`Chronos` e kairòs`. Figure antiche del tempo, tra infinito moto

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`Chronos` e kairòs`. Figure antiche del tempo, tra infinito moto
Linda M. NAPOLITANO VALDITARA
(InfinitaMente 2012)
<1> ‘Chronos’ e kairòs’.
Figure antiche del tempo,
tra infinito moto dei cieli e istante topico in terra1
L’affascinante poesia di Omero ci abitua a credere che i Greci ponessero una figura divina per ogni
fenomeno: <2> c’è un dio della luminosa volta celeste, dispensatrice di pioggia e fulmini, ed è il padre
degli dèi stessi, Zeus, c’è un dio del mare, delle onde e tempeste ed è Posidone dall’azzurra chioma, un
dio dell’abissale oscurità infernale ed è Ade, ‘colui che non si vede’. Anche il tempo dovrebbe esser
subito divinizzato: <3> ma la parola chrònos, che poi lo indicherà, non figura mai in Omero come
soggetto di un verbo; perciò pare che il tempo non sia ancora, qui, non tanto divinizzato, ma neanche
personalizzato.
Quest’eccezione alla regola non significa però che manchi nel mondo omerico un senso del tempo e del
suo scorrere. Proprio di ciò tien conto e su esso anzi fa perno l’attività del poeta: <4> egli, cantore della
storia e del sapere del suo popolo e delle gesta esemplari degli eroi, inizia il canto invocando le Muse,
figlie della divina Mnemosyne, la Memoria, e pregandole, con formula divenuta canonica, di riuscire a
cantare: “ciò che era, ciò che ora è, ciò che sarà”. Il suo mondo è visto dunque proprio nella dimensione
del tempo che si muta in passato, <5> un fluire inesorabile che, però, proprio la memoria poetica può
vincere, serbando nel presente e futuro il ricordo dell'accaduto ‘prima’.
La formula “ciò che era, ciò che è, ciò che sarà” è un primo buon approccio alle storie con cui i Greci
trattano il tempo perché già ce ne segnala la duplice raffigurazione: <6> da un lato un tempo oggettivo,
quantitativo, sempre uguale, duraturo e anzi eterno, scandito secondo ritmi precisi (giorno/notte,
stagioni, anno) dall’infinito ruotare attorno alla Terra delle sfere celesti (siamo, ancora, in pieno
geocentrismo), un tempo detto appunto Chrònos; e, dall’altro, un tempo umano, soggettivo, poliforme,
colorato emozionalmente, deputato non solo a percorrere retrospettivamente il passaggio, non sempre
agevole e talora doloroso, drammatico, di noi umani entro quel primo tempo oggettivo, ma anche, così,
a sottrarci all’inesorabile passar oltre di questo primo tempo, che tutti ci annulla nella morte. Da
Chrònos l’uomo greco sa dunque di dipendere ma tenta anche di sottrarglisi, ascrivendosi varie forme
di una possibile eternità, per prima questa valsa dall’aedo arcaico e dalle storie passate ch'egli narra,
sottraendone così i protagonisti al tempo che li divora.
<7> Nella genealogia degli dèi del poeta Esiodo, Chronos è, sì, divino, ma non il primo, né perciò, a
prima vista, è principio originario. Egli è generato da dèi essi sì primigeni, Gaia, la Terra, e Urano, il
cielo stellato: e però presiede all’atto fondante della creazione, perché lui solo, tra i loro nati, sa opporsi
al padre, a Urano che respingeva per odio i propri figli nel ventre della Terra madre. <8> Crono, avuta
da lei una falce, evira il padre e lo stacca dal fatale abbraccio con lei: la creazione del mondo è dunque
lacerazione, ma quest’atto di Crono che divide e separa segna anche la distinzione tra passato e futuro,
prima e dopo. Separando uno dall’altra e così facendo essere cielo e terra, Crono genera il mondo, ma
determina anche il presente – dove agisce lui stesso, il tempo – nell’atto di dividerlo dal passato, da
quel contraddittorio ‘prima di tutto' in cui, non essendovi nulla o, meglio, essendo tutto indistinto, non
vi era neppure, ancora, alcun tempo.
