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INSEGNAMENTO DI
TEORIA GENERALE DEL DIRITTO E
DELL’INTERPRETAZIONE
LEZIONE I
“L’INTERPRETAZIONE DELLO JUS TRA JUSTUM E JUSSUM”
PROF. FRANCESCO PETRILLO
Teoria Generale del Diritto e dell’Interpretazione
Lezione I
Indice
1
L’interpretazione giuridica nelle principali teorie generali del diritto ------------------------- 3
Bibliografia ------------------------------------------------------------------------------------------------------ 10
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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Teoria Generale del Diritto e dell’Interpretazione
Lezione I
1 L’interpretazione giuridica nelle principali teorie
generali del diritto
La teoria dell‟interpretazione giuridica, almeno a partire dal secolo XVII è considerata come
una parte marginale della teoria generale del diritto. Nel senso cioè che il diritto viene inteso
soprattutto come creazione normativa: ovvero come produzione di norme. Quindi la teoria generale
del diritto è lo studio del diritto inteso non dal punto di vista filosofico (cioè, non dal punto di vista
dello studiare che cos‟è il diritto, il quid ius, cercare il fondamento primo della giuridicità), ma dal
punto di vista dello studio di come il diritto agisca, operi, all‟interno della realtà, cioè di come esso
influisca sulla società. Il diritto è tendenzialmente considerato come un problema produttivo; opera
all‟interno della società, quindi è un quid iuris non un quid ius, secondo quella che era stata una
distinzione kantiana (I. KANT, Per la pace perpetua) poi riproposta nel nostro pensiero giuridico
da Giuseppe Capograssi (G. CAPOGRASSI, Il problema della scienza del diritto).
 Il quid ius si occupa della ricerca, del fondamento della giuridicità, del perché il
diritto è influenzato dall‟uomo.
 Il quid iuris si occupa dello studio del diritto nel suo vivere all‟interno della società.
La teoria generale del diritto, intesa come produzione normativa, a partire dal 1600 d.C., si è
posta come una scienza che si occupa del diritto all‟interno della società, come produzione di
norme. Quindi soltanto a partire dal 1600 d.C., la teoria dell‟interpretazione, come momento della
teoria generale del diritto, è stata sempre più ricompresa nell‟ambito dell‟operatività giuridica,
mentre, fino al 1600 e a partire dal III millennio, l‟interpretazione del diritto ha avuto un ruolo
preponderante all‟interno della complessiva vicenda della giuridicità, cosicchè essa non si poneva
come teoria della creazione della produzione normativa, ma si poneva, allora, e si propone oggi,
proprio come interpretazione. Per comprendere quale sia il rapporto tra una teoria generale del
diritto fondata sulla produzione normativa e una teoria generale del diritto fondata invece sulla
interpretazione del diritto, bisogna tener conto del rapporto tra jussum-justum e jus-justum.
Tale rapporto si può considerare limite di tendenza – limite di varianza, tra jussum come
potere politico e justum come giustizia. In particolare: secondo la prospettiva della teoria generale
del diritto, intesa come interpretazione piuttosto che come produzione normativa, il rapporto jusjustum sta a significare che c‟è un concetto di diritto che tende alla giustizia e che non passa
necessariamente per il potere politico. Nella nostra forma mentis il diritto è ormai pensato come
jus/justum, cioè come diritto che tende alla giustizia, piuttosto che diritto inteso come politica
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ovvero come legge e come applicazione della legge. Questo differente approccio, rileva, ad
esempio, quando riflettiamo su come le nostre Corti superiori procedano all‟ interpretazione del
diritto: esse tendono sempre più ad allontanarci da un‟ interpretazione che sia meramente
normativa.
