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RASSEGNA STAMPA
giovedì 12 febbraio 2015
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
DIRITTI CIVILI
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
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IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
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IL FATTO
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L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Avvenire del 12/02/15, pag. 5
Una colletta per far ripartire Mare Nostrum
Luca Liverani
Se lo Stato non finanzia più il salvataggio dei migranti in mare, la Comunità di Sant'Egidio
lancia una grande colletta nazionale per far ripartire l'operazione che ha salvato decine di
migliaia di vite. L'atroce tragedia mobilita il mondo dell'associazionismo e delle ong, che
invoca compatto la ripresa di Mare Nostrum, come chiedono assieme anche Caritas e
Migrantes.
«Lanceremo una raccolta di fondi a livello nazionale per ripristinare Mare Nostrum dichiara
il presidente di Sant'Egidio, Marco Impagliazzo -visto che lo Stato dice di non avere soldi.
Una grande gara di solidarietà, nella quale anche lo Stato italiano e l'Ue dovrebbero fare la
loro parte». Per il fondatore Andrea Riccardi «l'Europa deve farsi carico di ciò», ma questo
«non può esimere l'Italia» che «non può soltanto attendere un segnale da Bruxelles».
L'Ufficio nazionale comunicazioni sociali della Cei fa sapere che «l'ennesima tragedia del
mare ha nuovamente confermato l'inadeguatezza dell'operazione Triton» e che «Caritas
Italiana e Fondazione Cei Migrantes, insieme alle ong Albi, Amnesty International Italia,
Centro Astalli, Emergency, Intersos, Save the Children e Terres des Hommes hanno
chiesto con un comunicato congiunto un reale cambio di rotta nelle politiche
sull'immigrazione: occorre aprire immediatamente canali sicuri e legali d'accesso in
Europa.
«Lampedusa è prima di tutto terra europea - commenta il presidente del Centro Astalli
padre Camillo Ripamonti – ma l'Europa non ha risposto al grido dì un'umanità umiliata e
calpestata da guerre e persecuzioni ». Per il superiore generale della Congregazione
Scalabriniana padre Alessandro Gazzola «chi vive nelle periferie non rimane più a
guardare la propria vita dissolversi e compie scelte disperate».
Alla vicepresidente della commissione europea Federica Mogherini lanciano un appello
comune Arci, Cgil, Uil e Libera, chiedendo «l’attivazione di canali d'ingresso regolari
consentendo ai profughi di rivolgersi agli Stati e non ai trafficanti», e al premier Matteo
Renzi di «riattivare Mare Nostrum in attesa che l'Ue modifichi le sue politiche » . Per
Amnesty International «gli stati membri dell'Ue devono smetterla di nascondere la testa
sotto la sabbia», «L’inerzia del governo italiano e della Ue è inaccettabile » anche per
Save the Children che lancia una campagna su Twitter con l'ashtag #WhyAgain, perché di
nuovo. «Tutti i bambini hanno diritto alla protezione - afferma l'Unicef - e più che mai quelli
che fuggono da situazioni disperate». «Triton non è all'altezza e Mare Nostrum ha lasciato
un vuoto significativo», denuncia l'Oim. Msf sottolinea «l'assoluta necessità del soccorso in
mare perché non esistono alternative legali per raggiungere l'Europa».
Da Radio Rai 1 - Radio Anch’io del 12/02/15
Radio anch'io del 12/02/2015
Radio Anch'io, in onda giovedì 12 febbraio alle 8.30 su Radio1 si aprirà con la tragedia
Concordia: 13 gennaio 2012, 32 morti, decine di feriti, un disastro organizzativo,
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ambientale, anche d’immagine. La procura ha chiesto 26 anni per il comandante
Schettino.
Ma non si può tacere su quello che è successo nel canale di Sicilia, al largo delle coste
libiche, tra domenica e lunedi. Un naufragio spaventoso: i morti sarebbero oltre 300, i
superstiti hanno parlato di 4 gommoni pieni di persone. E l’operazione Triton è tornata
sotto accusa. Basta, dicono in molti, occorre ripristinare Mare nostrum. Tra gli ospiti:
Carlotta Sami, portavoce per il Sud Europa dell'Alto commissariato per i rifugiati dell'Onu –
Unhcr; Vittorio Alessandro, ammiraglio – presidente Parco delle 5 Terre; Paolo Di Paolo,
scrittore e giornalista – autore di "Scusi lei si sente italiano?"; Giovanni Maria Bellu,
direttore associazione Carta di Roma, ex inviato di Repubblica e vicedirettore L'Unità;
Filippo Miraglia, Vicepresidente nazionale ARCI e Mario Morcone, prefetto, capo del
Dipartimento Libertà Civili e Immigrazione del Viminale.
Link audio http://www.radio1.rai.it/dl/portaleRadio/media/ContentItem-3c131dfc-0a9d4423-aa75-5e031c6aca36.html#
Da il fatto24ore.it del 12/02/15
Nuova strage Mediterraneo: l'appello per
riattivare Mare Nostrum
Scritto da Giada Vicenzi
L’operazione Mare Nostrum è finita a dicembre 2014 e gli effetti concreti e nefasti già si
notano: un’altra strage di migranti a Lampedusa con oltre trecento morti nella notte tra il 9
e il 10 febbraio.
Si apre così, con una nuova tragedia, il 2015 nel Mediterraneo, con centinaia di profughi
morti, assiderati o annegati.
Inevitabili le polemiche: «Triton non è sufficiente» sostengono le organizzazioni
umanitarie, assieme ai partiti di sinistra, che puntano l'indice sulla decisione di Matteo
Renzi e del suo governo di cancellare Mare Nostrum.
Anche Arci, Libera, Cgil e Uil hanno rivolto un appello al Ministro degli Affari Esteri
Federica Mogherini perché si adoperi per l’apertura di canali d’ingresso umanitari e al
Presidente del consiglio Renzi perché riattivi l’operazione Mare nostrum.
La tragedia, scrivono, «non può essere attribuita soltanto al cinismo di chi ha costretto
queste persone a imbarcarsi nonostante il freddo invernale e le condizioni avverse del
mare».
Questa ennesima strage, secondo Arci, Libera, Cgil e Uil, «poteva essere evitata se il
governo italiano non avesse deciso di sospendere Mare Nostrum, sostituendo un’azione
dedicata alla ricerca e al soccorso in mare con l’operazione Triton, le cui finalità sono
tutt’altre, e cioè il controllo e la sicurezza delle frontiere entro un raggio assai limitato».
E, ricordando le parole pronunciate dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel
suo discorso di insediamento su cosa debba intendersi per emergenza umanitaria,
chiedonoall’Unione Europea e in particolare alla vice Presidente della Commissione
Federica Mogherini di attivare canali d’ingresso regolari in grado di mettere in salvo i
profughi, consentendo loro di rivolgersi agli Stati e non ai trafficanti.
«Facciamo appello anche al Governo italiano affinché scelgala protezione delle persone
anziché quella delle frontiere. Chiediamo al Presidente del Consiglio Matteo Renzi di
riattivare l’operazione Mare Nostrum in attesa che gli Stati dell'Ue modifichino le loro
politiche, consentendo l’accesso regolare e in sicurezza alle nostre frontiere a chi fugge da
guerre e persecuzioni».
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Una via che secondo Arci, Libera, Cgil e Uil è la sola praticabile per contrastare
efficacemente la criminalità e i trafficanti di essere umani.
http://www.trentino-suedtirol.ilfatto24ore.it/index.php/cronaca/1976-nuova-stragemediterraneo-l-appello-per-riattivare-mare-nostrum
Da Huffington Post dell’11/02/15
Luciana Castellina
Giornalista, presidente onoraria Arci
Tutti in piazza sabato per Tsipras
Sabato 14 febbraio una quantità di personalità e di organizzazioni - Cgil, Fiom, Arci, Attac,
Flc-Cgil, Fp-Cgil, Rete della conoscenza, Act, Tilt, Forum italiano dei movimenti per
l'acqua, L'altraEuropa, partiti della sinistra ed esponenti della sinistra di partiti che fanno
ormai fatica a connotarsi come tali - tutti quelli, insomma, che avevano firmato l'appello
'Cambia la Grecia Cambia l'Europa' a favore del nuovo governo greco, si ritroveranno in
piazza a Roma.
Analoghe manifestazioni e sit in sono promossi in questi giorni in moltissime città italiane
così come in altri paesi europei. Per dire che sarebbe fatale per l'Europa se a Bruxelles
non capissero che occorre cambiare politica, a cominciare dal caso greco.
La novità è che oramai una parte importante dell'opinione pubblica - anche tedesca, come
dimostra fra l'altro il sostegno offerto dai sindacati di quel paese alle proposte di Syriza ha capito che le cose stanno assai diversamente da come i media l'hanno raccontata: non
è la Grecia che deve chiedere un favore all'esecutivo dell'Ue, ma, al contrario, è questo
esecutivo che deve chiedere scusa ai greci. Per aver sbagliato tutto: per essersi fidato - e
per continuare a fidarsi - degli uomini che hanno fin qui governato la Grecia e per averli
indotti a perseguire una linea che ha portato al disastro.
Deve infatti essere chiaro che la catastrofe greca non è stata provocata solo dalla crisi ma
anche dalla dissennata politica di bilancio e fiscale promossa dal governo Samaras. Tutto
questo era evidente già dal 2008. Sebbene la troika fosse ben consapevole - lo ha anche
dichiarato pubblicamente - che quel governo di Atene non solo aveva consentito
un'impensabile esenzione fiscale ai più ricchi ma aveva addirittura falsificato i bilanci
statali, essa ha continuato a dire che se alle elezioni Samaras non fosse tornato a vincere
sarebbe stato un disastro.
Dopo due anni di medicine "bruxellesi", nel 2010 il Pil del paese era già sceso di 10 punti.
È allora intervenuta una consistente ristrutturazione del debito che però, anziché essere
mirata alla ripresa dell'economia reale, è stata utilizzata sostanzialmente per ripagare i
crediti privati detenuti dalle banche (quasi tutte tedesche), così ulteriormente allontanando
ogni possibilità di ripresa. Il risultato: due anni dopo il Pil era crollato a meno 25 per cento
e la disoccupazione a più 18, mentre nessuna, dico nessuna, riforma fiscale era stata
avviata.
Che le cose stiano proprio così lo riconoscono ormai non solo un largo numero di
economisti stranieri di fama (buon ultimo John Galbraith), ma lo stesso Fondo Monetario
Internazionale nel suo più recente documento.
I veri colpevoli della drammatica situazione della Grecia sono dunque i suoi presunti
salvatori e i loro complici ad Atene. Quelli che alla vigilia delle elezioni hanno gridato che
se Syriza avesse vinto la Grecia sarebbe diventata come la Corea del Nord.
Le ragioni per manifestare e gridare queste verità come si vede sono molte. Anche se a
Bruxelles sono sordi. O meglio: cercano di nascondere le scelte che hanno compiuto per
difendere specifici interessi che non hanno nulla a che vedere con quelli del popolo greco
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e dell'Europa tutta con la predica filistea secondo cui chi ha preso in prestito danaro deve
restituirlo. Ma se per ottenerlo prima ti ho strozzato è evidente che quel debito non potrò
mai pagarlo. È come Melchisedech che se la prendeva col proprio asino perché, proprio
quando gli aveva insegnato a non mangiare, era morto.
Quel che il governo Tsipras oggi chiede, e con lui tutti quelli che stanno manifestando, è di
aver almeno sei mesi di tempo per riparare ai guasti prodotti in sei anni dalla troika e dai
precedenti governi greci. Per poter restituire, non per non farlo, sapendo che se invece si
subisce il diktat della troika quel debito non potrà mai essere pagato. Perché la Grecia
sarà morta. Come è stato ripetuto ormai da molti il problema è politico, non finanziario: e
così la soluzione possibile.
Da Radio Articolo 1 del 12/02/15
ore 15:30
Piazza del lavoro - Dalla parte giusta.
Parla R. Bolini, Arci
Da Repubblica Tv dell’11/02/15
In piazza per Tsipras, Ferrero (Prc) : ''Sabato
corteo non solo per la Grecia, ma per tutti
noi''
Un piccolo assaggio del corteo che sabato 14 febbraio sfilerà per le vie di Roma contro
l'austerità e in favore della Grecia, c'è stato questo pomeriggio di fronte all'ambasciata
tedesca. Diverse realtà della sinistra italiana come l'Arci, l'Altra Europa con Tsipras,
Rifondazione comunista, hanno manifestato il loro dissenso verso le politiche dei governi
europei. Il corteo del 14 febbraio, dal titolo ''Cambia la Grecia, cambia l'Europa'' partirà alle
14 da piazza Indipendenza.
http://video.repubblica.it/economia-e-finanza/in-piazza-per-tsipras-ferrero-prc-sabatocorteo-non-solo-per-la-grecia-ma-per-tutti-noi/191690/190643
Da Left.it del 12/02/15
Sabato 14 febbraio a Roma #dallapartegiusta
per il popolo greco
Atene chiama. Si avvicina la manifestazione del 14 febbraio a Roma #dallapartegiusta.
Cioè a sostegno del popolo greco e del tentativo di Alexis Tsipras e del suo ministro Yanis
Varoufakis di rompere la politica dell’austerity della Troika. Per la giornata di oggi –
durante la quale si svolgerà a Bruxelles l’importante riunione dei ministri delle finanze
dell’Eurozona (Eurogruppo) – presidi, dibattiti, conferenze stampa e volantinaggi a Milano,
Napoli, Palermo, Messina, Catania, Follonica, Pisa, La Spezia, Genova, Rimini, Trieste,
Padova, Cuneo, Pordenone, Udine, Asti, Lucca, MacerataBologna, Pescara, Parma,
Ferrara, Trieste, Mestre, Treviso, Reggio Emilia, Terni, Siena, Livorno, Rovigo, Bari,
Firenze, Macerata, Perugia, Biella, Alessandria, Riva del Garda, Rovereto, Trento,
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Brescia, Ravenna, Ancona (ove alle 17.00 presso l’Anpi parleranno Luciana Castellina e
Argiris Panagopulos ), Como. Domani 12 febbraio sarà la volta di Grosseto, Bergamo,
Jesi, Passirano Franciacorta, Campobasso. Il 13 febbraio: Torino, Novara.
Il presidio di Roma è previsto oggi, 11 febbraio, dalle ore 18.30 in piazza Indipendenza nei
pressi dell’Ambasciata tedesca. Da dove, alle ore 14, di sabato 14 febbraio partirà la
manifestazione nazionale che si concluderà con diversi interventi al Colosseo.
Ci sarà una partecipazione attiva e numerosa dei Greci d’Italia alle mobilitazioni odierne.
In particolare a Napoli interverrà il Presidente della Federazione delle Comunità e
Confraternite Elleniche d’Italia Jannis Korinthios e il presidente della Società Fillellenica
Italiana Marco Galdi.
Alla manifestazione di sabato 14 hanno aderito la Cgil, Flc Cgil, Fiom, Arci, Act, Rete della
Conoscenza, Forum dei movimenti per l’acqua, Tilt. E come testate Il Manifesto e Left.
http://www.left.it/2015/02/11/sabato-14-febbraio-a-roma-dallapartegiusta-per-il-popologreco/
Da Repubblica.it (Roma) dell’11/02/15
Rialto Sant'Ambrogio, le associazioni: "No
allo sgombero"
Parte la mobilitazione per salvare il Rialto Sant'Ambrogio, gioiello del Ghetto che dopo una
travagliata vicenda di occupazioni (nel 1999) e sgomberi (dal 2008), oggi ospita numerose
associazioni e un centro di produzione culturale indipendente.
Il 28 gennaio in via di Sant'Ambrogio è infatti arrivata una lettera del Dipartimento
Patrimonio, Sviluppo e Valorizzazione di Roma Capitale per il "recupero coatto
dell'immobile", concedendo 30 giorni per abbandonare la struttura. Secondo le
associazioni - Rialtoccupato, Ass. ARCI Roma, Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua,
Forum Ambientalista, Attac Italia, per citarne solo alcune - si tratta di "una vera e propria
intimidazione atta allo sgombero di uno spazio legalmente assegnato e per ciò tutelato
nella sua attuale destinazione d'uso a scopi sociali e culturali" come si legge in un duro
comunicato.
"La motivazione addotta dal Dipartimento Patrimonio fa riferimento ad una non chiara
riunificazione degli spazi con la contigua Sovrintendenza" aggiungono sostenendo però
che "ciò assume i contorni di una mistificazione della realtà, se si legge alla luce della
delibera attualmente in discussione in assemblea capitolina, con cui la stessa
Amministrazione mette in vendita un cospicuo numero di immobili tra cui anche il
complesso monumentale del Sant'Ambrogio della Massima".
Per questo chiedono "un incontro urgente con il Sindaco Marino e l'Assessore al
Patrimonio Cattoi al fine di individuare una soluzione positiva a tale questione e dare
attuazione all'iniziativa intrapresa 10 anni fa per la valorizzazione di questa esperienza di
socialità". Non si può "cancellare un luogo pubblico, non statale, centro di sperimentazione
culturale e sociale e per tanto svincolato dal mero fattore economico". Una vicenda,
sottolineano, "non isolata, ma che si inserisce in una serie di analoghi provvedimenti che
stanno colpendo altri spazi sociali della capitale".
La storia dello stabile del Sant'Ambriogio della Massima che dal 2000, tramite
un'ordinanza del sindaco, ospita decine di associazioni, non è semplice: prima un
sequestro preventivo durato cinque anni, tre processi penali, assoluzioni, il dissequestro
ordinato dal Tribunale nel 2014. Le associazioni si sarebbero dovute trasferite presso l'ex
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autoparco dei Vigili urbani di viale delle Mura Portuensi, ma non è mai accaduto. In questi
anni, in un palazzo trasformato in parte in locale e in parte in uffici, sono passati performer,
compagnie teatrali, dj set, scrittori, attivisti per la promozione dei referendum sull'acqua
pubblica e comitati.
http://roma.repubblica.it/cronaca/2015/02/11/news/rialto_sant_ambrogio_le_associazioni_
no_allo_sgombero-107055695/
Da Agenzia Dire dell’11/02/15
AUSER BERGAMO: PROGETTO “ABITO”
PER STUDENTI E ANZIANI
Gli studenti universitari fuori sede in cerca di un tetto, nei prossimi mesi avranno
un’opportunità in più. Potranno vivere nell’appartamento di un anziano autosufficiente in
cambio di un po’ di compagnia e un aiuto in casa. E’ stato presentato a Bergamo il
progetto “Abito” promosso da Auser Bergamo in collaborazione con Terza Università,
Proteo e Arci Fuorirotta di Treviglio e con il sostegno della Regione Lombardia. L’obiettivo
è sperimentare nuove modalità abitative e stimolare scambi tra generazioni. E
naturalmente aiutare gli anziani con un buon antidoto contro la solitudine. In una prima
fase verranno raccolte le domande degli studenti e la disponibilità degli anziani e dei loro
appartamenti. Poi si stabiliranno i contatti e gli “abbinamenti” che devono essere basati
sull’empatia, la condivisione, l’aiuto reciproco. La prima fase sarà sperimentale e conta di
coinvolgere almeno 30 soggetti. “Questo progetto- ha sottolineato Angelo Locatelli
presidente Auser Bergamo- servirà per abbattere quel clima di diffidenza ed una certa
cultura che spesso allontana i giovani dagli anziani. Inoltre ha una grande utilità sociale,
aiuta i ragazzi e aiuta gli anziani a sentirsi meno soli”. Gli ultimi dati parlano di over 65 che
a Bergamo sfiorano il 60% della popolazione, in crescita anche le iscrizioni all’università, in
particolare dei “fuori sede” che necessitano di circa 1500 alloggi.
Da Adn Kronos dell’11/02/15
Il 17 febbraio in Comune la presentazione
dello Sportello Affido Familiare
L’assessorato alle Politiche socio-sanitarie comunica che martedì 17 febbraio, alle 15.30,
presso la Sala consiliare del Comune, sarà presentato il servizio “Sportello Affido
Familiare” gestito dall’Associazione Krisalidea APS presso lo Spazio Famiglia. All’incontro
interverranno, oltre l’assessore alle Politiche socio-sanitarie, Stefania Mariantoni, il
referente dell’Area Famiglia e Minori della Regione Lazio, Antonio Mazzarotto, il già
Garante regionale dell’Infanzia e dell’Adolescenza, Francesco Alvaro, il referente del Gil
Adozioni della Asl di Rieti, Antonella Brunelli, e la presidente dell’Arci di Rieti, Valeria
Patacchiola. Parteciperanno anche alcune famiglie affidatarie che parleranno della loro
esperienza sia nell’ambito dell’affidamento classico che del progetto sperimentale Famiglie
Professionali. L’incontro sarà moderato dalla presidente dell’Associazione Krisalidea e
coordinatrice dello Sportello Affido Familiare, Valeria Natali. Per maggiori informazioni
sulla pratica dell’affido lo sportello è già a disposizione, previo appuntamento, il lunedì
dalle 10 alle 13, il mercoledì dalle 16 alle 19 e il giovedì dalle 10 alle 13. Per ottenere un
appuntamento è possibile contattare il 327/4971520 o scrivere all’indirizzo
[email protected].
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http://www.adnkronos.com/fatti/pa-informa/politica/2015/02/12/febbraio-comunepresentazione-dello-sportello-affido-familiare_UL8zD9ww8hHN6ZxBqvYYSL.html
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
Del 12/02/2015, pag. 6
«Vai Alexis», la Grecia in piazza
Le manifestazioni. In migliaia da Atene a Salonicco per sostenere il
governo in Europa
Ci si è messa pure la neve a sfatare l’ennesimo luogo comune che vuole il nord Europa
sempre al freddo e, viceversa, il sud al calmo. Ad Atene ha fioccato intensamente per un
paio di giorni, una coltre bianca ha ricoperto l’Acropoli ma questo non ha impedito alla
piazza del Parlamento di riempirsi di manifestanti, questa volta arrivati a supportare la battaglia del governo Tsipras-Varoufakis per cambiare le politiche europee di austerity. Così
la piazza che fino a qualche settimana fa era deputata alle contestazioni si è trasformata
e i manifestanti l’hanno trovata sgombra, come già qualche giorno fa, da inferriate e poliziotti antisommossa. Un’impressione notevole per chi ha ancora negli occhi gli spiegamenti di forze del passato, i lanci di lacrimogeni e le manganellate.