Simile l’atto di divisione-determinazione del futuro: <9> informato che sarà anch'egli detronizzato da
uno dei suoi figli, il Crono esiodeo li divora appena nati; finché, <10> al posto dell’ultimo, Zeus, non
gli sarà ammannita una pietra “avvolta in fasce” ed egli, ingannato, la inghiottirà: allora, sconfitto nei
suoi “torti disegni” di sovranità violenta, egli vomiterà i figli prima divorati, staccandosene e lasciando
così essere quel futuro che voleva, fino ad allora, trattenere nel proprio esclusivo presente. Sarà suo
figlio Zeus a prenderne il posto di sovrano divino <11>.
E’ in un’altra tradizione, quella orfica, che Chrònos è invece primo, un tempo assoluto e signore che,
come ha in mano il capo iniziale del mondo, così è deputato a scandirne e controllarne gli eventi ed
esiti futuri: <12> l’orfismo, movimento religioso nato anch’esso all’insegna di un cantore, il tracio
Orfeo, e presente in varie scuole di filosofia, la pitagorica, l’empedoclea fino a quella di Platone, crede
che l’anima dèmone che sta in ognuno impieghi un tempo lungo (fino a 3 volte 10.000 anni) per
purificarsi dalla colpa che l’ha precipitata in un corpo e per sottrarsi così alla ruota delle reincarnazioni
<13>. Il tempo che scandisce questa vicenda morale dell’anima non è più, allora, come il Chrònos
esiodeo, generico, indifferente a tutto salvo alle parti tutte uguali ch'egli stesso determina entro di sé:
quello orfico è invece un tempo orientato a un esito, appunto il faticoso purificarsi del dèmone, un
tempo i cui momenti, perciò, si succedono distinguendosi non solo quantitativamente, ma per qualità,
poiché miranti a un miglioramento e dove il ‘dopo’ si auspica e anzi si pretende e si controlla non sia
uguale al ‘prima’, un tempo del cui buon uso l’uomo è ritenuto, ora, responsabile.
Proclo riferisce <14>: “Questo tempo senza vecchiaia, la cui sapienza non perisce, generò Etere <il
Quinto Elemento, la materia inalterabile dei cieli> e un grande prodigioso abisso sbadigliante” ; è
questa la Grande Bocca spalancata, il Chàsma o Chaos, da cui poi andrà, sempre per divisioi
determinanti, generandosi il mondo. Il Crono orfico avrebbe avuto “sempre neri i peli sul mento” :
dunque è un tempo che, se non invecchia, non diviene, mentre son le cose a divenire in esso. Inoltre, a
differenza del Chrònos esiodeo ch’era un tempo principiato, <15> questo orfico è un tempo originario:
“Da principio si rivelò al Tempo l’Etere, creato dal dio”); e ancora: “(Zeus) orbene e Tempo furono
sempre…”. Poiché originario il Chrònos orfico è anche creatore e perciò “i filosofi... pongono Tempo
come unico principio di tutte le cose”. Ma la dinamicità cui egli dà vita, è inarrestabile, necessaria: lo
nota Pindaro: “far sì che l’accaduto non sia accaduto, questo / non potrebbe neppure Chronos, Padre di
tutte le cose”.
Qualitativamente determinato poiché mirante a un fine, perciò significativo in sede morale, primo e
creatore, questo tempo orfico, personalizzato e divino, influenza anche quello dei primi filosofi
operanti dal VI sec. a.C. nella turca Mileto: <16> per Talete “Tempo è il più saggio di tutti poiché
manifesta tutte le cose”: dunque il provenire dal suo alveo delle cose stesse e il loro starvi sempre fa sì
ch'egli ne sia sapiente, che le conosca tutte e ognuna, meglio di ogni altro e di sapienza piena e mai
finita.