Tuttavia, anche l‟idea del diritto come produzione normativa, cioè l‟idea del diritto come
legge, ha sempre dovuto relazionarsi con l‟interpretazione. Tutti i manuali giuridici della nostra
epoca, anche recenti, infatti, sono improntati a principi giuspositivistici o giusnormativistici, cioè
fondati sull‟idea della teoria generale del diritto come produzione normativa. Il problema
dell‟interpretazione, invece, si pone proprio quando l‟idea del diritto, inteso come creazione e
produzione normativa, si confronta con l‟idea del diritto inteso come giustizia. La premessa
argomentativa dello studio dell‟interpretazione nell‟ambito della teoria generale del diritto, intesa
come creazione normativa, considera la possibilità di applicare la norma attraverso il procedimento
interpretativo. La teoria generale del diritto considerata come produzione e creazione normativa, ha
dunque bisogno dell‟interpretazione come momento accessorio: l‟interpretazione, cioè, serve a
superare quel margine di distanza che c‟è tra una norma generale e astratta e un caso particolare e
concreto al quale questa norma deve applicarsi.
All‟interno delle teorie generali del diritto, dove la produzione normativa è il senso stesso
dello studio del diritto, cioè non c‟è altro diritto al di fuori della produzione normativa, la teoria
dell‟interpretazione diventa soltanto un‟attività conoscitiva, un‟attività gnoseologica. Tutto ciò che
è presente sui manuali di diritto civile, diritto penale o diritto processuale civile, viene studiato
secondo l‟idea che il diritto sia produzione normativa e che l‟interpretazione di quel diritto, sia una
attività di tipo conoscitiva. Quindi il diritto dal punto di vista interpretativo lo si può solo conoscere.
La teoria generale del diritto è la teoria che studia la creazione del diritto, al giurista non rimane
altro che conoscere ciò che è stato creato. Questo è il punto fermo valevole da circa quattro secoli,
almeno dalle origini del positivismo classico, ma non vale in assoluto per lo studio del diritto
rispetto allo studio della legge. Lo studio del diritto ha infatti dei retaggi ben più lontani ed è sempre
stato più articolato di quanto non sia stato lo studio della legge. Tutto il diritto romano e tutto il
diritto comune consideravano la legge soltanto un momento dello studio del diritto, cioè
intendevano la legge una parte della complessiva idea della giuridicità che riguarda lo jus/justum
piuttosto che lo jussum/justum. In sostanza lo jussum/ justum, diritto inteso come legge e giustizia, è
un momento parziale della complessiva vicenda storica della giuridicità, rispetto invece allo
jus/justum, inteso come possibilità del diritto di avvicinarsi alla giustizia. Se consideriamo questo
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aspetto del rapporto jus/justum rispetto al rapporto jussum/justum, ci rendiamo conto che
l‟interpretazione non si limita semplicemente ad applicare fattispecie astratte al caso concreto
poiché, in realtà, c‟è una partecipazione del soggetto interpretante al procedimento di creazione del
diritto: chi interpreta il diritto partecipa alla creazione del diritto. In questo senso, l‟interpretazione
del diritto si pone come una vera e propria creazione, cioè il diritto non è soltanto creazione della
norma, non spetta soltanto al legislatore, ma a chiunque interpreti il diritto, perché chi interpreta il
diritto crea la regola del fatto. Questa idea della creazione del diritto come regola del fatto ci fa
avere un‟ idea diversa della interpretazione del diritto all‟interno della teoria generale del diritto, nel
senso che l‟interpretazione del diritto considerata soltanto come conoscenza della norma, diviene
vero e proprio processo conoscitivo e creativo, ovvero: decisione.

La teoria dell‟interpretazione del diritto se vista soltanto alla luce del rapporto tra
jussum/justum e quindi tra produzione normativa e applicazione della norma, è una teoria
meramente conoscitiva.

La teoria dell‟interpretazione del diritto se considerata, invece, in senso ampio, non tanto e non
solo come interpretazione della legge, quanto come interpretazione del diritto in senso lato,
ovvero come jus/justum come diritto che tende alla giustizia, diventa lo studio di un
procedimento che contiene in se conoscenza più volontà, quindi diventa studio della decisione
giuridica, che si realizza a prescindere dalla fattispecie concreta.
