gialli e noir metropolitani

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gialli e noir metropolitani
GIALLI E NOIR METROPOLITANI
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GIALLI E NOIR METROPOLITANI
collana diretta da:
Paolo Roversi
direzione editoriale:
Calogero Garlisi
redazione:
Eugenio Nastri, Cristiana Mossotti
comunicazione:
Gabriele Dadati
commerciale e amministrazione:
Marco Bianchi, Donatella Baccolini
realizzazione editoriale:
Veronica Bonalumi
progetto grafico: Tralerighe, Milano
ISBN 978-88-99316-10-5
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Giuseppe Foderaro
ANCHE GLI ANGELI
MANGIANO KEBAB
Novecento Editore
La piena irresponsabilità dell’uomo
per il suo agire e per il suo essere
è la goccia più amara che chi persegue
la conoscenza deve inghiottire.
(Friedrich Nietzsche, Umano, troppo umano)
1.
Intendiamoci, io non sono certo il migliore. Ma il mio
lavoro lo so fare. So cosa voglio dalla mia vita e soprattutto so cosa non voglio. Presuntuoso, direte voi. Certo,
come no. Da morire. E me ne vanto. Vedete, il più delle
volte la differenza non sta tanto tra il fare e il non fare,
ma tra il sapere e il non sapere. La conoscenza è la chiave
del successo. Quando sai cosa vuoi, sai anche come fare
per ottenerlo. Se ci pensate è semplice.
Guardate me. Investigatore privato, dopo quello che
ho passato. Monolocale studio-ufficio in piazza De Angeli. Quando cercavo un posto adatto non ho saputo
resistere. Sauro Badalamenti, Investigatore Privato, in piazza
De Angeli. Sarebbe stato da Dio scritto su un biglietto
da visita. Certo, l’affitto all’epoca era un po’ caro, ma
oggi ne vale la pena. Stabile signorile, in una palazzina
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anni Sessanta con portineria, a un passo dalla metro, di
fianco a un negozio di tappeti persiani. Tutto l’arredamento del mio studio l’ho comprato lì. Panna e celeste,
è costato un occhio della testa, ma conferisce un tono
all’ambiente. E i clienti ci badano a certe cose. Le donne
pure. Perché io le donne, sapete, preferisco portarle qui.
A casa mia non ci voglio nessuno. Dal lunedì al venerdì
dormo a Milano, nel salottino accanto all’ufficio: divano
letto, doccia, cucinotto. Non mi manca nulla. Nel fine
settimana me la squaglio nel mio rifugio privato, dove
nessuno mette mai piede. Su a Varenna, sulle sponde
del lago di Como. Mi piacerebbe tanto dirvi che me ne
sto rintanato come un orso a leggere Schopenhauer e ad
ascoltare Schubert, ma la verità è un’altra. Faccio jogging
intorno al lago. Cinque chilometri la mattina presto ti
rimettono in pace con il mondo, ve lo garantisco, poi
faccio la spesa e preparo manicaretti. La sera accendo
il camino e rivedo vecchi film in videocassetta. VHS, sì,
avete capito bene. Non sono tecnologico, io. Se non fosse che mi serve per lavoro, nemmeno il cellulare userei.
Quale bisogno ci sarà poi del digitale terrestre, se quelli
che guardo sono tutti film in bianco e nero degli anni
Quaranta? Avrò visto Casablanca un centinaio di volte e il
nastro del Falcone maltese ormai è tutto consumato. Noir,
sì, lo confesso, è la mia passione.
Noir come questa città e come il mio lago, che quanto
a malinconia e tetraggine, lasciatemelo dire, non sono secondi a nessuno. A me però sta bene così. Mi ricorda che
non bisogna mai aspettarsi troppo, e quando sei abituato
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alla nebbia spesso ti accontenti anche di un pallido sole.
Questione di punti di vista, immagino, o di aspettative.
La mia vita mi piace così. Quando sono sul lago non
mi disturba nessuno, quando sono a Milano vedo chi mi
pare e quando decido io. Al lunedì, con la metropolitana
dalla Stazione Centrale, ci si mette un attimo, e poi non
do mai appuntamento a nessuno prima delle dieci del
mattino. Una delle cose che amo di più è tenere tutto
sotto controllo. Certo, qualche cliente si è lamentato del
sottopassaggio che attraversa la piazza, lo so che ci sono
tossici, extracomunitari e vagabondi che ci vanno a dormire, e forse spacciano pure, ma dopotutto non sono il
sindaco della città. Le regole non le faccio mica io. Qui
vicino c’è via Marghera, piena di negozi. A me sta bene
così, e la zona è più che dignitosa. E poi, dico, vogliamo
scherzare, Sauro Badalamenti, Investigatore Privato, in piazza
De Angeli. Chi lo lascia un posto così? Sono di origini
meridionali, ma sono nato a Milano. Solo che non lo dico
mai a nessuno. Mi piace farmi prendere sottogamba, la
gente ti sottovaluta, pensa che sei un terrone e si dimentica di controllare con chi ha a che fare. A volte è comodo.