Il filosofo milesio Anassimandro invece echeggia la creazione esiodea come colpevole lacerazione,
connotando però questo tempo di un altro tratto, la circolarità, il tornar su di sé: “principio degli esseri è
l’infinito”, egli dice, “da dove hanno origine, là hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché
pagano l’un l’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo”.
A questo 'portare a compimento' le cose, legandone inizio e fine si rifà lo stesso nome Chrònos: <17>
esso infatti deriva non tanto, come pure ipotizzato, dal verbo kèiro, 'scindo', 'separo', 'scandisco' (come
il latino Tempus dal greco tèmno, 'divido'), ma da un altro verbo, chràino, che significa proprio 'porto a
compimento', 'realizzo'.
<18> La circolarità del tempo vale in vari ambiti: anzitutto in quello simbolico, nell'icona, già egizia e
simboleggiante l'infinito, dell'Uroboro, il serpente che, chiuso ad anello, si morde la coda, e poi in sede
geografica, nel riferimento a Oceano, il grande fiume che come una cintura circonda la Terra rifluendo
infinitamente in se stesso. La circolarità indica la vita che sempre muta e si rinnova, come la pelle del
serpente appunto, e il ciclico succedersi delle stagioni: <19> non è un caso che, proprio per differenza
da essa, il medico Alcmeone di Crotone segnali la ragione della mortalità dell'uomo, che muore, a suo
dire, proprio “perché non può raccordare l'inizio con la fine”.
Ma il valore di questa circolarità è anzitutto morale, se proprio il tempo che tutto conosce è deputato a
comminar la punizione per le colpe commesse o anche, più di rado, ad assegnare il premio dei meriti
maturati. Solone intende la Giustizia come figlia del Tempo: “<gli uomini> van rubando, ... / né
rispettano i sacri decreti della Giustizia, / che silenziosa, … vede passato e futuro, / e, infallibile, un
giorno torna a chiedere il conto”.
<20> Stessa circolarità, con valore morale, echeggia anche nel tempo di Pindaro, “testimone unico
della verità”, e in quello del drammaturgo Sofocle, il cui Chrònos, “sovrano” e “onnipotente” , è “il dio
che appiana tutto” , “tutto vede e tutto porta alla luce” . Entro questo eterno flusso circolare, deputato a
scoprire le verità che l'uomo vorrebbe nascondere e a punire i colpevoli, entro questo scorrere
sovraumano si definiscono anche 'tempi parziali', quelli assegnati agli uomini per percorrere la via
esistenziale loro riservata: Aiòn, l'evo, il periodo di vita assegnato a ogni uomo, ha per padre Chrònos
secondo Eschilo e, per Euripide, è il destino personale, figlio anch'esso del tempo. <21> Emblematici,
ora, i versi finali dell'Edipo re: “guarda al giorno estremo”, canta il Coro piangendo lo sfortunato Re di
Tebe, “e non dire felice un mortale, prima che abbia varcato il termine della vita senza aver patito
dolore”.
L'infinita regolare circolarità di Chrònos ha in epoca classica un più importante ruolo, che la storia
della scienza poi sviscera e codifica, facendone il perno del cosmo fino alla rivoluzione copernicana:
<22> la teoria delle sfere omocentriche fu elaborata dagli astronomi dell'Accademia di Platone, che
pose loro il problema di dar ragione dei moti apparentemente disordinati degli astri, riconducendoli a
un sistema unitario e regolare. Il matematico e astronomo Eudosso di Cnido immaginò un universo
chiuso entro l'involucro del Cielo detto delle Stelle Fisse, con la Terra al centro e attorno un sistema di
oltre 50 sfere concentriche ruotanti a velocità e in direzioni diverse diverse, abitate dai pianeti (da
plànetes, 'l'errante') e fatte tutte della stessa materia, inalterabile e capace solo di moto circolare, detta
appunto Quinto Elemento, oltre ai 4 sublunari di acqua, aria, terra e fuoco, o anche Etere (da aèi thèo,
'corro sempre'). <23> Chrònos scandisce la somma infinitamente durevole di tali moti circolari e
regolari, quelli che sulla Terra si apprezzano come succedersi di giorno e notte, fasi della luna e maree,
subentrare delle stagioni e degli anni. Un sistema teorico errato, come avremmo scoperto con
Copernico e Galileo, ma che influenza potentemente la storia, l'astronomia, la religione, la teologia,
l'etica fino al Medio Evo, è l'articolato scenario della Commedia dantesca e perno del nostro stesso
linguaggio, se ancor oggi ci aspettiamo che sia il sole a 'sorgere' su ognuno dei nostri giorni.