Norberto Bobbio nel suo volume sul positivismo giuridico (N. BOBBIO, Il positivismo
giuridico. Lezioni di filosofia del diritto) - testo di grande attualità, riproposto, ancora molto di
recente, come parametro per considerare il rapporto tra il diritto inteso come creazione e produzione
normativa e il diritto inteso come qualcosa che va al di là della produzione e creazione normativanon distingue con chiarezza il cosiddetto “giuspositivismo classico” dal “giuspositivismo logico”,
ma li assimila nel comune concetto di positivismo. Bobbio pubblica con questo libro il suo corso di
lezioni, che tiene nel „64, dopo la pubblicazione in Italia di un volume: The concept of law, tradotto
per la prima volta in italiano e scritto da Herbert Hart allievo di Hans Kelsen . Bobbio individua nel
suo libro i temi chiave del positivismo giuridico ponendosi come il padre della cosiddetta
“giurisprudenza analitica”, che in Italia, fino all‟inizio del III millennio, ha rappresentato la
principale fonte di orientamento del pensiero giuridico, almeno fino a quando la Corte di
cassazione, il Consiglio di stato, la Corte costituzionale non hanno cominciato con le loro decisioni
a prendere le distanze da detta giurisprudenza analitica. Essa, come annunciato, nasce, dai punti
fermi, decisivi per una visione del diritto positivistica, fondata sullo jus, la legge scritta, che Bobbio
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fissa nel suo volume. L‟Autore afferma che il positivismo è fondato sul mito dell‟infallibilità del
legislatore, sul mito delle poche, chiare e certe leggi, sul mito dell‟imperatività della norma
giuridica, sul mito della coattività della norma giuridica, sul mito della autointegrazione
ordinamentale e sul mito della completezza e della coerenza dell‟ordinamento giuridico. Secondo
Bobbio da detti criteri deve muovere chi intenda procededere alla interpretazione del diritto, poichè
interpretare significa conoscere il diritto. Non distingue, però, Bobbio, all‟interno di questi temi, di
questi punti fermi del giuspositivismo, l‟idea classica del positivismo dall‟idea moderna, e ciò
perché il positivismo di per sè è già un modo di studio del diritto della modernità, nasce con la
modernità, ovvero nasce con la teoria della doppia verità ockhamiana, allorquando OKHAM dà
modo ad Hobbes di pensare il diritto tenendo conto del fatto che due sono le verità: la verità divina,
la verità religiosa, la verità metafisica, la verità fisica umana antropologica; e due sono le volontà:
una è la volontà divina l‟altra è la volontà umana. Conseguentemente la legge umana non può
essere messa a confronto né può essere considerata se non rapportandola con la legge di Dio.
Questo è un momento epocale per la storia del diritto e per la teoria generale del diritto, poiché
Ockham separando Dio dall‟uomo, <<profana>> (dice Hans Welzel, Diritto naturale e giustizia
materiale) il diritto naturale poiché lo libera da Dio. Così nasce il positivismo giuridico. In tal
senso può dirsi che il positivismo giuridico sia nato dal diritto naturale con la possibilità dell‟uomo
di creare una propria legge che prescindesse dalla legge divina. Il positivismo classico, allora, si
pone particolarmente come coincidenza fra la legge e il legislatore o il sovrano. Il sovrano è il punto
di riferimento indispensabile del processo di creazione normativa. Soltanto il sovrano può creare la
legge. La legge, secondo Hobbes, è il modo di esteriorizzazione della volontà del sovrano. Nel
momento in cui gli uomini, a seguito del contratto sociale, hanno rinunciato di diritto a tutto,
attribuendo al sovrano il loro potere, il potere sovrano si espleta e si esprime nella legge. Questo
comporta dal punto di vista della teoria della interpretazione, che l‟interpretazione, diventi un
momento che non può prescindere dalla comprensione della volontà sovrana. Il codice civile del
1942 e anche il codice di procedura civile del 1940 sono una perfetta mediazione tra positivismo
classico e positivismo logico.
Vale ancora l‟idea del positivismo classico, per cui lo studio della legge è lo studio della
volontà del legislatore; ancora oggi vi sono sentenze di magistrati e di corti superiori che fanno
riferimento alla volontà del legislatore.