Tra i motivi di risentimento pure il rifiuto, da parte della Germania, del pagamento dei debiti
di guerra richiesto domenica scorsa davanti al Parlamento di Atene da Alexis Tsipras. Il
ministro degli Interni di Berlino Franck-Walter Steinmeier ha ricevuto ieri il suo omologo
ateniese Nikos Kotzias, ribadendogli che il governo tedesco non ha alcuna intenzione di
riaprire la parttita dei debiti di guerra (una questione che si era già posta in Italia al tempo
della scoperta dell’ “armadio della vergogna” e per la quale proprio ieri un piccolo comune
del Molise, Fornelli in provincia di Isernia, ha deciso di fare un’azione legale per la strage
del 4 ottobre 1943, quando sei cittadini del luogo furono impiccati dai nazisti per
rappresaglia). Ma il braccio di ferro vero, per il governo Tsipras, riguarda la possibilità di
avere «più tempo» dall’Europa per poter fare le riforme promesse in campagna elettorale,
come ha esplicitamente chiesto il ministro delle Finanze Yannis Varoufakis nel suo tour
per le capitali europee, la scorsa settimana. È su questo che si tratta ai livelli più alti delle
istituzioni comunitarie e con i governi, e l’avversario più intransigente rimane ancora una
volta la Germania, che non vuole saperne di concedere deroghe e sconti alla Grecia, a differenza della Francia che lavora a una mediazione (attraverso il commissario socialista
Pierre Moscovici) per non far saltare tutto e rischiare di provocare un disastroso Grexit
che, come ha fatto sapere ieri il governo portoghese, rischierebbe di avere conseguenze
catastrofiche per l’intero processo di unificazione continentale e di consegnare su un piatto
d’argento la vittoria alle destre più estreme (in Francia proprio nel collegio di Moscovici,
considerato “sicuro” per la sinistra, domenica scorsa il Ps l’ha spuntata per appena un
migliaio di voti sul candidato del Fronte Nazionale, che ha ottenuto una percentuale mai
vista finora in una elezione politica, segno che la crescita non si è arrestata). Ma al
momento il muro contro muro non pare aver fine: per il ministro delle Finanze di Berlino
Wolfgang Schauble ci sono solo la troika e il rispetto del programma concordato con il precedente governo Samaras. Proprio i punti sui quali Tsipras non può cedere, pena perdere
la faccia davanti agli elettori ad appena quindici giorni dal voto.
Per far sentire la propria voce in questa difficile partita anche ai tedeschi, migliaia di supporter del governo Tsipras sono scesi in piazza ieri sera a piazza Syntagma e in altre città
della Grecia, a cominciare da Salonicco e Patrasso. Manifestazioni di solidarietà con la
Grecia si sono svolte anche in diverse città italiane. Da Venezia (dove pomodori, uova
e fumogeni sono stati lanciati contro il consolato tedesco) a Firenze, fino a Roma, sono
state prese di mira le sedi di rappresentanza del governo di Angela Merkel, in attesa della
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manifestazione di sabato nella capitale, che si annuncia molto partecipata. A Milano si
è svolto un presidio davanti alla sede di Bankitalia.
Sul fronte europeo, invece, i movimenti anti-austerity si stanno organizzando per il Blockupy Frankfurt del 18 marzo prossimo, nella città tedesca che ospita la sede della Bce.
Per dimostrare che Syriza e i greci non sono soli.
Del 12/02/2015, pag. 6
Sabato 14 in campo la «macchina» Cgil: è la
nostra battaglia
In piazza . Ieri 54 presidi in tutta Italia. Per la manifestazione nazionale la
confederazione "è mobilitata". Il segretario confederale Danilo Barbi:
"L'austerità va battuta, l'esempio greco serve a tutta l'Europa. Noi
facciamo politica in prima persona e in autonomia. Ancor di più ora che
non abbiamo interlocutori"
Massimo Franchi
Cinquantaquattro presidi in giro per la penisola ieri hanno fatto dell’Italia una dei paesi che
ha più aderito al #11F, la giornata di mobilitazione europea a sostegno del governo greco
nel giorno della riunione all’Eurogruppo. Da Venezia a Napoli, passando per Trento
e Roma, solo per citare i presidi più partecipati, i manifestanti si sono ritrovati sotto i consolati, le sedi della Duetsche Bank o della Banca d’Italia per far sentire la loro voce
a sostegno della battaglia del governo Tsipras.
Ma il vero appuntamento è quello fra due giorni a Roma per la manifestazione nazionale
“Atene chiama”. A due giorni dal corteo che partirà da piazza Indipendenza alle 14 per
arrivare al Colosseo, prende sempre più piede il ruolo della Cgil nell’organizzazione. Dopo
l’adesione decisa all’unanimità nella segreteria di sabato — il giorno dopo di quella della
Fiom — la confederazione è al lavoro per garantire successo alla manifestazione. «Moltissimi territori sono mobilitati e nonostante l’ostacolo dei tempi strettissimi, contiamo di dare
la nostra mano», spiega il segretario confederale Danilo Barbi.
Le ragione dell’impegno diretto della Cgil sono figlie della battaglia contro l’austerità che lo
stesso Barbi porta avanti per la confederazione da anni. «Il piano del governo greco è in
buona parte mirato proprio a ridurre l’avanzo primario che è stato imposto dalla Trojka e i
fondi verranno usati per alleviare le sofferenze del popolo greco», sottolinea Barbi.
La battaglia del governo Tsipras è dunque la stessa della Cgil e della confederazione dei
sindacati europei — la Ces — che difatti ha aderito subito alla manifestazione, «compresi
i sindacati tedeschi». «La vicenda greca ci insegna non solo che è necessario cambiare la
politica economica e che l’austerità non sarà mai espansiva (il Pil è diminuito più del calo
del deficit e ha paradossalmente aumentato il dedito), ma soprattutto che un’alternativa
esiste ed esiste per tutta l’Europa», attacca Barbi.
Il segretario confederale della Cgil è poi ottimista sul successo della proposta di Tsipras
e Varoufakis: «L’idea di bond derivati legati alla crescita del Pil è tecnicamente complicata
ma assolutamente percorribile e giusta. Del resto sono state proprio le banche private
a ricontrattare i loro bond del debito greco perché col default non avrebbero visto un soldo,
mi sembrerebbe singolare che non lo facessero gli Stati europei», commenta sarcastico.
La battaglia è poi «soprattutto democratica perché è figlia della volontà del popolo greco».
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«La rigidità della Germania e del resto d’Europa (il nostro governo più che rigido, è stato
muto) deriva dal fatto che l’austerità è figlia della volontà di ridurre i salari e l’occupazione
per ridurre i costi del modello sociale europeo», spiega Barbi. «E se vincerà la Grecia, non
si vede perché anche Spagna e Italia non potranno rinegoziare i debiti e cambiare politica
economica: ecco la vera partita in gioco».
Una partita che la Cgil vuole giocare in pieno. Un protagonismo politico che segna una
nuova stagione della confederazione. «La situazione politica è tale per cui abbiamo deciso
di non porre limiti alla nostra azione politica. Al momento non ci sono sponde o interlocutori», spiega Barbi facendo riferimento sia al Pd che al fervore in atto a sinistra. «Noi
abbiamo sempre fatto politica in prima persona e non per interposta persona. Detto questo
vedremo cosa succede a sinistra, ma se la partenza è cercare uno Tsipras italiano, il problema è proprio il fatto che non c’è», chiude Barbi.
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ESTERI
Del 12/02/2015, pag. 1-6
Un’Ucraina federale, il sogno del Cremlino
per allontanare l’ombra della Nato e della Ue
BERNARDO VALLI
SI SPARAVA ancora con rabbia a tarda sera nell’Ucraina orientale. Nelle stesse ore a
Minsk, la capitale bielorussa, Vladimir Putin discuteva di una pace difficile con Angela
Merkel e François Hollande. Con loro c’era anche Petro Poroshenko, il presidente ucraino.
Il quale, lasciando Kiev, aveva minacciato di decretare la legge marziale per contenere la
prepotenza politica e militare russa, nel caso la conferenza fosse fallita. Si capisce perché
quando Putin gli ha teso la mano con un gesto virile, da atleta, lui l’ha stretta di fretta,
come se scottasse. Prima di sedersi al tavolo rotondo (al quale noi telespettatori li
abbiamo lasciati) i quattro avevano bevuto insieme un aperitivo e mangiato qualche
fragola, scambiandosi sorrisi imbarazzati.
Negli stessi istanti nel Donbass ai cinquanta morti delle ultime ventiquattro ore se ne
aggiungevano altri. Prima di un possibile cessate il fuoco, di una tregua, i miliziani filo russi
cercavano di conquistare più terreno, oltre ai cinquecento chilometri quadrati occupati nei
mesi scorsi. L’esercito lealista non aveva retto alle loro offensive. Il confronto verbale di
Minsk diventava ieri sera armato nelle province orientali ucraine. Ogni pezzo di terreno
occupato pesava sul tavolo attorno al quale Putin discuteva con la coppia europea,
Merkel-Hollande, affiancata da Poroshenko. I combattimenti furiosi tendevano a prendere
il controllo del territorio in direzione della Crimea, annessa alla Russia dieci mesi fa. I
secessionisti allargavano le loro autoproclamate repubbliche, destinate a diventare regioni
autonome, attorno al tavolo di Minsk.
La grande posta in gioco è infatti quella. La futura Ucraina sarà o decentralizzata come
vorrebbero gli europei, oppure federale come vorrebbe Putin. Nei due casi, al di là della
differenza semantica, le province in mano ai filo russi (Donetsk e Lugansk) diventeranno
autonome, e dal livello di autonomia che otterranno potranno più o meno condizionare il
potere centrale di Kiev. E impedirgli di aderire alla Nato e all’Unione europea. Non a caso
alla parola “federazione” Petro Poroshenko si infuria. Quella è invece per Putin la parola
chiave sulla quale ruota la trattativa.
È tuttavia assai difficile che quel problema decisivo venga risolto subito. Dopo le
indiscrezioni dei diplomatici impegnati nella preparazione del vertice, si aspetta qualcosa
di più di un semplice cessate il fuoco. Forse una tregua. Difficile da realizzare, visti i
combattimenti ancora in corso nell’Ucraina orientale.
Le divergenze sono tante sul modo di fermare il conflitto, se esiste sul serio la volontà far
tacere le armi. I confini su cui distribuire le forze di interposizione sono zigzaganti e
controversi. Sono validi quelli dell’ultimo accordo di Minsk mai rispettato (settembre ‘14),
oppure quelli tracciati dalle ultime conquiste dei ribelli filo russi? E come controllare i
quattrocento chilometri di confine con la Russia, attraverso i quali passano e uomini e
armo per i secessionisti? Di che nazionalità devono essere eventualmente i caschi blu o i
militari dell’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa)? Putin li
vorrebbe kazaki o bielorussi, o addirittura russi. Neanche per sogno dicono gli ucraini di
Kiev. Ci sono poi i prigionieri da liberare. E i risarcimenti per i danni di guerra.
La tregua o quel che uscirà dal vertice in corso, sempre che non frani in un fallimento,
dovrebbe aprire col tempo spiragli di pace. Al momento si annuncia tuttavia un risultato
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grigio. Né deludente né esaltante. Forse provvisorio ma indispensabile. Questo è l’esito
che si attende dal vertice in corso a Minsk, mentre scrivo. Un fallimento porterebbe a un
conflitto cronico nel cuore del nostro continente, con afflusso d’armi americane per
arginare quelle russe (accompagnate da soldati) già sul posto. Ma i convitati essendosi
presentati all’appuntamento di Minsk, si pensa a un imminente compromesso, eterna
lampada magica della politica.
Tutti devono salvare la reputazione. Angela Merkel e François Hollande, e con loro
l’Europa, non possono deludere: protagonisti di una trattativa cruciale, in una grande crisi,
per la prima volta senza i tutori americani, devono evitare almeno nell’immediato futuro la
pericolosa estensione del campo di battaglia. In quanto a Putin non può perdere la faccia.
Può fermare i secessionisti più scatenati che in dieci mesi hanno restituito la Crimea alla
Russia, proclamato due “repubbliche” (di Donetsk e di Lugansk) e che adesso vogliono
un’Ucraina federale, in cui poter condizionare il governo centrale di Kiev. Il presidente
Putin può metterli per un po’ al passo. Quando vuole sa farsi ubbidire. Può frenare i loro
slanci. Un’eventuale parziale intesa a Minsk aprirebbe una più ampia concertazione dalla
quale il presidente russo potrebbe trarre tanti vantaggi. Gli americani sono destinati a
ricomparire sulla ribalta delle trattative come nell’aprile scorso a Ginevra. Questo non
dispiacerebbe troppo a Putin, che rimpiange spesso il passato imperiale sovietico, quando
il Cremlino si confrontava direttamente con la Casa Bianca. Putin si sente sminuito
nell’essere protagonista con gli europei di una crisi regionale. La telefonata di Barack
Obama, che l’ha raggiunto alla vigilia del vertice, aveva il tono di un avvertimento severo.
Gli ha ricordato implicitamente la possibilità di importanti forniture d’armi americane (droni,
missili antiaerei, artiglieria pesante) all’esercito ucraino nel caso di un fallimento
diplomatico europeo. Ma quell’intervento del presidente americano, invece di metterlo in
guardia, deve averlo lusingato. Nel ciclone nazionalista che investe il Cremlino una
chiamata dalla Casa Bianca attenua le frustrazioni. Gonfia i muscoli. Rimonta il morale.
Allora facciamo ancora paura. Quanto alla minaccia di dare armi all’esercito di Kiev,
proferita con insistenza a Washington, anche se non dal presidente, e più
sommessamente in alcune capitali europee, appare a molti osservatori come una trappola
per gli occidentali. E forse appare tale anche al Cremlino. Le forze armate ucraine sono
rimaste sul piano professionale all’epoca sovietica, ossia tecnicamente in ritardo, da qui le
sconfitte subite nel Donbass. Avranno quindi bisogno di padroneggiare le sofisticate armi
americane. Nel frattempo i russi potranno intensificare l’appoggio già decisivo ai ribelli, e
rendere necessario un intervento diretto degli alleati di Kiev. La prospettiva di una scalata
militare ha spinto gli europei a tentare la pacifica offensiva diplomatica. La sola
ragionevole. Anche se si profila dopo il vertice di Minsk (di cui non conosciamo ancora il
risultato ma soltanto indiscrezioni sui preparativi) un’Ucraina destinata a una neutralità
subita come una camicia di forza. Una neutralità, che pur salvando la sovranità sarà
sottoposta al controllo di Mosca. Attraverso la forte autonomia delle province filorusse.
del 12/02/15, pag. 3
Droni, aerei invisibili e armi elettroniche
Così lo Zar si è preparato allo scontro
In quindici anni spese militari raddoppiate e una serie di nuovi mezzi Ma
i progetti più ambiziosi si sono arenati e mancano i fondi per l’ex Kgb
Anna Zafesova
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I separatisti filo-russi ora hanno anche l’aviazione. Dei Sukhoi-25 hanno bombardato le
posizioni ucraine nell’epicentro dei combattimenti degli ultimi giorni a Debaltseve, e fonti
separatiste sostengono che si tratta di aerei «trofeo» conquistati dagli hangar di Kiev.
Come prima i kalashnikov, i blindati, i carri, i sistemi antimissile e i razzi multipli. Due pezzi
dell’ex Armata rossa, gli eserciti russo e ucraino condividono in buona parte gli stessi
arsenali, e spesso stabilire la provenienza precisa di un’arma è possibile soltanto
guardando il numero di matricola. Ma ora nel Donbass circolano anche armamenti nuovi di
zecca, che l’antiquato esercito ucraino non possiede, accusa il comandante delle truppe
americane in Europa Frederick Hodges: «Dalle attrezzature e uniformi risulta evidente che
nella zona di Debaltseve è in corso un diretto intervento russo».
Nuovi armamenti
Il generale americano già nei giorni scorsi aveva detto che nell’Est ucraino fanno la loro
apparizione armi moderne, il frutto delle spese militari raddoppiate nei 15 anni di regno di
Vladimir Putin al Cremlino. I carri armati T-80 di ultima generazione, i razzi multipli Smerch
e Tornado, come quelli che hanno colpito mercoledì Kramatorsk con munizioni a grappolo
(violazione certificata dagli osservatori della Osce), i complessi antiaerei Panzir, Strela e
Pion avvistati intorno a Donetsk, ma soprattutto strumenti di guerra moderni come i droni e
l’equipaggiamento per la guerra elettronica. Secondo Keir Giles, esperto del Conflict
Studies Research Centre di Oxford, citato dalla Bbc, la Russia aveva scoperto di essere
carente in questo campo durante la guerra in Georgia nel 2008, che ha mostrato –
nonostante la mostruosa sproporzione di potenziali bellici – quanto l’esercito russo fosse
indietro in certi settori.
Droni in volo
Sette anni dopo sul Donbass volano droni russi e i jammer russi oscurano efficacemente
le vecchie radio ucraine, e ne intercettano le posizioni rendendole vulnerabili al fuoco. E
poi ci sono i complessi missilistici Buk, come quello che viene incriminato per
l’abbattimento del Boeing malese nel luglio scorso, con le stazioni mobili di puntamento,
responsabile della distruzione del 70% dell’aviazione militare ucraina.
Una macchina militare che ora viene testata nel poligono ucraino e che, secondo Hodges,
tra due-tre anni raggiungerà il massimo del suo potenziale, compreso lo schieramento dei
nuovi tank «Armata» e dei caccia «invisibili» Pak-50. Anche se le notizie dal fronte russo
non sono tutte rassicuranti. Ieri il ministero della Difesa ha sospeso i voli dei caccia
Sukhoi-24 dopo che uno dei velivoli di questo tipo si è sfracellato nella regione di
Volgograd. I due piloti sono quasi sicuramente morti e sulle cause dell’incidente per ora
c’è un fitto mistero.
Test falliti sui missili
Nei mesi scorsi numerosi test dei nuovi missili con testate nucleari che dovrebbero andare
a sostituire l’ormai invecchiato arsenale sovietico sono falliti. E ieri il «Kommersant» ha
rivelato che la Russia non ha più un sistema spaziale di intercettazione di un eventuale
attacco nucleare. Gli ultimi satelliti geostazionari Oko sono stati disabilitati per vecchiaia
all’inizio del 2015, e il lancio del nuovo sistema Tundra è stato rinviato per l’ennesima volta
dal 2013 perché non ancora pronto, ha rivelato una fonte delle truppe strategiche russe.
Mosca per ora resta protetta da un ipotetico attacco soltanto dai radar di terra. E la crisi
economica non aiuta: per quanto le spese militari siano rimaste esenti dagli ultimi tagli,
segnali di tempi duri giungono dalla polizia e perfino dall’ex Kgb, dove stanno riducendo
stipendi e personale.
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del 12/02/15, pag. 3
Basi a Cipro, gas a Turchia e Grecia
La carta mediterranea del Cremlino
Il feeling con Atene per rompere l’isolamento strategico
Maurizio Molinari
I ministri degli Esteri di Russia e Grecia si incontrano a Mosca nel segno di convergenze
su crisi Ucraina e duelli con l’Ue: è la conferma che il Cremlino guarda al Mediterraneo
Orientale come nuovo fronte di espansione strategica ai danni dell’Occidente. Il linguaggio
dei plenipotenziari è esplicito. «Le sanzioni occidentali alla Russia a causa dell’Ucraina
sono controproducenti», afferma il greco Nikos Kotzias e l’anfitrione Sergei Lavrov
aggiunge: «Potremmo darvi aiuti economico-finanziari se l’Ue non lo farà». Come dire, su
Ucraina e politiche economiche Atene può diventare interlocutore privilegiato di Mosca in
Europa, sfruttando l’anello più debole dell’Ue per scompaginare l’assedio voluto da
Washington e Bruxelles.
I ministri di Tsipras a Mosca
Il tappeto rosso al Cremlino per i ministri di Atene - è in arrivo la prossima settimana quello
della Difesa - diventa così il tassello di un mosaico più vasto che include investimenti
nell’esplorazioni di gas al largo di Nicosia, accordi energetici con Ankara e Gerusalemme
sommati a esercitazioni navali multilaterali con Grecia, Israele e Cipro: mosse nel
Mediterraneo Orientale che descrivono il tentativo di fare leva su sicurezza ed energia al
fine di creare un network di intese regionali a ridosso del Mar Nero, ovvero della crisi in
Ucraina. «I russi si muovono a piccoli passi, tastando le acque ovunque possono per
verificare come rafforzare le propria influenza», spiega una fonte diplomatica da Nicosia,
indicando un «momento di accelerazione» in quanto avvenuto a fine ottobre con l’invio
della nave anti-sottomarina «Kulakov» in manovre congiunte con unità greche, cipriote e
israeliane. In quell’occasione le navi dei quattro Paesi hanno simulato operazioni
sottomarine e di soccorso a piattaforme energetiche off-shore aggiungendo una
dimensione di sicurezza all’interesse di Mosca per lo sviluppo del gas naturale nelle acque
di Cipro e Israele. I 3,5 miliardi di dollari di prestiti russi per sviluppare le esplorazioni
cipriote e il forte interesse di Gazprom nel giacimento israeliano «Leviathan» puntano a
trasformare la Russia in un partner finanziario di primo piano del progetto di sviluppare
risorse sottomarine che potrebbero trasformare la Grecia nel portale per l’export verso
l’Europa del Sud.
