scarpe, i calzini, mi arrotolo i pantaloni, per farmi accarezzare dalla sabbia calda. Ora i miei passi si fanno più veloci, hanno fretta di raggiungere ciò che finalmente riesco a vedere, questa immensa distesa azzurra di acqua cristallina che mi confonde, svelandosi invitante al mio sguardo. Non è una distesa solitaria, perché quella sagoma color indaco si sta avvicinando. Sono curioso, ma non temo nulla. La pace intorno, dentro, allontana ogni cosa; il traffico delle automobili nell’ora di punta, la scrivania, lo squillo continuo e martellante del telefono, l’intero mondo è così distante da sembrare un universo parallelo. Sorrido e penso a quanto ieri la mia ventiquattrore sembrasse pesante, colma dei miei doveri, delle mie ansie, del mio dolore quotidiano, dell’inutilità del mio studio. «Dovevo giungere fin qui?» mi domando a voce alta, sentendomi rispondere con un’esclamazione dalla mia stessa voce. «Dovevo giungere fin qui!» 5 Mi volto e mi sembra come di riflettermi in uno specchio. Di fronte ho un uomo con le mie stesse sembianze, ma più compito di me, impeccabile nella sua giacca, cravatta e occhiali scuri. Scuoto la testa, per tornare alla lucidità, ma lui rimane piantato lì. Sono confuso, l’unico vero sollievo lo avverto nel sentire l’acqua bagnare, silenziosa e discreta, i miei piedi. L’altro me si avvicina, invitandomi a camminare ancora più avanti, proprio con lo stesso garbo con cui avrei aperto la porta dello studio a un cliente. Non sono solo, ma forse lo era la mia anima, tanto sola da andarsene via per la strada della menzogna, della falsità quotidiana, degli amori finti e dei piaceri fugaci. L’altro me cerca disperatamente di indicarmi un uomo che più in là gioca con dei bambini, con uno in particolare, dalla piccola figura esile. Cerco di avvicinarmi attirando la sua attenzione, ma lui non si volta. È possibile che non mi abbia sentito, quasi come non esistessi veramente. Mi sembra di vivere l’ultimo incubo della mia vita. Al secondo tentativo il bambino si volta, non in risposta alla mia voce ma a quella dell’uomo che lo chiamava urlando il mio nome. Mi avvicino incerto e riconosco l’ombrellone che mio padre affondava nella sabbia, sulla spiaggia, quando ero piccolo. C’è anche mia sorella, la barchetta con cui giocavo, il pallone grande a scacchi colorati che volava sempre via col vento, il costume di cui andavo tanto fiero con l’ancora bianca e blu disegnata sopra. Riconosco la mia felicità nella spensieratezza di quel bambino. I ricordi cancellati dalla memoria riaffiorano violenti, assumendo un’importanza vitale. Riconosco la bellezza di mio padre mentre mi insegnava a far volare l’aquilone e che, celando le sue preoccupazioni, costruiva per noi castelli di sabbia. Mi avvicino ancora per carpire almeno un dialogo e sento chiedere da mio padre a quel fanciullo cosa avrebbe voluto fare da grande, ascolto la sua risposta arrivare immediata, insolitamente seria per un bimbo di quell’età: «Qualunque cosa mi faccia sentire libero, onesto, qualunque cosa mi faccia sentire amato.» La schiettezza di questa affermazione mi fa allontanare frettolosamente tra le lacrime, rendendomi conto di quanto io non mi sia mai sentito davvero libero, ma sempre schiavo di meccanismi eversivi, mai compreso nelle difficoltà e forse mai amato veramente. Mi inginocchio sulla sabbia bollente, di fronte all’acqua, e piango come mai ho fatto. Singhiozzi strazianti che sembrano uscire dall’anima. Piango per non essere riuscito a soddisfare la promessa fatta a papà. L’altro me si pone di fronte a questo uomo affranto, che ancora in ginocchio, impreca per delusioni scontate, mi fa prendere in mano la ventiquattrore e, con un gesto, mi invita a gettarla in mare, lontano. Con la mia stessa voce mi dice di chiudere gli occhi, e all’improvviso sento 6 freddo. Quando li riapro il mio doppio non c’è più, mi ritrovo però le sue scarpe ai piedi; forse è questa l’unicità che andavo tanto cercando. Credere e lavorare vivendo sempre in preda ai sentimenti. Mi sento così forte, più giusto e più vero. Ma non sento ancora la brama di tornare indietro. È come se ci fosse dell’altro, come se queste rivelazioni non fossero finite qui. Mi siedo svuotato e penso all’episodio che cambiò la mia vita, facendomi percorrere una strada che non mi apparteneva veramente. 7 CAPITOLO 2 Vestito bene, come per le grandi occasioni, cammino ansioso nel mio studio, nell’abito blu, la cravatta intonata e le scarpe marroni coloniali, con i lacci tesi, abbinati alla cintura con la fibbia dorata. Sono così orgoglioso, con quanta volontà sono riuscito ad arredare quella stanza, avuta in affitto dalla signora Brunilde. La scrivania bianca con gli intarsi in legno di noce, la piccola lampada che illumina lo scrittoio, la poltrona comoda di pelle nera, posta sotto al quadro con l’immagine del Gesù Cristo sulla croce, adorato da due figure affrante in ginocchio. Alla sinistra la grande finestra che si affaccia sul porto. Quando ho dato la disposizione agli operai di sistemare quella stanza mi sono raccomandato di non tralasciare il minimo particolare, incaricandoli di dipingere tutto di bianco, velato da una leggera sfumatura di grigio e lasciare lo spazio necessario alla sistemazione di una libreria, proprio tra le due pareti di fronte alla finestra, simile a quella della mia infanzia. Mi faceva sentire coccolato come tra le pareti della mia camera nella casa paterna. Adesso è tutto sistemato. Il profumo del mare che entra dalla finestra aperta penetra con forza nelle mie narici, dandomi l’illusione di essere perduto in quell’immensa distesa azzurra, intervallata soltanto da qualche macchia di colore dei natanti che corrono senza ostacoli. È una sensazione bellissima, stare seduti a trentasei anni dietro a quella magnifica scrivania, dopo averne trascorsi tanti di gavetta nei più grossi studi di Joport, con lo spirito di chi riuscirà un giorno a conquistare il suo piccolo mondo. Davanti allo specchio, delimitato da una cornice antica, mi sorprendo a gesticolare. Sto facendo le prove generali dell’impressione che susciterò ai miei primi clienti. Sono considerato l’avvocato più promettente della costa orientale. Nostro Signore mi ha omaggiato del dono dell’eloquenza e quando parlo le persone rimangono come incantate ad ascoltare, e io adesso mi sento così orgoglioso e imbecille davanti a quello specchio con le mani che si muovono con sicurezza e devozione. Sono così fiero di me. Al suono del campanello pesanti gocce di sudore mi scivolano dalla fronte fino alle sopracciglia, urtando le lenti dei piccoli occhiali in celluloide. Allora me li sfilo con movimenti rapidi, li pulisco, mi asciugo il sudore, mi sistemo l’elegante cravatta che mi ha regalato mia madre, a righe blu e grigio chiaro, e mi ritrovo affannato davanti alla porta di ingresso. Pochi attimi interminabili prima di aprire al mio primo cliente. Pochi attimi eterni da sembrare secoli, e la sensazione di vivere in un corpo non corpo sostituisce la certezza di esistere lì, in quel momento antico, vissuto e sognato. 8 Nell’aprire l’uscio riacquisto il completo controllo della mente. Il cervello dà i giusti impulsi agli arti e l’emozione confusa lascia il posto a una calma sicura. La visione di due donne mi sorprende, ma le faccio accomodare, facendo in modo che non si accorgano del mio sguardo indagatore, penetrante. È attraverso gli occhi delle persone che si può risalire alla loro anima, alle loro debolezze. Nel mio lavoro è fondamentale poterle riconoscere, io per i miei clienti devo essere un po’ confessore; è importantissimo carpire anticipatamente i motivi che li hanno spinti da me. La prima delle due donne, quella più alta, si pavoneggia nell’abito verde smeraldo, non facendo niente per celare la sua esasperante convinzione di essere la donna più bella mai creata dal Padre eterno. Slanciata, i capelli rossi che incorniciano il volto roseo; le labbra piene esaltate dal rossetto color carne e il nasino irregolare a fare da spartiacque a due occhi verde giada, grandi, grandissimi. Quando Marion si presenta, non posso fare a meno di sognare le sue forme esuberanti vicino al mio corpo nudo, distese tra l’erba alta di un campo. Prende la parola presentandomi sua sorella Agatha, una donna minuta, meno alta di lei, capelli corvini e occhi neri dai quale trapela una tristezza inquietante, quella di chi non ha più niente da dare al mondo e che non si aspetta più niente da esso. Nell’abito rosso che indossa le sue forme esili sembrano perdersi come un bambino nel bosco. «Prima di lei ci siamo rivolte all’avvocato Page, che certamente conoscerà.» attacca Marion con fermezza «Ma il suo approccio convenzionale alla questione ci ha profondamente deluso. Siamo certe invece che un giovane professionista come lei potrà soddisfare le nostre esigenze che il suo vecchio collega non è riuscito neanche a capire.» Sto per replicare quando sento una vocina che intona una una ballata infantile, una ninna nanna e vedo, seduta in terra, una bambina che gioca con una pallina colorata, spiegazzando il suo abito azzurro. Non l’ho sentita entrare e mi alzo incredulo per guardarla meglio. Nello stesso istante lei volta la testolina bionda e si alza in piedi fissandomi con due grandi occhi neri. Un fulmine mi penetra facendomi rabbrividire. Vedo prima il bianco delle onde che si infrangono sulla vecchia scogliera, stanca e consumata dal tempo, poi l’azzurro dei bagliori dei fuochi di artificio quando si proiettano verso il cielo cercando rifugio per non tornare sconfitti fino a terra, e infine il rosso della disperazione del sole nel deserto, miraggi e presagi di vite finite. «Le presento Rebecca.» dice Marion, «È per lei che siamo venute. È la figlia che mia sorella ha avuto con suo marito nei quattro anni prima della 9 separazione legale.» Marion mi fissa un istante, poi abbassando un po’ la voce riprende a spiegare. «Agatha ha una forte depressione, causata da un esaurimento nervoso. La colpa è del suo matrimonio, un matrimonio violento, orribile.» Agatha distoglie lo sguardo da me, fissando la collezione di elefanti in onice posti in sequenza sulla mia scrivania, mentre Marion continua nel suo racconto «La bambina è stata affidata a mia sorella ma il marito è venuto a sapere dello stato in cui si trova e ha chiesto la modifica della sentenza. Rivuole la bambina con sé. Avvocato, Rebecca è la vita di Agatha, la sua unica fonte di vita.» La interrompo chiedendo alla sorella di fornirmi delucidazioni sugli episodi significativi della sua vita matrimoniale. Quando al secondo tentativo non ottengo risposta, capisco che il destino mi ha messo davanti alla cosa più brutta della vita di un uomo: il più forte che vince sul più debole. Una voce nella mia testa mi suggerisce di rifiutare l’incarico, quando Rebecca si avvicina alla madre e porgendole la pallina le chiede di tirargliela. Agatha, con scatto felino, raccoglie tutte le ultime forze nel corpo esausto da lotte infinite, e con un gesto comandato, accompagnato da un sorriso che la illumina, obbedisce come un cucciolo che risponde all’ordine del suo padrone. 