Ma cos‟è l‟attività interpretativa all‟interno del
giuspositivismo classico? L‟attività interpretativa all‟interno del giuspositivismo classico è
interpretazione della legge. Il magistrato per il positivismo classico è soltanto la “bocca della
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legge”. Il magistrato secondo il positivismo classico interpreta la legge ripercorrendo in concreto
quella che era stata in astratto l‟intenzione del legislatore, ripercorre il pensiero del legislatore nel
momento in cui ha scritto la norma per poi rendere la decisione. Quest‟ultima dunque non può
essere altro che una traslazione, una trasposizione della fattispecie nel caso concreto (intesa la
fattispecie come volontà del legislatore). Perciò, la volontà del legislatore rimane presente nella
sentenza, che altro non è che una delle espressioni della volontà del legislatore. Questo è il
positivismo classico, ben diverso dal positivismo logico, anche se Bobbio ne individua alcuni
aspetti comuni (infallibilità del legislatore, imperatività, coattività,
completezza e coerenza
dell‟ordinamento).
Vediamo, a questo punto, quale tipo di interpretazione sia proponibile per il positivismo
classico. La storia, ci ha insegnato, già dai primi critici della rivoluzione francese, che in realtà i
magistrati non sono mai stati costretti negli argini della volontà del legislatore. In particolare, per il
positivismo classico al magistrato viene lasciata una duplice possibilità: l‟una, l‟ interpretazione
estensiva, l‟altra, l‟interpretazione restrittiva. Principalmente, un giudice deve riproporre la volontà
del legislatore, un interprete deve conoscere la volontà del legislatore intesa come intenzione anche
a prescindere dalla dichiarazione: la conoscenza del positivismo classico, si riduce cioè alla
conoscenza della volontà manifestata, dell‟intenzione del legislatore.
Di poi, il magistrato può soltanto restringere o estendere tale volontà. Operazione di non
poco conto se si consideri quanto essa si ponga già di per sè caratterizzata dall‟introdurre nella
vicenda interpretativa la volontà del soggetto interpretante. Vale a dire che l‟interpretazione
estensiva e l‟interpretazione restrittiva, come unici margini del magistrato, del giudicato,
dell‟interprete del giuspositivismo classico rappresenta per noi che la leggiamo oggi, con la nostra
coscienza storica, una attività non meramente gnoseologica.
Come procede dunque il magistrato nell‟interpretazione estensiva e in quella restrittiva?
Il magistrato parte in entrambi i casi da una congettura, secondo la quale il legislatore ha
detto più di quanto volesse dire o meno di quanto volesse dire.
Ma in base a quale principio logico il magistrato può ritenere che il legislatore avesse voluto
dire di più o avesse voluto dire di meno, rispetto a ciò che è scritto effettivamente nella norma? Non
vi è nulla di logico nell‟analogia alla quale riconduciamo una conclusione logica. Secondo il
giuspositivismo classico il magistrato restringe o estende la volontà del legislatore quando si trova
di fronte a casi che non sono assolutamente ricompresi all‟interno della fattispecie individuata in
astratto. Sembra perciò riduttiva l‟idea del magistrato bocca della legge, riduttiva la tesi che
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l‟interpretazione della legge sia un‟ attività meramente ripropositiva di quella che era stata la
volontà del legislatore. Questo tipo di positivizzazione del diritto giunge cioè a ritenere che tutto ciò
che non è diritto non è legge e che attraverso l‟interpretazione non possa crearsi diritto. Neppure è
ammessa l‟integrazione del diritto da parte di soggetti che non siano legislatori. A questo punto
bisogna porsi una domanda: dove si colloca, allora, se presente, nell‟ambito del percorso della
giuridicità il momento volitivo che abbiamo considerato nel procedimento di interpretazione
estensiva e restrittiva con la quale il magistrato decide per una congettura che il legislatore ha detto
più di quanto volesse dire o meno di quanto avrebbe voluto?
L‟autointegrazione normativa, vale a dire l‟idea che il diritto, inteso come legge, non possa
avere altra forma di espressione che non sia lo stesso legislatore, si pone chiaramente come
ideologica perché, di fatto, l‟interpretazione di per se introduce sempre un elemento di volontà
all‟interno del procedimento.
Il giuspositivismo logico, invece, se pure fa coincidere il diritto con la legge e se pure
esclude dal diritto tutto ciò che non sia la legge, nega la partecipazione al processo di creazione del
diritto del legislatore, nel senso che il legislatore pone la legge, ma poi in un certo senso si fa da
parte.