<24> Per Platone fu il Grande Artigiano divino, il Demiurgo, creata l'anima del mondo, a plasmare il
'vivente' complesso che è il nostro universo: non potendo, poiché era generato, farlo eterno come i suoi
modelli perfetti, le idee poste nell'Iperuranio, loro sito extraceleste, il Demiurgo “escogitò di produrre
un'immagine mobile dell'eternità e, ordinando insieme il cielo, mentre l'eternità restava ferma nella sua
unità, ne produsse un'immagine eternamente moventesi secondo il numero,... che abbiamo chiamato
tempo; e giorni, notti, mesi e anni, inesistenti prima che il cielo fosse generato, allora li fece nascere...”.
<25> Simile il racconto del guerriero Er, morto di morte apparente, che Platone fa tornare a narrare le
meraviglie viste nell'aldilà: le sfere celesti, egli narra, sono agganciate all'asse dell'universo che,
attraverso il centro della Terra, svetta per tutto il cielo, “una luce dritta come una colonna, simile
all'arcobaleno, ma più intensa e pura”; <26> essa è assimilata a un fuso, posto sulle ginocchia di
Anànke, dea irremovibile della Necessità superiore a tutti gli altri dèi, e le sfere son viste qui come otto
fusaioli, incastrati e in moto uno dentro l'altro. Su ogni sfera sta e canta una Sirena, “che, trascinata dal
moto, emette una sola nota su un unico tono; e le otto note diverse creano insieme una sola armonia”.
Platone fa dunque cenno all'armonia musicale dei cieli, presentando questo cosmo ruotante nel tempo
anche come un immenso carillon o strumento musicale ben temperato da cui s'alza una melodia che noi
mortali, sentendola da sempre, non sappiamo più di udire: ma il cosmo di Eudosso e Platone è un
mondo che si muove nel tempo e, con ciò, andando anche sonoramente … a tempo.
<27> Il moto dei cieli fonda il tempo anche per Aristotele, che, però, lo lega non solo a tale supporto
astronomico, ma anche ad una coscienza (psuchè) che sappia 'numerarne' il moto: se non esiste ciò che
può numerare, non può neppure darsi un numerabile, sicché neanche il numero esisterebbe; dunque, a
suo dire: “non può esistere tempo se non esiste l’anima”.
All'anima e alle sue parti superiori, la razionale e soprattutto l'intellettiva, Platone e Aristotele
ascrivono anche un'immortalità che la dovrebbe portare, oltre la morte del corpo, nell'eternità
intemporale del divino. Ma non è di questa via d'uscita dal tempo, complessa da ricostruire in poche
battute, che posso parlare: preferisco, prima di chiudere, far cenno a un'altra via di sottrazione a
Chrònos, quella, a mio avviso modernissima, che pone noi uomini, già qui in terra, nel tempo
eccezionale dell'istante detto kairòs.
Platone, in alcuni passi difficili, parla di <28> 'istante' (exàiphnes) per giustificare i mutamenti delle
cose da uno stato, p.es. la quiete, a quello opposto, il moto, e viceversa: il mutamento avverrebbe in un
attimo particolare, dove ciò che si muove non è ancora fermo, né ciò che è fermo già si muove, in
“questo istante (exàiphnes) dall'eccezionale natura, posto in mezzo fra moto e immobilità, e che non sta
in alcun tempo”.
