gialli e noir metropolitani
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gialli e noir metropolitani
GIALLI E NOIR METROPOLITANI 14 GIALLI E NOIR METROPOLITANI collana diretta da: Paolo Roversi direzione editoriale: Calogero Garlisi redazione: Eugenio Nastri, Cristiana Mossotti comunicazione: Gabriele Dadati commerciale e amministrazione: Marco Bianchi, Donatella Baccolini realizzazione editoriale: Veronica Bonalumi progetto grafico: Tralerighe, Milano ISBN 978-88-99316-10-5 Novecento Editore è un marchio Novecento media srl Copyright © 2015 Novecento media srl via Carlo Tenca, 7 - 20124, Milano www.novecentoeditore.it - [email protected] Fatto ogni possibile tentativo per rintracciare il titolare dei diritti dell’immagine in copertina, l’editore resta a disposizione di chi, in futuro, potesse rivendicarli a norma di legge. Giuseppe Foderaro ANCHE GLI ANGELI MANGIANO KEBAB Novecento Editore La piena irresponsabilità dell’uomo per il suo agire e per il suo essere è la goccia più amara che chi persegue la conoscenza deve inghiottire. (Friedrich Nietzsche, Umano, troppo umano) 1. Intendiamoci, io non sono certo il migliore. Ma il mio lavoro lo so fare. So cosa voglio dalla mia vita e soprattutto so cosa non voglio. Presuntuoso, direte voi. Certo, come no. Da morire. E me ne vanto. Vedete, il più delle volte la differenza non sta tanto tra il fare e il non fare, ma tra il sapere e il non sapere. La conoscenza è la chiave del successo. Quando sai cosa vuoi, sai anche come fare per ottenerlo. Se ci pensate è semplice. Guardate me. Investigatore privato, dopo quello che ho passato. Monolocale studio-ufficio in piazza De Angeli. Quando cercavo un posto adatto non ho saputo resistere. Sauro Badalamenti, Investigatore Privato, in piazza De Angeli. Sarebbe stato da Dio scritto su un biglietto da visita. Certo, l’affitto all’epoca era un po’ caro, ma oggi ne vale la pena. Stabile signorile, in una palazzina 7 anni Sessanta con portineria, a un passo dalla metro, di fianco a un negozio di tappeti persiani. Tutto l’arredamento del mio studio l’ho comprato lì. Panna e celeste, è costato un occhio della testa, ma conferisce un tono all’ambiente. E i clienti ci badano a certe cose. Le donne pure. Perché io le donne, sapete, preferisco portarle qui. A casa mia non ci voglio nessuno. Dal lunedì al venerdì dormo a Milano, nel salottino accanto all’ufficio: divano letto, doccia, cucinotto. Non mi manca nulla. Nel fine settimana me la squaglio nel mio rifugio privato, dove nessuno mette mai piede. Su a Varenna, sulle sponde del lago di Como. Mi piacerebbe tanto dirvi che me ne sto rintanato come un orso a leggere Schopenhauer e ad ascoltare Schubert, ma la verità è un’altra. Faccio jogging intorno al lago. Cinque chilometri la mattina presto ti rimettono in pace con il mondo, ve lo garantisco, poi faccio la spesa e preparo manicaretti. La sera accendo il camino e rivedo vecchi film in videocassetta. VHS, sì, avete capito bene. Non sono tecnologico, io. Se non fosse che mi serve per lavoro, nemmeno il cellulare userei. Quale bisogno ci sarà poi del digitale terrestre, se quelli che guardo sono tutti film in bianco e nero degli anni Quaranta? Avrò visto Casablanca un centinaio di volte e il nastro del Falcone maltese ormai è tutto consumato. Noir, sì, lo confesso, è la mia passione. Noir come questa città e come il mio lago, che quanto a malinconia e tetraggine, lasciatemelo dire, non sono secondi a nessuno. A me però sta bene così. Mi ricorda che non bisogna mai aspettarsi troppo, e quando sei abituato 8 alla nebbia spesso ti accontenti anche di un pallido sole. Questione di punti di vista, immagino, o di aspettative. La mia vita mi piace così. Quando sono sul lago non mi disturba nessuno, quando sono a Milano vedo chi mi pare e quando decido io. Al lunedì, con la metropolitana dalla Stazione Centrale, ci si mette un attimo, e poi non do mai appuntamento a nessuno prima delle dieci del mattino. Una delle cose che amo di più è tenere tutto sotto controllo. Certo, qualche cliente si è lamentato del sottopassaggio che attraversa la piazza, lo so che ci sono tossici, extracomunitari e vagabondi che ci vanno a dormire, e forse spacciano pure, ma dopotutto non sono il sindaco della città. Le regole non le faccio mica io. Qui