Cosa sancisce il passaggio dal positivismo classico al positivismo logico? Il passaggio è
definito soprattutto dal cosiddetto “scientismo settecentesco” cioè dall‟idea che tutto debba essere
studiato come scienza e che anche le scienze umane possano essere verificate metodologicamente
come le scienze naturali. Tant‟è che il padre del positivismo logico è uno scienziato fisico, Goffredo
Leibniz, il quale, ritiene che la partecipazione del diritto al mondo sia da considerarsi una
partecipazione permeante, nel senso che il mondo di per se è fatto di leggi, leggi fisiche e naturali e
anche leggi giuridiche, e che perciò le leggi poste dal legislatore vadano pensate, studiate a
prescindere dal soggetto che le ha emanate. Come Dio ha creato l‟uomo e ha lasciato a noi la sua
interpretazione -questa è anche la profanazione del diritto naturale da parte del giusnaturalismo
moderno- così anche il diritto, una volta che il legislatore l‟ha creato, va esaminato dagli studiosi
del diritto a prescindere dal soggetto che lo ha prodotto come insieme di leggi.
Tale insieme non è altro che un complesso di dogmi, cioè un insieme di verità certe con le
quali lo studioso del diritto si relaziona, così come lo studioso delle scienze naturali si relazione col
mondo. Nasce a partire da Leibniz la cosiddetta dogmatica giuridica.
La dogmatica si compone dei concetti giuridici che vengono ricavati dal materiale giuridico.
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Il giuspositivismo logico separa la fattispecie da colui che l‟ha colta e pone dinanzi
all‟interprete un materiale che non può essere più inteso risalendo alla volontà del legislatore,
perché il legislatore scompare dalla scena.
Lo studio dei concetti giuridici, lo studio dogmatico del diritto dal punto di vista
positivistico diventa mera applicazione della gnoseologia al diritto che viene perciò studiato come
conoscenza.
La conoscena perviene semplicemente attraverso la logica. Ma quale logica? Non la logica
aristotelica, non il principio dell‟identità e non contraddizione, ma secondo una metalogica, secondo
propriamente una logica leibniziana.
Si studia il diritto partendo da una premessa che non comporta l‟obbligo di rapporto tra
diritto e realtà. Mentre la logica aristotelica presupponeva che ad ogni quantità corrispondesse una
qualità, per cui se A è uguale ad A non può essere uguale a B, nel senso che A può essere
verificabile nella realtà per cui A rappresenta la realtà, a partire da Leibniz la logica non è più una
logica dell‟identità, non è più una logica del rapporto tra quantità e qualità, ma è possibile ragionare
sul mondo partendo da una premessa anche non rapportabile a quel mondo. In realtà ciò che
dimostra che un ragionamento è vero non è dato dal fatto che la premessa sia vera. È necessario
affinché la sentenza abbia corrispondenza con il mondo reale assumere questa premessa come vera,
al fine di concludere un ragionamento sillogistico, più che vero, valido. Poiché ciò che interessa al
positivismo logico, non è che il ragionamento sia vero, che trovi cioè corrispondenza con la realtà,
ma che il ragionamento sia valido e quindi che la premessa sia valida.
Si accetta, nel positivismo logico, una sillogistica metalogica, ovvero di ragionare su delle
premesse che si assumono come dogmi. Partendo da tale premessa valida si può procede al
sillogismo e cioè premessa maggiore, premessa minore, argumentum, ovvero soluzione del
sillogismo. Gli argumenta sono le soluzioni dei sillogismi che partono da premesse valide e che
possono anche non trovare una corrispondenza di verità nella legge.
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Bibliografia

N. BOBBIO, Il positivismo giuridico. Lezioni di filosofia del diritto, Giappichelli,
Torino, 197).
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R. GUASTINI, L’interpretazione dei documenti normativi, Giuffrè, Milano, 2004;

F. MODUGNO, Interpretazione giuridica, Cedam, Padova, 2009;

F. PETRILLO, Interpretazione giuridica e correzione ermeneutica, Giappichelli, Torino,
2011;

H. WELZEL, Diritto naturale e giustizia materiale, Giuffrè, Milano, 1965.
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