La scommessa su Ankara
Tentare di inserirsi nella cooperazione energetica greco-israelo-cipriota si accompagna
alla scommessa economica sulla Turchia di Recep Tayyp Erdogan, sebbene sia ai ferri
corti con Atene, Nicosia e Gerusalemme. A dimostrarlo è stato il ceo di Gazprom, Alexey
Miller, siglando in dicembre ad Ankara un memorandum d’intesa per la costruzione di un
importante oleodotto off-shore nel Mar Nero verso la Turchia puntando a moltiplicare
l’export verso quello che è già il secondo più importante cliente europeo. Nella volontà di
«tastare le acque» su tutti i fronti, in una regione in costante fibrillazione, si inseriscono le
indiscrezioni della «Rossiiskaya Gazeta» sull’offerta a Cipro di ospitare una base aerea e
una navale della flotta russa, a cui al momento è rimasta in quest’area solo la testa di
ponte di Tartus sul litorale siriano ancora nelle mani di Assad. Il ministro degli Esteri
cipriota, Ioannis Kasoulides, nega che il presidente Nicos Anastasiades possa sfruttare la
visita a Mosca di fine febbraio per siglare un simile patto. Ma l’offerta russa a Cipro Paese Ue, non Nato - probabilmente è stata già formulata, a conferma di un approccio
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«molto energico della diplomazia russa» come riassume un diplomatico europeo a Tel
Aviv, osservando che «solo 48 ore fa» Putin ha siglato con Abdel Fattah Al Sisi l’accordo
per la prima centrale nucleare egiziana.
Del 12/02/2015, pag. 12
Braccio di ferro all’Eurogruppo “Si lavora per
un compromesso” Troika, cambiano i
controllori
Nessuna intesa dopo sette ore di colloqui, rinvio a lunedì Accordo con
l’Ocse. E la Russia promette aiuti finanziari
ANDREA BONANNI
Si è chiusa senza un accordo dopo quasi sette ore di discussione la riunione dei ministri
dell’eurogruppo sulla crisi greca. «Abbiamo fatto progressi, ma non abbastanza per
firmare un documento congiunto», ha commentato il presidente dei ministri dell’eurozona,
Dijsselbloem. A quanto risulta, la delegazione greca non ha, per il momento, accettato di
sottoscrivere una dichiarazione in cui di fatto avrebbe chiesto la proroga del programma di
salvataggio europeo, con tutte le condizioni che esso comporta. Ma il ministro Yanis
Varoufakis si è detto ottimista sulla possibilità che un accordo venga raggiunto alla
prossima riunione dell’eurogruppo, lunedì. Anche il ministro dell’economia Pier Carlo
Padoan ha usato termini incoraggianti: «È stata una discussione fruttuosa. A tratti un
pochino troppo franca nei toni, ma sono ottimista. Proseguiamo la conversazione lunedì».
Oggi il primo ministro greco, Alexis Tsipras, avrà modo di saggiare la determinazione dei
suoi interlocutori al vertice dei capi di Stato e di governo che discuterà anche della crisi
greca. Intanto ieri ad Atene Tsipras ha incontrato il responsabile dell’Ocse, Angel Gurria,
per cercare di ottenere l’appoggio e la consulenza dell’organizzazione nella definizione del
programma di riforme. Il primo nodo, che deve essere risolto entro la nuova riunione
dell’eurogruppo convocata lunedì prossimo, è la proroga o meno del programma europeo
di assistenza alla Grecia, che scade a fine mese. Il governo Tsipras non vuole chiedere un
prolungamento perché esso comporterebbe l’accettazione del Memorandum concordato
con la Troika, che prevede una serie di tagli alla spesa, riforme e aumenti delle tasse.
Tuttavia, senza proroga del programma, la Grecia resterebbe priva di finanziamenti e si
troverebbe in bancarotta. Ieri Varoufakis ha lanciato la proposta di un «prestito-ponte» per
dieci miliardi di euro, che consentirebbe al Paese di arrivare fino all’estate e negoziare nel
frattempo un accordo complessivo con i suoi creditori. Per ottenerlo, il governo greco
sarebbe disposto ad accettare circa il settanta per cento delle misure già comprese nel
memorandum. Ma non vuole più negoziare con la Troika e punta ad ottenere
l’autorizzazione di ridurre l’avanzo primario del bilancio dal tre per cento, previsto per
quest’anno, all’1,5 per cento. Ieri però, le posizioni degli europei non sono apparse molto
concilianti. Per loro il Memorandum che fa parte del programma di assistenza va
sostanzialmente rispettato. E l’unico modo in cui la Grecia può ottenere nuovi
finanziamenti è domandando una proroga del programma. «Ognuno è libero di fare quello
che vuole, ma un programma esiste già. O viene portato a compimento, o non abbiamo
più un programma», ha tranciato netto il ministro delle finanze tedesco Wolfgang
Schauble. Anche se tutti si dicono favorevoli alla permanenza di Atene nell’euro, sono in
molti a ritenere che questo risultato non deve essere raggiunto a qualsiasi prezzo. «Penso
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che tutte opzioni siano aperte — ha spiegato il ministro lussemburghese dell’economia,
Pierre Gramegna — i greci hanno detto che vogliono restare nell’euro, dobbiamo prendere
per buona questa loro dichiarazione ma questo comporta degli obblighi. Vedremo». Più
duro ancora, il suo collega austriaco ha invitato bruscamente il governo greco «a farla
finita con le provocazioni».
Da parte sua il governo greco ha cercato di rafforzare la sua posizione negoziale inviando
il ministro della difesa a Mosca, dove ha incontrato il ministro degli esteri russo Lavrov.
Proprio nel giorno in cui a Minsk Merkel e Hollande cercavano un’intesa con Putin per
fermare la guerra in Ucraina, Atene si è detta «contraria» alla politica di sanzioni contro la
Russia. In cambio ha ricevuto la promessa che Mosca «prenderà in considerazione»
eventuali richieste di aiuto finanziario da parte greca. Ma queste manovre non sembrano
aver prodotto grande impressione tra gli europei, al di là di una comprensibile irritazione. E
oggi, al vertice dei capi di governo che si terrà a Bruxelles, Tsipras avrà difficoltà a far
valere un eventuale veto greco contro nuove misure per far pressione su Mosca.
Per il momento, insomma, la Grecia sembra con le spalle al muro. Le uniche concessioni
che gli europei appaiono disposti a fare sono puramente formali. Non si dovrebbe parlare
più di troika, ma di un negoziato con «i rappresentanti delle istituzioni», che però restano
sempre la Commissione, il Fondo monetario e la Banca centrale. La proroga del
programma di assistenza potrebbe essere definita una «proroga tecnica», che i greci
potrebbero ribattezzare «accordo-ponte». Ma la sostanza del Memorandum, e delle
condizioni in esso contemplate, per il momento non viene messa in discussione. Tocca a
Tsipras decidere se accettare queste condizioni o guidare il Paese fuori dalla moneta
unica.
Del 12/02/2015, pag. 13
Posizioni ora meno lontane ma il nodo è il
memorandum
ETTORE LIVINI
Meno quattro giorni al D-Day. L’Eurogruppo, come previsto un po’ da tutti, si è chiuso con
una fumata grigia. Lunedì, senza un’intesa, la Grecia rischia di dare l’addio all’euro. E da
oggi ad allora, mentre la sabbia corre nella clessidra, Atene e i suoi creditori dovranno
lavorare di lima per trovare – se possibile – i compromessi necessari a siglare “un accordo
che metta d’accordo tutti”, come chiedono da sempre i protagonisti del negoziato.
Quante probabilità ci sono di quadrare il cerchio? «Ognuno dovrà fare dei sacrifici», ha
suggerito Jacob Lew, segretario al Tesoro Usa. E da questo punto di vista – dicono quasi
tutte le fonti vicine alle trattative – c’è la volontà e la possibilità di trovare un terreno
comune su cui dialogare. Il diavolo però sta nei dettagli. E visti i toni accesi e le promesse
di queste ultime ore, il vero problema sarà trovare una formula semantica ed estetica per
firmare una pace vendibile sia in Germania («O la Grecia accetta il memorandum della
Troika o è finita», ha garantito Wolfgang Schaeuble ai suoi concittadini) che sotto il
Partenone. Dove la gente – come ha promesso Tsipras - si aspetta che l’era dell’austerità
sia davvero alle spalle e di memorandum non vuol più sentir parlare.
La verità è che negli ultimi giorni, al di là delle frasi ad effetto per il palcoscenico
domestico, le posizioni di Atene e dell’Europa hanno già iniziato ad avvicinarsi. Il governo
Tsipras ha mandato in archivio la richiesta di una conferenza europea sul debito, ha
moderato i toni sul taglio al debito e ha persino ribaltato lo stop alla privatizzazione del
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Pireo. Segnali di fumo raffinati, colti però al volo dagli sherpa di Bruxelles che hanno
convinto i falchi del rigore ad aprire qualche spiraglio. Sul ruolo della Troika, per dire,
insiste ormai solo Schaeuble mentre il resto della Ue sembra pronta a studiare nuove
forme di supervisione per la Grecia. E persino Jeroen Djisselbloem si è presentato ieri
«pronto ad ascoltare le proposte di Yanis Varoufakis». Un bel passo avanti per chi fino a
poche ore prima sosteneva che l’unico piano sul tavolo era quello concordato con Ue, Bce
e Fmi. L’orologio del resto obbliga tutti ad essere realisti. Sul tavolo dell’Eurogruppo si
discute infatti quanto costerà ancora ai creditori tenere Atene nell’euro. Mentre i danni di
una sua uscita (malgrado in molti esorcizzino lo spettro sostenendo che il rischio contagio
non c’è più) rischiano di essere incalcolabili. Dove si possono avvicinare ancora le parti?
Gli spifferi dell’Eurogruppo danno qualche indicazione precisa: Tsipras ad esempio
potrebbe accettare di rinviare alcuni dei costosissimi “interventi umanitari immediati”
previsti nel programma elettorale di Syriza. L’ha già fatto posticipando la revisione dello
stipendio minimo e del ripristino della tredicesima ai pensionati. E potrebbe subordinare
quelli irrinunciabili a una tempistica concordata con i creditori. Ue, Bce e Fmi invece –
malgrado i mal di pancia tedeschi – potrebbero concedere qualche mese di tempo da
Atene per presentare le sue proposte. Mettendo mano nello stesso tempo al portafoglio
per garantire ossigeno al Partenone. L’ipotesi è lo sblocco degli 1,9 miliardi di profitti della
Bce sui titoli di stato ellenici e magari il via libera a nuove emissioni di titoli di Stato.
Superato lo scoglio del 28 febbraio (giorno in cui scadrà il vecchio programma della
Troika) le parti potranno lavorare assieme per mettere a punto le misure – lotta alla
corruzione e all’evasione fiscale, meritocrazia nel pubblico impiego e modernizzazione
della macchina dello Stato – su cui il programma di Syriza in qualche caso è molto più
vicino alle corde dei creditori di quello di Antonis Samaras. E a ridefinire – operazione che
tutti sanno inevitabile – il profilo del debito ellenico, nella speranza che la ripresa
dell’economia e dell’occupazione renda il tutto più facile. Nessuno, naturalmente, si illude
che tutto possa filare così liscio. Il vero collo di bottiglia – dicono molti - è quello che si
dovrà superare in queste ore. Ed è un nodo “linguistico”. L’intesa, vista dalla Grecia,
dovrebbe segnare l’addio definitivo al memorandum della Troika. Vista da Berlino invece
dovrà sembrare esattamente l’opposto: cioè la prosecuzione, con qualche timida
concessione, dei programmi concordati negli anni scorsi. Soluzione che alla fine Tsipras
potrebbe essere costretto a mandar giù pur di incassare i soldi per tenere in piedi il paese.
Si vedrà. Il tempo stringe. E non a caso anche chi tifa contro l’accordo si è affrettato a
mettere sul tavolo le sue carte. «Siamo pronti ad aiutare Atene se ce lo chiede» ha detto
ieri il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov. Il premier cinese Li Keqiang ha invitato
Tsipras in Cina. Il premier di Atene invece corre sul filo. Il 75% del paese è con lui, dicono i
sondaggi, ma il 72% vuole rimanere nell’euro. Il compromesso con Bruxelles si troverà
mischiando bene assieme come in un cocktail questi due ingredienti.
del 12/02/15, pag. 2
di Salvatore Cannavò
Quelli che tifano Tsipras: anche il sindacato
tedesco contro Angela
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Alexis Tsipras sembra accerchiato da tutti i governi europei e quindi dai loro paesi. Però la
solidarietà e la vicinanza che ha raccolto da quando ha preso la guida della Grecia non è
trascurabile. Soprattutto se proviene dalla Germania. L’appello La Grecia una chance per
l’Europa, non una minaccia reca come prima firma quella di Reiner Hoffmann, presidente
della Confederazione sindacale tedesca, la Dgb: “Il terremoto politico avvenuto in Grecia –
si legge – è un’opportunità non solo per questo Paese afflitto dalla crisi, ma anche per
ripensare e rivedere in modo sostanziale la politica economica e sociale dell’Unione
europea”. Il testo è siglato anche dalle sigle sindacali di categoria, molto importanti
anch’esse negli equilibri politico-sociali della Germania: il sindacato dei Servizi, Ver. di, il
più grande d’Europa, quello delle Costruzioni, Agricoltura e Ambiente, Ig. Bau, il sindacato
dei Trasporti, Evg, dell’Alimentazione, Ngg, dell’Educazione, Gew e quello della
metallurgia, IgMetall. “I miliardi che sono confluiti verso la Grecia sono stati utilizzati
soprattutto per la stabilizzazione del settore finanziario”, scrivono i sindacati tedeschi
ricordando che “il Paese è stato spinto da una brutale politica di austerità verso la più
profonda recessione”.
“NESSUNO DEI PROBLEMI strutturali del Paese è stato risolto, continua il documento
che propone di “negoziare seriamente e senza ricatti con il nuovo governo greco per aprire
nuove prospettive economiche e sociali per il Paese che vadano oltre la fallimentare
politica di austerità”. Anche perché “la sconfitta alle urne dei responsabili delle politiche
adottate finora in Grecia è una decisione democratica che va rispettata a livello europeo”.
Dunque, “bisogna dare una chance al nuovo governo e la continuazione del cosiddetto
percorso di ‘ riforme ’ adottato finora, significa negare di fatto al popolo greco il diritto ad
attuare nel proprio Paese un cambiamento di rotta della politica che è stato
democraticamente legittimato”. Una presa di posizione molto rilevante se si considera il
ruolo e il peso del sindacato nella società tedesca. Con oltre 6 milioni di iscritti la Dgb
svolge ancora un ruolo importante negli equilibri della Spd, la socialdemocrazia che è in
calo da tempo ma che governa il paese nella coalizione con Angela Merkel. Il sindacato,
inoltre, gode della Mitbestimmung, il modello di cogestione che consente alle
organizzazioni dei lavoratori di sedere nei Consigli di sorveglianza delle grandi aziende e
di avere, quindi, una forte superficie di contatto con il mondo imprenditoriale. Reiner
Hoffmann ha preso parola subito dopo le proposte avanzate dal ministro dell’Economia
greco Yanis Varoufakis, giudicando positivamente l’intenzione di non chiedere più il
semplice annullamento del debito ma di optare per un’opzione più ragionevole come il
legame tra il tasso di interesse e la crescita economica del paese. Ma il presidente della
Dgb apre anche all’ipotesi di una Conferenza europea sul debito in modo “da ristabilirne la
sostenibilità e conseguentemente stabilizzare la zona euro”. La Dgb non si è mossa in
solitudine perché sulla strada del sostegno alla Grecia si è incamminata anche la
Confederazione europea dei sindacati (Ces). La sua presidente, Bernadette Segol, si è
pronunciata in questo senso la scorsa settimana: “È vitale per la democrazia in Europa
che sia rispettata la volontà chiaramente espressa dal popolo greco di mettere fine
all’austerità”. In questo contesto si comprende meglio anche la decisione dell’italiana Cgil
di schierarsi apertamente dalla parte di Tsipras e di fare propria la manifestazione che si
svolgerà sabato prossimo a Roma in solidarietà con la Grecia.
LA LISTA DEGLI AMICI di Syriza quindi si allunga anche se si distingue per la sua
eterogeneità. Ieri, ad esempio, Beppe Grillo ha proposto alla stessa Syriza e alla spagnola
Podemos di farsi promotori di una mozione al Parlamento europeo per una Conferenza
internazionale sul debito. Ipotizzando anche l’adesione di forze di destra come la Lega
Nord e il Front national di Marine Le Pen. La quale, alla vigilia delle elezioni greche, si era
pronunciata a favore di Tsipras. Ma la Grecia può contare anche sui buoni auspici di
Barack Obama che dal giorno della vittoria della sinistra greca sta spingendo l’Europa per
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offrire un compromesso accettabile. E poi c’è la Russia. Lo scambio di cortesie è stato
molto visibile ieri, proprio durante la riunione dell’Eurogruppo. Il ministro degli Esteri russo
ha aperto alla possibilità di “aiuti finanziari” diretti mentre la Grecia si è opposta alle
sanzioni contro Mosca sulla vicenda ucraina.
Del 12/02/2015, pag. 23
Is, Obama chiede al Congresso l’ok alla
guerra
È la prima volta dalla domanda formale di autorizzazione all’uso della
forza fatta da Bush nel ‘92 Niente “vaste operazioni terrestri come in
Iraq e Afghanistan”, ma sì ad azioni mirate di commando
FEDERICO RAMPINI
«Lo Stato Islamico, se non contrastato, è una minaccia che va ben oltre il Medio Oriente,
può arrivare fino al territorio degli Stati Uniti». Barack Obama chiede poteri speciali, di fatto
la dichiarazione di uno stato di guerra, sia pure con limiti e scadenze: tre anni, passati i
quali sarà il suo successore a dover verificare se i jihadisti sono stati debellati. Si chiama
“autorizzazione per l’uso delle forze armate degli Stati Uniti”. Con una lettera al Congresso
e un annuncio alla nazione ieri pomeriggio, il presidente spiega che «la sicurezza
nazionale è in gioco», ma con una coalizione all’attacco «l’Is perderà».
È la prima volta che il Congresso viene chiamato a dare al presidente questi poteri di
guerra in modo così formale e solenne, dopo il precedente del 2001-2002: allora, in
seguito alla strage delle Torri Gemelle, furono votate leggi dai contorni molto ampi che
diedero il via alle guerre in Afghanistan e Iraq. Stavolta invece l’atto di guerra ha delle
restrizioni precise, lo stesso Obama non vuol consegnare “carta bianca” a chi gli
succederà. Perciò il presidente insiste su queste limitazioni: «No a guerre di lungo termine,
no alle vaste operazioni di combattimenti terrestri come quelle che abbiamo condotto in
Iraq e in Afghanistan ». Sul fronte sirianoiracheno, a combattere i jihadisti del Grande
Califfato «devono essere mobilitate forze locali, non le truppe americane». È la linea da
non oltrepassare: «Niente scarponi americani sul terreno ». Blitz aerei, bombardamenti
dall’alto, droni, ma non un dispiegamento di soldati che esporrebbe l’America a nuove
vittime, all’inevitabile escalation in caso di rovesci contro l’avversario. Tocca all’esercito
regolare iracheno, ai peshmerga curdi, ai ribelli siriani, il compito dei combattimenti
terrestri. Però Obama inserisce delle eccezioni. Sono dettate anche dall’emozione
provocata dopo le decapitazioni di ostaggi Usa, l’ultima esecuzione di una giovane donna
impegnata nell’azione umanitaria; nonché l’allarme mondiale suscitato dalla strage di
Charlie Hebdo a Parigi. Nella legge che sottopone al Congresso, Obama elenca i casi e le
modalità in cui anche gli americani si spingerebbero sul territorio siriano. «Occorre
flessibilità per condurre operazioni di combattimento terrestre in circostanze limitate: i
salvataggi di personale americano e alleato; l’uso di commando speciali per colpire i
dirigenti dell’Is; le operazioni di intelligence; le perlustrazioni sul terreno per localizzare i
bersagli dei raid aerei; l’assistenza alle forze alleate ».
L’annuncio di Obama rivela il tormento del “guerriero riluttante”. Il presidente si sente
costretto ad alzare il tiro contro la minaccia jihadista, soprattutto dopo le esecuzioni di
ostaggi americani e gli attentati all’estero. Il fronte del pericolo si allarga: proprio ieri gli
Stati Uniti hanno dovuto chiudere la loro ambasciata nello Yemen. E perfino il ritiro delle
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ultime truppe dall’Afghanistan viene rallentato di fronte all’imminente “offensiva di
primavera” dei Taliban. Obama sente di dover dire questa verità alla nazione e al
Congresso: la battaglia contro i jihadisti va affrontata con mezzi adeguati. Non vuole
continuare l’escalation strisciante di una guerra “non dichiarata”, che era in atto da cinque
mesi con oltre 2.000 raid aerei. Non vuole neppure legarsi le mani: l’autorizzazione chiesta
al Congresso non si limita strettamente ai territori di Siria e Iraq, lascia aperta la possibilità
di inseguire e colpire forze jihadiste “associate all’Is” ovunque nel mondo.
La legge di guerra che Obama presenta al Congresso, menziona esplicitamente
l’uccisione della 26enne Kayla Mueller e di altri tre ostaggi (un quinto cittadino americano,
prigioniero in Siria, sta rischiando la stessa fine). Le prime reazioni indicano un consenso
bipartisan, con sfumature e riserve. La maggioranza repubblicana sembra disponibile a
votare questa legge, semmai la critica perché troppo timida. «Se autorizziamo l’uso della
forza militare — dice il leader della Camera, il repubblicano John Boehner — il presidente
deve avere tutti i mezzi necessari per vincere questa battaglia ». Il presidente della
Commissione Esteri del Senato Bob Corker, anche lui repubblicano, invita Obama a
«definire una strategia chiara per debellare la minaccia dello Stato islamico», e si dice
convinto che «assolveremo il nostro dovere costituzionale con un voto bipartisan». Le voci
più critiche arrivano da sinistra. Il deputato californiano Adam Schiff, della Commissione di
vigilanza sui servizi segreti, si dice «preoccupato per la mancanza di limiti geografici a
questa campagna militare, e la definizione troppo elastica delle forze alleate». Cioè quelle
che i soldati Usa dovrebbero assistere, formare, soccorrere anche a costo di scendere
“con gli scarponi” sul terreno insidioso di questa nuova guerra.
del 12/02/15, pag. 4
Yemen, occidentali in fuga dai ribelli
Washington evacua l’ambasciata
Francesco Semprini
Gli Stati Uniti temono che lo Yemen diventi la prossima Libia. E, con l’incubo di un altro
attacco come quello che costò la vita all’ambasciatore Chris Stevens a Bengasi nel 2012,
hanno decretato lo stato di emergenza e ordinato la chiusura dell’ambasciata Usa a
Sana’a. Subito seguiti dagli alleati occidentali, come Gran Bretagna e Francia, che hanno
ordinato l’evacuazione delle rappresentanze diplomatiche nella capitale. Mentre Italia e
Germania hanno rivolto un appello ai concittadini rimasti nel Paese per casi di assoluta
necessità, ad andarsene quanto prima.
