Dal pareggio di bilancio i nuovi limiti all`indebitamento
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Dal pareggio di bilancio i nuovi limiti all`indebitamento
Dal pareggio di bilancio i nuovi limiti all'indebitamento di Luciano Cimbolini La legge 164/2016 ha introdotto, anche in materia di ricorso all'indebitamento, importanti modifiche alla legge 243/2012 di attuazione del principio del pareggio di bilancio in base all'articolo 81, comma 6, della Costituzione. La nuova formulazione dell'articolo 10 prevede, conformemente all'articolo 119, comma 6, della Costituzione, che il ricorso all'indebitamento da parte delle Regioni, dei Comuni, delle Province, delle Città metropolitane e delle Province autonome di Trento e di Bolzano sia consentito esclusivamente per finanziare spese di investimento. In altre parole, viene confermata la regola, introdotta con la modifica costituzionale del 2001, che ha costituzionalizzato il principio del rispetto del pareggio di bilancio corrente da parte degli enti territoriali (la cosiddetta "golden rule"), che finalizza il ricorso all'indebitamento al solo finanziamento di spese d'investimento. Il piano d'ammortamento Le operazioni d'indebitamento possono essere effettuate solo contestualmente all'adozione di piani di ammortamento di durata non superiore alla vita utile dell'investimento, che evidenzino l'incidenza delle obbligazioni assunte sui singoli esercizi finanziari futuri, nonché le modalità di copertura dei relativi oneri. Non si potranno pertanto contrarre, ad esempio, debiti di durata ventennale per acquisire beni che hanno un ammortamento quinquennale. Questo dovrebbe impedire dei deficit intergenerazionali, derivanti dal fatto che l'utilità del bene sia interamente consumata da una generazione precedente e l'ammortamento, invece, sia posto a carico anche delle generazioni successive. Il piano d'ammortamento dovrà evidenziare sia l'onere derivante dalla restituzione del capitale, sia il costo, in termini d'interessi, del ricorso al debito, sia le modalità con le quali l'ente provvederà al relativo finanziamento nei bilanci futuri. Le intese regionali Essendo entrata non rilevante, al pari dell'avanzo di amministrazione, ai fini del conto consolidato delle Pa ai sensi del Sec 2010, le operazioni di indebitamento e le operazioni di investimento realizzate attraverso l'utilizzo dei risultati di amministrazione degli esercizi precedenti, potranno essere effettuate solo sulla base di apposite intese concluse in ambito regionale che garantiscano, per l'anno di riferimento, il rispetto del saldo finale di competenza non negativo di cui all'articolo 9, comma 1, della stessa legge 243/2012 del complesso degli enti territoriali della regione interessata, compresa la medesima Regione. La Regione e i suoi enti territoriali, dunque, potranno giocarsi gli spazi finanziari al loro interno, ma non potranno "forzare" il saldo finale loro assegnato. Qualora le intese regionali non siano sufficienti, l'indebitamento e gli investimenti finanziati attraverso l'utilizzo degli avanzi di amministrazione degli esercizi precedenti, potranno essere garantiti mediante patti di solidarietà nazionali, restando fermo però il saldo finale non negativo di competenza per complesso degli enti territoriali. I criteri e modalità di attuazione della nuova versione dell'articolo 10 della legge 243/2012, ivi incluse le modalità attuative del potere sostitutivo dello Stato, in caso di inerzia o ritardo da parte delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano, saranno disciplinate con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, da adottare d'intesa con la Conferenza unificata. Nel Def 9-10 miliardi di nuova «flessibilità» di Marco Rogari e Gianni Trovati Le misure che in manovra bloccheranno gli aumenti Iva previsti dalle clausole di salvaguardia e punteranno a rilanciare gli investimenti privati e pubblici avranno il compito di far salire il Pil dello 0,4% in più rispetto alla dinamica che si disegnerebbe a legislazione invariata. La