10 CAPITOLO 3 Incamminandomi tra il bagliore delle ombre di fine estate, tra i vicoli e le piccole finestre, il pentimento di aver accettato l’incarico si alterna all’incertezza della buona riuscita. Penso a cosa avrebbe potuto significare la sconfitta per la mia carriera appena iniziata, ma assalito dall’eccitazione del primo impegno, mi rendo conto che avrei dovuto accettare tutto, ma con distacco, non lasciandomi coinvolgere dai sentimenti. Con i piccoli e vivaci occhi di Rebecca ancora in testa, capisco che devo fare di tutto per salvarla dallo sguardo senza lucidità della madre e non renderla vittima degli sporchi giochi del padre. E per farlo ho bisogno della necessaria razionalità professionale. Ma l’immagine di lei così tenera e fragile, che gioca con i timbri sulla mia scrivania, lasciando sul foglio un cerchio composto dalle mie firme, non riesce ad abbandonarmi. Mi emoziona il pensiero di lei che magari sta giocando, facendo urtare le palline tra loro, mentre altri, me incluso, decideranno il suo futuro. Se fosse mia figlia vorrei solo che sorridesse di più, milioni di quei sorrisi ingenui che soltanto i bambini riescono a fare. Ma perché i suoi occhi non fanno che rammentarmi quelli di mio padre, così limpidi e sinceri, mai severi, mai ostili? E poi Rebecca è così gentile, aggraziata nei modi, già così femminile, sicuramente più di sua madre, che donna lo è da molto tempo. Ho deciso di prendermi a cuore questo caso. Lavorerò con l’impegno che il padre mette nello spiegare al figlio quanto è grande il dono di esistere che ci ha fatto il Signore. Appena sveglio, dopo una notte piena di incubi incomprensibili, inizio a studiare i documenti, bevendo frettolosamente il caffè. Ripenso allo strano sogno che ho fatto, cercando invano di dargli un significato; mi trovavo in mezzo a un campo appena arato, intorno a me il fuoco, quando dalle fiamme sento una voce cristallina gridare “Perdonami! Perdonami per tutto quello che non ho potuto fare. Perdonami per non essere riuscita a indicarti la giusta via, per essere rimasta immobile, mentre quei signori davano fuoco al campo”. Io atterrito dalla paura e sudato per il gran calore delle fiamme che divampavano tutte intorno, cerco di gridare aiuto, ma dalla mia bocca escono soltanto frasi consolatorie. Distolgo la mente da quelle immagini che mi sconvolgono anche da sveglio e finisco di prepararmi per la giornata di lavoro. A passi veloci arrivo allo studio, affaticato dalla corsa e dal turbamento notturno. Mi siedo alla scrivania e dopo uno sguardo veloce al porto, che ancora si intravede nonostante la foschia del primo mattino, mi tuffo come un pazzo tra i documenti. 11 Non mi rendo neanche conto che sono passate più di due ore, quando suona il campanello. Alla vista di Marion rivivo la stessa emozione della prima volta che l’ho vista, ancora più bella e sfuggente con quell’aria di sufficienza costruita. Entra, pavoneggiandosi all’interno del mio studio, si mette seduta e accavallando le gambe mi dice «Ho creduto opportuno tornare a farle visita, perché voglio assicurarmi che lei stia già studiando il nostro caso. Non possiamo permetterci di perdere tempo. Dobbiamo trovare in modo rapido una soluzione a noi favorevole.» D’istinto mi alzo e e quasi senza rendermene conto timidamente mi avvicino a lei prendendole la mano. Lei si alza a sua volta, come impaurita da quel gesto improvviso, ma al tempo stesso incuriosita da un’azione che probabilmente faceva parte del suo modo di fare e che non si aspettava potesse provenire da un uomo come me, non di certo al secondo incontro. Ci guardiamo negli occhi, sguardi dai quali trapelano turbamenti di amori passati, presagio di tempeste ormonali che sciolgono le metafisiche aspirazioni. In quel momento esatto decido che sarà la compagna della mia vita. Mi rimetto a lavoro, dopo aver congedato Marion con un invito a cena quella stessa sera alle venti. Acceso da questa passione inaspettata, ma così forte e cosciente, cominciai, con rinnovato entusiasmo, a sfogliare le carte che lei stessa mi aveva procurato. Un certificato medico attira la mia attenzione. È con quel certificato che il marito di Agatha ha richiesto la revoca dell’affidamento al giudice. Si legge su una carta intestata della clinica psichiatrica Santa Teresa che la donna è afflitta da una forte depressione, non è violenta ma ha gravi problemi nella socializzazione e nel reinserimento in società. Le cure adottate durante la sua convalescenza, pur alleviando alcuni sintomi, non hanno dato i risultati sperati. La lettura di questo documento mi sconvolge. Mi rendo conto che i quindici giorni che ho a disposizione per ribaltare queste tesi e dimostrare il contrario sono veramente pochi. Decido quindi di andare di persona alla clinica Santa Teresa per acquisire le informazioni sulle reali condizioni di salute di Agatha. L’istituto è collocato a pochi chilometri da Joport, vicino alle colline dell’Angelo Azzurro, le splendide alture che incorniciano il paesino. Senza pensarci troppo salgo in macchina e mi avvio verso quella destinazione. Suono al citofono di un imponente cancello in ferro battuto. Una voce ferma risponde e dopo essermi presentato fa scattare, tra gli scricchiolii, il serramento, lasciandomi entrare. 12 Un lungo viale alberato, curatissimo e profumato dell’erba appena annaffiata, precede una costruzione regolare di inizio Novecento. La facciata in cortina e gli infissi in legno scuro la rendono rassicurante. Vengo ricevuto da un’infermiera, una donna di mezz’età, con i capelli tinti di biondo, di media altezza, esile e imponente allo stesso tempo. Mi accoglie in una saletta di attesa e dopo avermi chiesto i motivi della visita, mi invita a seguirla lungo un corridoio largo come lo spazio che ti rimane in metropolitana durante l’ora di punta, sporco come il cielo nuvoloso. In quel corridoio ti sembra di percorrere gli ultimi venti metri della tua vita, i più disperati. Giungiamo davanti a una porta a vetri opachi, sulla quale “Prof. Brown” sembra scritto con inchiostro di seppia. Saranno all’incirca quaranta gli uomini, le donne, i bambini e gli adolescenti ricoverati in questa struttura; li incontro tutti, anzi loro incontrano me. Sembrano avere tutti la stessa faccia e lo stesso profumo, evidentemente utilizzano il medesimo sapone per la loro igiene; vestiti di tute celesti, si rincorrono, si urtano, stanno accoccolati in un angolo o sono assorti in giochi incomprensibili. Qualcuno muove le mani curate, con moto ansioso, cercando invano la giustificazione dei propri sensi di colpa. Ma l’espressione che non dimenticherò mai è quella dei loro occhi. Sguardi in cui si intravede il senso del vivere senza una meta precisa, senza un ricordo glorioso, o un futuro dignitoso. Quel vivere lontano dal mondo, senza la paura di essere frantumati dal sereno di una calma apparente. Il senso del esistere ancora nella confusione trasparente della vita trascorsa a raggiungere qualcosa o qualcuno che non c’è. Sembra che abbiano tutti quanti lo stesso colore. La certezza che anche loro pensino le stesse cose di me, mi provoca un sottile stato d’inquietudine. La voce dell’infermiera che mi presenta al professore, mi distrae da quei pensieri e il veloce colloquio con il dottore sulle condizioni di Agatha mi fa capire che i miei sforzi di oppormi alla richiesta di revoca dell’affidamento sarebbero stati vani, e che avrei dovuto impostare la causa in modo che la bambina non corresse il rischio di trovarsi tra la poca lucidità della madre e la violenza del padre. Decido allora di telefonare all’assistente sociale incaricata del caso, per cercare di dimostrare le reali condizioni della situazione e i possibili pericoli che potevano gravare sulla bambina. Devo assolutamente escogitare qualcosa. Stanco delle emozioni di quella interminabile giornata, mi ritiro a casa, aspettando con impazienza l’ora dell’appuntamento con Marion. 13 CAPITOLO 4 Arrivato a casa di Marion, mi viene ad aprire un cameriere di colore che con fare cordiale mi conduce nello studio del nonno di Rebecca, che aveva espresso la volontà di conoscermi. Tra l’imbarazzo e l’emozione mi accomodo nella stanza, dopo le presentazioni di rito. Il padre di Marion è un uomo alto e robusto, con i tratti somatici marcati, le folte sopracciglia fanno da cornice ad occhi a fessura color nocciola, e un grosso naso aquilino, sopra le labbra sottili, spicca in un viso rotondo. Guardandomi intorno mi rendo conto che l’imponenza della sua scrivania in legno antico dà l’impressione della grandezza che si prova davanti a uno stadio di calcio pieno di spettatori, e con la stessa ansia che ti trascina al fischio di inizio, ascolto cosa sta per dirmi, seduto sulla sua poltrona di pelle marrone. «Noto con estremo piacere che mia figlia ha finalmente scelto un cavaliere degno di questo nome.» comincia lui accendendosi una sigaretta, «So che si è preso a cuore il problema di Rebecca. Mi raccomando, avvocato, non deluda le nostre aspettative.» Si accomoda sulla sua enorme poltrona di pelle e continua «Mi rendo conto che mia figlia Agatha non è certamente in grado di badarle, ma noi, come può vedere, siamo in grado di non farle mancare nulla.» Fa una pausa per dare maggior enfasi a cosa sta per dire «Io sono un commerciante di pellami e la fortuna non mi è mai mancata. È una dote che se unita alle capacità, ti permette di vivere una vita agiata. Voglio un bene profondo a quella bambina, che pensarla vicino al padre mi pietrifica. Quell’uomo è una persona di grande voracità. Dopo aver messo incinta Agatha, e non è stato sicuramente un incidente, l’ho preso a lavorare con me, affidandogli un incarico di estrema fiducia. Si occupava dell’importazione delle pelli, della loro scelta e del loro pagamento. Mi aveva incantato con quel suo modo di fare, ed è stata la prima volta che mi sono sbagliato sulla valutazione di una persona. A pochi mesi dalla sua assunzione, i numerosi ammanchi di cassa stavano mettendo in crisi la mia azienda, ma non sono mai riuscito a dimostrare che fosse lui il colpevole. Quando poi sono stato costretto a licenziarlo è come impazzito, concentrando tutta la sua rabbia contro la moglie e la figlia, dando segni di un squilibrio terrificante.» Fa una pausa mentre la cameriera ci serve il caffè, per poi riprendere «Comunque sia i miei uomini lo hanno punito a dovere, senza lasciare segni. Ho dovuto riprendere il comando dell’azienda con tutte le energie e trovare nuovi investimenti e investitori. A ogni modo oggi posso considerarmi uno degli uomini più ricchi della costa.» 