L’allarme dell’Onu
«Siamo sull’orlo di una guerra civile», ha dichiarato l’inviato delle Nazioni Unite, Jamal Ben
Omar, ribadendo la preoccupazione della comunità internazionale per le sorti di uno Stato
spaccato, con la rivolta degli sciiti Houthi che ha cacciato il governo e Al Qaeda e l’Isis che
si ritagliano spazi sempre più ampi. Negli Stati Uniti la rivolta a guida sciita viene guardata
con attenzione, ma anche con un certo interesse. I ribelli Houthi, giunti nei mesi scorsi dai
territori del Nord, hanno preso possesso della capitale, ponendo fine da gennaio al potere
del presidente Abed Rabbo Mansur Hadi. In altre regioni del Paese è forte la resistenza
delle popolazioni e dei clan sunniti, che accusano gli Houthi di essere una diramazione
dell’Iran.
Da Sana’a a Parigi
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Gli Houthi, tuttavia, sono agli occhi degli Stati Uniti una garanzia contro il proliferare delle
attività terroristiche che vedono nel braccio di Al Qaeda nella Penisola arabica (Aqab), il
principale regista di una fucina di jihadisti pronti a sferrare attacchi in tutto il mondo
occidentale. È qui che si sarebbero indottrinati e formati gli attentatori di Parigi, come i
kamikaze che hanno operato in territorio americano dal 2009 ai nostri giorni. È originario
dello Yemen l’imam Anwar al-Awlaki, ispiratore e formatore degli jihadisti che hanno
sferrato attentati dinamitardi ad alto tasso tecnologico negli Usa. Ecco perché, nonostante
tutte le preoccupazioni del caso, Washington tratta con una certa attenzione la crisi
yemenita. E a rendere ancor più complicata la situazione vi è la presenza di un forte
movimento secessionista nel Sud, che vorrebbe la creazione di uno Stato separato, come
quello esistito fino al 1990. Migliaia di sostenitori delle milizie sciite hanno manifestato
nelle vie di Sana’a gridando slogan di «Morte all’America» e «Morte a Israele», uno
scenario che ricorda quello della rivoluzione iraniana del 1979.
Meglio gli sciiti a Al Qaeda
Ma in realtà, secondo fonti di intelligence, ci sarebbero da tempo contatti tra le forze di
opposizione Houthi e gli stessi americani, uniti dal medesimo obiettivo di contrastare
l’avanzata qaedista nella Penisola arabica. Questo è il motivo che darebbe un certo
margine di manovra alle milizie sciite, la cui corsa verso Sana’a ha visto due giorni fa la
conquista della città di Radda, nella provincia centrale di Al Bayda, al termine di un
violento scontro tra forze governative e ribelli.
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INTERNI
del 12/02/15, pag. 10
Salta la trattativa sulle riforme
Seduta a oltranza alla Camera
La scelta anti-ostruzionismo del Pd, che concede alle opposizioni il voto
finale a marzo
Francesca Schianchi
«Ho fatto tante nottate in discoteca, posso farne qualcuna anche qui…», sospira la
deputata renziana Alessia Morani a metà pomeriggio, dopo che nella riunione del Pd il
capogruppo Roberto Speranza ha avanzato l’idea di un’interminabile seduta fiume sulla
riforma costituzionale. Un’ipotesi che si concretizza in serata, come soluzione
all’ostruzionismo delle opposizioni: una maratona di voti a oltranza che inchioderà i
deputati a Montecitorio fino alla fine dei voti, presumibilmente sabato, qualche migliaio di
emendamenti e di caffè dopo.
Aggirare l’ostruzionismo
«Se vogliono discutere nel merito ci siamo, se no siamo pronti ad andare avanti con buon
senso e tenacia, perché noi le riforme le facciamo», garantisce il premier-segretario
Matteo Renzi. «Sono sei mesi che è in corso il dibattito costituzionale alla Camera»,
ricorda, ma «il problema è che non vogliono discutere nel merito, desiderano fare
polemiche e ostruzionismo», lamenta. Il regolamento della Camera consente a ogni inizio
seduta di aggiungere alla legge nuovi subemendamenti: le opposizioni ne hanno già
presentati circa tremila, per non permettere loro di moltiplicarli oltre, al Pd viene l’idea della
seduta fiume. Si va avanti notte e giorno in un’unica, infinita seduta, che può avere solo
brevi sospensioni tecniche.
Una giornata di trattative
Un’ipotesi che, sperano fino a sera nel Pd, dovrebbe servire come arma di pressione per
trovare una mediazione con le opposizioni. Le trattative sono serratissime: più tempo per
discutere e disponibilità del governo a rinviare il voto finale a marzo, in cambio
dell’impegno a ritirare gli emendamenti ostruzionistici. Una proposta che viene fatta a tutte
le minoranze, dal M5S a Sel alla Lega a Forza Italia, allontanatasi dal percorso delle
riforme con la rottura del patto del Nazareno («con Berlusconi i rapporti non sono positivi»,
ammette Renzi).
Dubbi nel Pd
«Spero non si debba ricorrere alla seduta fiume: sarebbe una soluzione procedurale a un
problema politico», scuote la testa nel tardo pomeriggio Stefano Fassina. Per proporre
quella via d’uscita, Speranza ha riunito i suoi deputati alle tre del pomeriggio. E hanno tutti
convenuto che potrebbe essere l’estrema ratio. Ma non sono mancati interventi critici,
come quello dello stesso Fassina, che pone un problema politico: «Se la gabbia del patto
del Nazareno con Fi è saltata, dovremmo provare ad allargare la maggioranza sulle
riforme ad altri». Interviene con qualche dubbio Gianni Cuperlo, e anche il veltroniano
Walter Verini, per sottolineare alcune forzature e rigidità che forse si sarebbero potute
evitare. E c’è anche chi, come il presidente della Commissione Lavoro Cesare Damiano,
ricorda problemi pratici: «Entro il 13 la mia Commissione deve dare i pareri sui decreti del
Jobs act, come facciamo se siamo bloccati in Aula?».
Voto finale a marzo
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Dalle opposizioni chiedono modifiche al testo che il governo non è disposto a concedere.
Dopo ore di trattative, alle dieci di sera Lega e Fi ritirano i propri emendamenti. Ma non lo
fa il M5S. Si continua a discutere, si sospende l’Aula. Si convoca una riunione dei
capigruppo: la proposta del Pd è seduta fiume per terminare gli emendamenti entro sabato
e rinvio del voto finale a marzo. Una concessione che dovrebbe garantire la permanenza
in Aula anche delle opposizioni notte e giorno: necessaria, per il numero legale.
del 12/02/15, pag. 10
“Comando, fatica e ambizione”
Renzi contro i tabù della sinistra
Il premier parla agli allievi ufficiali dei carabinieri: e si lancia nell’elogio
dell’uomo solo alla guida
Fabio Martini
Dall’ incipit, un po’ irrituale, si intuisce che non sarà il solito discorsetto. Davanti ai vertici
dell’Arma dei carabinieri, riuniti per l’apertura del corso allievi ufficiali, Matteo Renzi
esordisce così: «Vorrei cogliere questa occasione, col suo permesso signor Comandante
generale, non per lanciarmi in una dissertazione dentro i confini nazionali...». E da quel
momento il presidente del Consiglio si produce in una sequenza di espressioni spiazzanti:
l’elogio del concetto di comando («non è una parolaccia»), ma anche l’apologia della
«paura», della «fatica» e dell’«ambizione» di chi si trova a prendere una decisione. In altre
parole, un argomentato panegirico dell’«uomo solo al comando». Alla fine, una
demolizione sia dell’etica della irresponsabilità, tipica della mentalità italiana, ma anche
della fobia del comando: un discorso col quale Renzi ha smontato un altro pezzo della
cultura politica della sinistra italiana.
Discorso, con qualche passaggio da presidente americano, nel quale Renzi ha mixato
patriottismo e politica. Esordio retorico sulla cerimonia dell’alzabandiera, ma poi Renzi va
al sodo: «In Italia c’è tradizionalmente un racconto per cui comandare è quasi una
parolaccia» e questo soprattutto per ragioni storiche («una dittatura vissuta come ferita
non risarcita») da esorcizzare. Dice Renzi: «Quante volte si dice: attenzione all’uomo solo
al comando! Un’espressione che in realtà non ha nulla di militare né di politico ma è stata
usata da un radiocronista» per raccontare «l’epica ciclistica di Fausto Coppi». E qui parte il
contrattacco, musica per le orecchie dei carabinieri: «Il comando è un servizio al Paese
che non dura per sempre ma ha un termine e dunque non è al servizio delle persone ma
delle istituzioni».
Smaltito il primo messaggio - parlando a braccio ma seguendo il filo di un testo che aveva
preparato in anticipo - Renzi è arrivato a un altro concetto non rituale in un discorso da
cerimonia: «Quando vi dicono: al comando non sarai mai solo.... Bene, sappiate che non è
così: nel comando c’è una componente di solitudine». E a questo punto il premier ha
«estratto» la citazione di uno scrittore, Dino Buzzati: «Poco più in là della sua solitudine,
c’è la persona che ami». Citazione letteraria, ma che per una volta non è parsa
appiccicaticcia: «Ciascuno di voi, poco più in là della vostra solitudine, ha una dimensione
affettiva, ma lasciatemi dire che anche nella gestione della vostra solitudine c’è un pezzo
della vostra formazione...».
Un inedito Renzi intimistico, associato al consueto Renzi volontaristico, che si concede un
tric-trac finale, di nuovo spiazzante: «Io vorrei augurarvi tanta fatica, lo so che non si
augura la fatica; vorrei augurarvi tanta paura e lo so che non si augura la paura, ma come
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ha detto Nelson Mandela, il coraggio non è la mancanza di paura, è avere paura e
vincerla». E finalmente: «Vorrei augurarvi tanta ambizione: slegata da un disegno
collettivo e da una capacità di relazione, l’ambizione è un male, ma intesa come desiderio
di puntare in alto, è tipico di chi appartiene ad una grande storia». Prolungati applausi
dagli uomini in divisa.
del 12/02/15, pag. 14
Aut aut di Berlusconi a Fitto. Lui: che fai, mi
cacci?
L’ex premier: «Ha quindici giorni per decidere, o sta dentro o sta fuori. E
se va da solo non arriva all’1,3%» L’ipotesi della sospensione dal
partito. L’eurodeputato contrattacca: stai sbagliando tutto un’altra volta
ROMA La prima volta gliel’ha detto in faccia, stavolta in contumacia. Non c’era Raffaele
Fitto, da europarlamentare nemmeno ne aveva diritto, alla riunione dei gruppi parlamentari
di ieri, e non c’era nessuno della sua folta pattuglia di parlamentari, che hanno
ostentatamente disertato la riunione. Ma Silvio Berlusconi il suo «ti caccio» lo ha
pronunciato lo stesso, anche se per ora sotto forma di ultimatum: «Non si può andare
avanti così. In un partito c’è una minoranza e una maggioranza, si vota, chi perde si
adegua. Ho usato tutta la mia pazienza, per mesi, ora basta, Fitto e i suoi decidano: hanno
una settimana, quindici giorni massimo, poi o stanno dentro e se ne vanno».
Giurano i suoi che l’uscita non fosse premeditata, e smentiscono la ricostruzione che nel
documento sulla linea politica poi fatto votare ci fosse un passaggio — poi cancellato —
che alludeva e che avrebbe permesso la cacciata dei ribelli. Ma il dibattito — più d’uno ha
stigmatizzato l’assenza e anche i voti in libertà dati dai fittiani — il nervosismo per giorni
pesantissimi, hanno portato Berlusconi a sfogarsi contro l’ex governatore — «Se va da
solo con una lista sua, dicono i sondaggi, non arriva all’1,3%» — e a ipotizzare un
provvedimento concreto: «Mi dicono che si potrebbe arrivare alla sospensione per tre
mesi».
Mentre alcuni parlamentari obiettavano che, da Statuto, la sospensione non sarebbe
prevista, e mentre Matteoli e poi Minzolini bloccavano col loro intervento il tentativo di voto
per alzata di mano sollecitato da Berlusconi sulla possibile espulsione-sospensione dei
fittiani («Non possiamo dividerci, siamo già pochi!»), ecco arrivare la nota stupita di Fitto.
«Perché dovremmo essere cacciati? Perché facciamo opposizione? Perché abbiamo
avuto ragione sulle riforme e, purtroppo, su tutto il resto? Perché troviamo surreale il
passaggio in due giorni da “Forza Renzi” a “Forza Salvini”?». Fitto, che preferisce essere
«antipatico e non abile nello sport dell’ossequio a corte», convinto che non esistano né gli
organi né le ragioni per decretare una sua espulsione o sospensione, continua a battere
sul tasto della perdita di consensi elettorali e degli errori: «Ancora una volta stai
sbagliando tutto». E incalza: «Ancora non ci hai detto cosa faremo sulle riforme».
Sì perché nella lunga riunione sfogatoio Berlusconi non ha chiarito come voterà FI:
«Decideremo alla fine», dipenderà da quante eventuali modifiche ai testi di riforma
costituzionale e legge elettorale saranno recepiti dal governo. Una linea — votata
all’unanimità — ancora non definita dunque, nonostante l’ex premier abbia ribadito che il
patto del Nazareno non c’è più, e non certo per colpa di FI ma di un Pd che «si è
rimangiato la parola data», arrivando a imporre una «scelta non condivisa» su una
«persona degna» come comunque è Mattarella.
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Un tragico errore il Nazareno? Se è così, Berlusconi se ne prende la «responsabilità, che
è tutta mia, io ho deciso, è stato un gesto nobile il mio, ci avevo creduto», per questo
basta adesso con le «recriminazioni» e i processi, perché bisogna guardare avanti. A un
partito choccato dalla ricerca immediata dell’abbraccio con la Lega, Berlusconi assicura
che non ci saranno cedimenti: con il Carroccio l’alleanza va avanti da anni («Ora saranno
anti-euro, ma vi ricordo che prima erano secessionisti...») e proseguirà, ma FI avrà
sempre «un ruolo centrale, mai subordinato», e non accetterà «alcun diktat, né sui
candidati né sulle alleanze: non esiste che loro vincono il Veneto e noi perdiamo la
Campania...».
P.D.C.
del 12/02/15, pag. 15
Così la fronda aspetta le urne per scatenare il
«big bang»
La rabbia del leader contro l’ex pupillo: è me che vuole azzerare
ROMA Quello che gli fa più male, dice continuamente ai suoi, è non capire «cosa vuole
davvero Fitto: gli ho offerto tutto, tutto, ma ha sempre e solo detto no». Ma probabilmente
la verità è un’altra: Silvio Berlusconi dentro di sé sa benissimo cosa vuole Fitto, solo che
gli riesce difficile perfino esprimerlo. Lo sa da mesi che con l’ex governatore ribelle non c’è
più spazio per una mediazione che accontenti tutti, nonostante continui a provarci,
nonostante insista nell’offrirgli ruoli sempre più di prestigio, «scegli tu quale» ha ripetuto
anche negli ultimi incontri in cui il dialogo si è fatto sempre più serrato, e sempre più tra
sordi.
Berlusconi sa, insomma, che l’unica cosa che Fitto potrebbe accettare è quella che lui non
può dargli: un partito «normale», scalabile, dove tutte le cariche sono in discussione,
perfino quella indiscutibile. La sua. E ieri, quando la miccia è stata accesa da chi nel
gruppo gli ha chiesto se era possibile continuare così, con gente che nemmeno «si
presenta e vota come gli pare», Berlusconi ha detto ciò che gli fa male pure pensare:
«Fitto chiede l’azzeramento? Ma lo dica chiaramente che vuole il mio, di azzeramento!».
Fitto, ovviamente, si guarda bene dal dirlo. Ma non c’è mossa che non appaia orientata
all’obiettivo che Berlusconi paventa. Intanto, il grande capo non lo chiama più leader ma,
come è accaduto giorni fa, «icona». Non lo mette in discussione, ma cerca di cancellare
passo dopo passo il suo mondo. Lo fa chiedendo l’azzeramento, appunto, di ogni organo,
carica, decisione che da Berlusconi promana. Lo fa contestando la linea del fondatore,
attribuendo gli errori non a lui ma a chi «gli sta intorno, e gli dice sempre di sì portandolo al
disastro». Lo fa, soprattutto, immaginando che la via imboccata dall’ex premier porterà in
tempi brevi — le Regionali potrebbero essere l’appuntamento clou — al big bang di FI e di
chi l’ha condotta finora. E, a quel punto, solo chi come lui non si sarà in qualche modo
«contaminato» con il gruppo di potere di Arcore o di San Lorenzo in Lucina o del
Parlamento potrà raccogliere il bastone del comando ed esercitarlo per ricostruire l’area
moderata.
In questo cammino si inserisce l’iniziativa dei «Ricostruttori» — primo appuntamento a
Roma il 21 del mese, che sarà seguito da altri eventi in parecchie città d’Italia —, così
simile all’apparenza a quello dei «Rottamatori» di Renzi. E in questa strategia si capiscono
gli strappi continui, il controcanto, la dichiarata contrarietà a tutto e su tutto che fa
impazzire Berlusconi.
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Ormai, i due non sono d’accordo più su nulla, nemmeno sulle ricostruzioni. «Questa
persona — così ha chiamato il ribelle Berlusconi — mi ha chiesto di convocare un ufficio di
presidenza non allargato ma con gli aventi diritto: l’ho fatto e lui non è venuto, e ha tenuto
in contemporanea una conferenza stampa!». «È falso! Gli ho detto che quell’organo
doveva azzerarlo, e comunque non mi aveva neanche invitato», la replica. «A questa
persona avevo chiesto di farmi una relazione con dei suggerimenti su come
democratizzare il partito, mai avuta risposta». «Ma quale relazione, io gliel’ho detto chiaro:
azzerare tutto, ed eleggere tutto dal basso. Lo dico in pubblico e in privato».
Uscirne diventa arduo, regole chiare non ce ne sono, tutto può succedere. Berlusconi
continua a chiedere in giro se esiste un modo per liberarsi di Fitto e dei suoi, gli hanno
spiegato che no, servono i probiviri, ma «forse una sospensione si potrebbe fare», e ieri ci
ha provato anche a far votare ai suoi l’idea: parecchie mani si sono alzate fino a quando il
saggio Matteoli — magari ricordando la drammatica rottura con Fini — non ha fermato tutti
con un intervento per chiedere «l’unità». E dire che ogni volta lo ripete: «Non voglio fare di
lui una vittima, avrebbe solo da guadagnarci». Ma tra vittime e carnefici, quando parla di
Fitto, per Berlusconi è ormai difficile vedere la differenza.
Del 12/02/2015, pag. 16
La tentazione del premier: “Se rinviamo la
delega si può trattare meglio sulle riforme”
GOFFREDO DE MARCHIS
E’ IL giorno in cui Matteo Renzi si ferma, smette di correre e apre a una doppia trattativa,
sul decreto fiscale e sulle riforme. Lo fa a modo suo. Fissando tempi certi, rilanciando
subito un ultimatum sulla legge costituzionale in discussione alla Camera. «Vogliamo una
risposta entro la sera. Se è negativa, procediamo con lo strumento della seduta fiume».
Ma è lo stesso premier, la mattina, ad attivare Maria Elena Boschi e Roberto Speranza per
aprire un “corridoio” diplomatico con Forza Italia e la Lega in modo da far sparire i 3 mila
subemendamenti, numero peraltro sempre in crescita visto che quel tipo di modifica si può
presentare in qualsiasi momento. Ieri, per dire, Brunetta ne ha presentati altri 175,
praticamente uno fotocopia dell’altro. Ostruzionismo puro. «Facciamo il possibile per
evitare l’accusa di riforme approvate a colpi di maggioranza. Poi però andiamo avanti», ha
spiegato Renzi ai suoi “ambasciatori”, affidandogli il mandato di pace. Senza però
accettare di essere messo in scacco da Forza Italia, di bloccare il processo. E quando la
risposta è stata un no, il Pd ha rispinto sull’acceleratore.