scommessa è indicata nella nota di aggiornamento al Def approvata nella tardissima serata di ieri dal Consiglio dei ministri: quest'anno la ricchezza nazionale crescerà dello 0,8%, cioè quattro decimali in meno rispetto all'1,2% previsto del Documento di aprile, mentre per l'anno prossimo il «tendenziale», cioè appunto il risultato che l'economia otterrebbe senza nuovi interventi, è indicato dal governo allo 0,6%: toccherà appunto agli stimoli della manovra farlo salire fino al +1%, il nuovo obiettivo fissato per il 2017 al posto dell'1,4% ipotizzato ad aprile. A motivare la differenza, nei programmi del governo, c'è lo stop alle clausole di salvaguardia che avrebbero fatto aumentare l'Iva, e il pacchetto fiscale basato sul rilancio del superammortamento e sugli altri interventi previsti per l'«Industria 4.0» e per le piccole e medie imprese. A permettere questa spinta all'interno della nuova legge di bilancio, che dovrebbe di conseguenza valere fra i 22 e i 25 miliardi, è lo spazio aggiuntivo che il governo punta a ottenere nel corso del difficile confronto con l'Europa, destinato a sfociare a metà novembre nel giudizio ufficiale. La nota di aggiornamento al Def fissa al 2% il rapporto fra deficit e Pil per l'anno prossimo, contro il 2,4% con cui si chiude il 2016; il nuovo obiettivo si colloca quindi due decimali sopra all'1,8% che era stato indicato in primavera. Le tabelle approvate ieri, però, aggiungono un ulteriore 0,4%, riconducibile alle circostanze eccezionali per sisma e migranti: fino a ieri pomeriggio l'ipotesi dominante parlava di uno 0,3% aggiuntivo, ma alla fine del consiglio dei ministri il premier Renzi ha ufficializzato il decimale in più, che porta il deficit "sostanziale" del 2017 al 2,4%. Tradotta in euro, questa mossa metterebbe a disposizione del governo 9-10 miliardi aggiuntivi. Per arrivare all'obiettivo bisogna però superare due passaggi non scontati: il governo deve prima di tutto ottenere in Parlamento, a maggioranza assoluta come impone la riforma della legge di bilancio, l'autorizzazione a chiedere all'Europa di poter utilizzare questi spazi aggiuntivi, e la Ue deve a sua volta accendere il disco verde guardando anche al deficit strutturale e al percorso per centrare il pareggio di bilancio che per il ministro Padoan rimane al momento confermato nel calendario attuale. Il rallentamento del prodotto nazionale si riflette anche sul peso del debito, facendo mancare l'obiettivo di limare già da quest'anno la sua incidenza sul Pil. La nota di aggiornamento certifica che il passivo della Pubblica amministrazione resta a quota 132,8%, mentre il Def di aprile prevedeva una leggera discesa, a 132,4. La sfida viene quindi rinviata all'anno prossimo, quando il rapporto fra debito e Pil è chiamato a scendere al 132,2% anche grazie a una nuova tranche di privatizzazioni, altro filone che nel 2016 ha marciato a ritmi più lenti del previsto. Per completare il quadro dei numeri di finanza pubblica manca a oggi il dato sulla pressione fiscale, che per il momento il governo non ha fornito. In questo quadro, i nuovi margini di «extra-deficit» al centro della trattativa con Bruxelles dovrebbero permettere al Governo di costruire una manovra da 22-25 miliardi. La coperta resta corta, e la conferma arriva dall'orientamento di limitare a 1,5 miliardi la dote per il pacchetto pensioni che sarà discusso oggi con i sindacati, in questi giorni già "freddi" di fronte all'ipotesi iniziale che parlava di uno stanziamento intorno ai due miliardi. Solo la sterilizzazione delle clausole di salvaguardia legate agli aumenti Iva, del resto, "ipoteca" oltre 15 miliardi di euro, dunque intorno al 60 per cento della manovra complessiva. Il resto, come ribadito in più di un'occasione dal ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan, andrà concentrato sulla spinta agli investimenti: in questo quadro così stretto, però, resta ancora da capire quale sarà la dote effettiva sul versante degli investimenti pubblici, a partire da quelli locali. Revisori, al via la nuova procedura