14 Fa una pausa per permettere alle sue ultime parole di rimanere come sospese nell’aria, a sottolineare il suo potere. «Le ho fatto questa premessa per farle capire che le mie figlie sono sempre protette da uno scudo inattaccabile. Da quando è morta la loro madre ho cercato di non far mancare loro l’affetto, provvedendo a ogni bisogno. Vivono come principesse e non permetterò mai a nessuno di far loro del male. Sono disposto a tutto, usando qualsiasi mezzo, lecito o meno. Nel caso di Rebecca non mi hanno permesso di intervenire perché hanno paura che io scenda a compromessi irragionevoli, anche se avrei voluto risolvere la cosa a modo mio, come ho fatto per la separazione e per tutte le cause che ho perseguito.» Rimasi ad ascoltarlo per tutto il tempo, senza mai interrompere la crudezza delle sue parole. Mai avrei pensato di poter provare quelle spiacevoli sensazioni dinanzi a tanta povertà d’animo, io che non ho mai giudicato le persone dal valore di ciò che indossano, mi trovo catapultato in un mondo che non mi appartiene. Sto per diventare schiavo di quello che da sempre disprezzo. La voce di Marion interrompe i miei pensieri. Mi volto. È bellissima in quel suo abito blu, che sembra cucito intorno alle sue forme. I capelli ondulati scendono morbidi sulle spalle scoperte. La pelle bianca è una sintesi perfetta di una mela e una pesca. Si avvicina al padre e mentre lo bacia gli sussurra in un orecchio poche frasi, che io con uno sforzo riesco a percepire «Papà, ti piace? Non è bellissimo? Ne sono già innamorata.» Nell’udire quelle parole, il mio cuore comincia ad avere un andamento inconsueto. La consapevolezza di provare anche io gli stessi sentimenti mi fa sentire immensamente felice ed è in quel momento che abbandono tutti i pensieri, tranne quello di una serata magnifica, con la certezza che sarà indimenticabile. Siamo seduti a un piccolo tavolo rotondo in un ristorante sul mare, mentre ci raccontiamo tutto di noi, con la speranza di capirci subito e dare sfogo a quel desiderio che sento appartenere a entrambi. Le verso del vino bianco ghiacciato che lei stessa ha scelto. Non sbaglia una mossa, è simpatica, dolce, sensuale, estremamente accattivante. Sono completamente rapito . L’unico brivido, spiacevole nella sua forza, lo percepisco quando con una coppa di champagne a fine cena brindiamo alla felicità di Rebecca. Mi sento per un attimo proiettato nei miei pensieri e mi arrendo all’evidenza di dover per forza illudermi di amare questo nuovo mondo, inaspettatamente lontano e disonesto. Ma non voglio che finisca il mio 15 sogno d’amore, per questo forse non faccio che cercare in lei ciò che di giusto non c’è in suo padre. Per questo desidero innamorarmi, per ritrovare in quel mondo così contorto qualcosa di più semplice, di più vero. “Se il fine è nei soldi, tutto è lecito”. Questo é l’articolo che non è sancito in nessuna Costituzione. Lecito è persino il dolore di una madre che dà alla luce un bimbo che non vedrà mai, perché tutti, dai medici alla polizia, agli investigatori privati constateranno morto, mentre lui è vivo, ma senza più la sua identità; è vivo e lontano, è di un’altra donna che magari lo amerà e lo vizierà più della sua vera madre, considerando la spesa che ha dovuto affrontare per saltare dall’ultimo al primo posto nella lista delle adozioni. Una volta ingenuamente ho domandato a mio padre perché il Signore rende possibili certe brutte azioni dell’uomo, e lui mi ha risposto «Sono gli uomini che rendono brutte le loro azioni, Dio amandoci profondamente ci ha concesso la liberta. Noi odiandoci, la usiamo nel modo peggiore.» Il telefono di Marion comincia a squillare, riportandomi alla realtà. Lei si allontana e dopo qualche minuto ritorna, con la faccia di chi ha preso a pugni un suo amico e questo gliene ha resi il doppio. Sconvolta dalle lacrime, mi riferisce che Agatha è stata di nuovo ricoverata in clinica, colta da una crisi furiosa. Udendo quelle parole, mi pento di non aver fissato l’appuntamento con l’assistente sociale; mi rendo conto che ogni minuto concesso alla quotidianità della vita è un minuto sottratto alla tranquillità di una bambina che ho conosciuto soltanto il giorno prima, ma che ha già catturato ogni più piccola parte del mio cuore. Lascio Marion davanti casa sua, un veloce bacio affettuoso è la conclusione indesiderata della notte che immaginavo come la più bella della mia vita. Lei mi chiede di andare a prenderla il giorno dopo e di accompagnarla dalla sorella. La tentazione di sottrarmi all’invito, così da evitare le forti emozioni che mi aveva provocato la visita pomeridiana, viene spazzata via da un suo tenero e morbido abbraccio. Alzatomi di buon ora, vestito con cura, mi fermo in edicola per acquistare il solito quotidiano. Una notizia su tutte mi fa sussultare “Si indaga su un traffico illecito di bambini”. Distratto dal traffico, non leggo il resto e quando mi ricordo della notizia, Marion sta già salendo in macchina, un bacino e poi muti per tutto il tragitto. 16 È l’insistenza di Marion, forse il potere che ha su di me, che mi induce a far visita ad Agatha. Mentre entriamo la osservo e mi accorgo che è veramente in contrasto con il contesto in cui ci troviamo. Lei, così esuberante, fasciata in un vestito color prugna della stessa sfumatura dei suoi capelli e il rossetto, è l’unico tocco di colore nella cupezza in bianco e nero dell’edificio. L’elegante incedere di Marion lascia dietro di sé la scia del profumo impresso sul foulard leggerissimo che ha intorno al collo, di colore identico a quello dei suoi occhi; una nota vezzosa, come tutto ciò che le appartiene e che non guasta affatto. Finalmente, dopo un’attesa interminabile, accompagnati dalla stessa infermiera che mi aveva accolto il giorno prima, ci incamminiamo. Alcuni particolari che mi erano sfuggiti mi fanno rabbrividire. Il corridoio è privo di finestre, solo luci al neon. Perdendo il senso dell’orientamento, accediamo a un’ala della clinica che non avevo visto. Un corridoio lunghissimo e ingrigito dall’ansia di chi lo ha percorso per anni, precede una porta di legno, imbottita di materiale gommoso. Un urlo terrificante distoglie la mia attenzione dai particolari. L’uscio alla mia sinistra, che non avevo notato, viene spalancato dall’infermiera che scusandosi entra con decisione nella stanza. Estrae dalla tasca una siringa riempita di una “pozione magica” e l’effetto dell’endovena è subito efficace sulla poveretta, che appoggiandosi al letto, continua a fare schiuma dalla bocca. L’infermiera, tornando indietro, incrocia il mio sguardo e con la tranquillità di un operaio in fabbrica sussurra poche crude parole, «Ora si calmerà.» Attraversati altri due corridoi dove l’unico cenno di vita sembra essere il rumore dei tacchi alti e quadrati di Marion, l’infermiera apre una porta e ci fa accomodare in una saletta con ai lati tante sedie, sostenute e collegate l’una all’altra da un tubo metallico. Al centro della stanza una pianta liofilizzata. Niente che mi riporti alla vita. Dopo circa venti minuti arriva Agatha, sulla porta è quasi trasparente e stento a riconoscerla. Lo sguardo è senza vita. I bei capelli corvini sono raccolti, ben pettinati a tal punto che penso tra me che forse tutto questo tempo di attesa è servito per renderla decente ai nostri occhi. È vestita con una specie di camice bianco, informe, che non lascia intravvedere nemmeno il piccolo seno, il viso è esangue, senza trucco, inespressivo. Nel vederla Marion si alza in piedi, per nulla turbata da quella visione. Sorridendo nel sentirsi osservata dalla sorella si avvicina a lei indicandosi il vestito «Ti piace? L’ho acquistato ieri questo. La commessa me lo ha consigliato dicendo che il suo colore mi dona particolarmente.», e poi 17 comincia a simulare l’andamento di un’indossatrice sulla passerella, voltandosi in prossimità della porta. Agatha risponde con un’altra domanda «Rebecca come sta? Le hai comprato le calze con Topolino?» Mi alzo all’improvviso e mi avvio di spalle verso la finestra cercando di trattenere la commozione e i mille pensieri che passano nella mia mente. Mi aggrappo alla speranza che Rebecca possa avere una madre presente, lucida e affidabile. Marion assicura la sorella di aver effettuato l’acquisto. «Allora dobbiamo chiamare gli invitati, al matrimonio deve essere tutto perfetto. Rebecca sarà la sposa più bella dell’anno.». Agatha vuole immaginare sua figlia già grande e sistemata. Si vuole lasciare morire serenamente, come già sta facendo, uccidendo in me la speranza di riuscire a farle riaffidare la bambina. Sono così turbato, così confuso. Voglio fuggire da quel posto, da quegli occhi spiritati, dalle urla della pazzia. Voglio tornare a casa mia, vedere il mare, assaggiare il vento, mordere la vita. Comunico questa mia intenzione a Marion, che rimanendo in piedi vicino alla sorella, mi congeda dicendo che avrebbe preso un taxi. Mi ferisce questo suo modo di esserci e non esserci. Esco rapidamente a testa bassa dall’edificio, senza guardarmi intorno e non curandomi delle persone che incontro nel veloce incedere verso l’uscita. Salgo sulla mia automobile, lasciandomi alle spalle l’irrazionalità di quel luogo, il pallore dei volti, la reclusione. Freno di scatto alla vista di un pallone da calcio che rimbalza velocemente in mezzo alla strada, per paura che dietro di esso ci sia un bimbo a rincorrerlo. Mi torna in mente Rebecca. Mi sorprendo a pregare per lei, così, a voce alta. Al semaforo un uomo che chiede l’elemosina mi guarda in modo strano e visibilmente sorpreso si allontana. Gli sarò sembrato un pazzo. Ma chi può stabilire cosa sia la vera pazzia, chi può giudicare pazza una donna, a cui è stato sottratto tutto, l’amore, la gioia, la maternità? Forse la vera follia è quella di Marion, che nella stanza con la pianta liofilizzata, voleva fare l’amore con me, proprio là, nel grigiore di quella dolorosa attesa. Il ricordo è nitido, lei che si alza, mi abbraccia, si volta di spalle e prendendomi le mani le conduce sul suo seno e mi dice «Ti voglio adesso, subito.» Le conduce più giù fino al suo sesso, e con un gridolino di eccitazione, mi invita a muovermi. Ma la mia reazione è solo di distacco, di indifferenza. Mi sono ritratto di fronte alle sue labbra vogliose, così desiderate, ma non per puro sfogo. Voglio decidere io quando fare l’amore. Credo che in realtà lei non si renda bene conto del dolore che provo nel vedere gli altri soffrire. Forse 18 ancora non mi conosce, forse mi illudo che veramente solo guardandosi negli occhi basti per capirsi, forse due giorni sono troppo pochi per illudersi di amarsi. Decido in quell’istante che appena giunto a studio chiamerò l’assistente sociale per fissare con lei un appuntamento. 