Un lungo rinvio è invece arrivato sul decreto fiscale e sulla norma più contestata, la non
punibilità sotto l’evasione del 3 per cento dell’imponibile, quella della “manina”, quella del
blitz alla vigilia di Natale, quella ribattezzata salva Silvio. «Facciamo decantare la
situazione », è stato il ragionamento del premier. «Non è il caso di mettersi controvento
all’opinione pubblica», è il ritornello ripetuto a Palazzo Chigi. Correre a perdifiato verso il
consiglio dei ministri del 20 febbraio significa anche spalancare le porte a un nuovo
scenario di scontro dentro l’esecutivo e con una parte delle forze politiche, minoranza del
Pd inclusa. Nei giorni scorsi infatti Renzi ha ricevuto il nuovo testo dal ministero
dell’Economia e leggendolo ha scoperto che era stato «ripulito» dalle norme
maggiormente contestate compresa la soglia del 3 per cento. Bisognava quindi, come la
volta scorsa (era il 24 dicembre scorso), far intervenire la “manina”, aprire un contenzioso
con Piercarlo Padoan e i tecnici di via XX settembre, rimettere il governo al centro di una
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bufera, piccola o grande che fosse. Meglio aspettare. Nel frattempo si può organizzare
meglio tutto il sistema perché sia davvero possibile, come ha spiegato il premier a
Skytg24, recuperare le cifre evase fino in fondo. Anche con la non punibilità ma facendo
scattare sanzioni pecuniarie veramente efficaci. In più, l’appuntamento del 20 si era
caricato veramente di troppe aspettative e non tutte si potevano soddisfare. Finora Renzi
ha ammesso un solo errore nei suoi 11 mesi di governo: l’inasprimento fiscale per le
partite Iva. Bene, il Tesoro aveva promesso di risolvere il caso già nel decreto Mille
proroghe poi aveva dovuto fare marcia indietro. L’obiettivo allora era correggere lo
“sbaglio” nel decreto fiscale all’esame la prossima settimana. Ma gli uffici hanno fatto
presente che nulla era cambiato nelle ultime ore: mancava la copertura per il
Milleproroghe e manca la copertura per intervenire adesso. Stavolta Renzi non ha forzato,
pur convinto che «la norma del 3 per cento non riguarda Berlusconi e questo ormai è
chiaro» e che la cosa più importante «sia recuperare i soldi punendo economicamente gli
evasori». Però non era il momento di ripetere un braccio di ferro. Con Padoan e con una
parte del suo governo, perché i Giovani turchi di Matteo Orfini e Andrea Orlando gli
avevano espresso la loro posizione: valutiamo bene tutte le opzioni e prendiamo tempo,
se necessario. A fare definitivamente chiarezza è arrivata una «tecnicalità », come la
chiama l’ex sindaco di Firenze. Non è detto infatti che approvare il decreto il 20 avrebbe
consentito di rientrare nei tempi della delega fiscale, che scade il 27 marzo. Fra passaggi
vari (esame non vincolante delle commissioni competenti e vaglio istituzionale) il rischio
era di sforare il termine. Chiedere una proroga è la soluzione per «far decantare» la
vicenda e preparare al meglio il dossier. Superata la partita del Quirinale, Renzi è alla
prese con la ridefinizione degli equilibri della maggioranza. Ha bisogno, in questo
momento, di rinsaldare i bulloni fuori dal recinto del patto del Nazareno. Di mettersi al
centro di un nuovo assetto che comprende a pieno titolo i dissidenti del suo partito, i
fuoriusciti del Movimento 5 stelle, i nuovi arrivi nel Pd. La direzione di lunedì è il primo
passaggio per mettere alla prova un sistema che da una parte ha rafforzato la leadership
del premier e dall’altra ha portato Forza Italia a sfilarsi da un ruolo di sponda che andava
oltre le riforme. Quando Renzi ripete «abbiamo i numeri anche da soli» in qualche modo
deve fare i conti con questo cambio di quadro. Il rinvio del decreto silenzia la polemica nel
Pd. «Io continuo a pensare che il decreto andava approvato con una robusta correzione.
Dopo di che, se lo slittamento consente una maggiore riflessione e la cancellazione di
concetti inaccettabili, meglio così», dice Stefano Fassina. Un rinvio che evita il testo votato
il 24 dicembre, spiega l’ex viceministro, non può non essere una buona notizia.
Del 12/02/2015, pag. 7
Negazionismo, aggravante della legge Reale.
Il Senato approva
Eleonora Martini
La parola Shoah entra per la prima volta nella legge italiana. Dopo un lungo e travagliato
iter, ieri il Senato ha approvato senza emendarlo il testo di legge proposto dalla commissione Giustizia che introduce l’aggravante del negazionismo al reato di odio razziale etnico
e religioso contemplato nella legge Reale-Mancino. Se il ddl, che ieri ha ottenuto i sì di 234
senatori, 8 astensioni e 3 no, verrà approvato anche dalla Camera, alle pene previste
dall’articolo 3 della legge 654/1975 sarà applicabile un’aggravante fino a tre anni di reclusione per chiunque neghi pubblicamente «in parte o del tutto» la Shoah, i crimini di genoci28
dio, di guerra o contro l’umanità, come definiti dallo Statuto della Corte penale
internazionale. Abbandonata dunque l’ipotesi di inserire una nuova fattispecie nel codice
penale, come prevedeva il testo precedente proposto dalla commissione quando era prevista la sede deliberante, il ddl, che si compone di un unico articolo, tenta però anche di
arginare i rischi di perseguire i reati di opinione, circoscrivendo la rilevanza penale solo
all’istigazione pubblica — anche attraverso i mezzi informatici e il web — del razzismo
e della xenofobia. Allo stesso tempo, la pena massima per chi istiga pubblicamente a commettere delitti derivanti dall’odio, dalla discriminazione e dal negazionismo, viene ridotta da
cinque a tre anni. Un provvedimento, quello di ieri, accolto da Renzo Gattegna, presidente
dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane, come «un baluardo per la difesa della libertà
di tutti». Soddisfatto anche il direttore del Centro Wiesenthal di Gerusalemme, Efraim
Zuroff : «Sono leggi importanti, specialmente nei paesi dove la Shoah ha avuto luogo»,
commenta. Anche se si rammarica che ancora «la Shoah abbia bisogno di protezione
legale». A Gattegna, il presidente del Senato Pietro Grasso ha inviato una lettera definendo la giornata di ieri «importante per le Istituzioni del nostro Paese». Istituzioni che
mostrano così l’intenzione a «compiere un ulteriore e decisivo passo nel contrasto a tutte
le forme di offesa alle vittime e di negazione di quella terribile pagina della nostra storia
che è stata la Shoah». Ma l’«amplissima maggioranza» con cui è stato approvato il testo
di legge, «quasi all’unanimità», come ricorda lo stesso Grasso, non ha contenuto però il
voto della senatrice a vita Elena Cattaneo che, pur definendo i negazionisti dei «ciarlatani», gente che «specula sulla pelle e sul dolore degli altri», ha deciso di astenersi per
non rischiare, spiega, di dar loro il ruolo di martiri incompresi. «Facciamoli parlare — dice
— e li sbugiarderemo punto dopo punto, ma all’interno di una sede scientifica». D’altronde,
aggiunge Cattaneo, «nei paesi che hanno adottato leggi contro il negazionismo, i media
sono diventati cassa di risonanza per queste teorie». Per la scienziata, poi, «non è ammissibile imporre limiti alla ricerca e allo studio di una teoria». Più o meno con le stesse motivazioni si sono astenuti gli altri due: Carlo Giovanardi del Ncd e Enrico Buemi del Psi.
Per Grasso invece «il Senato ha svolto un lavoro meticoloso, esplorando e approfondendo
tutti gli aspetti» «di una materia così complessa e giungendo infine alla stesura di un testo
condiviso ed equilibrato», che ha saputo «mantenere intatta la libera espressione delle
opinioni e della ricerca storica».
del 12/02/15, pag. 15
Si vota: le regole del gioco cambiano in 7
Regioni su 7
Dal premio «ad personam» alla tagliola anti piccoli le leggi che fanno
infuriare le opposizioni
Milano Si litiga anche sulle regole del gioco. In vista del voto di maggio per le Regionali, le
discussioni non riguardano solo chi scenderà in campo (candidati e alleanze), ma anche le
leggi elettorali. I consigli delle sette Regioni chiamate alle urne le stanno riscrivendo, o lo
hanno appena fatto. E, quasi ovunque, maggioranza e opposizione si lanciano reciproci
strali: l’accusa che si sente, spesso, è che chi pregusta la vittoria voglia blindarla. Alcuni
interventi sono necessari: bisogna adeguarsi al taglio del numero dei consiglieri. E stanno
scomparendo, sull’onda degli scandali sulle spese pazze, i listini bloccati. Però, avviata la
riscrittura, tutto è possibile.
29
In Campania è stata battaglia contro un emendamento, presentato dalla maggioranza di
Caldoro, che voleva portare dal 3 al 10% la soglia di sbarramento per le liste singole. Una
tagliola che avrebbe scongiurato le tentazioni di fuga dalle coalizioni (per esempio dei
centristi) e alzato l’asticella per chi di alleanze non ne fa mai, come il M5S («Non ci
lasceremo intimidire», ha risposto Di Maio). Poi quasi tutti, nell’opposizione, hanno gridato
al «golpe». E la norma è stata ritirata.
È invece ancora guerra in Puglia. Dove Michele Emiliano ha detto ai suoi, i consiglieri pd,
che chi voterà contro la doppia preferenza uomo/donna potrebbe non essere ricandidato.
E l’opposizione ha chiesto l’intervento del capo dello Stato: «Minacce inaccettabili.
Secondo la Costituzione i consiglieri non possono essere chiamati a rispondere dei voti»,
per il capogruppo FI Ignazio Zullo. Ma lo scontro riguarda anche altro. Lo sbarramento, ora
al 4%, che si vuole abbassare, o alzare, in base ai calcoli. E il premio di maggioranza: la
tentazione del Pd è di collegare il bonus al vincitore (che varia: più voti prendi, più alto il
premio) alle preferenze ottenute dal candidato presidente e non soltanto a quelle delle
liste. Perché? A sentire l’opposizione, che parla di «legge ad personam», il motivo è che si
prefigura che Emiliano prenda più voti della sua coalizione e si voglia far pesare il risultato.
Intanto la legge tarda ad arrivare in consiglio.
Così come tarda la legge elettorale in Liguria. Dove, da statuto, è necessaria una
maggioranza qualificata (27 su 4o consiglieri) che non si è mai trovata: perché
sull’abolizione del listino sono tutti d’accordo, ma quando ci si trova a votare l’accordo
scompare.
In Veneto è stata bagarre in Aula per l’approvazione, il 22 gennaio, della legge elettorale.
Lo scontro riguardava la doppia preferenza di genere, che non è passata, e il vincolo dei
due mandati per i consiglieri. Questo, sì, approvato, ma in versione soft: non sarà
retroattivo, varrà dal 2025 e le ricandidature intanto sono salve.
Renato Benedetto
del 12/02/15, pag. 26
A rischio tra cavilli e rinvii il processo sulle
case antisismiche
L’Aquila, i dispositivi installati per rilevare i terremoti sono difettosi
Cinque anni e non parte mai: l’ipotesi che il processo per gli isolatori a rischio delle
C.a.s.e. «antisismiche» de L’Aquila, di rinvio in rinvio, finisca in prescrizione sta
diventando un incubo. Quanti vivono in quelle abitazioni e gli italiani che pagarono cifre
spropositate per la «ricostruzione modello» (sic…) hanno diritto a sapere: gli imputati sono
innocenti? Vadano assolti. Ma se sono colpevoli devono pagarla. E pagarla cara.
Un passo indietro. Venti giorni dopo il terremoto del 6 aprile 2009 il governo Berlusconi
vara il progetto C.a.s.e. per costruire 19 «new town» per un totale di 4.600 appartamenti
antisismici. Per capirci: moderne palafitte su innumerevoli pilastri che in alto, dove il
«capitello» regge la piastra di cemento del pavimento, sono dotate di un meccanismo di
acciaio in grado di attenuare con l’elasticità l’impatto delle scosse. Una soluzione giusta.
Purché sia tutto scientificamente in regola. Sei mesi dopo, un’inchiesta di Ezio Cerasi e
Claudio Borrelli su Rainews24 denuncia invece molti dubbi sulla affidabilità di una parte
dei 7.368 «isolatori a pendolo scorrevoli» approvati dalla Protezione civile.
Gianmario Benzoni, un ingegnere italiano che insegna da anni alla Università di San
Diego, dove dirige il laboratorio di test antisismici della Caltrans, laboratorio
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all’avanguardia mondiale data l’attenzione dedicata dalla California all’ipotesi del «Big
One», spiega infatti che «la serie di test deve essere molto più estesa di quelle effettuate
all’Eucentre di Pavia, perché l’isolatore a pendolo o funziona perfettamente o non funziona
affatto».
Salta fuori così che soltanto uno dei due fornitori degli isolatori, la Fip di Padova, ha
ottenuto il «bollino» Eta ( European technical approval ) dopo aver superato i test di
laboratorio che sollecitano le strutture simulando strappi tellurici in tre direzioni, come nei
terremoti veri. E che i laboratori Eucentre di Pavia dove sono stati testati gli isolatori Alga,
messi sotto accusa, hanno come referente lo stesso Gian Michele Calvi che ha la
supervisione di tutto il progetto C.a.s.e. aquilano.
Nell’aprile 2010 la magistratura rompe gli indugi, acquisisce il servizio giornalistico e apre
un’inchiesta ipotizzando una turbativa d’asta e una frode in pubbliche forniture. Il tempo
che le indagini mettano a fuoco le responsabilità e l’avvocato dell’azienda milanese
Stefano Rossi, ricorda un’ Ansa , riconosce implicitamente che qualcosa non è andato per
il verso giusto tanto che «parla di “oltre 2.000 dispositivi” che la stessa Alga intende
sostituire prima dell’esito dell’incidente probatorio previsto ad ottobre».
La perizia, scritta dai docenti Alessandro De Stefano e Bernardino Chiaia del Politecnico di
Torino, è netta: gli isolatori forniti dalla Alga di Milano «presentano materiali diversi da
quelli forniti in gara», l’acciaio non è come previsto di 2,5 millimetri ma solo di 2, esistono
«criticità ai fini del funzionamento e della sicurezza» e altro ancora. I dispositivi, infatti,
«hanno mostrato maggiore criticità, legata soprattutto al fenomeno “stick-slip”». Per
banalizzare: sotto l’urto di un terremoto il meccanismo, se non è perfetto, può
«ingripparsi». E a quel punto non serve a niente: «La campagna di test sul dispositivo Alga
Assergi 1610 ha indotto un grave danneggiamento del dispositivo stesso spiegabile come
conseguenza del fenomeno stick-slip».
Per carità, aggiunge il perito, «nonostante ciò il dispositivo danneggiato si è rivelato
sufficientemente robusto da giungere positivamente alla conclusione dell’intero
programma del protocollo di “Serie 2”». Ma «la positiva performance di un isolatore
danneggiato pone, in ogni caso, un interrogativo sull’affidabilità». Tanto più che le
normative nazionali o europee vigenti «non sempre possono essere sufficientemente
rappresentative e cautelative» perché «non includono componenti a frequenza
relativamente elevata come quelle presenti nei terremoti reali». Le foto a pagina 98 della
perizia, che pubblichiamo, dicono tutto: sotto sforzo nei laboratori californiani di San Diego,
il meccanismo si è rotto.
Nell’ottobre 2013 il tribunale aquilano scagiona la seconda azienda coinvolta nelle
forniture e condanna a un anno di carcere (rito abbreviato) l’ex braccio destro di Guido
Bertolaso e responsabile della realizzazione del progetto C.a.s.e. Mauro Dolce.
Parallelamente, il gip rinvia a giudizio i due protagonisti principali, cioè il direttore dei lavori
Gian Michele Calvi (già tirato in ballo per il contestatissimo disinquinamento alla
Maddalena) e Agostino Marioni, l’amministratore di quella Alga Spa che fornì 4.899 degli
isolatori finiti sotto inchiesta.
Da quel momento, un tormentone. Convocazioni di testimoni e periti («andiamo avanti e
indietro senza che ci facciano la grazia di avvertirci», accusa il sismologo Alessandro
Martelli, dell’ International Seismic Safety Organization , uno dei primi a esprimere dubbi),
richieste di aggiornamento per «mancata notifica», eccezioni procedurali, cavilli, rinvii… E
non c’è verso che il dibattimento entri finalmente nel vivo.
Essere pessimisti è il minimo: il processo per l’incendio di una grande pineta vicino alla
città scoppiato nel 2007 a causa degli errori e della superficialità degli addetti di un
cantiere autostradale, spiega sconfortato l’avvocato Lorenzo Cappa, che tutela i
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terremotati del «Comitato 3 e 32», non è ancora arrivato all’udienza preliminare. Dopo
quasi otto anni.
Va da sé che il rischio che anche lo scandalo degli isolatori evapori nel nulla è sempre più
alto: la legge prevede che il reato si prescriva entro un termine pari alla pena massima
stabilita per il fatto, 5 anni nel caso dell’accusa di frode nelle pubbliche forniture di questo
processo, sostengono gli ambientalisti. E sulle date si annuncia un braccio di ferro. Certo,
spiega l’avvocato Cappa, possibili «eventi interruttivi» potrebbero portare a un
allungamento fino a 7 anni e mezzo. Cassazione compresa, però. E per quella data,
secondo AbruzzoWeb , «sarà già tanto se l’attuale giudice sarà riuscito a emettere la
sentenza di primo grado…».
Il punto è che non di parla di un processo qualunque. Per quanto fossero sfacciate le
spese per altre «emergenze» aquilane, come le 45 ciotoline d’argento di Bulgari da 500
euro l’una o le penne stilografiche da 433 euro l’una per gli ospiti del G8, i soldi spesi per
gli investimenti sugli isolatori antisismici sono molto più importanti. Dal loro funzionamento,
dalla loro qualità, dalla loro manutenzione dipende la pelle stessa dei terremotati ai quali
era stata garantita (oltre allo champagne nel frigo…) una sicurezza pressoché assoluta. Lo
Stato deve mettere la faccia, in questo processo. E guai se, per sciatteria o per
distrazione, la dovesse perdere…
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LEGALITA’DEMOCRATICA
Del 12/02/2015, pag. 20
Corruzione, prescrizione più lunga
Contro il reato anche un anno in più per l’appello. Oggi il governo
presenta il testo, esclusi i processi in corso La protesta del Csm: serve
una proroga per il taglio dell’età pensionabile dei magistrati
LIANA MILELLA
ROMA .
Il falso in bilancio non è ancora chiuso, anche se si intravede una soluzione, soglia al 3%,
e una pena più bassa (1-3 anni, anziché 2-6 anni), ma comunque una pena. M5S sfida il
Guardasigilli Andrea Orlando sui tempi, ma la prossima settimana potrebbe essere quella
buona. Si smuove subito, invece, la prescrizione. Lunga riunione in via Arenula, e apertura
concreta sulla corruzione che potrebbe avere un tempo di prescrizione più lungo e
soprattutto un anno in più per l’appello. Su questo Orlando apre. Oggi il governo presenta
il suo testo, prescrizione sospesa dopo il primo grado e “processo” breve per appello (2
anni) e Cassazione (1 anno). Le novità non si applicheranno ai processi in corso e una
norma transitoria lo renderà esplicito. I processi di Berlusconi non saranno toccati, a
partire da quello di Napoli sulla compravendita dei senatori che “muore” in autunno.
Un favore all’ex premier? Orlando spiega il passo del governo: «Per la prescrizione stiamo
facendo esattamente quello che abbiamo fatto per tutte le altre norme, dalla corruzione
alla responsabilità civile. Presentiamo il testo approvato il 29 agosto. Lì la norma
transitoria c’era. Cambiare adesso sarebbe come commettere un fallo di reazione». Una
battuta da leggere così: la norma c’era quando era in vigore il patto del Nazareno, toglierla
ora sarebbe una reazione ostile alla svolta di Fi. Sarebbe pure un gesto inutile perché
tanto, come dice la Pd Donatella Ferranti, «la nuova prescrizione non si applica ai processi
in corso, in quanto norma più sfavorevole». Norma «ultronea» dice Ferranti, e tutti ne sono
convinti, tant’è che il ministro, nella discussione sugli emendamenti che comincia oggi in
commissione Giustizia della Camera, potrebbe decidere di eliminarla. Come gli garantisce
Ferranti, autrice del ddl sulla prescrizione, e che ha sondato più di un noto giurista, «è
escluso che si applichi ai processi in corso». Ncd, col sottosegretario alla Giustizia Enrico
Costa, vuole mantenerla. Veniamo alla corruzione. Dove il Pd — da Ferranti a Beppe
Lumia — punta i piedi. Lumia chiede un doppio binario, prescrizione doppia per la
corruzione rispetto agli altri reati. Ferranti sposa il testo Grasso, la prescrizione per la
corruzione si calcola col massimo della pena più la metà, anziché un quarto. È contro Ncd
perché, dice Costa, «ci sono già gli aumenti di pena del governo, avremo una prescrizione
che passa da 10 a 15 anni, il 55% in più, non si può andare oltre».
La novità su cui Orlando ha già aperto è prevedere per la corruzione un anno in più per il
processo d’appello che potrà durare non solo due, ma tre anni. Ma il punto, come dice il
responsabile Giustizia del Pd David Ermini, è soprattutto «chiudere in fretta, perché non si
può più lasciare che il tempo sia il vero giudice dei reati».
Nella riunione, contemporanea alla seduta del Csm con Mattarella, è rimbalzata la
protesta del vice presidente del Csm Giovanni Legnini e del primo presidente della
Cassazione Giorgio Santacroce sul taglio dell’età pensionabile, portata dal governo da 75
a 70, e che richiede al Csm 500 nomine. Legnini sollecita una proroga. Il governo non la
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metterà nel decreto Milleproroghe. Il consiglio che arriva al Csm da via Arenula è:
dimostrare che state lavorando in fretta, poi vedremo.
del 12/02/15, pag. 12
Prescrizione, la riforma
non sfavorirà Berlusconi
Varrà solo per il futuro; e Silvio ha processi che stanno per estinguersi
Francesco Grignetti
Nel giorno della grande spaccatura del centrodestra, un piccolo sollievo per il Cavaliere
arriva dal versante della giustizia: la maggioranza, al termine di un vertice alla Camera,
alla presenza del ministro Andrea Orlando e del viceministro Enrico Costa, ha deciso che
la riforma della prescrizione potrà valere solo per i reati del futuro. Il risultato concreto è
che i conteggi più sfavorevoli agli imputati, come previsto dalla riforma, non incideranno
nei processi in corso.
E come si sa, un certo Berlusconi ha molte questioni giudiziarie aperte - a Napoli, come a
Bari, e a Milano - diverse delle quali sono a un soffio dal cadere in prescrizione. Se gli
avessero cambiato le regole in corsa, ne avrebbe ricavato più di un dolore.