per visualizzare gli incarichi in scadenza di Patrizia Ruffini Da oggi i revisori dei conti che sono iscritti al registro, sperando nell'estrazione a sorte, potranno conoscere le prossime scadenze degli incarichi, grazie a una nuova funzione «Scadenze incarichi» attivata nella pagina internet dedicata all'Elenco dei revisori dei conti degli enti locali (www.finanzalocale.interno.it/ser/revisori_intro.html). La nuova procedura Con un comunicato di ieri, il ministero dell'Interno ha pubblicizzato la nuova procedura, che mostra tutti gli enti locali i cui incarichi di revisione economico finanziaria dovrebbero essere rinnovati nel periodo di un anno dalla data dell'interrogazione. È possibile visualizzare la scadenza naturale dell'incarico triennale degli organi di revisione per i quali non è stata ancora effettuata l'estrazione a sorte per il relativo rinnovo, con l'indicazione della data di inizio e di fine incarico ovvero, nel caso in cui non siano stati ancora inseriti nel sistema gli estremi della nomina consiliare, della data del sorteggio. L'estrapolazione dei dati può avvenire tramite un'interrogazione a più livelli (nazionale, regionale, provinciale) e con ordinamento alfabetico oppure temporale in base alla data di scadenza dell'incarico. Il sito dedicato A oltre tre anni dal suo avvio il sito dedicato al nuovo sistema di scelta dei revisori dei conti degli enti locali mediante estrazione a sorte dall'apposito elenco continua ad arricchirsi di funzionalità informative. Nel mese di luglio era stata aggiunta la possibilità di conoscere i dati relativi alla composizione, decorrenza e scadenza degli organi di revisione nominati con il nuovo sistema. La funzione mostra tutti i sorteggi che hanno interessato ciascun ente locale, a partire dal 10 dicembre 2012 (data di inizio del nuovo sistema di scelta dei revisori) e le successive nomine effettuate. Doppio accantonamento per le perdite delle società di Anna Guiducci La programmazione degli enti locali deve fare i conti con i risultati di esercizio dei soggetti partecipati. L'articolo 21 del Dlgs 175/2016 integra e modifica le disposizioni già recate dai commi 550 e seguenti della legge 147/2013 riguardanti l'obbligo per le pubbliche amministrazioni locali di accantonare un fondo vincolato parametrato alle perdite dell'esercizio precedente di aziende speciali, istituzioni e società partecipate. Le regole sono però diverse a seconda che l'ente proprietario adotti la contabilità finanziaria o quella civilistica. Nel primo caso, occorre accantonare in bilancio un importo pari al risultato negativo non immediatamente ripianato, in misura proporzionale alla quota di partecipazione posseduta. Le pubbliche amministrazioni locali che adottano invece le regole contabili civilistiche sono tenute ad adeguare il valore della partecipazione all'importo corrispondente alla frazione di patrimonio netto della società partecipata. L'adeguamento deve essere operato nel corso dell'esercizio successivo laddove il risultato negativo non sia stato immediatamente ripianato e quindi costituisca perdita durevole di valore. Per le società che redigono il bilancio consolidato, il risultato di esercizio è quello relativo al gruppo. Nelle società che svolgono servizi pubblici a rete di rilevanza economica, il risultato di esercizio è da intendersi quale differenza tra valore e costi della produzione come prevede l'articolo 2425 del Codice civile. Lo svincolo delle somme accantonate da parte dell'ente proprietario può avvenire a seguito di ripiano della perdita di esercizio, per dismissione della partecipazione o per messa in liquidazione del soggetto partecipato. Per gli anni 2015, 2016 e 2017, gli enti pubblici locali in contabilità finanziaria possono applicare gli accantonamenti in maniera graduale. Un'attenzione particolare viene posta nei confronti delle società a partecipazione di maggioranza diretta e indiretta che risultino titolari di affidamento diretto per una quota superiore all' 80 per cento del valore della produzione. In caso di