19 CAPITOLO 5 L’assistente sociale mi riceve il giorno dopo nel suo studio. Una stanza bianca, bianche la lampada e la scrivania, così come la finestra con gli infissi dello stesso colore. Suggestionante la trasparenza del sole che attraversando i vetri illumina l’interno di una luce surreale. La dottoressa mi accoglie con simpatia e la nostra conversazione ci porta all’unica conclusione possibile. Constatata la denuncia di percosse che grava sul padre di Rebecca e il certificato medico dell’instabilità psichica di Agatha, la bambina deve essere assegnata momentaneamente a un istituto per l’infanzia fino a quando il giudice non si pronuncerà per l’affidamento definitivo e chiuderà la pratica. Siamo ridotti così, il futuro di una bambina è diventato una pratica. Che male avrà mai fatto per meritarsi un padre folle e una madre instabile? Non ho più energie, me ne torno a casa per immergermi in un bagno caldo. Abbandono tutti i muscoli del mio corpo con la speranza di non pensare a Rebecca. Mi impongo di andare a visitare l’istituto Santa Lucia dove avrebbero portato la piccola tra una settimana. Ho scelto questo lavoro ed è stata per me una scelta ponderata. Sento di possedere un forte istinto di protezione, che fin da bambino manifestavo nei confronti di mia madre, quando portavo al posto suo le buste della spesa o quando a scuola aiutavo i miei compagni di studi in difficoltà. Cerco di convincermi di essere in grado di poter sopportare tutto, anche questo caso che mi strazia il cuore e la visione del posto in cui mi sto recando. È sera quando finalmente giungo davanti all’istituto, una costruzione moderna, alta non so quanti piani. Da qui le luci che provengono dalle finestre mi fanno pensare al tabellone della tombola elettronica che ho regalato a mio nipote a Natale. Mi torna in mente la sua voce sussurrata all’orecchio quando estraeva il numeretto dalla sacca di similpelle rossa, «…E questo, zio, dove lo metto?» Io stando al gioco, e senza farmi notare dagli altri parenti gli indicavo il punto in cui posizionare il tondino di plastica, che per magia, appena appoggiato, si accendeva, mentre mio nonno a ogni numero estratto pronunciava la sua cantilena «Cinquanta, Pietro suona e Gaetano canta. Venticinque Natale è passato ma Capodanno non è ancora arrivato.» Suono al citofono. Mi aprono senza chiedere il nome. Non posso far a meno di pensare alle difficoltà avute nell’entrare nella clinica da Agatha. È come se lì fosse incentivata la reclusione, qui l’apertura a tutti. Mi sembra 20 di entrare in un negozio, accolto dai sorrisi e dalle gentilezze delle commesse eleganti e ben truccate che sperano nei miei acquisti. Mi accoglie appena entrato una donna sui cinquant’anni, dal sorriso dolce. Mi dà la mano, scusandosi per la sua tenuta. Indossa una specie di grande grembiule bianco a cuoricini blu e rosa. «È l’ora della cena ed ero a mensa. Venga con me. Cominciamo così la sua visita panoramica.» La grande porta a vetri, dietro la quale si sente un gran chiasso, si apre su tanti, tantissimi bambini, almeno sessanta, sessanta musetti. Stanno seduti su minuscole seggiole con grandi bavagli al collo, ognuno con il proprio nome stampato. Sulle pareti sono disegnati grandi alberi, dalla chioma verde. Il soffitto è dipinto di azzurro. Si respira l’aria di libertà. C’è un gran profumo di pollo. La dottoressa, porgendomi una delle sedie più alte, mi invita a sedermi e a mangiare con loro. Non so perché, ma con naturalezza, accetto. Prendo in mano la piccola busta trasparente con dentro le posate di plastica e cercando di imitare i gesti del medico davanti a me, provo a mettermi a mio agio. Mi sembra di partecipare a un picnic sull’erba, tra volti e sorrisi di bimbi che giocano tra loro. «Che fai qui?» mi chiede il piccolo seduto accanto a me e io, già sfilandomi la giacca e la cravatta, gli rispondo che sono qui per mangiare con tutti loro. Mi sorride e lo ritrovo accoccolato istintivamente sulle mie ginocchia. «Ma tu sei forse il papà di qualcuno di noi?» mi chiede ancora e leggo dal suo sguardo vispo e implorante l’attesa di una risposta affermativa. «Giacomo, è così che ti chiami vero? Lo leggo sul tuo bavaglino. Mangia tutto il pollo altrimenti non ti crescono i muscoli.» Comincia a piegare il braccio, convinto di ciò che gli dico. Poi si rivolge a me di nuovo «Sei simpatico. Se torni ti faccio trovare un bel disegno.», poi si alza dalle mie ginocchia con il buon proposito di finire tutta la cena. «Era tutto gustoso.» dico alla signora che tutti i bimbi chiamano mamma Beatrice. Ci alziamo e lei mi invita a prendere le scale per salire ai piani superiori. A lato noto una pedana. Beatrice sembra leggermi nel pensiero mentre mi dice «È per i bimbi che stiamo andando ad incontrare.» Soffro già al pensiero di quello che mi aspetta. Ci troviamo davanti a una porta con il disegno di una finestra con quattro testoline che fanno capolino. Su ogni testolina, come in una vignetta, ogni bimbo si presenta, dicendo il suo nome. Nell’aprire la porta sento il sangue raffreddarsi nelle vene. Vedo quattro sedie a rotelle accantonate all’angolo, proprio davanti ai miei occhi. Quattro angioletti senza ali, che non possono volare eppure sembrano farlo con i loro occhi languidi che mi fissano dai lettini, coperti fino alla 21 bocca dal copriletto di lana. «Sei venuta a darci la buonanotte, vero mamma Beatrice?» sussurra uno di loro. Da dove mi trovo vedo solo un groviglio di lucidi capelli biondi. Quando mi avvicino mi scontro con due occhioni verdi trasparenti, tristi, che mi ricordano un libro letto da bambino, tra i singhiozzi. Il bimbo biondo mi fissa con circospezione, poi mi sorride e con una vocina gentile, mi chiede se mi andrebbe di fargli un massaggio alle gambe. «Facciamo un patto, se lo farai stasera dirò una preghiera anche per te.» È incredibile l’autenticità dei bambini, è incredibile il loro sapersi accontentare di piccoli gesti di amore. Il loro saper essere eroici di fronte al dolore, comprendendo l’essenza delle cose. Ecco proprio d’amore si tratta, di quell’amore che manca a queste creature come a tanti altri che la signora Beatrice definisce con delicatezza come bimbi che hanno qualche “problemino”. «Non importa.» mi rassicura la signora «So già che nessuno li vorrà, ma non importa, cresceranno qui con me e se il buon Dio mi concederà la salute necessaria riuscirò a farli camminare, perché a volte più della medicina è la forza dell’amore a guarire.» Ascolto affascinato le belle parole, continuando a massaggiare le gambette inerti. Quando il bimbo si addormenta, cullato dalle mie carezze, la tenerezza mi invade e mi fa piangere così, senza rumore, come fossi bambino anche io. La signora Beatrice mi guarda e, per non mettermi in imbarazzo, fa finta di non vedermi, mentre forse, vinta dalla mia stessa commozione, tira fuori dalla tasca del grembiule a cuoricini un fazzoletto e si asciuga gli occhi buoni. Quante volte ho dato per scontato l’alzarmi dal letto al mattino, poggiare i piedi per terra e camminare serenamente, dopo aver inveito contro il suono della sveglia? Quante volte ho dissentito con i miei genitori, non considerando il dono grande mi è stato regalato nell’averli? Visibilmente scosso mi avvio verso l’uscita dell’istituto, dopo aver congedato frettolosamente la signora Beatrice, dicendole che si era fatto troppo tardi. Nella sua risposta tutta la sensibilità e l’intelligenza di una donna che ha votato l’esistenza a ognuno di questi poveri cuccioli soli e abbandonati dalla vita «Non è tardi, forse per lei è troppo presto!» Una telefonata al cellulare arriva come un presagio. La voce insolitamente preoccupata di mia madre mi riferisce solo poche parole «Torna presto a casa, tuo padre non sta bene.», Senza trovare il coraggio di chiedere chiarimenti, decido immediatamente di tornare a casa. 22 Sono in viaggio, stanco, e il rito regolare dei tergicristalli mi fa quasi da ninna nanna. Vorrei tanto chiudere gli occhi e dimenticare l’ansia, la paura, la consapevolezza che se non ci fosse stato qualcosa di grave mia madre non avrebbe certamente chiamato al telefonino a quest’ora della notte. Prego solo Dio di farmi arrivare in tempo per poter imparare ancora la vita da mio padre, per poter ancora parlare con lui, in tempo per vedere insieme il sorgere del sole domani, davanti al mare. Mi accorgo, dal suono della freccia di aver viaggiato per tutto il tempo sulla corsia di sorpasso e di correre come un pazzo. Lo vedo dagli alberi ai lati della strada che non faccio in tempo a focalizzare. Eccomi, sono arrivato a casa. 23 CAPITOLO 6 Sono le tre del mattino e da qui noto che la luce della camera da letto dei miei è ancora accesa. Apro la porta, forse Gina sta dormendo, salgo le scale a quattro a quattro e busso alla stanza di mio padre. La sua voce mi dà il permesso di entrare. Provo sollievo nel sentirla, io che immaginavo chissà cosa. Entro nella stanza e lui è nel letto, seduto con due cuscini dietro la schiena. Mi fa cenno di parlare piano per non disturbare mia madre che si è addormentata, seduta sulla