I processi di Berlusconi
Certo, quella di ieri, presenti i capigruppo nelle commissioni Giustizia, è una decisione che
inciderà su milioni di processi, non soltanto su quelli di Silvio Berlusconi. Impedirà di dover
riconteggiare tutti i tempi di prescrizione nei dibattimenti in corso. Inevitabilmente però è ai
processi di Berlusconi che si guarderà. Questo era ben chiaro anche a chi ha partecipato
alla riunione. Appunto soppesando i pro e i contro, c’è stato chi ha fatto un ragionamento
squisitamente politico: «Attenti, se ora all’improvviso decidiamo di far valere la riforma per i
processi in corso e togliamo la norma transitoria ci sarà chi dirà che è la nostra
rappresaglia contro Forza Italia che infrange il Patto del Nazareno. Meglio lasciare le cose
come aveva deciso il governo già mesi fa».
Una questione controversa
Tecnicamente parlando, gli esperti di diritto avevano messo in luce che la modifica della
prescrizione avrebbe avuto ricadute sia sul diritto sostanziali che processuale. Con esiti
opposti. E qui nasceva la confusione. Ma allora, la riforma avrebbe sconvolto l’andamento
dei processi in corso oppure no?
I contrasti dei giorni scorsi
La commissione Giustizia della Camera nei giorni scorsi - con il voto del Pd e di Scelta
civica ma non quello di Ncd e scatenando le ire di Forza Italia - aveva voluto licenziare un
testo che non prevedeva parola sul punto, lasciando intendere che la riforma avrebbe
potuto anche intervenire sui processi aperti.
Il testo del governo, invece, conteneva una norma transitoria per esplicitare che la riforma
non avrebbe inciso sui procedimenti aperti, bensì soltanto su quelli futuri. Ora la
maggioranza fa suo quel testo, frutto di una faticosa mediazione avvenuta dentro il
governo, e fin qui platealmente appoggiato anche da Forza Italia in versione concertante.
È stato deciso che il testo del governo diverrà un super-emendamento al ddl della
commissione Giustizia.
Restano in sospeso, comunque, alcuni dettagli non da poco. La proposta del governo
allunga la prescrizione per il reato di corruzione, passandola da 10 a 15 anni e mezzo. Un
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pezzo del Pd vorrebbe ancora di più, creando un doppio binario per i reati contro la
Pubblica amministrazione.
Ermini infastidito
David Ermini, responsabile Giustizia del Pd, renziano di ferro, è visibilmente infastidito dal
tono di certe polemiche. «Con la norma transitoria - scandisce - abbiamo specificato un
andamento giurisprudenziale ormai consolidato da tempo».
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
Del 12/02/2015, pag. 2
Nel Mediterraneo la morte dell’Europa
Immigrazione. Un'altra ecatombe nel canale di Sicilia. Almeno 330
migranti sono morti inghiottiti dal mare dopo essersi imbarcati su
quattro gommoni partiti dalla Libia. Sono stati minacciati con le armi e
obbligati a sfidare un mare con onde alte fino a otto metri. Giusi
Nicolini, sindaco di Lampedusa, per l'ennesima volta lancia un appello
disperato: "Non voglio più raccogliere morti, la nostra battaglia è quella
di questi disperati, non so più a chi rivolgermi, so che il Papa ha già
parlato ma forse farebbe bene a far sentire ancora la sua voce"
Luca Fazio
Ancora centinaia di cadaveri. Un altro omicidio di massa che verrà derubricato con
un’alzata di spalle. La fossa comune che un giorno farà vergognare l’Europa e l’Italia
è sempre il mare Mediterraneo. Diceva un tale con uno spiccato senso per la tragedia che
se Noè avesse avuto il dono di leggere il futuro avrebbe affondato la sua barca. Domenica, nel canale di Sicilia, perso tra onde enormi, non c’era solo quel gommone avvistato
dalla Guardia costiera con a bordo 105 persone. Ce n’erano altri tre.
Due sono stati soccorsi da altre imbarcazioni proprio mentre sulla motovedetta 29 migranti
stavano morendo di freddo: sul primo c’erano solo due persone, sul secondo sette. Ne
mancavano almeno duecento: le imbarcazioni che salpano dalla Libia vengono sempre
caricate a forza condannando a morte quasi sicura i migranti che tentano la fortuna anche
con un mare impossibile. Un terzo è sparito nel nulla. A dare le giuste proporzioni di una
tragedia che è inutile definire annunciata sono stati altri nove sopravvissuti che ieri all’alba
sono sbarcati sulle coste siciliane. Hanno raccontato di un quarto gommone inghiottito dal
mare. La conta finale dei cadaveri lascia senza parole. Sono trecentotrenta. Come a Lampedusa il 3 ottobre 2013, ma questa volta con meno lacrime. Quel giorno il ministro Alfano
sentì almeno il bisogno di declamare: “A Lampedusa — disse — ho visto 103 corpi, ho
visto una scena raccapricciante. Una scena che offende l’Occidente. Lampedusa è la frontiera dell’Europa, queste persone hanno sognato libertà. L’Europa deve reagire con forza
e prendere in mano la situazione”. Dopo sedici mesi nulla è cambiato. Lampedusa è sempre più sola e l’idea della prossima estate mette i brividi.
Il sindaco delle isole Pelagie, Giusi Nicolini, conosce la sua parte a memoria e per dovere
non si stanca di ripeterla. La intervistano sul molo della sua isola, di fianco alle automobili
parcheggiate che aspettano di caricare le bare dirette a Porto Empedocle. Solo di un
uomo si conosce il nome, gli altri saranno un numero su una lapide. Il sindaco guarda la
telecamera, ma non sa più a chi rivolgersi: “Questa tragedia dimostra a tutti che la situazione è gravissima, c’è una pressione molto forte, è la criminalità organizzata che decide
quando e quanti farne partire, non hanno scrupoli. La primavera e l’estate saranno molto
dure, io non voglio che la mia isola diventi il cimitero del Mediterraneo, non voglio più raccogliere morti. La battaglia di Lampedusa è quella di questi disperati, la loro salvezza è la
nostra salvezza. Non so più a chi rivolgermi, il Papa ha già parlato ma forse farebbe bene
a far sentire ancora la sua voce”. Il suo appello è destinato a cadere nel vuoto: “Spero che
l’Europa capisca che i soldi di Triton potrebbero essere spesi in maniera più utile, per
esempio facendo viaggiare in aereo chi ha diritto di asilo. Triton è un’operazione di polizia,
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ma in questo momento nel Mediterraneo c’è una grande emergenza umanitaria, non
l’invasione di un popolo armato. Se non si reagisce nella maniera giusta, finiremo per
subire enormi tragedie come queste, che non devono diventare ordinarie”.
I racconti dei sopravvissuti li abbiamo già ascoltati altre volte e per questo dovrebbero
risultare ancora più insopportabili. “Da alcune settimane — hanno detto due ragazzi del
Mali — eravamo in 460 ammassati in un campo vicino a Tripoli in attesa di partire. Sabato
scorso i miliziani ci hanno detto di prepararci e ci hanno trasferito a Garbouli, una spiaggia
non lontano dalla capitale della Libia. Eravamo circa 430, distribuiti su quattro gommoni
con motori da 40 cavalli e con una decina di taniche di carburante”. Il mare faceva paura
anche a riva, ma a quel punto nessuno avrebbe potuto rifiutarsi si partire per l’Italia. Più
che un viaggio, i due maliani hanno raccontano un’esecuzione di massa: “Ci hanno assicurato che le condizioni del mare erano buone, ma in ogni caso nessuno avrebbe potuto
rifiutarsi o tornare indietro: siamo stati costretti a forza ad imbarcarci sotto la minaccia
della armi”. C’erano anche molte donne. E bambini. Altri testimoni hanno raccontato di
essere stati presi a bastonate, derubati e caricati a forza. Poi, la tragedia. Un gommone
è arrivato con il carico pieno (e ventinove morti assiderati). Dagli altri due sono uscite vive
solo nove persone, l’ultimo è scomparso tra le onde. Per questa traversata ogni migrante
ha pagato ai trafficanti 800 dollari, circa 650 euro.
Flavio Di Giacomo dell’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) è tra quelli
che hanno raccolto le testimonianze. “I migranti — ha riferito — sono tutti giovani uomini,
l’età media è di circa 25 anni, provengono dai paesi sub sahariani, in particolare da Mali,
Costa d’Avorio, Senegal e Niger. Per alcuni di loro la Libia era un paese di transito, mentre
altri ci lavoravano da tempo, infatti parlano un po’ di arabo. Questa tragedia conferma
ancora una volta come i trafficanti trattino i migranti, soprattutto i sub sahariani, come un
carico umano senza valore. Hanno fatto partire oltre 420 persone con condizioni di mare
assolutamente proibitive, di fatto mandando la gente a morire”.
Nelle prime cinque settimane del 2015, da quando è in vigore l’operazione Triton, gli sbarchi sono aumentati del 60% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Il peggio, se
possibile, deve ancora venire.
Del 12/02/2015, pag. 2
“Via a una mini-Mare nostrum”, il piano per
fermare la strage
FRANCESCO BEI
Un nuovo, piccolo, dispositivo militare per evitare nuove tragedie. Una “mini-Mare
Nostrum”, da affiancare a Triton, per un periodo limitato. In attesa che l’Europa faccia la
sua parte. Al momento si tratta solo di un’ipotesi di studio, ma nel governo — dopo lo choc
di quei trecento cadaveri dispersi nel canale di Sicilia — si sta valutando l’idea di affrontare
l’emergenza migranti mettendo in campo nuovamente la Marina militare. Potenziando
Triton, esattamente come venne fatto per tutto il mese di dicembre dopo la chiusura di
Mare Nostrum. Nessuna decisione operativa è stata ancora presa, ma l’avvicinarsi della
bella stagione e il prevedibile aumento delle partenze dalle coste libiche mette il governo
di fronte a una decisione difficile. Renzi tuttavia respinge le richieste di tornare al
dispiegamento della Marina come nel 2013. E bolla come «ciniche strumentalizzazioni » le
richieste di ripristinare Mare Nostrum. Sondando i renziani non è difficile scoprire chi siano
i bersagli del premier. Certo i grillini e Sel hanno cavalcato la polemica dopo la nuova
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strage. Ma il premier ha soprattutto in mente i suoi avversari interni, che «non hanno perso
un minuto per farsi sotto». Impossibile non pensare a Enrico Letta, silente da mesi, ieri di
nuovo sulla scena con un tweet proprio dedicato a Mare Nostrum. O Pierluigi Bersani, che
ha lanciato l’hastag #Ripristinaremarenostrum su Twitter, perché «da sotto il mare ci
chiedono dove sia finita la nostra umanità ». «Mi vogliono caricare sulle spalle questi morti
— si sfoga il premier in privato — ma tutti sanno bene che, se non si risolve il caos in
Libia, queste tragedie sono destinate a ripetersi. Con o senza Mare Nostrum». E non è un
caso se fonti del Viminale, d’intesa con palazzo Chigi, abbiano ricordato in serata che «per
l’intero periodo in cui si è svolta l’operazione Mare Nostrum vi sia stato un numero
complessivo di oltre 3.300 vittime». Insomma, non era quella la soluzione al problema, ma
soltanto un’operazione umanitaria destinata a tamponare un’emergenza. Operazione
peraltro estremamente costosa per un singolo paese come l’Italia: 300 mila euro al giorno,
9,5 milioni di euro al mese, 114 milioni di euro all’anno. Dunque che fare? Per Renzi la
risposta deve essere necessariamente europea. Per questo oggi, benché il Consiglio
europeo sia dedicato principalmente alla crisi Ucraina, il premier nel suo intervento
ricorderà ai partner che la Libia è una ferita infetta che rischia di contagiare tutto il
Continente. «Siamo tutti convinti che l’Italia da sola non ce la possa fare — spiega Nicola
Latorre, presidente della commissione Difesa — ma dobbiamo evitare di delegittimare
Triton fornendo pretesti a quei paesi che già l’hanno dovuta subire e non volevano
nemmeno quella ». Per cui la strada diplomatica messa in campo dal governo punterà a
rafforzare Frontex e dotarla di maggiori fondi e nuove regole d’ingaggio. In cambio l’Italia
sarebbe disposta appunto a valutare, per un periodo limitato di tempo, un affiancamento di
Triton con i propri mezzi. Sul fronte immigrazione Renzi ha schierato tutte le sue pedine
sulla scacchiera. Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ieri a New York ha chiesto il
sostegno politico di Hillary Clinton. Anche per un’eventuale intervento internazionale in
Libia. Ma in campo è scesa anche Federica Mogherini come Alto rappresentante per la
politica estera Ue. Agli inizi di marzo Mogherini, che è anche vicepresidente della
Commissione Junker, ha fissato un primo dibattito di orientamento sull’immigrazione. E i
suoi uffici stanno svolgendo «uno studio di fattibilità » sul pattugliamento delle frontiere
marittime europee, una funzione che andrebbe aldilà del mandato attuale di Frontex.
«Dobbiamo lavorare — osserva Mogherini — su tutti i fronti. Interno, per il salvataggio in
mare dei migranti e per fermare chi si arricchisce sulla disperazione altrui. E sul versante
esterno, che è altrettanto complesso ed è anche un investimento sul futuro, su cui intendo
impegnare i ministri degli Esteri». Il focus principale è sempre sulla Libia: «Se non
risolviamo una volta per tutto conflitti nuovi o che da troppo tempo ormai devastano Medio
Oriente e Nord Africa — penso alla Siria e alla Libia prima di tutto — non riusciremo a fare
altro che rincorrere le emergenze».
Del 12/02/2015, pag. 4
L’inchiesta.
Mezzi ridotti, aree di sorveglianza ad appena 30 miglia dalle nostre
coste. E i trafficanti di uomini che sfruttano la situazione “fuori
controllo” di Tripoli costringendo i migranti a partire comunque. Ecco
perché la missione europea che ha sostituito Mare Nostrum, due mesi
dopo il suo inizio è già un fallimento
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Dal caos della Libia ai mancati soccorsi tutte
le falle di Triton
FABIO TONACCI FRANCESCO VIVIANO
Triton non funziona perché non poteva funzionare. Perché è nata come operazione di
pattugliamento e non di soccorso, e tale è rimasta nonostante i morti. Perché i mezzi
impiegati, inferiori per dimensioni e numero rispetto a quelli di Mare Nostrum, non bastano
durante le emergenze nel Canale di Sicilia. E perché di quel “principio di deterrenza” su
cui si basa, secondo il quale retrocedendo l’area sorvegliata a 30 miglia dalle coste italiane
sarebbero diminuite le partenze dalla Libia, Eremias Ghermay, Abdel Raouf Qara e gli altri
trafficanti se ne infischiano.
LA SAR DI COMPETENZA
Loro continuano a fare quello che hanno sempre fatto, Triton o non Triton: sulle spiagge
libiche inzeppano un gommone di disperati a cui danno un satellitare e un numero di
telefono da chiamare, quello della Guardia Costiera. Li costringono a partire anche se il
mare è forza 8 e ci sono onde alte 9 metri, come è successo per i gommoni dell’ultima
strage. Ora, in quel tratto di Mediterraneo, Frontex (agenzia europea che gestisce Triton),
le convenzioni nautiche e gli accordi tracciano linee che dividono il mare in zone di
soccorso: le Sar, aree Search and Rescue in capo a ogni Stato. Ma si sono rivelate inutili.
Tocca alla capitaneria o alle altre forze di polizia italiane a intervenire. Un esempio? 8
febbraio: il primo gommone con 104 migranti (di cui poi 29 morti di freddo) intercettato da
due motovedette italiane a 58 miglia a nord di Tripoli, il secondo (quello semi-affondato
con sole 2 persone a bordo delle 105 partite) avvistato dall’aereo “Manta 10-03” della
Guardia Costiera a 71 miglia a nord est da Tripoli, il terzo (con 7 superstiti) soccorso, oltre
che da un mercantile di passaggio, da due motovedette della capitaneria più o meno alla
stessa distanza. Fuori dalla Sar di nostra competenza.
I DISPOSITIVI NAVALI
La verità è che, con Malta senza risorse economiche e la Libia in mano alle katibe, bande
tra le quali alcune «a forte connotazione jihadista», come sostiene un report della nostra
intelligence, chi si prende l’onere dei soccorsi è sempre e solo l’Italia. Col risultato che
Triton, entrata a regime il 1 gennaio 2015, finisce per ribaltare l’effetto cui puntava il
ministro dell’Interno Alfano, ovvero responsabilizzare gli altri paesi Ue nel controllo del
confine meridionale dell’Europa. «Triton non è all’altezza, l’Europa ha bisogno di un
sistema di ricerca e salvataggio efficace», dice il commissario dei diritti umani del
Consiglio d’Europa Nils Muiznieks. Triton, dunque, è un fallimento. Non disincentiva i
migranti, non aumenta l’efficacia dei salvataggi. Lo dicono i fatti. Mare Nostrum costava al
governo italiano 9 milioni di euro al mese, ma dispiegava, in una fascia che si allargava
fino a poche miglia dalle coste libiche, una nave e due corvette della Marina militare, 2
pattugliatori, 6 elicotteri, 2 aerei droni e circa 700 militari. Triton la paga Frontex, però i
finanziamenti sono di appena 2,9 milioni di euro al mese, divisi per i 17 paesi che offrono il
loro sostegno. E il dispositivo navale varia a seconda dei soldi. Oggi dentro le trenta miglia
attorno alla Sicilia, Lampedusa e Pantelleria ci sono 4 motovedette (2 della Guardia di
Finanza e 2 della Guardia costiera), 2 pattugliatori (uno della Marina e l’altro islandese), 2
aerei (maltese e islandese), 1 elicottero della Finanza, 2 mini pattugliatori maltesi.
«Nessuna carretta del mare può arrivare fino a lì», osserva una fonte del Viminale,
«affondano tutte prima, a meno che non siano grossi barconi». Quindi il potenziale di
soccorso di Triton è minimo, i suoi mezzi intervengono nei salvataggi fuori dalla zona di
pattugliamento solo se chiamati nelle emergenze.
“NON POTEVA FUNZIONARE”
39
Gli sbarchi, poi, sono cresciuti dal primo gennaio a oggi del 60 per cento rispetto allo
stesso periodo del 2014. Le crisi in Siria e in Libia stanno alimentando i flussi di etiopi,
sudanesi, malesi, eritrei, siriani, intercettati sulle coste a est di Tripoli, nella zona di
Gharabulli, da gente tipo Abdel Raouf Qara, comandante di un gruppi di fondamentalisti
islamici che col business dei barconi porta soldi alla Jihad. Oppure l’etiope Eremias
Ghermay, che un’indagine dello Sco ha individuato come uno degli organizzatori del
viaggio del peschereccio affondato nell’ottobre 2013 a Lampedusa con quasi 400 morti.
«Le nostre unità — spiega l’ammiraglio Giovanni Pettorino, del comando generale della
Guardia Costiera — sono adeguate per navigare anche fuori dalla Sar, ma attrezzate per
prestare cure mediche durante i trasferimenti a non più di 10-12 persone. Se ci troviamo
con centinaia di naufraghi, come nei giorni scorsi, diventa impossibile».
Nemmeno i mezzi dispiegati da Frontex sono equipaggiati per questo. Triton non funziona,
perché non poteva funzionare.
Del 12/02/2015, pag. 4
In Libia il business della disperazione
L'altra sponda. Lo scontro tra i «governi» di Tripoli e Tobruk. Migranti
tra due fuochi. Dagli scheletri nel deserto del Fezzan alle prigioni per
migranti: la dura legge delle milizie
Giuseppe Acconcia, Igor Cherstich
I quattro gommoni che hanno provocato una delle più gravi stragi di migranti degli ultimi
anni nel Mediterraneo partivano dalle coste libiche. «Non volevamo partire per il maltempo, ma i contrabbandieri ci hanno costretto minacciandoci con le armi in loro possesso», ha raccontato uno dei sopravvissuti. «Abbiamo trascorso gli ultimi giorni prima
della traversata in un magazzino di Tripoli e lo scorso sabato ci hanno ammassati sulla
spiaggia da dove ci siamo imbarcati», ha proseguito il giovane che ha confermato che
alcuni di loro avrebbero pagato fino a 600 euro per la traversata. Nella totale assenza dello
Stato, per le centinaia di milizie che si contendono le redini del paese la gestione dei flussi
migratori è diventato un business irrinunciabile. Le bande armate controllano centinaia di
prigioni, in cui sono stipati migranti in condizioni di miseria e abbandono. Molti dei miliziani
sono accusati da organizzazioni locali per la difesa dei diritti umani di tortura
e maltrattamenti. Queste dinamiche non sono nuove. Le insensate politiche anti-migratorie
libiche hanno previsto per anni respingimenti sistematici nel deserto del Sahara. Nel 2008
fu il governo Berlusconi a firmare una serie di trattati riguardanti non solo
l’approvvigionamento di gas, ma anche il contenimento dell’immigrazione. Gheddafi
instaurò un sistema di pattugliamento costiero per contenere il traffico clandestino di
disperati in fuga dai paesi sub-sahariani. I trattati contenevano però un errore allarmante:
la Libia non aveva aderito alla Convenzione sullo status dei rifugiati del 1951. Come documentato da numerose associazioni umanitarie, i migranti venivano detenuti in condizioni
disumane, e spesso rispediti a casa attraverso il deserto del Fezzan. I report di Amnesty
International hanno documentato questi piccoli grandi esodi correlati da testimonianze di
stupri e uccisioni perpetrati dall’esercito libico. Viaggi senz’acqua e cibo che hanno riempito il deserto di scheletri. E così anche la Libia post-Gheddafi continua a essere un incubo
per i migranti. Il governo islamista di Tripoli (per molti un organo costituito da islamisti che
non ritiene legittimo il risultato delle elezioni del 25 giugno 2014) ha stracciato l’accordo
con il governo del Sudan che prevedeva una forza congiunta per la sicurezza delle fron40
tiere tra i due paesi africani. L’ex ministro della Difesa libico, il colonnello Abdul Razzaq alShihabi, per controllare la frontiera con il Sudan, aveva puntato sulla cooperazione con il
governo italiano con l’intento di organizzare una copertura satellitare dell’area.
Le coste libiche sono la strada più semplice per l’Europa per scafisti e contrabbandieri.