conseguimento nei tre esercizi precedenti di un risultato economico negativo occorre infatti operare una riduzione del 30 per cento del compenso dei componenti degli organi di amministrazione. La perdita registrata per due annualità consecutive costituisce inoltre giusta causa di revoca degli amministratori. Resta in ogni caso inteso che le sanzioni in questione non si applicano laddove il risultato negativo risulti coerente con un piano di risanamento preventivamente approvato dall'ente proprietario. L'utilizzo di risorse pubbliche deve in ogni caso rispondere a principi di correttezza e trasparenza. Le decisioni di acquisto o mantenimento delle partecipazioni societarie devono infatti scaturire a seguito di valutazioni da operare anche sul piano della convenienza economica e della sostenibilità finanziaria. Le analisi di convenienza economica devono poi considerare la possibilità di destinazione alternativa delle risorse pubbliche impegnate, nonché ipotesi di gestione diretta o esternalizzata dei servizi affidati. Violazioni Ici, solo l'incertezza normativa obiettiva esclude le sanzioni di Ulderico Izzo Con la sentenza n. 18008 del 14 settembre 2016, la Corte di Cassazione precisa due particolari aspetti in tema di imposta comunale sugli immobili: il primo relativo ai presupposti in cui si può avallare l’incertezza normativa delle disposizioni tributarie; il secondo sulla qualificazione di area edificabile di un terreno inserito in uno strumento di pianificazione generale. Il fatto La controversia concerne l'impugnazione del contribuente di un avviso di accertamento, in materia di imposta comunale sugli immobili per l’anno 2006, attraverso il quale un comune recuperava la maggiore imposta su un’area edificabile, considerata tale, sulla base della sola adozione del Piano regolatore generale. Il giudice di merito di primo grado si pronunciava favorevolmente all’ufficio, mentre quello di appello dava ragione, parzialmente, al contribuente, ritenendo non dovuti gli interessi e le sanzioni per obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria. Il comune ha impugnato, mediante ricorso per Cassazione, la sentenza della Commissione Tributaria Regionale, sostenendo che, al caso di specie, non sussistevano le condizioni di oggettiva incertezza normativa. La decisione La sentenza in rassegna, richiama il consolidato orientamento dei giudici di legittimità secondo il quale in tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, per incertezza normativa obiettiva, quale causa di esenzione del contribuente da responsabilità, deve intendersi la situazione che si crea per effetto dell'azione di tutti i formanti del diritto, tra i quali, in primo luogo, ma non esclusivamente, la produzione delle norme, il cui accertamento è rimesso all'esclusiva valutazione del giudice. La predetta incertezza è ravvisabile, solo quando risultino difficoltà di individuazione delle disposizioni normative dovute al difetto di esplicite previsioni di legge, ovvero oscurità o ambiguità del testo normativo. La Corte ha, correttamente evidenziato che per l’annualità 2005, la cui dichiarazione Ici si presentava a giugno 2006, pur sussistendo un orientamento secondo il quale la qualifica di area edificabile presupponeva, anche ai fini fiscali, il perfezionamento delle procedure per l'approvazione degli strumenti urbanistici, può ritenersi, tuttavia che fosse, invece, prevalente in giurisprudenza l’orientamento che riteneva edificabile l'area inserita in un Prg anche in assenza di strumenti attuativi. Il giudice di legittimità, inoltre, ha posto in evidenza che all’epoca era vigente la norma di interpretazione sulla definizione di area fabbricale (articolo 11, Dl 203/2005), norma che la Commissione tributaria regionale avrebbe dovuto applicare per decidere la causa in conformità alla legge. Ici, sanzionata l'omessa dichiarazione fino alla sua presentazione di Ulderico Izzo Con la sentenza n. 18230 del 16 settembre 2016 la Sezione V della Corte di Cassazioneafferma il principio in base al quale il