savonarola. Anche adesso che non si sente bene si preoccupa per lei, come ha sempre fatto nella vita. Da questo mi rendo conto che mio padre supererà tutto, anche il piccolo infarto che ha avuto la scorsa settimana e che mi ha tenuto nascosto per non farmi preoccupare e lasciarmi lavorare serenamente. Al rimprovero che gli faccio per avermelo celato, lui mi risponde «Sapevo che non sarei morto, perché tu devi sapere troppe cose ancora da me. E poi ti devo parlare di tuo nonno.» «Dimmi papà, dimmi tutto. Ti ascolto.» dico dolcemente a mio padre, notando in lui una certa ansia nel dover comunicare, come se dovesse togliersi un gran peso dall’anima. Nei suoi occhi lo sguardo di un uomo pronto a pronunciare parole difficili. «Sai, figlio mio» comincia allora lui «Io non sono stato esattamente l’uomo che tu credevi che io fossi. Non sono stato così perfetto, come tu mi hai sempre visto. Prima di conoscere tua madre, ho avuto tante donne, tanti amori così finti e sbagliati, da farmi quasi perdere la ragione, per poi lasciarmi dentro uno strascico di dolore indefinibile. Arrivai al punto di vergognarmi di me stesso.» Per un attimo interrompe il suo racconto, chiedendomi dell’acqua, e poi riprende «Anche tuo nonno, proprio come me, si perse nei meandri di un mondo falso, sbrigativo, dove l’unico fine erano i soldi. Quando aveva vent’anni e combatteva per la Patria, si innamorò della bellissima figlia bionda del Sindaco del suo paese. Quando lei scoprì di aspettare un bambino da lui, non volle sapere niente né di tuo nonno né di suo figlio, perché era povero. Allora lui vendette l’unico bene che possedeva, una macchina fotografica a cui teneva moltissimo, e le diede i soldi per farla abortire. Voglio che tu sappia queste cose perché è l’unico modo per farti capire l’uomo che ero prima che tu nascessi.» Fa un sospiro, come per raccogliere tutte le sue forze e poi sussurra «Adesso però devo raccontarti la storia che cambiò definitivamente la mia vita…» 24 Non ho il coraggio di interromperlo e gli dico solamente «Papà, tutto quello che mi hai detto e che stai per dirmi non cambia né cambierà mai l’opinione che ho di te. È vero, ti ho sempre visto come un uomo perfetto, ma ti ci vedo anche ora, ora che hai trovato il coraggio di confidarmi le tue debolezze. Spero soltanto di essere riuscito, durante tutta la mia vita, a dimostrarti la mia grande aspirazione, che rimane e rimarrà sempre, quella di assomigliarti. E ora dimmi, papà. Dimmi pure.” Lui continua il suo racconto fino all’alba, quando esausto si addormenta, certo di aver dato le giuste indicazioni al proprio figlio. E io rimango tutta la notte accanto a lui a vegliare sul suo sonno e a riflettere sulla persona che sono grazie agli insegnamenti e all’amore di questo grande uomo, che ora affaticato nel suo letto, mi sembra così piccolo e indifeso. Il giorno dopo il papà di Marion mi convoca nel suo studio con urgenza. Quando squilla il telefono, appena dopo le otto del mattino, mi sembra quasi di capire dall’intensità e al tempo stesso dal fastidio che provo per quel suono che si tratta di lui. Dopo una notte insonne passata al capezzale di mio padre e una rapida doccia passando da casa, sono a studio da un’ora e ho un milione di cose da fare e organizzare, ma alla sua richiesta di vederci prendo immediatamente la giacca, salto in auto e corro verso casa sua, come sospinto da una forza attrattiva potente e oscura. Nella precedente visita serale non avevo notato i mastodontici leoni di marmo ai lati del grande cancello, simbolo della potenza terrena che sovrasta qualsiasi disputa, qualsiasi incertezza. Con la loro imponenza trasmettono al visitatore una trasparente obbligazione nei confronti della proprietà. Durante il tragitto pensavo al motivo della convocazione, collegandola al caso di Rebecca, anche se, probabilmente, aveva avuto la soluzione migliore. Entro accolto da una cameriera con un candido grembiule di pizzo bianco, bianchissimo. L’uscio è posto tre gradini sopra l’atrio, li discendo velocemente, imbarazzato da quel momentaneo predominio. Mi fa strada con gentilezza, mentre mi conduce nello studio del padre di Marion. Poso i piedi su morbidi tappeti a pelo alto e cammino tra i costosi mobili antichi, facendo spazio soltanto alla splendida scala in granito, che conduce ai piani superiori. La cameriera bussa alla porta dello studio. Entro. Dopo avermi fatto mille elogi per la soluzione momentaneamente adottata per Rebecca, mi fa notare compiaciuto che tutto l’arredamento della casa 25 è opera del buon gusto di Marion «È una ragazza meravigliosa, non crede?» Rispondo d’impulso «Credo di essermi innamorato di sua figlia al primo sguardo. Le chiederò di sposarmi.» Mi ritrovo a parlare così a questo sconosciuto con una temibile naturalezza. L’uomo che prima era seduto davanti a me, si alza in piedi. «È con vero piacere che ricevo per primo una notizia che mi lusinga al punto tale di farmi dimenticare tutte le preoccupazioni che mia figlia mi ha dato in questi anni. Anche se è decisamente poco che vi frequentate sono profondamente convinto dei sentimenti che vi uniscono.» Visi bil mente comm osso mi porge la mano destra e acco sta volontariamente le sue gote alle mie per due volte e poi continua «Sono onorato che mia figlia diventi la moglie di una persona come lei, educata, colta e con la forza necessaria per diventare in poco tempo il miglior avvocato della costa. Naturalmente d’ora in poi sarà lei ad occuparsi dei miei affari, a difenderci dalle ingiurie che ci scagliano contro ogni momento. Sono sicuro di non commettere l’errore di valutazione che in passato mi stava costando tutti i sacrifici di anni e anni di duro lavoro.» Annuisco affascinato a ogni parola pronunciata. Sogno a occhi aperti lo splendido futuro che mi aspetta. «L’attendo qui questa sera alle diciannove per presentarle i miei soci» Con questa frase, che assomiglia a una sentenza, mi congeda con aria soddisfatta. Accompagnato dalla cameriera, il tragitto a ritroso nel corridoio ha tutto un altro sapore, più familiare. Lo sento accogliente. Ha abbandonato quell’aspetto gelido di poco prima. Incrocio lo sguardo interrogativo di Marion. È bellissima con il completino da tennis, gonnellino e canottiera di uno sgargiante color pesca «Hai parlato con mio padre?» mi chiede incuriosita. Le rispondo d’impulso «sposiamoci a ottobre, è il mese che amo di più. I colori dell’autunno mi hanno sempre dato un senso di allegra tristezza. E poi in quel mese non si sposa quasi nessuno. E io e te siamo così unici.» Mi corre incontro e mi stringe in un abbraccio fortissimo, baciandomi ripetutamente sulle labbra, come se già fossimo d’accordo. «A stasera, amore mio» mi sussurra salutandomi e chiudendo dietro di sé il portone in legno finemente intarsiato. Torno a casa per cambiarmi, mi sento davvero felice. Avrò accanto a me una donna meravigliosa che ho desiderato fin dal primo momento e avrò modo di dimostrare a tutti le mie capacità professionali. La mia vita sembra prendere proprio la direzione che avevo sempre sognato. 26 Sono pronto, ancora alla soglia di questo portone. Attendo Marion alla fine delle scale. Eccola, la mia principessa sta scendendo. È meravigliosa. Le tendo la mano e lei appoggia delicatamente la sua sulla mia, liberandosi dell’ultimo gradino. Sfioro le sue dita e la sensazione di aver conquistato il mondo invade immediatamente il mio spirito. Le lunghe dita affusolate con le unghie curatissime e smaltate di un colore trasparente, fanno da meravigliosa cornice all’anello che le ho comprato. Oro bianco con un cuore di brillanti incastonato. Insieme raggiungiamo la sala delle feste, dal quale proviene un concitato brusio che tenta quasi di sovrastare la musica di una piccola orchestra. Entriamo e lo spettacolo che mi accoglie, mi lascia quasi senza fiato. Siamo circa quaranta persone tra uomini e donne, vestiti alla moda. Noto immediatamente una certa stravaganza di due particolari personaggi, dai lunghi capelli puliti e lucidi di gelatina, barba fatta dal barbiere, vestiti impeccabili e stivali a punta quadra in coccodrillo, che si intonano alle borse delle donne che li accompagnano, in elegante abito nero da sera, lungo fino alla caviglia con la scollatura tonda, di altri tempi. Mi vengono presentati per primi. Si tratta dei soci del mio futuro suocero. Due uomini con una spiccata eloquenza che non smettono mai di parlare. Trattano diversi argomenti sfoggiando un’arguzia fuori dal comune, e io penso che sono sicuramente i soci giusti per il padre di Marion. Mi sembra di essere a mio agio in questo ambiente. I lampadari grandi di cristallo non fanno che riflettere le luci di mille lampadine in ogni angolo del grande salone. I quadri di autori importanti quasi scompaiono se confrontati allo sfarzo dei mobili antichi, ai tappeti persiani, ai soprammobili di ogni epoca e di ogni parte del mondo. Il ricco buffet regna maestoso sopra alle tovaglie bianche ricamate. I calici di cristallo disperdono la loro lucentezza tra i denti degli invitati. Eppure mi sembra tutto così familiare. Mi sembra di conoscere tutti da tanto tempo. Mi trovo a parlare con una disinvoltura tipica di chi ha sempre frequentato questo ambiente. Marion non fa che raccogliere complimenti e adulazioni. Improvvisamente mi si accosta, mi prende per mano e mi conduce con sé, chiudendo a chiave dietro di noi la porta dello studio del padre. Mi trovo davanti a lei a pochi centimetri. Accosta le sue labbra alle mie, cominciando a mordicchiarmi, facendomi morire di desiderio. Mi guarda, mi fissa negli occhi e mi ordina letteralmente di spogliarla. Appoggia le mie mani dietro la sua schiena, facendomi aprire la chiusura lampo. È bellissima e così pronta ad amarmi. Me ne accorgo dal ritmo dei suoi sospiri, uguali ai miei. È come se da tutta una vita non avessi aspettato che questo momento. Lei mi spoglia velocemente, attirandomi sopra di sé 27 sul divano in velluto rosso e mi chiede senza nessun preambolo di venire dentro di lei. Entrare nel suo corpo è una sensazione indimenticabile. Lo sento fremere, danzare insieme al mio. Sa come far godere un uomo. La osservo per un attimo, prima di richiudere gli occhi per assaporare ancora le sue labbra. Vedo nell’apertura delle sue gambe, nei suoi capezzoli turgidi di eccitazione una sensualità irreale. Lei così esperta ha capito che ora il mio corpo è immobile nel suo, per paura che muovendosi il seme sfugga. Con un gesto veloce e con forza inaspettata mi solleva facendomi alzare. Si alza anche lei per poi farmi ricadere sul divano. Ora è sopra di me. Guida il mio sesso dentro il suo. Afferra le mie mani per farsi accarezzare il seno. La sento urlare improvvisamente di piacere. Il suo grido è accompagnato subito dal mio, meno violento, meno invadente. Lei continua a muoversi, mentre tutto in me sembra sciogliersi, lasciando posto a un senso di appagamento e soddisfazione, di rilassamento. Lei visibilmente ancora eccitata, dopo essersi scostata, prende la mia mano e la guida sul suo sesso bagnato di lei e di me e, alla ricerca di un piacere infantile, fa in modo che le mie dita lambiscano dolcemente il clitoride «Toccami, toccami ancora» mi implora. La sento gridare ancora di piacere. Solo ora che sono a casa, con la lucidità del senno di poi, rifletto sul fatto che nessuno di noi due in quel frangente abbia parlato di amore. Ma perché non riesco ancora a immaginarla vestita da sposa? Eppure ha tutte le caratteristiche che cerco da sempre in una donna. Forse non riesco a immaginarla madre di miei bambini. E pensare che in questo mese ne ho visti tanti, tanti orsetti smarriti, che si attaccano soltanto alla certezza di esistere. Mi addormento cullato dallo sguardo di mamma Beatrice che dolcemente allevia i loro dolori e sogno gli occhi dei piccoli tristemente felici. 