vicino c’è via Marghera, piena di negozi. A me sta bene così, e la zona è più che dignitosa. E poi, dico, vogliamo scherzare, Sauro Badalamenti, Investigatore Privato, in piazza De Angeli. Chi lo lascia un posto così? Sono di origini meridionali, ma sono nato a Milano. Solo che non lo dico mai a nessuno. Mi piace farmi prendere sottogamba, la gente ti sottovaluta, pensa che sei un terrone e si dimentica di controllare con chi ha a che fare. A volte è comodo. Anche Domenico Costa, l’avvocato che mi passa la maggior parte del lavoro, all’inizio ha commesso questo errore. Mi ha guardato, ha visto un bullo di periferia rasato, ben piazzato, col fisico da guardia spalla, il tatuaggio che sbuca da sotto al polsino della camicia, e mi ha catalogato. Male. Nella sezione sbagliata. Ma lui è intelligente e ha corretto il tiro. Non do certo a tutti una seconda occasione come ho fatto con lui. Ah, non tratto divorzi, a meno 9 che non me lo chieda Domenico in persona, ma anche allora, giusto qualche ricerca, discrete indagini condotte con tatto, questioni patrimoniali, non certo prove di infedeltà coniugale. Ci mancherebbe. Io credo che uno debba darsi un limite. Come con la droga, o con l’alcool. Va bene fino a un certo punto, ma se non si è capaci di tirare il freno, conviene smettere. Da due anni sono astemio, ma ne ho passate tante prima di arrivare a questo. E non sono astemio per caso. Una volta ho ammazzato un uomo mentre ero sbronzo. A mani nude. Potevano mettermi dentro per tutta la vita, e se non ci fosse stato Domenico Costa forse sarebbe anche successo. Diciamo che gli devo qualcosa, ecco. E lui lo sa. Sa anche che non bevo, nemmeno se mi pagassero berrei ancora. Ora sono passato dall’altra parte, ma mi sono rimaste le vecchie amicizie di un tempo. Nel mio lavoro servono. Quando facevo il servizio d’ordine nelle discoteche ne ho conosciuta di gente strana. Diciamo che non è escluso che un giorno, passando nel sottopassaggio di piazza De Angeli, qualcuno di quei rifiuti umani che abita là sotto possa anche salutarmi chiamandomi per nome. Ma non è questa la storia che volevo raccontarvi. 2. La maggior parte del mio lavoro lo svolgo per conto delle assicurazioni. Quella mattina, me lo ricordo ancora come se fosse oggi, me ne stavo andando in ufficio di 10 lunedì, anche se non avevo nessun appuntamento. Non faccio in tempo a infilare la scala mobile, diretto giù verso la metro, che mi vibra il cellulare. È Domenico a chiamare. Mi giro sulla scala e torno su a quattro gradini alla volta, prima che il sottopassaggio si inghiotta il segnale. Quasi travolgo una donna con gambe inguainate in calze da settanta denari che luccicano come il petrolio. Peccato, avrebbe meritato una possibilità, ma quando Domenico chiama parliamo di denaro che entra nelle mie casse. E questa è una delle mie priorità: prima si pagano i conti, poi ci si diverte. Con uno sguardo di rimpianto a quelle caviglie ammantate di nero, ascolto la voce concitata di Domenico. Lui è sempre come se parlasse col fiatone, se fa tre gradini di corsa va già in apnea. Ha tutte le qualità del mondo, ma certo è uno che a tavola non si sa controllare. Vorrei tanto sapere come sono le sue analisi del sangue. Certo, tutto sembra meno che un avvocato, ma ha un cervello di prim’ordine, uno di quelli che funziona a tutta birra, niente da dire. Insomma mi racconta che è scoppiato un casino a Cimiano, parla di un’esplosione terribile. Uno stabilimento è saltato per aria. C’è di mezzo l’assicurazione. Bisogna andare a vedere, se c’è dolo la compagnia non paga. Quando Domenico dice se c’è dolo vuol dire che il dolo, volente o nolente, glielo devo trovare. Se l’assicurazione non deve pagare, lui ci guadagna. Se guadagna lui, guadagno anch’io. È sempre tutto molto semplice, se sai come funziona. Basta sapere dove guardare e la verità salta sempre fuori. Mi detta l’indirizzo, io memorizzo, giro sui tacchi e riparto a razzo 11 giù verso il sottopassaggio. Il mio angelo inguainato di nero sarà già sparito a quest’ora, mi dico, ma darsi uno sguardo intorno non costa niente. Via Privata Benadir 14, fermata Cimiano. L’indirizzo mi dice qualcosa ma non riesco proprio a ricordarmene. Sto ancora pensando alla bionda vestita di nero, mentre sbuco dalle scale della metro