trivellazioni - Movimento Valledora

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trivellazioni - Movimento Valledora
L’altro metano - Uno spettro si aggira tra Mosca e Teheran: è boom negli Usa del “gas non
convenzionale”
Milano, 19 luglio – Non sarà la green economy di Obama e neppure la nuova voglia di nucleare più
o meno civile a cambiare le carte della geopolitica internazionale. La nuova rivoluzione alle porte,
che sta facendo tremare i polsi a Mosca come a Teheran, si chiama “shale gas” ed è noto ai più
come “gas non convenzionale”. Non convenzionale perché, a differenza del fratello più noto, è
contenuto negli scisti d’argilla, nei letti di carbone e nelle sabbie compatte. E oggi si può estrarre
con tecnologie meno costose.
Con la fine del petrolio in un futuro non troppo lontano e la rapida ascesa del gas naturale per la
generazione termoelettrica, i leader di Russia e Iran pensavano che nulla (forse solo la guerra)
potesse ostacolare la loro leadership sul mercato dell’oro blu. Fino a oggi, appunto, perché negli
Stati Uniti qualcuno ha deciso di investire in ricerca scoprendo che da quei giacimenti atipici era
possibile ottenere riserve fino a quattro volte quelle esistenti (e questo si sapeva già), ma soprattutto
era necessario mettere a punto un metodo di estrazione a costi competitivi con quelli dei giacimenti
tradizionali. E la novità, forse in grado di modificare gli equilibri energetici globali, sta
nell’applicazione contemporanea di due tecniche: la prima è la trivellazione orizzontale, che
aumenta l’area da cui può essere estratto il metano; la seconda è l’acqua sparata ad alta pressione
nel pozzo, mista ad acidi chimici, che frantuma le rocce e libera il metano che contengono. Questo
diabolico uno-due sembra aver rianimato di colpo tutto le compagnie gas&oil.
Le quantità, secondo le ultime stime, sono in effetti di tutto rispetto. E se negli Stati Uniti, dove lo
shale gas sta vivendo un boom, le riserve appaiono in grado di assicurare cento anni di consumi,
secondo uno studio del National petroleum council britannico, nell’Europa centrale e orientale ci
sono riserve dell’altro metano equivalenti a 92 miliardi di barili di petrolio, uno dei più grandi hot
spot del pianeta. Una recente ricerca della Shell evidenzia poi che le riserve di gas non
convenzionale in Europa potrebbero arrivare a 1.200 trilioni di piedi cubi, vale a dire cinque volte
l’ammontare delle riserve comprovate. Con queste cifre è scattata allora la grande corsa da parte
delle major. La più grande operazione finanziaria, in campo energetico, degli ultimi quattro anni è
l’acquisizione da parte di Exxon, per la cospicua cifra di oltre 30 miliardi di dollari, di Xto, una
società specializzata proprio nel gas non convenzionale. Ma anche Shell, Chevron (in Polonia e
Bulgaria), Bp (almeno fino all’ecotragedia), Total e la norvegese Statoil sono entrate nel settore. E
la nostra Eni? Non si è tirata indietro. Ha già fatto un investimento in Texas, soprattutto per
acquisire know-how. Ad Alliance, vicino Dallas - dove sono presenti circa 13mila acri con una
produzione pari a 106 mmcf/d (milioni di piedi cubi di gas al giorno) destinata a salire a 250
mmcf/d entro il 2012 - si è unita alla compagnia indipendente Quicksilver. Inoltre, è già pronto un
accordo per sfruttare l’altro metano della vicina Tunisia.
Ma non tutti cavalcano il jolly energetico americano. Se ha impressionato che alcune compagnie
come l’Apache - oggi sulla cresta dell’onda perché sta acquistando asset di Bp - abbiano
riconvertito rigassificatori di metano per trasformarli in terminal per l’esportazione di shale in gas
in Asia, sono diversi gli scettici. Le controindicazioni sono soprattutto di tipo ambientale. Come
ricorda Jean-François Cirelli, presidente del colosso francese dell’energia Gdf Suez, “lo sviluppo
delle riserve di shale richiede enormi quantitativi di acqua e molti più pozzi rispetto alle
trivellazioni tradizionali. Considerando che la superficie a disposizione è molto meno estesa, gli
europei avranno certamente più difficoltà a scavare”. Frantumare interi strati rocciosi nel sottosuolo
può, infatti, compromettere la stabilità geologica, ma il problema più grosso è soprattutto la quantità
d’acqua impiegata: per aprire un singolo pozzo occorre sparare sottoterra circa 10 milioni di litri.
Inoltre l’acqua, carica di additivi chimici, che risale insieme al gas è inquinata, va raccolta e
smaltita, e la frantumazione delle rocce può metterla in comunicazione con le falde potabili. Lo
sanno bene i cittadini che vivono fra la Pennsylvania e New York, dove è stato bloccato lo
sfruttamento di uno dei più grossi giacimenti americani per le preoccupazioni relative alle falde
acquifere. La città della Grande Mela ha ricevuto l’appoggio dell’Environmental protection agency
(Epa) statunitense, che il 30 dicembre ha pubblicato un rapporto in cui erano espresse “gravi
riserve” sulle attività di trivellazione. IA proposito, il Congresso sta considerando una legge che
sottoporrebbe la cosiddetta “fatturazione idraulica” alle severe regole dell’Epa: l’ipotetica norma,
secondo i funzionari del settore, bloccherebbe le attività di esplorazione ed estrazione per anni.
Di queste controindicazioni le compagnie, anche e soprattutto in virtù di quanto è accaduto nel
Golfo del Messico, sono oggi molto più consapevoli perché la salvaguardia ambientale rappresentata dalla politica che fa leggi anti-barile sull’onda del pathos popolare, o dalla giustizia
che ti costringe a risarcimenti miliardari - rischia seriamente di mettere in ginocchio qualsiasi
grande impresa. Non è un caso dunque che Exxon, nell’acquisizione di Xto, abbia inserito una
clausola che permette al gigante del petrolio di ritirarsi dall’accordo nel caso in cui il Congresso
renda l’operazione shale gas “illegale o commercialmente impraticabile”. Di questi tempi bisogna
essere prudenti.
di Roberto Bonafini
[email protected]
Data: 27/07/2010 11.06