comportamento omissivo del contribuente, in relazione alla mancata presentazione della dichiarazione Ici, viene sanzionato per tutte le annualità in cui l’omissione si protrae, mentre l’avvenuto adempimento è valido anche per gli anni successivi. Il giudice di legittimità afferma, inoltre, il principio per cui la rendita catastale risultante in atti al 31/12/1999, ma non recepita in atti impositivi dell’ente locale alla data di entrata in vigore della legge 342/2000, non esclude il pagamento di sanzioni e interessi in relazione all'accertamento della debenza di una somma maggiore a titolo di imposta per immobili la cui iscrizione in catasto e relativa attribuzione della rendita sia anteriore all'istituzione del tributo, anche se tale rendita non risulti notificata precedentemente all'emissione degli avvisi di accertamento. Il fatto La controversia concerne l'impugnazione, da parte del contribuente, di una serie di avvisi d'accertamento e liquidazione emessi dal comune, con i quali si richiedeva il pagamento dell'imposta Ici per il periodo 1999/2003 relativamente ad un immobile di proprietà della medesima contribuente. La ricorrente ha evidenziato di aver effettuato il versamento dell'imposta dovuta sulla base della rendita presunta, poiché non conosceva i dati di classamento della propria unità immobiliare, comunicati dal Comune solo in sede di notifica dell'avviso d'accertamento. Il giudizio di merito di primo grado si concludeva parzialmente favorevole al contribuente, mentre la Commissione Tributaria Regionale del Friuli, Trieste, adita dallo stesso contribuente, rigettava l'appello principale con accoglimento integrale di quello incidentale spiegato dall’ente impositore. La decisione La sentenza in rassegna ha deciso la controversia in linea con il proprio orientamento giurisprudenziale, in base al quale l'articolo 74 della legge 342/2000 non è applicabile alla fattispecie portata all’attenzione dei giudici di merito, in quanto alla data del primo pagamento Ici, l'immobile della contribuente era regolarmente censito con attribuzione di categoria e rendita; d'altra parte, la rendita catastale era stata elevata a far data dal 1° gennaio 1992 a seguito della revisione generale delle tariffe d'estimo del Nuovo catasto edilizio urbano di cui al Dm 27/9/1991. Tale variazione delle rendite è stata una variazione generalizzata che ha interessato tutti gli immobili iscritti in catasto e per la quale, costituendo una mera attuazione del disposto normativo, non era prevista una specifica notifica per ogni singolo contribuente. A contrario, invece, l'articolo 74 della legge 342/2000 riguarderebbe esclusivamente gli atti attributivi della rendita catastale a fabbricati non iscritti in catasto e gli atti modificativi della medesima rendita risultante in catasto, quando non è più adeguata per intervenute variazioni permanenti nel fabbricato e troverebbe esclusiva applicazione nel caso di legittimo utilizzo da parte del contribuente della cd rendita presunta. Inoltre, dalla sentenza in rassegna emerge un ulteriore principio inerente l’omessa presentazione della dichiarazione Ici: l’omessa dichiarazione si protrae per tutte le annualità successive e per ogni annualità l’ente impositore applica la dovuta sanzione; l’avvenuta presentazione si estende agli anni successivi. L'annullamento del permesso di costruire non determina l'automatica demolizione dell'opera di Gianni La Banca L’annullamento del permesso di costruire non comporta l'obbligo automatico per il Comune di disporre la demolizione di quanto realizzato sulla base del titolo annullato: tale consequenzialità è circoscritta al solo divieto di riprodurre i medesimi vizi (formali o sostanziali) che lo avevano connotato, nell’ipotesi di adozione di un nuovo titolo edilizio. È quanto afferma il Tar Campania, Napoli, con la sentenza 12 settembre 2016, n. 4234. Il fatto I ricorrenti, tutti comproprietari di alcuni appezzamenti di terreno, impugnavano il provvedimento dirigenziale con il quale il Comune disponeva, in via di