28 CAPITOLO 7 Dopo quella sera, la mia vita cambia in modo repentino. Il mio studio diventa rapidamente preda dei problemi della gran parte dei cittadini di Joport e soprattutto il rifugio delle difficoltà del padre di Marion e dei suoi soci. Riesco comunque a districarmi in tutti i casi che vengono posti alla mia attenzione. Passo dalle piccole pratiche alle questioni di importanza sopravvalutata. Ma una cosa su tutte mi sconvolge, si tratta sempre e comunque di denaro: tasse di successione, fratelli che quasi si uccidono nel mio studio per dividersi una proprietà accumulata dai genitori con sacrifici inumani e che alla fine viene odiata, oltraggiata. Mentre la mia vita quotidiana comincia ad assumere quel valore tanto respinto, mi rendo conto che il potere dei soldi inizia a farmi desiderare cose che per me non avevano mai avuto valore. Compro un orologio magnifico, comincio a vestirmi alla moda, una macchina nuova sportiva, una due posti scintillante, dove con Marion corriamo su e giù per tutta la costa con la sua compagnia. Valori surreali di felicità incomprese. Simpatici i suoi amici, non certo dei rivoluzionari. Si possono colpevolizzare soltanto perché danno importanza vitale all’aspetto, ai capelli, alle scarpe, alle automobili. Chissà quanti nostri coetanei invidiano questa sarabanda di ricchi avventurieri, che per poter sorridere hanno bisogno di parlare di sesso, di droghe, di cose futili. Eppure io sono lì, vivo e maturo con loro. Non penso più né mi viene in mente di farlo. Sono sconvolto dalla mia felicità, da quanto amo Marion. Non rimpiango niente di tutto questo, le mie angosce e le mie paure, la voglia di fare. Ora le mie serate le passo a fare l’amore, con amore, forse, ma quale? Il padre di Marion mi affida un caso di estrema difficoltà. Si tratta di un trasporto di pelli mai arrivato, un carico che sfiora la ricchezza del valore che un impiegato dello Stato non riuscirebbe ad accumulare in trenta vite. Sono partite dal Sud-Est asiatico e mai arrivate, non si trovano i documenti di trasporto, né si sa con certezza se siano mai partite. Prendo la decisione di andare a controllare di persona la lealtà del mittente, ma mi impediscono di farlo e io, anche senza chiedere spiegazioni, comincio a nutrire dei dubbi ancora indefinibili, ma che iniziano lentamente a scavarmi dentro. Perché non mi hanno fatto andare? Quali sono le ragioni che li hanno spinti a non farmi fare le dovute indagini su questo caso? Cosa mi stanno nascondendo? 29 Voglio accendere il fuoco nel camino di casa mia, ma non riesco a trovare nella solita cassetta la carta necessaria, allora vado in automobile e trovo un vecchio giornale pieno di notizie ormai vecchie, ma senza dubbio utile allo scopo. Accartoccio la prima pagina e prendo un fiammifero, ma mentre un angolo comincia a prendere fuoco, la notizia che aveva suscitato il mio interesse quando l’avevo acquistato, cattura di nuovo la mia attenzione. Soffio sulla fiamma per spegnerla, riapro il foglio spiegazzato e comincio a leggere: “Un traffico illecito di bambini dal SudEst asiatico sta per essere scoperto. Il ripostiglio dove venivano rinchiusi è stato portato alla luce dalle autorità giudiziarie. Si tratta di una fetida fossa scavata nel terreno e ricoperta di cianfrusaglie.” Mi siedo continuando a leggere, sempre più inquieto. “Gli elementi raccolti fanno immaginare che una cinquantina di creature abbiano pernottato per due notti all’interno della fossa. Sono stati rinvenuti escrementi umani, tracce di urina, qualche pezzo di giocattolo e logori frammenti di stoffa. Un elemento su tutti ha fatto inorridire le autorità: un piccolo orsacchiotto giallo lasciato in un angolo della buca, una traccia inconfondibile del passaggio di un’anima disperata, che nella disumana sofferenza, ha dimenticato l’unico oggetto, segno di una vita trascorsa tra gli affetti di chissà quali genitori, consapevoli o no della fine del loro bambino.” Questa parte dell’articolo mi sconvolge. Mi passa anche la voglia di accendere il fuoco. Mi incammino verso la casa di Marion con la speranza di recuperare l’entusiasmo e la serenità appena distrutta da quella lettura. All’ingresso della casa incontro mio suocero che, con la solita aria di scontata sufficienza, mi ricorda che mancano solo quindici giorni al matrimonio e mi prega di raggiungerlo nel suo studio, subito dopo aver salutato Marion. Lei mi accoglie con la solita euforia e tra abbracci e baci, mi accompagna nello studio del padre. Oramai ho del tutto abbandonato quell’aria di prostrazione che guidava i miei passi, ogni volta che entravo all’interno di quella stanza e anche se lui non fa altro che ricordarmi con i suoi atteggiamenti che gli devo il mio benessere, riesco a mantenere le distanze di chi fa finta di non capire, oppure non vuole dare peso a quell’atmosfera un po’ squallida. «Allora Robert, purtroppo, ci siamo dovuti arrendere. Quel carico di pelli non giungerà mai a Joport e l’assicurazione, dopo le solite obiezioni, ci pagherà il settanta per cento dell’importo perso. Comunque è in arrivo un’altra spedizione dal Brasile. Questa passerà soltanto per il nostro Paese per poi essere destinata in un centro di trasformazione. Ti prego di trovarmi un posto isolato, ben 30 refrigerato e con sufficiente areazione, adatto a conservare le pelli per due giorni prima della loro partenza.» Lo saluto rassicurandolo, ignorando le domande che la mia intelligenza mi sta suggerendo. «Ho chiuso gli occhi come tu mi hai chiesto» dico a Marion sorridendo, mentre lei cingendomi con le braccia continua a condurmi chissà dove, giocando come una bambina a mosca cieca. «Siamo arrivati, puoi aprire gli occhi» mi dice divertita. Di fronte allo specchio, lei è splendida. Indossa un abito da sposa. Questa visione mi commuove. Malgrado il candore del rosa pallido e lucido di raso del vestito, Marion emana ancora una volta sensualità. «Porta male far vedere l’abito allo sposo» le dico impulsivamente «Ho sempre creduto in queste leggende popolari.» Pentito dal tono duro di quell’esclamazione mi avvicino, rapito dalla sua figura, tolgo il fermaglio che le tiene raccolti i capelli vaporosi e la bacio appassionatamente. Il vestito è così aderente che non permette di essere alzato. «Aspetta» mi dice, facendo scorrere la lunga chiusura lampo. In un attimo è qui, davanti a me, pronta ad amarmi. Il mio sguardo sull’unica cosa rimastole addosso, una giarrettiera celeste, un ultimo tono vezzoso. Sorrido, nel vedergliela togliere poggiando la gamba su una sedia, proprio come avrebbe fatto una ballerina di can-can. Il trillo del telefono così invadente e continuo mi distrae. Vorrei non sentirlo e continuare ad amare Marion, ma anche lei è visibilmente infastidita, e dopo il sesto squillo mi dice con fermezza di rispondere alla telefonata, visto che probabilmente il padre non è in casa. Alzo la cornetta, ma in realtà mio suocero ha già risposto, chissà da quale stanza di quella villa enorme. Sto per riagganciare ma qualcosa mi induce a non farlo. «È tutto pronto» dice una voce maschile all’altro capo del telefono, «Il carico di pelli è partito in nave.» Capisco allora che stanno parlando delle importazioni di cui tanto si interessa il padre di Marion, che ascolto rispondere «Stanno abbastanza comodi? Hanno da mangiare? Non vorrei che succedesse come l’altra volta, che due li abbiamo dovuti ricoverare.» Riaggancio sbalordito e mi accorgo solo ora dello sguardo di Marion posato su di me, delle sue mani che nel frattempo mi hanno sbottonato con avidità i pantaloni per poi arrendersi alla mia evidente, improvvisa, mancanza di desiderio. «Chi era?» mi chiede sorpresa. «Nessuno, hanno riagganciato» le rispondo imbarazzato. Mi stacco da lei scusandomi, poi mi ricompongo mentre la lascio con un gelido “a stasera”. 