giusto in tempo per saltare sull’ultimo vagone. È sempre quello peggiore, l’ultimo vagone. Data l’ora ci sono studenti che marinano la scuola, punk con la cresta verde, un paio di signore camuffate da orsi, vecchi pensionati con le buste della spesa in mano. Un odore misto di sudore e pioggia, rancido e umido insieme, nelle viscere di una città cupa e tentacolare. Sto guardando una donna infagottata in un cappotto che sembra tale e quale un orsacchiotto spelacchiato, baffi compresi, quando ho come un flash. Ecco cosa c’è in via Benadir: un noto ritrovo per orsofili, il Company Club. Possibile che l’esplosione sia avvenuta proprio lì? No, no. Non può essere. Domenico ha parlato di uno stabilimento. Bene, mi dico, vedremo quando sarò sul posto. In ogni caso anche se il locale fosse ancora in piedi, sarebbe troppo presto per una bevuta, quelli prima delle sette di sera non aprono. E poi non credo proprio di avere la tessera dell’Arcigay con me. Quasi mi viene da ridere, chissà se quella donna che sto osservando, tutta intenta a leggere la sua rivista scandalistica, sa cos’è un bear, di quelli che si incontrano al Company Club? Quello sì che arricchirebbe la sua cultura metropolitana. Mi sto chiedendo che cosa diavolo possa essere successo, Cimiano sarà anche 12 la zona che è ma, insomma, un’esplosione in uno stabilimento da quelle parti che danno avrà mai potuto creare? Quattro casse bruciacchiate, un po’ di spavento, qualche ferito forse. Non è da Domenico parlare per iperboli, se lui dice che è un casino della Madonna, si può stare certi che è così. Se non avessi fretta, scenderei una fermata prima per sentire in giro che si dice dell’incidente, per parlare con la gente per strada. Ma potrò farlo dopo. Se serve. Già sulle scale che portano in superficie si respira un gran fumo, sembra che l’esplosione e il casino della Madonna ci siano stati davvero. Capannelli di gente agli incroci delle strade, traffico paralizzato, clacson impazziti, sirene che lacerano l’aria. Cominciano a lacrimarmi gli occhi e in mezzo a tutta quella confusione mi pare anche di sentire un gran puzzo, fin troppo familiare. Le strade sanno di carne bruciata. Deve essersi trattato di un’esplosione assai più grave di quello che pensavo, chissà se quella gente curiosa radunata ai crocicchi sa cos’è quello che sta respirando. C’è odore di morte lì intorno. Ma loro non lo sentono. Molti non sentono l’odore della morte nemmeno quando ce l’hanno vicino. 3. Una grande insegna sul tetto dello stabilimento identifica chiaramente la destinazione d’uso, una delle tante sedi della Coop, supermercato aperto al pubblico, un immenso parcheggio interno, depositi, magazzini, entrata 13 di servizio per i camion che scaricano le merci. Ma cosa ci poteva essere là dentro di esplosivo? Mentre cammino a larghi passi sui marciapiedi affollati, gli occhi che lacrimano per il fumo e le orecchie tese a captare i commenti della gente, rivado con la mente alle mie vecchie nozioni di chimica. Freon, gas di refrigerazione, celle frigorifere, condizionatori, impianto di riscaldamento, pannelli elettrici. Decisamente, ci sono troppe cose che ancora non so su quel tipo di attività. Lo stabile è occupato dalla Coop da cielo a terra, su in cima dovrebbero esserci dozzine, forse centinaia di prese di aerazione, motori dei condizionatori e chissà quale altra diavoleria possa servire a mandare avanti questo posto. A ogni angolo c’è una telecamera di sorveglianza puntata sulla strada, con il suo occhio rosso ancora vigile. Bene, qualsiasi persona, mezzo o veicolo che sia passato da qui sarà rimasto immortalato nei nastri dell’agenzia di sorveglianza. Le Coop, questo me lo ricordo, sono affidate alla Sicurglobal, una delle più note nel settore e, cosa più importante, quella dove conosco un paio di colleghi che mi devono ancora qualche favore. Se c’è qualcosa su quei nastri, lo verrò a sapere. Alzando lo sguardo, vedo che una delle cubitali lettere dell’insegna al neon, la grande C semicircolare, pende malinconica dalla cima del tetto, ancora appesa al suo supporto metallico, squarciata e piuttosto annerita. L’incendio sembra sia avvenuto lassù. O almeno è lì che ha trovato uno sfogo. Decido di cercare le scale di sicurezza esterne che conducono in cima. Per qualche oscuro 14