A causa delle violenze e del caos, alimentati da potenze straniere che finanziano diverse
fazioni nello scacchiere libico, il numero di migranti che ha tentato di lasciare il paese
è andato crescendo. Tuttavia Amnesty ha puntato il dito anche contro le operazioni di
Ricerca e soccorso in mare (Sar) e sul progressivo fallimento degli stati coinvolti, specialmente Italia e Malta, che non sono riusciti a raggiungere un accordo in merito
all’estensione delle rispettive zone Sar.
Da una parte lo scontro dei due governi di Tripoli e Tobruk, dall’altra la guerra che coinvolge i gruppi jihadisti per il controllo dei pozzi di petrolio (ieri sono state rinvenute a Bengasi 40 teste mozzate in aree controllate dai jihadisti) hanno azzerato qualsiasi controllo
sui flussi migratori. È stata interrotta a causa degli scontri, la collaborazione libica con le
operazioni Mare Nostrum e Triton per il contenimento dell’immigrazione clandestina, sottoscritta nel 2013 dall’allora ministro Mauro con al-Thinni, in quella fase ministro della Difesa
libico. Oggi i migranti non sono più soltanto sub-sahariani, ma anche libici, e data la gravità delle lotte intestine, Amnesty ha recentemente chiesto che nessun paese li respinga.
Infine, anche il controllo del greggio oscilla seguendo le complesse relazioni tra il governo
cirenaico e quello tripolino. Formalmente la banca Centrale libica si è mantenuta neutrale
decidendo di non incanalare i ricavi ufficiali del petrolio nelle casse di nessuna delle due
amministrazioni. Di fatto però, Al Thinni, premier espressione del parlamento di Tobruk
(formalmente sciolto dalla Corte suprema libica, ma di fatto operativo) è riuscito a inserire
suoi collaboratori nella Società petrolifera nazionale. Di contro, il governo tripolino è riuscito a prendere il controllo di Al Sharara: il giacimento più grande del paese.
Del 12/02/2015, pag. 4
Guerra e/o regimi dittatoriali, fuga dalla Siria e
dall’Africa
Geografia degli sbarchi. Cosa rivelano i dati del Viminale sugli "arrivi"
nel corso del 2014
Gina Musso
I dati del ministero dell’Interno sulla provenienza dei migranti transitati nel Mediterraneo
durante l’ultimo anno, con l’Italia come prima destinazione, raccontano più dei conflitti su
cui si concentrano i media abitualmente.
A parte la Siria, che guida questa triste classifica, con 42.323 arrivi nel 2014. La guerra
che sta lacerando ampie porzioni del paese e città importanti come Aleppo è sotto gli
occhi di tutti. La fuga s’impone sotto il fuoco incociato dell’Isis, delle milizie qaediste e del
cosiddetto Esercito libero siriano, oltre che delle truppe di Bashar al Assad. Nelle famiglie
che sbarcano dopo la traversata colpisce una “compostezza” che si direbbe fuori posto:
sono persone che in Siria godevano di un discreto welfare e di una certa disponibilità economica; nel momento in cui non riescono a vivere in sicurezza né a mantenere il loro status, prendono quello che possono e si mettono in viaggio. Via mare e via terra. Al dato
vanno aggiunti quelli che dalla Turchia entrano in Europa attraverso la frontiera greca, con
le acque del fiume Evros a trascinare via vite e speranze.
L’Eritrea è assai più lontana e infinitamente meno “coperta” da giornali e tg , ma si piazza
seconda con 34.329 “sbarchi” nel 2014. Da qui sono i giovani a fuggire: da un servizio mili41
tare obbligatorio che può durare tra i cinque e i dieci anni, da siccità, disoccupazione,
incarcerazioni indiscriminate e torture per i dissidenti, e in generale dal clima di isolamento
e paranoia alimentato da un regime che ha tradito tutte le speranze legate alla lotta del
Fronte di Liberazione del Popolo Eritreo. Dopo l’indipendenza ottenuta dall’Etiopia nel
1993, un’assemblea costituente ha indicato in Isaias Afewerki il presidente che avrebbe
dovuto gestire la transizione verso le prime elezioni libere. Dopo oltre vent’anni, non è successo niente. Chi prova a raggiungere l’Italia ha sempre un numero «preferito» nella
rubrica del telefono, quello di un prete eritreo residente in Vaticano. Mussie Zerai dirige
Habieshia, un’agenzia d’informazione e di mutuo soccorso. È soprannominato l’«angelo
dei disperati» o considerato un istigatore d’immigrazione clandestina a seconda dei casi.
Oltre a lanciare l’allarme quando riceve richieste d’aiuto dal mezzo del Mediterraneo o dal
cuore del Sahara, ha più volte denunciato il tentativo da parte dell’ambasciata eritrea in
Italia di schedare i fuggiaschi. Il 3 ottobre 2013 furono 366 gli eritrei annegati
a Lampedusa. Nella dolente classifica stilata dal Viminale seguono due dati di difficile
interpretazione, tanto sono generici: 25.023 persone con provenienze «altre» e a seguire
20.461 «sub-sahariani». Come se non lo fossero i cittadini del Mali (9.938), in fuga dalla
crisi in cui versa il nord dopo un conflitto tutt’altro che risolto, che ha coinvolto finora
l’esercito di Bamako, le armate jihadiste del Fronte al Nusra e del Mojao, il Movimento per
la jihad in Africa occidentale, le milizie tuareg che vogliono l’Azawad indipendente e quelle
“lealiste”. E da ultime le truppe d’élite dell’esercito francese. Con i civili presi come al solito
nel mezzo. «Sub-sahariani» sono anche i 9.000 migranti originari della Nigeria, paese
lacerato dall’offensiva sanguinaria di Boko Haram negli stati del nord-est ma anche dalla
repressione di cui sono oggetto il Mend e chiunque si opponga allo sfruttamento senza
scrupoli, né ambientali né umanitari, da parte delle multinazionali nella regione del Delta.
Va aggiunto che anche dissidenti ad altro titolo potrebbero avere buoni motivi per cambiare aria. Per non dire dei migranti più classicamente “economici”. Il dato ovviamerte non
considera coloro — la maggioranza — che arrivano con un visto turistico che poi viene
lasciato scadere. Ma parliamo pur sempre del paese più popoloso d’Africa, coi suoi 170
milioni di abitanti. In questo senso sconcerta il dato del Gambia (8.707 persone “sbarcate”
nel 2014), che di abitanti ne conta cento volte di meno ed è il più piccolo stato del continente. Ma in quanto ad arresti arbitrari e torture il governo di Yahya Jammeh non ha nulla
da imparare dai grandi. Le perduranti politiche di occupazione e aggressione di Israele
spiegano l’ottava piazza occupata dalla Palestina, con 6.802 “arrivi”. E i 5.756 giunti fin
sotto la “Fortezza Europa” dalla Somalia sono niente, rispetto al tragico caos che nessuno
è riuscito ancora a dipanare e al campo profughi più grande del mondo a Dadaab,
Kenya, nel quale hanno trovato rifugio in 700 mila.
Del 12/02/2015, pag. 1-33
La risposta sbagliata del premier
GAD LERNER
SOLO proteggendoci con una scorza di disumanità, accontentandoci di non vederli in
faccia mentre annegano a centinaia e a migliaia nel nostro mare, possiamo soffocare il
senso di vergogna suscitato dalla strage infinita del Canale di Sicilia. Ma resta la
domanda: salvarne il più possibile rientra o non rientra fra i doveri della nostra civiltà
europea? I trafficanti che in Libia depredano e poi spediscono nel mare in tempesta i loro
volontari ostaggi paganti, su gommoni sgangherati, compiono evidentemente un atto
criminale. Ma noi abbiamo fatto tutto ciò che era in nostro potere per salvarli? L’altrui
42
crimine non fornisce un alibi a chi si fosse macchiato di omissione di soccorso. Ieri,
balbettando per l’imbarazzo, i funzionari del Consiglio d’Europa hanno riconosciuto
l’insufficienza del dispositivo Frontex.
LAfinalità di Frontex è limitata al presidio delle frontiere di Schengen, entro un raggio di 30
miglia. Non a caso i suoi costi sono un terzo dell’operazione Mare Nostrum dispiegata
dalla Marina Militare italiana al di là di quel limite, in acque internazionali. Grazie a Mare
Nostrum, fino alla scadenza del 31 dicembre 2014, sono stati effettuati oltre cinquecento
interventi e sono stati salvati più di centomila profughi, anche se purtroppo ne risultano
ugualmente dispersi — dati del Viminale — più di tremilatrecento.
Dunque non è una contesa ideologica, o peggio una strumentalizzazione politica, la
contrapposizione del modello Triton al modello Mare Nostrum. Cinque unità militari italiane
dotate di attrezzature ospedaliere (ricordate l’elogio di Napolitano alla dottoressa
Petricciuolo che ha fatto nascere a bordo della nave Etna una bimba nigeriana la notte di
Natale?) hanno sconfinato per quattordici mesi nel Mediterraneo. Per la verità lo hanno
fatto anche a dicembre, sebbene la loro missione fosse ufficialmente scaduta. Ma ora, da
gennaio, non lo fanno più, a seguito di una revoca che l’Ue peraltro non ci imponeva.
Certo, nessuno può sostenere con certezza che un tempestivo intervento della nostra
Marina Militare nelle acque internazionali avrebbe salvato la vita degli oltre trecento
naufraghi, la notte di domenica scorsa. Anche se è probabile che avrebbe impedito la
morte per congelamento di ventinove ragazzi imbarcati vivi sulle motovedette della
Guardia Costiera, sprovviste di medici e ambulatori.
Per questo avvertiamo che il governo italiano e il premier non si sono mostrati all’altezza
del dramma in corso, e delle scelte immediate che esso impone. Non basta dire che il
problema è la Libia, divenuta preda di clan jihadisti. È mortificante, poi, che la richiesta
avanzata dalle organizzazioni umanitarie, dalla Chiesa e da alcuni esponenti del Pd —
cioè l’immediata riattivazione di squadre di soccorso in acque internazionali — venga
liquidata da Renzi come se si trattasse di una manovra antigovernativa. Chi se ne frega,
scusate. Davvero la lotta politica può scendere a livelli di insinuazione così meschini?
Giusto pretendere un coinvolgimento logistico e finanziario dell’Unione Europea,
mostratasi fin qui campionessa di cinismo. Ma nel frattempo? Fonti del ministero della
Difesa ammettono che nel giro di due o tre giorni al massimo, se il governo prendesse una
decisione in tal senso, la nostra flotta potrebbe riprendere il presidio di cui tutti siamo
andati orgogliosi. Quale motivazione po- litica o di bilancio (stiamo parlando di una spesa
di centomila euro al giorno) si oppone a una decisione di carattere umanitario, se non
forse l’imbarazzo di dover ammettere che la revoca di Mare Nostrum è stata una scelta
avventata, magari dettata da calcoli di consenso?
Eppure dovrebbe essere ormai unanimemente riconosciuta l’infondatezza della tesi
secondo cui le missioni umanitarie creano un fattore di attrazione involontaria, spingendo i
migranti a tentare la pericolosa traversata (che per loro rappresenta comunque il rischio
minore). Il ministro Alfano ieri sera si trincerava dietro l’argomento della fatalità ineluttabile:
«Non esiste e non può esistere un’operazione che sconfigga la morte in mare». È for- se
questa la posizione del governo? Confermiamo la ritirata nelle nostre acque
internazionali? È così che intendiamo il nostro ruolo di potenza mediterranea?
Certo, Mare Nostrum è solo un tampone, più di una volta i nostri marinai sono arrivati
troppo tardi. Ma è, questo, un buon motivo per desistere?
Il flusso di profughi dalle zone di guerra, che secondo l’Unhcr nel 2014 ha portato almeno
218mila persone ad attraversare il mare Mediterraneo, non accenna a diminuire. Ciò
impone scelte strategiche difficilissime per regolarlo, identificarlo, delimitarlo. Ostacoli
insormontabili al momento impediscono la creazione di presidi internazionali per lo
smistamento dei profughi sulla sponda sud del Mediterraneo. Ma ciò non deve impedirci di
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riconoscere l’assurdità della situazione venutasi a creare col monopolio instaurato dai
trafficanti sulla terraferma e sul mare.
Un biglietto aereo da Tunisi a Roma costa 100 euro. Il traghetto, se ci fosse, ancora meno.
Per la traversata della morte risoltasi in ecatombe, i passeggeri dei gommoni hanno
pagato 650 euro ciascuno ai criminali. Il proibizionismo dissennato della comunità
internazionale finisce per versare centinaia di milioni nelle tasche delle mafie e dei
jihadisti. Subiamo la condanna a morte di centinaia di giovani, la cui età media — riferisce
l’Unicef — oscilla fra i 18 e i 25 anni. E intanto lasciamo che finanzino un nemico ogni
giorno più pericoloso. Se anche non bastasse la vergogna, dovrebbe spingerci ad agire
l’istinto di autodifesa. Nella tragedia di cui siamo spettatori, il governo e la classe dirigente
europea stanno recitando la parte di comparse senza passione, impaurite e mediocri.
Del 12/02/2015, pag. 1-3
L’inciviltà europea
Alessandro Dal Lago
Dopo la strage dei gommoni, parlare di fatalità sarebbe osceno. Basta ricordare che
dall’ottobre scorso si sono moltiplicati gli ammonimenti europei a salvare meno migranti
possibile, soprattutto in aree lontane dai limiti dell’“Operazione Triton” (trenta miglia
marine). Ha cominciato il governo Cameron, sostenendo che i salvataggi avrebbero incentivato l’immigrazione clandestina. Ha continuato a dicembre un capo operativo di Frontex,
di nome Klaus Rosler, già dirigente della polizia bavarese (ma chi li sceglie questi tomi?),
secondo il quale l’Italia è di manica troppo larga con gli stranieri che si avventurano in
mare. L’Europa non vuole spendere per salvare vite umane e quindi migliaia e forse
decine di migliaia di migranti potrebbero annegare con l’arrivo della buona stagione: questa è la banale verità, che contrasta con le affermazioni roboanti di Alfano, quanto
l’operazione Triton (ma chi avrà escogitato un nome così idiota?) ha sostituito Mare
Nostrum (altra bella siglia!), che era dotata di mezzi molto più consistenti.
Solo Cameron o un poliziotto bavarese può credere o far credere che la prospettiva di
annegare convinca gente del Mali, del Pakistan, dell’Eritrea, o di altri cento luoghi in cui si
muore di fame o di guerra, a restare ad agonizzare a casa loro. Solo una tremenda, colossale ottusità, o qualcosa di infinitamente peggiore, può motivare quest’atteggiamento di
chiusura verso le ragioni di una minima umanità e delle leggi del mare. Noi immaginiamo
la disperazione dei nostri marinai che si sono visti morire assiderati, acanto a sé, ragazzi
che si sarebbero potuti salvare se solo l’operazione Triton avesse previsto l’invio di navi
più grandi a occorrere i gommoni. Noi sappiamo, perché l’hanno detto a destra e manca,
che i nostri pescatori e la nostra gente di mare non dorme la notte al pensiero di quelli che
sono annegati, annegano e annegheranno al di là dei limiti previsti dall’agenzia Frontex
e dall’operazione Triton, che Dio le maledica entrambe.
E qui si misura come l’ottusità e la miopia dell’Europa bottegaia si siano tramutate in delitti
contro l’umanità. I sopravvissuti della strage dei gommoni hanno dichiarato che sono stati
imbarcati sotto la minaccia delle armi dai miliziani in Libia. E questo non sorprende proprio, vista la situazione che il genio politico di Cameron, Sarkozy, Obama, per non tacere
di Berlusconi hanno creato dalle parti di Tripoli, Derna e Bengasi. Ora, ignorare le conseguenze umane delle proprie insensate politiche è il principale tratto che accomuna
l’accozzaglia di stati egoisti che va sotto il nome di Unione europea. Pensate solo alla
povertà in Grecia, ai bambini senza latte, alla svendita delle infrastrutture di un intero
paese che doveva essere punito per essersi indebitato. Un paese, la Grecia, il cui Pil rap44
presenta il 2 per cento di quello europeo e il cui debito potrebbe essere condonato senza
danni per la Ue! Ma dietro l’indifferenza per le sorti dei greci e dei migranti che si avvieranno verso la morte c’è ormai un disprezzo assoluto, conclamato, trionfale per il diritto
che un tempo si sarebbe chiamato delle genti. I soldi europei devono restare nelle banche,
e non spesi per salvare vite umane, questo è il messaggio di Frontex, di Cameron, della
troika, di Merkel, di Herr Rosler e di tutti quelli che si inchinano davanti alle ragioni dei più
forti e dei più ricchi. Sarebbe questa la “civiltà europea” (parole di Renzi) per cui sono
morte decine di milioni di esseri umani nella seconda guerra mondiale?
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DIRITTI CIVILI
Del 12/02/2015, pag. 36
Per la prima volta nella storia dei cartelli messicani cala il traffico della
marijuana: grazie alla legalizzazione. L’effetto: meno reati, maggiori
entrate nelle casse dello Stato, meno flussi di denaro criminale. È la
sconfitta dei proibizionisti
L’erba contro i Narcos
ROBERTO SAVIANO
PER la prima volta nella loro storia i cartelli messicani hanno visto precipitare la richiesta
di marijuana. Entra in crisi un business miliardario che sino ad ora non aveva mai subito
flessioni. I dati diffusi dalla polizia frontaliera americana (l’Us Border Patrol) non lasciano
spazi a dubbi: la riduzione del traffico di erba nel 2014 è stata del 24% rispetto al 2011.
Che è successo? Nessuno fuma più spinelli? Una stagione di arresti particolarmente
efficace? La risposta è più semplice: ed è la legalizzazione delle droghe leggere in
Colorado e nello Stato di Washington. La vendita legale di marijuana non ha solo creato
una rivoluzione economica che ha portato oltre 800 milioni di dollari di nuovi introiti fiscali,
ma ha anche iniziato a trasformare il tessuto criminale. La crisi delle organizzazioni a sud
del Rio Grande che hanno sempre inondato gli Usa di erba è paragonabile alla crisi dei
titoli del Nasdaq. I cartelli messicani non hanno mai abbandonato il business dell’erba,
tutte le organizzazioni storiche che oggi sono egemoni nel traffico di coca e di
metanfetamina hanno sempre coltivato la “mota” (come chiamano la marijuana), che è al
contempo fonte di una liquidità economica gigantesca ed ha una crescita di mercato
esponenziale grazie alla tolleranza culturale diffusa in tutti gli Stati Uniti.
Un esempio tra i molti che dimostra lo storico legame tra l’erba messicana e gli Usa: Kiki
Camarena era un poliziotto della DEA che riuscì a infiltrarsi ai vertici dei narcos negli anni
‘80: fu così che scoprì El Bufalo, un ranch che nascondeva la più grande piantagione di
marijuana del mondo. Oltre milletrecento acri di terra e diecimila contadini a lavorarci. Per
averla fatta sequestrare Kiki fu barbaramente torturato e ucciso.
L’erba messicana ha riempito gli Stati Uniti e metà pianeta per più di cinquant’anni. Ora,
finalmente, la tendenza di crescita si sta invertendo. Dopo tanti dibattiti ideologici c’è la
prova che la legalizzazione è uno strumento reale di contrasto al narcocapitalismo. In
Colorado e a Washington ci sono diversi vincoli per il consumo: la marijuana può essere
acquistata solo se si è maggiori di 21 anni, si può possedere sino a poco più di 28 grammi,
in pubblico è vietato consumarla (come l’alcol del resto) e guidare sotto effetto di erba è
vietato (sospensione di patente per un anno e arresto se recidivi).
Le grandi obiezioni mosse dai proibizionisti contro l’esperimento di legalizzazione in Usa
sono le medesime da sempre sostenute dal proibizionismo europeo: aumento del mercato
dei consumatori, aumento degli incidenti stradali, aumento della criminalità. Allarmi tutti
smontati dall’esperienza reale. Non c’è stata nessuna catastrofe. La polizia di Denver in
Colorado ha registrato una diminuzione del 4% dei reati, nessun aumento di incidenti
stradali (la maggior parte continuano ad essere provocati dall’alcol). Non solo: sottrarre
una massa di capitali enormi alle organizzazioni criminali ha portato il Colorado a
prevedere la possibilità di incrementare le proprie casse con circa 175 milioni di dollari nei
prossimi due anni, mentre lo Stato di Washington prevede un’entrata di oltre 600 milioni di
dollari nei prossimi cinque anni. Come se non bastasse, sembra che lo Stato potrà
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addirittura restituire ai cittadini parte delle tasse. Tutto è dovuto da una legge del Colorado
che impone allo Stato una quota limite sui soldi che può ricevere dalle tasse: superata la
quale deve ridistribuire il denaro ai contribuenti. Grazie alle entrate per l’acquisto di
marijuana, il Colorado rimborserà i 30 milioni di dollari in eccedenza ricevuti. Mai successo
a memoria d’uomo che la quota fosse superata, la legalizzazione l’ha permesso. Soldi che
prima finivano nelle tasche dei narcos messicani e delle banche complici ora so- no a
disposizione dello Stato. Le entrate fiscali hanno convinto altri Stati a intraprendere il
percorso di legalizzazione: Alaska, Oregon, Florida e Washington D.C. stanno per
decidere. Ma c’è un altro argomento che ha spinto questa scelta: i reati connessi alla
marijuana gravavano enormemente sulle casse degli Stati americani (il Colorado — ad
esempio — metteva in bilancio 40 milioni l’anno per contrasto e detenzione di persone
legate allo spaccio di erba). E d’altronde la metà della popolazione carceraria americana è
condannata per reati di droga, l’Anti-Drugs Abuse Act con la sua severità estrema non ha
portato che a un rafforzamento del vincolo criminale tra spacciatore e organizzazione.
Vincolo che è necessario slegare se si vuole contrastare il narcotraffico piuttosto che
puntare la responsabilità sul singolo pusher. Il 75% dei detenuti condannati per
narcotraffico è afroamericano, miseria e disagio continuano ad essere le miniere in cui
raccolgono eserciti i cartelli.