31 Nel percorso a ritroso verso la porta, mi sembra di camminare al rallentatore, incamerando ogni dettaglio; i tappeti, i mobili, i drappeggi, i quadri, cose troppo costose per chi guadagna denari onestamente. Ma perché mi sento così svuotato nell’anima? Sono certo di quello che ho sentito, sono certo di non sbagliare. La realtà è evidente. Commercio di pelli, così lo chiama lui, il boss. Commercio di pelli, o meglio, di pelle, cioè di bimbi che arrivano stremati dopo lunghi viaggi, occhi che piangono di fronte a realtà terribili. Come si può vivere nello sfarzo, sacrificando il dolore di povera gente? Ora devo capire tutto. Sono inquieto, sorpreso, offeso dalla mia ingenuità. Come ho potuto non accorgermene prima? Forse non ho voluto. Forse quel mondo mi attraeva così tanto da imporre alla mia coscienza di farsi domande. Devo ritrovarmi, devo ricollocare la mia anima, devo capire quanto Marion sappia di tutto ciò, quanto abbia ereditato dell’indole spietata del padre, devo capire chi è in realtà la donna che sto per sposare. Non mi sembra più di conoscerla. È come se nulla in questo mondo mi appartenga veramente. Voglio tornare a casa, andarmene via. Sono in macchina, anche i lampioni gialli che tanto mi piacevano, ora assumono un’aria spettrale. Mi fermo a un semaforo rosso, ancora sul cruscotto, quel giornale, quell’articolo, quell’indizio. Poi, improvvisamente, un flash, gli stivali in pelle di coccodrillo della sera in cui venni presentato ufficialmente come il fidanzato di Marion. Ogni uomo indossava quelle calzature orrende e le donne, inclusa la mia fidanzata, delle borse della stessa pelle fatta di squame di striscianti serpenti, così simili a tutti coloro che erano lì a divertirsi, ignorando o fingendo di farlo, la vera natura dei loro guadagni. Mi torna in mente la signora Beatrice, Rebecca, i bimbi paralitici. Un clacson distoglie i miei pensieri, il semaforo è diventato verde. Devo andare da Agatha, devo subito parlare con lei. Sono sotto la doccia da mezz’ora, l’illusione che l’acqua possa lavare le mie ignare colpe. Mi giustifico e poi mi riaccuso. Non posso pulirmi dentro, non posso lavare il malessere scaturito dalla mancanza di stima in me stesso. Difendere suo padre, difenderlo dai suoi stessi inganni, conoscerli e non poter far niente, se non negare tutto, inventare storie di fantasmi, inventare storie lecite per giustificare i miei sensi di colpa. Mi ritrovo a piangere con lacrime che mi bruciano sulla faccia più dell’acqua bollente 32 che scende dalla doccia. Pianti incompiuti e strozzati dallo sbattere di piedi, contrasti di anime frequentemente turbate, soluzioni incoscienti. E io mi ritrovo a galleggiare nelle acque torbide, di un azzurro inesistente. Grido per gridare. E poi rimango in silenzio per cercare di rincorrere aggrapparmi a quei mesi pieni di luce, ma così bui, offuscati da nubi gonfie di ipocrisia. Adombrati da uomini che vivono nel coraggio vigliacco del potere, aspettando soltanto le gocce di sangue di altri uomini assenti. Scritte, fiabe, cuccioli che danno il senso della vita ma che riportano senza tregua al tormento mai espiato. Anni di lotte senza influenze, capaci soltanto di farti vivere senza sfiorare veramente il bene, quello prezioso, giusto. La spia luminosa della segreteria telefonica non fa che lampeggiare, segnalando di premere il tasto dell’ascolto dei messaggi giunti. Non sono sicuro di voler sentire la voce di Marion, ho paura che in questo momento potrebbe risultarmi sconosciuta. Mi torna in mente mio padre, la sera che mi ha aperto il suo cuore. 33 CAPITOLO 8 «Figlio mio» riprende la sua narrazione fissandomi negli occhi «Quando ero più giovane, deluso da mille storie inconcluse, sia affettive che lavorative, era forte la sensazione che il mio cuore fosse più grande delle menzogne nelle quali mi trovavo a vivere per diventare qualcuno, per prendermi delle rivincite che soltanto adesso giudico assurde.» Inspira aria fino a riempirsi completamente i polmoni per poi buttarla fuori velocemente. «Mi rendo conto che sono rivincite solamente con noi stessi. Mi sono ritrovato su un sentiero che percorsi come sospinto da una strana energia. Lentamente la stradina bianca divenne sabbia e mi ritrovai riflesso in uno specchio d’acqua, rivedendo la mia vita. Come successe a mio padre, anche io fui disprezzato, umiliato, ferito per la mia povertà, al punto tale che la donna di cui ero profondamente innamorato e dalla quale aspettavo un figlio, non volle né me né il frutto del mio amore.» Mi chiede ancora dell’acqua per sciogliere il nodo venuto alla gola «È incredibile come il destino di un padre ed un figlio possano essere simili, perché, vedi, certi lutti ti rimangono dentro per sempre. Ho sempre creduto che quella bambina, perché ero certo fosse femmina, stesse in cielo, lì da qualche parte ad aspettarmi, bionda e dolcissima, come sua madre. Quando l’altro giorno sono stato male, ho perso conoscenza, ma ho avuto la netta sensazione di essere avvolto da tenere braccia di essere sfiorato da capelli morbidi. Sulla spiaggia, quel giorno di cui ti ho parlato, credo di averla vista per pochi istanti. Saltava e correva e i suoi piedi sembravano non toccare la sabbia.» Fa una pausa, un respiro profondo e continua «Volevo dirti che nulla si dissolve, figlio mio. Ricorda che nulla si disperde e che anche gli avvenimenti che sembrano non avere nessuna importanza riescono nella nostra vita a trovare la degna collocazione. È stato tuo nonno dal mondo della verità eterna ad accompagnarmi laggiù quel giorno, a darmi la gioia di conoscere quella figlia mai dimenticata. È stato lui ed è lui che ci sta accanto, che ci consola e ci guida. Credimi forse ti sei preso così a cuore il caso di Rebecca, perché tuo nonno vuole comunicare con te, con me. Vuole che i bimbi siano amati, come né lui né io abbiamo potuto fare. Tu invece puoi per rendere giustizia ai nostri piccoli angeli, proprio salvando e facendo sentire amati quelli già nati e non voluti. Contiamo su di te, sul tuo buon cuore, sulle tue capacità!» Solo ora riesco a comprendere fino in fondo il discorso che con tanta fatica papà era riuscito a farmi. Prima di me aveva intuito che anche io stavo per perdermi in un mare di menzogne senza trovare via di uscita. 34 Labirinti consapevoli che non lasciano né lo spazio né il tempo di ritrovarsi. Eppure io mi sento sincero, io credevo di amare il benessere, ma quale? Quello dei valori veri, del cuore, dell’anima. Ora mi scopro amante di oggetti preziosi, costosi, ma anche di rispecchiarmi nella semplicità, in cose altrettanto pregiate, forse impagabili. Come i sorrisi di Rebecca, la dolcezza e la schiettezza di Gina, l’amore incondizionato e disinteressato della signora Beatrice. Penso al fatto che Dio non mi ha fatto mai pagare nulla, nessun biglietto per vedere il mare, nessuna obliteratrice per guardare il cielo. Improvvisamente ho voglia di indossare una maglietta bianca e un paio di jeans e di correre bagnato di pioggia fino allo sfinimento, e poi di buttarmi sul prato contrastato dai colori autunnali. Rientro in ufficio e con un gesto meccanico spingo il tasto della segreteria telefonica, forte della convinzione che nessun messaggio potrà ormai cambiare l’opinione che ho su di loro. La voce calda di Marion proveniente dalla registrazione sembra ancora più suadente “Non voglio aspettare. Vieni subito”. Ha tutta l’aria di essere un comando. Tutto sembra spettarle di diritto, soprattutto io! Spengo la lampada vicino al telefono, spengo la luce su questa giornata che mi ha riservato momenti difficili, ma dentro ho un grande senso di pace. Programmo la sveglia per le sette della mattina dopo. Andrò di primo mattino a trovare Agatha. È forse il mio desiderio di libertà, di far riaffiorare la parte più intima di me stesso che mi induce a vestirmi senza far caso agli abbinamenti. Mi avvio verso la macchina dimenticando persino la ventiquattrore e infilandomi il telefonino in una delle tante tasche del mio giubbotto sportivo. Arrivo davanti alla clinica, solita trafila interminabile per entrare. Sono troppo deciso a incontrare Agatha, troppo preso dalle domande che dovrò porle per soffermarmi sui particolari che la prima volta mi hanno fatto tanto soffrire. Aspetto con impazienza nella sala d’attesa con la pianta liofilizzata. Mi fa sorridere con disprezzo il pensiero, il ricordo di quel primo giorno lì, con Marion. La mia voce sembra appartenere a un altro mentre sussurro «Come ho potuto?» «Come ha potuto fare cosa? Innamorarsi di lei? Non si sorprenda, capita a tutti gli uomini» È Agatha, di fronte a me, lucidissima. I suoi capelli sciolti sulle spalle mettono in risalto la sua delicata bellezza, così simile a quella della figlia. 35 «Ha scoperto tutto, non è vero?» continua guardandomi dritto negli occhi, quai con rassegnazione «Altrimenti non sarebbe qui, da solo, informale, pronto a farmi mille domande per non soffrire, disperato al punto che vuole farsi consolare da una povera folle. Sicuramente avrà scoperto anche la provenienza della ricchezza di mio padre. Io l’ho scoperta già da qualche tempo. Ma loro sono più forti di me al punto da farmi impazzire, anzi, da farmi credere di essere una folle, da farmi rinchiudere. Io sono diventata il personaggio scomodo, colei che sa ma che essendo pazza non sarà mai considerata credibile» Si interrompe improvvisamente, poi prendendomi le mani, continua «Io ho sofferto quanto te. Mi hanno delusa, umiliata, tormentata, solo perché non ero d’accordo. Solo perché so cosa vuol dire essere madre. So quanto vale un figlio. So che il mio amore per Rebecca è talmente forte che può proteggerla da loro e purtroppo non riesco a trovare migliore protezione se non il distacco.» Stringe le mie mani con vigore «Grazie a te mia figlia è al sicuro. Io qui sono in pace. Ora pensa a te, pensa a mettere in salvo la tua anima» Si allontana lasciandomi solo, stordito. Poi mentre la guardo allontanarsi trovo la forza per gridarle «Ti tirerò fuori di qui e metterò dentro gli altri. Te lo prometto.» Si volta, mi sorride e mi dice con un filo di voce «Ci conto, non perderti anche tu.» Torno a casa distrutto, ancora morsi allo stomaco, ancora la maledetta spia della segreteria “So che sei andato da Agatha”, dice la voce registrata di Marion serissima, decisa, quasi non sembra la sua. “Immagino quello che la sua pazzia le ha fatto dire”. Si ferma per un attimo interminabile, poi continua “Se tu mi lascerai, mi ucciderò. Dammi almeno la possibilità di parlarti. Ti aspetto per cena.” Un amore morto in fondo al cuore non può spingere una persona a fare un gesto che non vuole fare, ma la curiosità di vedere fino a che punto può arrivare la bassezza umana, la menzogna e l’ipocrisia mi fa accettare l’invito. Ma chi voglio prendere in giro? È proprio solo la curiosità a spingermi fuori da questa casa? O forse la speranza di scoprirla completamente estranea e di continuare ad amarla? Ho il timore che con il suo fascino riesca a convincermi, con i suoi “tipregocredimi”, con i suoi “telogiurosumiamadre”. Ho paura che si finisca come al solito a fare l’amore, ma stavolta è diverso. Non mi lascerò coinvolgere. Lo devo a me stesso. Alla mia dignità. La domestica mi accoglie con la sua solita gentilezza. Mi accompagna davanti alla scala di granito e mi invita a salire in camera, dove Marion mi 36 sta aspettando. Salgo le scale, consapevole del significato recondito di questo invito. Sull’uscio c’è lei, in un completino di pizzo nero che non mi piace, lo trovo estremamente volgare. Ma è bellissima sempre e comunque. Mi guarda e comincia a implorarmi di crederle, facendo uscire una lacrima che non mi è indifferente. «Io non ne so nulla degli affari di mio padre, sto scoprendo tutto ora, come te. Gli ho detto che andrò via, rinuncerò a questa vita agiata pur di averti accanto.» Non riesco ad avvicinarmi a lei, a sentirla vera. Poi, eccolo, il momento che aspettavo. “Ti giuro su mia madre, la persona che ho amato di più in vita mia, prima che arrivassi tu, che quello che ti sto dicendo è tutto vero.» Sembra così sincera che ho una voglia fortissima di crederle, di fidarmi almeno di lei, quando dallo specchio alle sue spalle vedo la sua mano muoversi in un gesto infantile, che quasi mi fa sorridere nella sua assurda naturalezza: due dita incrociate dietro la schiena, a segnalare uno spergiuro. La guardo con incredulità e disprezzo «Mi fai venire la nausea. Non voglio più vederti, mai più!» Sono furioso. La rabbia mi travolge togliendomi il respiro. Scappo via. Ho bisogno di aria pura. Dall’alto delle scale sento il suo grido, che ancora risuona nella mia testa, ora che sono lontano “T-I A-M-O”. Non l’avevo mai sentito gridare da lei con tanta disperazione, forse non glielo avevo mai sentito neanche sussurrare. Non faccio che sentire l’eco di quelle due parole. È come se non volessi ammettere, che in qualche angolo nascosto il mio cuore si stia domandando “e se fosse tutto vero? Se lei non fosse che un’altra vittima del mostro?”