Anche Domenico Costa, l’avvocato che mi passa la maggior parte del lavoro, all’inizio ha commesso questo errore. Mi ha guardato, ha visto un bullo di periferia rasato,
ben piazzato, col fisico da guardia spalla, il tatuaggio che
sbuca da sotto al polsino della camicia, e mi ha catalogato. Male. Nella sezione sbagliata. Ma lui è intelligente e ha
corretto il tiro. Non do certo a tutti una seconda occasione come ho fatto con lui. Ah, non tratto divorzi, a meno
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che non me lo chieda Domenico in persona, ma anche
allora, giusto qualche ricerca, discrete indagini condotte con tatto, questioni patrimoniali, non certo prove di
infedeltà coniugale. Ci mancherebbe. Io credo che uno
debba darsi un limite. Come con la droga, o con l’alcool.
Va bene fino a un certo punto, ma se non si è capaci di
tirare il freno, conviene smettere. Da due anni sono astemio, ma ne ho passate tante prima di arrivare a questo.
E non sono astemio per caso. Una volta ho ammazzato
un uomo mentre ero sbronzo. A mani nude. Potevano
mettermi dentro per tutta la vita, e se non ci fosse stato
Domenico Costa forse sarebbe anche successo. Diciamo
che gli devo qualcosa, ecco. E lui lo sa. Sa anche che non
bevo, nemmeno se mi pagassero berrei ancora. Ora sono
passato dall’altra parte, ma mi sono rimaste le vecchie
amicizie di un tempo. Nel mio lavoro servono. Quando
facevo il servizio d’ordine nelle discoteche ne ho conosciuta di gente strana. Diciamo che non è escluso che un
giorno, passando nel sottopassaggio di piazza De Angeli,
qualcuno di quei rifiuti umani che abita là sotto possa anche salutarmi chiamandomi per nome. Ma non è questa
la storia che volevo raccontarvi.
2.
La maggior parte del mio lavoro lo svolgo per conto
delle assicurazioni. Quella mattina, me lo ricordo ancora
come se fosse oggi, me ne stavo andando in ufficio di
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lunedì, anche se non avevo nessun appuntamento. Non
faccio in tempo a infilare la scala mobile, diretto giù verso la metro, che mi vibra il cellulare. È Domenico a chiamare. Mi giro sulla scala e torno su a quattro gradini alla
volta, prima che il sottopassaggio si inghiotta il segnale.
Quasi travolgo una donna con gambe inguainate in calze
da settanta denari che luccicano come il petrolio. Peccato, avrebbe meritato una possibilità, ma quando Domenico chiama parliamo di denaro che entra nelle mie
casse. E questa è una delle mie priorità: prima si pagano
i conti, poi ci si diverte. Con uno sguardo di rimpianto a
quelle caviglie ammantate di nero, ascolto la voce concitata di Domenico. Lui è sempre come se parlasse col fiatone, se fa tre gradini di corsa va già in apnea. Ha tutte le
qualità del mondo, ma certo è uno che a tavola non si sa
controllare. Vorrei tanto sapere come sono le sue analisi
del sangue. Certo, tutto sembra meno che un avvocato,
ma ha un cervello di prim’ordine, uno di quelli che funziona a tutta birra, niente da dire. Insomma mi racconta
che è scoppiato un casino a Cimiano, parla di un’esplosione terribile. Uno stabilimento è saltato per aria. C’è
di mezzo l’assicurazione. Bisogna andare a vedere, se c’è
dolo la compagnia non paga. Quando Domenico dice
se c’è dolo vuol dire che il dolo, volente o nolente, glielo
devo trovare. Se l’assicurazione non deve pagare, lui ci
guadagna. Se guadagna lui, guadagno anch’io. È sempre
tutto molto semplice, se sai come funziona. Basta sapere
dove guardare e la verità salta sempre fuori. Mi detta l’indirizzo, io memorizzo, giro sui tacchi e riparto a razzo
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giù verso il sottopassaggio. Il mio angelo inguainato di
nero sarà già sparito a quest’ora, mi dico, ma darsi uno
sguardo intorno non costa niente.
Via Privata Benadir 14, fermata Cimiano. L’indirizzo
mi dice qualcosa ma non riesco proprio a ricordarmene.