autotutela, l’annullamento del permesso di costruire in sanatoria, rilasciato ai sensi dell’articolo 38 del Dpr n. 380 del 2001 per l'esecuzione dei lavori di completamento del fabbricato situato sui fondi predetti, e la successiva ordinanza di demolizione delle opere. Il dibattito in materia di sanatoria Nonostante indirizzi divergenti sull’esistenza di un generale divieto di rinnovazione dei permessi di costruire, annullati in sede giurisdizionale per vizi di carattere sostanziale, si privilegia un’interpretazione dell’articolo 38 Dpr n. 380 del 2001 volta alla conservazione dell’opera costruita in base al titolo annullato ogni volta che sia possibile una rinnovazione del permesso di costruire emendata dai vizi riscontrati, quale che ne sia la natura (formali o sostanziali). La finalità della norma è quella di dettare una disciplina che tenga in adeguata considerazione, in ragione degli interessi implicati, la circostanza che l’intervento edilizio è stato realizzato in presenza di un titolo abilitativo che, solo successivamente, è stato dichiarato illegittimo. L’Amministrazione deve, pertanto, valutare, con specifica motivazione, in ragione soprattutto di eventuali sopravvenienze di fatto o di diritto e della effettiva situazione contenutistica del vincolo, se sia possibile convalidare l’atto annullato. In altri termini, l’annullamento del permesso di costruire non comporta affatto per il Comune l'obbligo, sempre e comunque, di disporre la demolizione di quanto realizzato sulla base del titolo annullato, ma è circoscritto al divieto, in caso di adozione di un nuovo titolo edilizio, di riprodurre i medesimi vizi (formali o sostanziali che siano) che detto titolo avevano connotato. Il termine per l’annullamento in autotutela Quanto alla tempestività del provvedimento impugnato, l’articolo 21-nonies della legge n. 241 del 1990, nel prevedere il limite temporale del «termine ragionevole», ha introdotto un parametro indeterminato ed elastico – a differenza di altre fattispecie tipiche di annullamento codificate da norme speciali quali l’articolo 1, comma 136, della legge n. 311 del 2004 – finendo così per lasciare all’interprete il compito di individuarlo in concreto, in considerazione del grado di complessità degli interessi coinvolti e del relativo consolidamento, secondo il canone costituzionale di ragionevolezza. Nel caso di annullamento in autotutela di provvedimenti autorizzativi come i permessi di costruire, è ragionevole un termine di intervento che non superi il termine decennale assegnato in generale all’Amministrazione regionale (ex articolo 39 del Dpr n. 380 del 2001), per disporre l’annullamento dei titoli edilizi comunali contrastanti con la normativa urbanistico-edilizia vigente al momento della loro adozione. Conclusioni Il prevalente interesse pubblico all’annullamento può trovare la sua corretta ratio nel recupero delle aree affinché se ne faccia un utilizzo conforme alla loro destinazione urbanistica, e dunque alla relativa disciplina di Piano, risultando recessivo l’interesse dei ricorrenti alla conservazione di un’opera illegittima, realizzata in palese contrasto con le previsioni urbanistiche e condotta nel corso degli anni quasi ad ultimazione, nonostante fosse da subito evidente la concreta prospettiva che se ne potesse definitivamente accertare l’illegittimità. Il car sharing sul territorio comunale conta come taxi e mezzi pubblici di Mara Ciriani e Michela Magnani Il car sharing nell'ambito del territorio comunale è una possibile alternativa ai mezzi di trasporto con vettore. Lo ritiene l'agenzia delle Entrate, nella risoluzione n. 83/E, pubblicata ieri in risposta a un interpello. Secondo l'Agenzia, il servizio di car sharing nelle aree urbane rappresenta una evoluzione dei tradizionali sistemi di mobilità. Pertanto, se opportunamente documentati, anche i rimborsi delle spese di trasporto sostenute dai dipendenti in trasferta nel comune sede di lavoro rientrano tra quelli esenti da imposta, di cui al comma 5 dell'articolo 51 del Tuir. Viene quindi "aggiornata" la