La parola greca exàiphnes, un avverbio sostantivato, indicante dunque un modo dell’azione, un
‘istantaneamente’, sigla in Platone l’arrivo improvviso di qualcuno, di un’emozione distruttiva come
l'ira, di una calamità o un incidente, l’insorgere di uno stato piacevole come la percezione d'un
profumo, o il darsi del salto conoscitivo in cui finalmente, prima ignoranti, si comprende: tutti casi che
sono non solo inattesi, ma altrettante rotture innovative dello stato in cui il soggetto prima si trovava.
Qualcuno di questi 'istanti', però, non è solo da subire, ma è anche, per noi, un attimo fortunato da
cogliere alla fine di uno sforzo e di una fatica, un kairòs appunto.
Se certo poco o nulla possiamo per evitare l'istante in cui una calamità ci colga fra capo e collo, molto
se non tutto possiamo invece fare, per Platone, per valerci l'istante topico della comprensione,
dell'illuminazione del vero, del piacere puro, della vera felicità, quello che non è, perciò, un istante
qualunque, scambiabile con un qualsiasi altro posto sulla linea del tempo, solo una delle indistinguibili
parti autodivorantisi di Chrònos.
<29> Sta a noi lavorare per valerci quell'attimo: “quando (nomi, definizioni, visioni, sensazioni) son
faticosamente sfregati gli uni contro gli altri, e discussi con domande e risposte in confronti benevoli e
senz'odio, allora d’un tratto riluce comprensione su ogni concetto e intelligenza, chi si sforzi quanto
più si può a capacità umane”.
<30> Lo stesso fa il vasaio, se sa cogliere l'attimo in cui i suoi manufatti, nel forno, son cotti a puntino,
lo stesso il pilota della nave, se gira nel tempo e senso giusti la barra e alza o ammaina le vele, lo stesso
l'atleta, se a tempo debito e con la dovuta forza lancia il disco, scocca la freccia, incalza o molla
l'avversario, lo stesso il medico, se dosa il farmaco e il punto e la profondità dell'incisione che va
praticando. <31> Non per caso la più bella immagine di Kairòs, l'istante topico, l'occasio, o l'attimo
fortunato, trovata a Traù, nell'attuale Croazia, era forse posta all'ingresso d'uno stadio: il bassorilievo
raffigura un giovane con le ali ai piedi, recante in mano una bilancia posta in equilibrio su un rasoio e,
soprattutto, con un gran ciuffo di capelli sulla fronte, ma la nuca rasata. Nessuno lo afferrerà più una
volta che ci sia passato accanto, che sia andato oltre: ma sta anche a noi prevenirne i movimenti e la
fuga, sta a noi, in una serie di attimi, frammenti di tempo tutti uguali, scovare, cogliere, afferrare
quell'unico in cui saremo a tempo perfetto con l'armonia cosmica, in cui i nostri scopi s'integreranno
perfettamente nel battito ritmico del suo scorrere infinito.
Comprendere, agire ed operare bene, godere, essere felici: sforzarci e faticare per tutto questo e poi,
con semplicità e facilità inattese, riuscire ed uscire dal tempo, dall'indifferenza infinita e divorante di
Chrònos, guadagnare, sia pur solo per quell'attimo, il tempo eterno di Dio, nella perfezione di ciò che la
nostra natura poteva compiere e che di fatto ha saputo compiere.
<32> Così Rainer Maria Rilke dice il Kairòs grecoantico: “E a un tratto, in questo faticoso nessundove,
a un tratto, / l'indicibile punto, dove quel ch'era sempre troppo poco, / inconcepibilmente si trasmuta,
salta / in un troppo, vuoto. Dove il conto a tante poste / si chiude senza numeri”.
Dentro un chrònos infinito e inesorabile, un kairòs unico, capace dunque, se colto, di renderci, per
quell'attimo e per sempre, eterni.
<33>
Linda M. Napolitano Valditara
Professore Associato di Storia della Filosofia Antica
Direttivo SISFA (Società Italiana per lo Studio della Filosofia Antica)
Socio IPS (International Plato Society)
Dipartimento di Filosofia, Pedagogia e Psicologia Università di Verona
Chiostro S. Francesco 22 37129 VERONA
tel.: +39 045 8028431
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