Sto ancora pensando alla bionda vestita di nero, mentre
sbuco dalle scale della metro giusto in tempo per saltare
sull’ultimo vagone. È sempre quello peggiore, l’ultimo
vagone. Data l’ora ci sono studenti che marinano la scuola, punk con la cresta verde, un paio di signore camuffate da orsi, vecchi pensionati con le buste della spesa
in mano. Un odore misto di sudore e pioggia, rancido e
umido insieme, nelle viscere di una città cupa e tentacolare. Sto guardando una donna infagottata in un cappotto
che sembra tale e quale un orsacchiotto spelacchiato, baffi compresi, quando ho come un flash. Ecco cosa c’è in
via Benadir: un noto ritrovo per orsofili, il Company Club.
Possibile che l’esplosione sia avvenuta proprio lì? No,
no. Non può essere. Domenico ha parlato di uno stabilimento. Bene, mi dico, vedremo quando sarò sul posto. In
ogni caso anche se il locale fosse ancora in piedi, sarebbe
troppo presto per una bevuta, quelli prima delle sette di
sera non aprono. E poi non credo proprio di avere la tessera dell’Arcigay con me. Quasi mi viene da ridere, chissà
se quella donna che sto osservando, tutta intenta a leggere la sua rivista scandalistica, sa cos’è un bear, di quelli che
si incontrano al Company Club? Quello sì che arricchirebbe la sua cultura metropolitana. Mi sto chiedendo che
cosa diavolo possa essere successo, Cimiano sarà anche
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la zona che è ma, insomma, un’esplosione in uno stabilimento da quelle parti che danno avrà mai potuto creare?
Quattro casse bruciacchiate, un po’ di spavento, qualche
ferito forse. Non è da Domenico parlare per iperboli, se
lui dice che è un casino della Madonna, si può stare certi che
è così. Se non avessi fretta, scenderei una fermata prima
per sentire in giro che si dice dell’incidente, per parlare
con la gente per strada. Ma potrò farlo dopo. Se serve.
Già sulle scale che portano in superficie si respira
un gran fumo, sembra che l’esplosione e il casino della
Madonna ci siano stati davvero. Capannelli di gente agli
incroci delle strade, traffico paralizzato, clacson impazziti, sirene che lacerano l’aria. Cominciano a lacrimarmi
gli occhi e in mezzo a tutta quella confusione mi pare
anche di sentire un gran puzzo, fin troppo familiare. Le
strade sanno di carne bruciata. Deve essersi trattato di
un’esplosione assai più grave di quello che pensavo, chissà se quella gente curiosa radunata ai crocicchi sa cos’è
quello che sta respirando. C’è odore di morte lì intorno.
Ma loro non lo sentono. Molti non sentono l’odore della
morte nemmeno quando ce l’hanno vicino.
3.
Una grande insegna sul tetto dello stabilimento identifica chiaramente la destinazione d’uso, una delle tante sedi
della Coop, supermercato aperto al pubblico, un immenso parcheggio interno, depositi, magazzini, entrata
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di servizio per i camion che scaricano le merci. Ma cosa
ci poteva essere là dentro di esplosivo? Mentre cammino
a larghi passi sui marciapiedi affollati, gli occhi che lacrimano per il fumo e le orecchie tese a captare i commenti
della gente, rivado con la mente alle mie vecchie nozioni
di chimica. Freon, gas di refrigerazione, celle frigorifere, condizionatori, impianto di riscaldamento, pannelli
elettrici. Decisamente, ci sono troppe cose che ancora
non so su quel tipo di attività. Lo stabile è occupato dalla Coop da cielo a terra, su in cima dovrebbero esserci
dozzine, forse centinaia di prese di aerazione, motori dei
condizionatori e chissà quale altra diavoleria possa servire a mandare avanti questo posto. A ogni angolo c’è
una telecamera di sorveglianza puntata sulla strada, con
il suo occhio rosso ancora vigile. Bene, qualsiasi persona, mezzo o veicolo che sia passato da qui sarà rimasto
immortalato nei nastri dell’agenzia di sorveglianza. Le
Coop, questo me lo ricordo, sono affidate alla Sicurglobal, una delle più note nel settore e, cosa più importante,
quella dove conosco un paio di colleghi che mi devono
ancora qualche favore. Se c’è qualcosa su quei nastri, lo
verrò a sapere.
Alzando lo sguardo, vedo che una delle cubitali lettere dell’insegna al neon, la grande C semicircolare, pende
malinconica dalla cima del tetto, ancora appesa al suo
supporto metallico, squarciata e piuttosto annerita. L’incendio sembra sia avvenuto lassù. O almeno è lì che ha
trovato uno sfogo. Decido di cercare le scale di sicurezza esterne che conducono in cima. Per qualche oscuro
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