Ma in Europa e in parte anche negli Usa (con qualche eccezione tra gli agenti Dea), i
vertici delle polizie continuano a sostenere posizioni proibizioniste: eppure nessuna
repressione ha fermato la diffusione dell’erba e il suo consumo. Ora la domanda è: dove
sarà dirottata tutta la “mota” messicana? Unica destinazione: Europa. Ci saranno quindi
abbassamenti di prezzo e si tratterà di capire come le organizzazioni criminali gestiranno il
flusso. I prezzi li farà il mercato, come sempre, ma sarà mediato da ‘ndrangheta e camorra
sul fronte italiano, dalla mafia corsa sul fronte francese, da albanesi e serbi sul fronte est.
In Italia l’81% dei sequestri delle piantagioni di canapa indiana avviene nel sud Italia
(l’Aspromonte è territorio privilegiato di coltivazione), quindi l’erba messicana arriverà ad
essere il grande antagonista dell’erba italiana. La legalizzazione non solo sta costringendo
i cartelli ad abbassare i prezzi tagliando i profitti ma i messicani devono anche competere
con la qualità: la qualità della marijuana legale è certificata catalogata e controllata,
leggendo la didascalia delle bustine si possono conoscere effetti e composizione. La
droga illegale spacciata dai messicani invece spesso ha qualità minore a fronte di un
prezzo alto perché contiene additivi, come l’ammoniaca, e sempre più spesso viene
cosparsa di fibra di vetro o lana di roccia, per simulare l’effetto dei cristallini che hanno
alcune qualità di marijuana (ricche in resina di canapa). Legalizzazione quindi porta anche
a una riduzione degli effetti negativi e il mercato perde i segmenti più dannosi.
Il Messico vede positivamente la legalizzazione in Usa perché ferma il flusso di capitale
criminale che quotidianamente entra nel Paese. Il circolo vizioso è semplice: dalla frontiera
parte droga per gli l’America, i soldi tornano in Messico che poi ritornano nelle banche
degli Stati Uniti. La legalizzazione rompe questo schema. L’ex presidente Fox aveva
dichiarato: «Il consumatore di droga negli Stati Uniti produce miliardi di dollari, denaro che
torna in Messico per corrompere la polizia, la politica e comprare armi». Fox, che non ha
certo migliorato lo stato della democrazia in Messico né ha portato a un cambiamento nel
contrasto ai narcos, ha avuto il merito di riconoscere il punto nevralgico: il proibizionismo
americano è il principale responsabile della crescita economica della mafia messicana.
La legalizzazione quindi sta producendo effetti immediati e benefici. Le modalità per
sottrarre la marijuana ai narcos sono molteplici: Colorado e Washington hanno legalizzato
liberalizzando la produzione e la distribuzione, Alaska e Oregon si stanno avviando ad una
legalizzazione come quella del Colorado, la Florida deciderà sull’uso medico della
cannabis. Washington D.C. va verso la produzione e il consumo ma non vuole
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liberalizzare negando l’autorizzazione ai negozi per la distribuzione. Il che manterrebbe
una contraddizione in termini: legale comprarla e fumarla a casa, ma illegale venderla.
Ma l’attesa più importante è per il 2016, quando in California si deciderà se intraprendere
la legalizzazione o continuare il percorso proibizionista. Se la California — Stato con una
massiccia presenza di cartelli messicani e centroamericani — darà il via libera allo spinello
il passo per la legalizzazione in tutti gli Stati Uniti sarà definitivo. E in Italia? L’Italia
dovrebbe essere in Europa in prima fila su questi temi per la conoscenza acquisita e per
l’influenza delle organizzazioni criminali italiane in questo mercato. Il primo passo fatto dal
ministro Roberta Pinotti con la produzione da parte dell’esercito di marijuana per uso
terapeutico aveva fatto sperare in un’accelerazione del percorso di legalizzazione, ma
tutto si è fermato e il dibattito sembra essersi spento nella miope ed eterna considerazione
che «i problemi sono altri». Nel frattempo narcos e boss estendono il loro impero. Mai
come ora il proibizionismo è il loro maggior alleato. È il momento di porre il tema della
legalizzazione come battaglia di legalità e contrasto all’economia criminale e sottrarlo al
seppur necessario e controverso dibattito morale. Proprio chi è contro ogni tipo di droga
deve sostenere la legalizzazione.
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BENI COMUNI/AMBIENTE
Del 12/02/2015, pag. 39
Allo studio soluzioni per succhiare l’anidride carbonica o combattere il
riscaldamento del pianeta Ma gli esperti si dividono sui costi e le
conseguenze
Manipolare il clima per ridurre i gas serra la
pazza sfida della geoingegneria
SILVIA BENCIVELLI
NON possiamo negoziare il nostro stile di vita? Non possiamo smettere di produrre,
riscaldarci, muoverci in automobile? Allora è necessario pensare a sistemi per pulire il
pianeta. Pulirlo dai gas serra che stiamo immettendo da decenni nell’atmosfera, e
proteggerlo dal riscaldamento climatico e dai suoi devastanti effetti. È una filosofia che per
anni è andata forte tra alcuni scienziati, soprattutto di scuola americana. E la sua
applicazione pratica è la ricerca di soluzioni tecnologiche per intervenire volontariamente
sull’ambiente del pianeta, che collettivamente vengono chiamate geoingegneria.
A proposito dei cambiamenti climatici la sfida della geoingegneria è quella di intervenire
nel complesso sistema che regola il clima globale “aggiustandolo” dopo che lo abbiamo
“rotto”. Le tecniche proposte sono essenzialmente due. C’è chi vorrebbe di succhiare
l’anidride carbonica atmosferica in eccesso attraverso sofisticati impianti di pulizia dell’aria.
E addirittura chi studia il sistema di inspessire la stratosfera con goccioline di acido
solforico, per far rimbalzare parte dei raggi solari nell’universo e ridurre la quota naturale di
riscaldamento del pianeta. Tutto questo ci lascerebbe liberi di continuare a immettere in
atmosfera gas serra, di continuare a riscaldare il pianeta, e rimanderebbe i problemi a un
futuro remoto in cui la tecnologia sarà più avanzata di adesso.Ma funziona? Dopo anni di
dibattito, gli scienziati americani della National Academy of Sciences (Nas) hanno risposto
con un “ni”. E hanno voluto insistere: l’unica cosa da fare per limitare i problemi climatici
del pianeta è ridurre le emissioni di gas serra. Il rapporto della Nas è stato pubblicato due
giorni fa ed è il risultato di diciotto mesi di lavoro da parte di un team di sedici esperti. E il
suo riassunto è una ramanzina per l’umanità: non pensiate che la scienza possa darvi una
bacchetta magica con cui, un giorno, riparare i danni dell’inquinamento. Cercate piuttosto
di cominciare subito a crearne meno.
Le tecniche di geoingegneria, dicono oggi gli scienziati americani, potrebbero essere
rischiose. Non è chiaro, inoltre, se siano davvero efficaci, soprattutto visti i costi. E di certo
non saranno sufficienti a risolvere la questione. Per questo siamo alla presa di posizione
più fredda di ogni precedente sul tema. Che si propone anche di cominciare a parlare di
“interventi climatici”_, più che di “ingegneria”: per non dare l’impressione prematura di un
controllo che ancora nella realtà non abbiamo.
Questo però non significa che non valga la pena averla studiata e continuarla a studiare.
Anzi: «proprio il fatto che ci siano scienziati impegnati sugli interventi geoingegneria
dovrebbe essere un campanello d’allarme: — ha spiegato Marcia Mc-Nutt, la
presidentessa della commissione ed ex direttrice della commissione scientifica
governativa US Geological Survey — significa che dobbiamo davvero fare di più per
ridurre le emissioni, che poi è il modo più efficace e sicuro per combattere i cambiamenti
climatici». Ma non solo: ci sono forti investimenti sulle sfide della geoingegneria, come
quelli di Bill Gates che ha finanziato una ricerca di Harvard per lo sviluppo di modelli
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informatici sul clima futuribile. E su questi il rapporto è chiaro: bisogna continuare a
studiare. Ma attenzione, precisa. Non ci sono problemi soltanto ambientali o di costi, dietro
alla geoingegneria. Spruzzare acido solforico negli strati alti dell’atmosfera per produrre un
parasole spaziale potrebbe infatti porre problemi di natura politica e sociale. Perché, se
anche funzionasse, potrebbe diventare una soluzione locale a un problema globale:
potrebbe, cioè, essere sviluppata a copertura dei paesi ricchi, da sempre più inquinanti,
facendoli sentire autorizzati a continuare a inquinare. Tutto questo a spese di quelli poveri,
sempre più scoperti sotto al sole battente.
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INFORMAZIONE
Del 12/02/2015, pag. 20
Rai, Gubitosi attacca “I politici boicottano la
riforma dei tg Bbc avanti 20 anni”
ALDO FONTANAROSA
La Commissione di deputati e senatori che vigila sulla Rai rimanda al mittente la riforma
Gubitosi dei telegiornali. Un voto a larga maggioranza forse già oggi chiederà modifiche
sostanziali al progetto del direttore generale di Viale Mazzini, desideroso di accorpare le
sette testate del servizio pubblico in due sole newsroom , multimediali e integrate. E lui,
Gubitosi, non accetta questo sgambetto sul traguardo: «Il nostro piano — dice — è un atto
serio e moderno che avvicinerebbe la Rai alle migliori emittenti europee. Eppure
incontriamo grandi, tenaci resistenze. Di fronte abbiamo il “pc”. Il partito della
conservazione, che unisce una parte del sindacato a una parte della politica. Il loro
obiettivo è l’immobilismo».
«Il “pc” non riuscirà a fermarci — assicura il direttore generale — perché c’è una cosa più
forte di tutti gli eserciti. È quell’idea il cui momento è ormai giunto. Lo scriveva Victor Hugo
ed io, umilmente, sono d’accordo: il tempo della riforma è arrivato». Gubitosi dà battaglia,
dunque, malgrado abbia già centrato una vittoria parziale. In una lettera alla Vigilanza, il
direttore generale scrive di «rispettare le prerogative » del Parlamento, ma chiede anche
che il Parlamento rispetti «l’autonomia » della sua azienda («Tutti vogliono Viale Mazzini
liberata dai partiti, ma poi si comportano nel modo opposto », spiega). Ora la frase
“autonomia della Rai” — così cara a Luigi Gubitosi — compare finalmente al punto 17
della nuova risoluzione che la Vigilanza vota oggi. Un riconoscimento che non rassicura il
dg: «L’Italia ha bisogno di modernità e la Rai, anche. In nome della nostra autonomia,
rifiuto di essere sospinto su un binario morto. Quello del rinvio».
La risoluzione della Vigilanza, però, sembra mossa anche da ragioni ideali. La parola
“pluralismo” è la stella polare dei deputati e senatori che la utilizzano a ripetizione, convinti
che le due newsroom unitarie di Gubitosi non potranno raccontare le mille anime e i mille
colori della nostra Italia. Per questo la risoluzione invoca «una revisione del progetto
predisposto dal direttore generale con l’obiettivo di garantire il pluralismo e l’identità
editoriale delle singole testate giornalistiche». Il direttore generale obietta anche su
questo: «Il 17 dicembre, Mary Hockaday della televisione pubblica inglese, la Bbc, è stata
sentita dai parlamentari della Vigilanza. E in audizione miss Hockaday ha spiegato bene
che l’unificazione dell’informazione ha procurato grandi vantaggi agli inglesi, in termini di
risparmio e pluralismo. Peccato che alcuni nostri parlamentari queste cose non le abbiano
volute sentire. La Bbc ha avviato questa riforma esattamente 20 anni fa. Venti anni fa.
Ora, anche noi immaginiamo di impiegare del tempo prima di arrivare all’obiettivo finale,
che è quello di una sola newsroom, di una redazione unica per tutta l’informazione. Però
vogliamo iniziare subito. Adesso. A Parigi, France 2 è partita dopo di noi
nell’accorpamento delle redazioni, ma ci ha superato nell’attuazione del piano ».
Se dunque il Parlamento italiano tenta lo sgambetto a Gubitosi, resta da capire quale sia
l’atteggiamento del premier Renzi e del ministro dell’Economia Padoan, azionista della
Rai: «Li sento al mio fianco — assicura Gubitosi — chi ricopre certe responsabilità sa
bene che i problemi vanno affrontati per tempo. Le aziende che hanno fronteggiato i
problemi all’ultimo momento hanno fatto tutte una brutta fine». Pensa all’Alitalia? «L’elenco
nel nostro Paese è bello lungo, purtroppo... ». L’informazione non è il solo motivo di lite tra
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la Rai e la Vigilanza, che pone anche il problema del nuovo Contratto di Servizio. Il
Contratto stabilirà gli impegni della televisione pubblica con lo Stato e con gli italiani per i
prossimi tre anni. Il testo è pronto, la Vigilanza ha espresso il suo parere, ma poi la pratica
si è impantanata. Gubitosi, perché lei non vuole firmare il Contratto? Le pare corretto?
«Sono pronto a farlo anche domani», è il dg solleva la penna a volerlo confermare.
«Chiedo solo che il Contratto tenga conto di un dettaglio, chiamiamolo così: il governo ci
ha tolto dei soldi». Sono 150 milioni di canone l’anno scorso ed altri 87, quest’anno. «Le
sembra una cosa che può essere dimenticata? Desideriamo che il nuovo Contratto ne
tenga conto quando fissa i nostri impegni. Tutto qui».
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SCUOLA, INFANZIA E GIOVANI
del 12/02/15, pag. 25
Scacchi, inglese, egittologia
Boom dell’“altra” Università
Viaggio nella “Popolare”, istituzione antica che vive una nuova
giovinezza Ci va il detective che vuole imparare l’arabo e il manager che
studia oratoria
Elena Lisa
Alle sette di sera la coda davanti a Palazzo Campana, a Torino, cresce a vista d’occhio.
C’è chi si stringe nel cappotto e parla con il vicino. Chi, più giovane e solitario, indossa
cuffie taglia Topo Gigio. E chi è appena arrivato, trafelato, con la ventiquattrore.
Uomini e donne di ogni età sono in coda per andare a studiare. Per tornare in aula, su
banchi «pop», dell’Università Popolare.
In Italia, le istituzioni come quella sabauda sono parecchie. Sono state fondate nelle
grandi città e nei borghi più piccoli. All’inizio del secolo scorso e al principio di quello che
stiamo vivendo. Da Roma a Camponogara. Da Milano a Galatina. La più grande è nella
capitale: 30.000 iscritti. La prima a rilasciare attestati autorizzati dal Miur - il ministero
dell’Università e della Ricerca - è a Milano. L’università Popolare di Torino, invece, è la più
antica. Quest’anno compie 115 anni: la fondarono Francesco Porro e Angelo Mosso, due
professori dell’Ateneo di Stato nel 1900. Si dice fossero massoni. Certamente ebrei. Ma a
volerla fortemente fu anche l’antropologo e criminologo, Cesare Lombroso. «Uomini che
volevano diffondere il sapere. Svincolandolo da costrizioni e tabù. Da qualsiasi
propaganda politica. È il gesto più generoso verso una comunità», dice il direttore,
Eugenio Boccardo. All’Università Popolare, oggi, entrano l’ispettore di polizia per imparare
l’arabo, il manager che segue «public speaking» per superare la paura di parlare in
pubblico. Il novantenne interessato a sessuologia - già, c’è anche lui - e l’allievo che non ti
aspetti. Come Pierluigi Baima Bollone, professore emerito di medicina Legale, noto nel
mondo per i suoi studi sulla Sindone. È iscritto a egittologia.
I professori
A Torino si fa lezione dalle 19,30 alle 22,30. L’iscrizione costa 130 euro. S’impara a
giocare a scacchi, si studia Platone, si fa pratica con la macchina fotografica, si perfeziona
la lingua inglese. «Organizziamo oltre cento corsi – spiega Enrico Panattoni, coordinatore
- e il numero di richieste è incredibile. Anche per insegnare. Alcuni propongono argomenti
stravaganti: accetto anche quelli a patto che siano utili, funzionali ai tempi». Ciò che
Panattoni cerca di spiegare, correndo da una parte all’altra del solenne Palazzo Campana
per aprire le aule agli studenti, è che l’Università Popolare, ciò che lì s’insegna, ha
l’ambizione di essere un fiume di sapere che assume forme diverse in base alle necessità.
Ci sono anni in cui il suo carattere è scientifico, altri in cui è più umanistico, storico,
letterario. Nel 2015 guarda il sociale: «Ho inserito corsi per insegnare ad assistere i malati
di Alzheimer – dice Panattoni -. Le famiglie non sanno come fare. Con la crisi del welfare
sono sempre più sole».
Gli studenti
Palazzo Campana è una sede austera e prestigiosa che l’Università Popolare divide con i
dipartimenti di Matematica e Biologia dell’altra Università di Torino, quella di Stato.
Nessuna ambizione di somigliarle. E nessun desiderio di confondersi con la terza sorella:
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l’Università della Terza Età. Qui gli iscritti non hanno meno di 60 anni. A Palazzo
Campana, invece, si mischiano generazioni e mestieri. Pensionati ed estetiste, avvocati e
precari. Poi stranieri. Tanti. «Mi chiamo Roberto Deitos Nilso, ho 56 anni e sono brasiliano
- dice un uomo con il sorriso contagioso mentre sale lo scalone - . Sono arrivato in Italia
vent’anni fa e questo è il primo posto che ho frequentato. Mi sono iscritto a giurisprudenza.
Per vivere bene nel vostro paese dovevo conoscere le leggi».
Gli insegnanti non devono essere necessariamente laureati. Ma preparati, competenti.
Specie per stare al passo con gli iscritti precisini, pragmatici.
In una parola: torinesi. Sarà pure un caso ma la maggior parte di loro, da un paio d’anni,
non si fa scappare corso, seminario, visita guidata. Ogni proposta abbia a che fare con
lingua, cultura, tradizioni, gastronomia, e chi più ne ha ne metta, in voga in Germania.
Perché i pronipoti di Cavour ce l’hanno nel dna: individuata la «potenza» s’impegnano a
curare la diplomazia fin nei minimi dettagli.
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ECONOMIA E LAVORO
del 12/02/15, pag. 17
Jobs Act. La maggioranza in commissione Lavoro ha approvato il
parere sul Dlgs che modifica l’articolo 18
Pd diviso sui licenziamenti collettivi
I senatori dem: si torni alla reintegra - Taddei: mantenere l’impianto
della riforma
ROMA
È braccio di ferro nella maggioranza, e all’interno del Pd, sulla sorte dei licenziamenti
collettivi. I senatori dem, in occasione della discussione ieri notte in commissione Lavoro,
sono usciti allo scoperto chiedendo al Governo, con un emendamento (votato anche da
Sel e M5S) di cancellare l’estensione delle nuove regole (indennizzo e non più reintegra)
ai licenziamenti di almeno 5 dipendenti. Ma il presidente della commissione, Maurizio
Sacconi (Ap), si è detto contrario, auspicando che «il Consiglio dei ministri non recepisca
questa richiesta».
Anche il Pd, in realtà, è diviso sul tema: per il responsabile economico, Filippo Taddei:
«Non si tratta di cambiare un aspetto o un altro, ma di mantenere l’impianto di una riforma
che mette al centro il lavoro stabile e introduce l’indennizzo come tutela ordinaria del
lavoratore». D’accordo Pietro Ichino: «La legge delega esclude esplicitamente
l’applicabilità della reintegra in tutti i casi di licenziamento economico. Non si può
sostenere che questa espressione non comprenda il licenziamento collettivo».
Il punto in discussione è il mantenimento della tutela reale in caso di violazione dei criteri
di scelta previsti da accordi aziendali. A chiedere il dietrofront sui licenziamenti collettivi
sarà anche la commissione Lavoro della Camera presieduta da Cesare Damiano (Pd) che
preme l’Esecutivo anche per rivedere, al rialzo, gli indennizzi minimi (attualmente fissati a
4 mensilità, 2 in caso di conciliazione standard).
Fin qui la cronaca parlamentare. Va infatti ricordato che si tratta di pareri non vincolanti per
il Governo che ieri, per bocca del sottosegretario, Teresa Bellanova, ha annunciato
l’intenzione di voler portare al Consiglio dei ministri del 20 febbraio tutti i restanti decreti
attuativi del Jobs act, compreso quello sulla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro.
Un’operazione difficile, soprattutto sul riordino della cassa integrazione visto che bisognerà
ottenere l’ok del ministero dell’Economia. Strada in salita anche per la nuova agenzia
nazionale per l’occupazione, alla luce delle critiche mosse dalle Regioni, ancora
competenti sulla materia (a Titolo V non modificato).
In vista del 20 febbraio ieri pomeriggio al ministero del Lavoro si è svolta una nuova
riunione tecnica con gli esperti di palazzo Chigi. A buon punto è il Dlgs sul riordino delle
tipologie contrattuali. Qui si va verso un graduale superamento delle collaborazioni a
progetto (l’ipotesi è fissare la deadline al 1° gennaio 2016), e una ridefinizione
complessiva delle cococo. Verso la cancellazione anche delle associazioni in
partecipazione e del lavoro ripartito (il job sharing utilizzato in agricoltura, che conta
qualche centinaio di rapporti). Ci sarebbe una semplificazione dell’apprendistato di 1°
livello (per il diploma e la qualifica professionale) e di 3° livello (di alta formazione). Per il
lavoro a chiamata è ancora in corso una riflessione, per evitare di penalizzare alcuni
settori produttivi (commercio e ristorazione). Ancora in bilico è pure l’intervento sui contratti
a termine (la cui durata potrebbe scendere da 36 a 24 mesi).
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Sulle mansioni, si amplierebbero i margini di intervento del datore di lavoro nei casi di
riorganizzazione e ristrutturazione aziendale.
Tornando al parere, votato ieri dalla maggioranza, c’è il richiamo all’applicazione
omogenea delle nuove disposizioni a tutto il lavoro privato e pubblico, con l’eccezione
delle carriere d’ordine. In termini generali, è scritto nel parere, «la regolazione dei nuovi
contratti permanenti deve allinearsi alle discipline vigenti negli altri paesi europei, anche a
quelle più protettive».
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