. Poi la logica prende il sopravvento, la mia lucidità mi riporta a ragionare, a vedere come in un film le sue dita incrociate riflesse nello specchio. Ripenso alla sua pelle morbida e vellutata, così diversa da quella a squame delle sue scarpe, ma così simile a un serpente che ti incanta prima di avvolgerti, quasi ti stritola. La notte sta arrivando. Mi sento invadere da uno strano malessere, lo stesso di questa mattina. Brividi e poi caldo. Gelo e poi tepore. Sensazioni insopportabili che percorrono tutto il mio corpo. Ho la fronte che scotta, mi sembra che il fuoco del camino che non ho più acceso stia bruciando, attanagliando come in una morsa tutta la mia pelle. Mi sembra di dormire, di sprofondare in un vortice. Ho come la sensazione di essere in bilico sull’orlo di un grattacielo altissimo, sotto di me il vuoto. Mi alzo all’improvviso, sedendomi al centro del letto. Sono svuotato e ho freddo. Ho avuto un incubo. 37 La sveglia segna le tre del mattino e risprofondo nel sonno. Vedo uno sguardo implorante nel buio. Gli occhi di Rebecca, ai quali si sovrappongono quelli di Marion che nel sogno continua a gridare “T-I AM-O”, come se stesse bestemmiando. Sento le sue mani delicate su di me, le sento percorrere tutto il mio corpo. La vedo, i suoi occhi chiari brillano nell’oscurità della stanza. Durante il sonno ho un momento di lucidità, mi sembra che sia tutto reale. Sento il peso del suo corpo sul mio. Mi sembra di morire tra le sue braccia, tra le sue gambe. Sento i suoi sospiri. Mi sembra di entrare in lei, di svelare ancora una volta il mistero che si nasconde sotto le sue carezze, sempre più veloci sul mio volto; del suo corpo che danza sul mio fino a farmi urlare, all’apice del piacere, il suo nome, rimane solo una sgradevole sensazione di umido piacere. Mi sveglio, scosso dalla mia stessa voce e dalle lenzuola che odorano del mio seme. Mi domando se fosse solamente un sogno e la risposta non mi interessa perché continuo ad aver bisogno di lei, dei suoi occhi, della sua pelle, del suo amore. Entro in bagno, sono già le sette. Il suono del telefono guasta il grande senso di beatitudine che la doccia mi stava regalando, ma continuo a lavarmi con tranquillità. Ascolterò poi i messaggi in segreteria. Ho ancora l’accappatoio addosso, non ho proprio voglia di vestirmi questa mattina. Poso la tazza con il cappuccino bollente sul tavolino del telefono e ascolto i messaggi della segreteria. La voce che esce dall’apparecchio è stranissima, non distinguo chi stia parlando “Marion si è tagliata le vene, ora è in ospedale con prognosi riservata, ti prego va da lei.” In quell’implorazione tutto il dolore di un uomo che non è abituato a chiedere qualcosa senza ordinarla. In quella richiesta, così simile a una preghiera, tutta la sofferenza di un uomo che si sente colpevole di uccidere il proprio figlio. Eppure questa notte era così viva, proprio qui accanto a me. Io la amavo mentre lei si stava uccidendo. Mentre mi vesto velocemente, mi sorprendo a pregare Cristo, pensando alla sua Passione; trascinato nell’orto, tradito e ripudiato dagli uomini e lasciato al suo consapevole destino. Infinite folle si alzano per fare festa e incredibilmente ritorna il tradimento di quella razza umana così amata. Un simbolo, la croce, e io non posso fare a meno di piangere davanti alla natura sterile. Ma sono tanto carico di quell’energia pura, che irrazionalmente accomuna gli uomini agli alberi, gli animali all’erba, la stanchezza alla virilità. In ginocchio, senza tregua, prego l’unico essere che può giudicare, al di sopra delle parti, l’unico costantemente presente nel presagio di una salvezza innaturale, e per questo ancora più ambita. Signore non farla morire, ti prego. 38 Arrivo in ospedale non scandendo il tempo, la sua stanza è situata all’ottavo piano. Prendo l’ascensore e durante la salita rivivo la discesa dell’incubo di questa notte. È tutto così piccolo da quassù. Davanti a una porta a vetri opachi, che oscilla come quella di un saloon di un film western l’incertezza di entrare lascia il posto alla ferma volontà di vederla. Lei è di fronte a me, sul letto, i capelli disordinati, il volto ancora così rosa, da sembrare semplicemente addormentato dopo una notte d’amore. Gli occhi sono chiusi e un tubo partendole dal naso si collega a un macchinario accanto al letto. C’è un gran silenzio, rotto solo dai battiti del suo cuore amplificati e regolari. È comunque bella. Le accarezzo il volto, sembra una bambina e la bocca appena socchiusa e senza rossetto, mi invita a posare le mie labbra sulle sue, con una delicatezza mai usata fino a ora. Ora è così vulnerabile, con i polsi fasciati per curare le ferite. Si stava uccidendo per me. Il gesto disperato che ha compiuto non può non significare nulla; mi sorprendo a inveire contro me stesso per non averle creduto, per aver tratto conclusioni senza diritto di replica, solo per aver intravisto da uno specchio un gesto che poteva significare qualsiasi cosa, uno scatto di nervi, un gioco stupido. Quando mi affiora nella testa il pensiero che io, accecato dalla rabbia e dalla convinzione della sua colpevolezza, possa soltanto aver immaginato quelle dita incrociate, il senso di colpa che mi travolge è così violento che rischio di svenire addosso a quel corpo fragile disteso sul letto. Le sussurro, illudendomi che lei possa ascoltare, «Ti amo così tanto che vorrei viverti accanto per sempre.» Un flebile sorriso le appare sulle labbra. Sembra avermi sentito. Un medico entra nella stanza e mi chiede delicatamente se Marion fosse mia moglie e io gli rispondo che lo sarà presto. Mancano pochi giorni al nostro matrimonio. «È molto debole» dice il medico «Ha perso molto sangue, ma stia tranquillo oramai è fuori pericolo e per quel giorno sarà splendida.» «Signore, ti ringrazio» dico rivolgendomi al Gesù fluorescente che è dietro alle mie spalle. Con l’anima intorpidita dai sensi di colpa, mi avvio in ufficio. Riesco a distogliere i pensieri dal letto di Marion solo quando mi immergo subito nei documenti del mio futuro suocero. Ho scoperto dove nasconderanno il nuovo carico di pelli in arrivo, la data coincide con il giorno successivo al mio matrimonio. Decido che avviserò le autorità il giorno stesso e poi partirò per il viaggio di nozze, consapevole della bomba che innescherò ma soddisfatto della decisione presa. Voglio interrompere una volta per tutte questo orribile traffico di vite umane, destinate alle adozioni illegali o peggio. 39 EPILOGO È il giorno più bello della mia vita. Elegantissimo, salgo sull’automobile che mi ha regalato mio padre, che oramai non utilizzavo da tempo, e mi incammino sulla strada che da Joport arriva a Delay, qualche chilometro per raggiungere la chiesa, dove il mostro mi darà in sposa sua figlia. Accendo il motore, che scoppiettando non tradisce la mia fiducia. Mentre guido rifletto su tutto quello che mi è capitato. “Comunque si rimane soli. Depositi milioni di elementi che credi fondamentali nella parte più recondita del cervello, con la speranza di tirarli fuori quando ne capiterà l’occasione. Eppure quando ti servono non li ricordi mai. E poi incredibilmente riaffiorano quando sei solo e allora li cancelli arrabbiato per non averli potuti utilizzare quando ti servivano. Siamo sicuri che tutte quelle informazioni siano così importanti? Dobbiamo necessariamente consolidare le nostre idee, bisognerebbe cercare di agire, qualche volta, con l’istinto guidato dal buon senso. Dovremmo cercare di possedere il tempo, determinando con calcoli precisi, le differenze tra il dover vivere e il saper vivere. Leggi nei riflessi inconsueti che la nostra mente ci offre le possibilità che ti vengono date, e scegli. Nella vita è comunque difficile percorrere la strada del pensiero, bisognerebbe riuscire a elevare lo spirito e credere. Credere nelle cose belle, nelle giustizie efficienti, sorvolare i dettagli nascosti nell’ironia della sorte e cavalcare come su un destriero di razza, le occasioni che si presentano. Consolati con le cose pure che ti capitano e scegli sempre il meglio non trascurando mai la sofferenza degli altri e, non paragonarti mai agli uni, sei solo nella pazza competizione della vita, lo spirito ti aiuta a capire, tu sei un uomo e come tale scrivi le pagine della tua storia, depositandole sul davanzale incrinato della giustizia universale, che cancella con un cenno i sacrifici dei pensieri sconvolti soltanto dai poteri reali, insoddisfatti veramente da soddisfazioni labili.” Senza un apparente motivo rivedo il sorriso di Marion all’ospedale, pochi giorni prima, quando le avevo dichiarato il mio amore. Un sorriso così sincero, piantato dolcemente tra le fossette di guance che mi erano sembrate estremamente colorite, per essere così a corto di sangue… All’improvviso l’automobile comincia a singhiozzare, si sta fermando. E adesso cosa faccio. 40 41