normativa in vigore, in base alla quale sono imponibili le indennità e i rimborsi di spese relative a trasferte effettuate nel medesimo comune ove è ubicata la sede di lavoro del dipendente, ad eccezione, solo, dei «rimborsi di spese di trasporto, comprovate da documenti provenienti dal vettore». L'interpretazione delle Entrate La risposta fornita dall'Agenzia si basa sulla sostanziale equiparazione del servizio fornito dal taxi con il servizio fornito dal car sharing e dalla documentazione rilasciata da quest'ultimo. Il servizio di taxi consiste infatti nel trasportare il cliente da un luogo (di partenza) alla destinazione pattuita e, per tale servizio, viene richiesto un corrispettivo sulla base della tariffa comunale in vigore. Analogamente, car sharing consiste nel mettere a disposizione del cliente un veicolo in un luogo predefinito (di partenza) con cui egli raggiunge la destinazione desiderata. Similmente al servizio di taxi, anche per il car sharing il corrispettivo è quantificato in ragione dell'effettivo utilizzo del veicolo, cioè in base alla durata e ai chilometri. Le fatture In conseguenza della possibilità di controllare tramite gli strumenti inseriti sui veicoli la durata e i chilometri percorsi dai clienti, le società di car sharing emettono fatture al termine di ogni utilizzo del tutto paragonabili, per analiticità e dettagli, ai documenti predisposti dai conducenti dei taxi. Quindi tali fatture, in linea di principio, possono essere riconosciute come documenti di spese di trasporto sostenute dai dipendenti e rimborsabili a "pie' di lista" ai sensi dell'articolo 51, comma 5, del Tuir. Pertanto, se le fatture emesse dalle società di car sharing nei confronti dei dipendenti in trasferta nell'ambito del comune hanno il contenuto richiesto dalla norma, analogamente ai documenti provenienti dal vettore possono, secondo l'Agenzia, dare sufficienti garanzie di effettività dello spostamento dalla sede di lavoro e di utilizzo del servizio da parte del dipendente. Così anche tali fatture, come i documenti rilasciati dal vettore, si conformano alla ratio dell'articolo 51, comma 5, ultimo periodo, del Tuir, che è tesa ad evitare che le indennità o i rimborsi spese per spostamenti nel comune possano sostituire la retribuzione ordinaria. Inoltre, ai fini della non concorrenza del rimborso alla formazione del reddito del lavoratore dipendente nonché della deducibilità del costo dal reddito d'impresa, è irrilevante il fatto che la fattura sia intestata al dipendente e non contenga alcun riferimento al datore. A tale proposito la prassi (risoluzioni 1979 n. 9/1108; 20 maggio 1980, n. 9/1000; 5 gennaio 1981, n. 9/2796) ha infatti, da sempre, ribadito che, ai fini della deducibilità dei relativi costi dal reddito d'impresa (e, di conseguenza, anche ai fini della non imponibilità in capo al dipendente) sia indispensabile, ma al contempo sufficiente, che risulti il collegamento tra incarico della trasferta e i documenti occorrenti per il rimborso analitico delle spese necessarie all'espletamento dello stesso incarico. In ogni caso, ai fini del rimborso non tassato, l'Agenzia convalida anche la documentazione relativa al cosiddetto utilizzo incrociato, in cui la società/datore sia intestataria della fattura emessa dalla società di car sharing e rimborsa al lavoratore la spesa sostenuta per l'utilizzo del veicolo. Edilizia pubblica, il prezzo concordato tra Comune e costruttore non può aumentare di Daniela Casciola Il prezzo dell'alloggio di edilizia residenziale pubblica è quello determinato in base all'accordo tra Comune e cooperativa edilizia e non può essere aumentato per tenere conto delle spese realmente sostenute nel corso della costruzione. Lo stabilisce la Corte di cassazione nella sentenza n. 18836, depositata ieri. I fatti Nella vicenda all'esame dei giudici, la corte d'appello di Roma, adita dal pretendente all'assegnazione di un alloggio contro la cooperativa edilizia incaricata della costruzione, aveva escluso che si potesse pretendere di acquisire la proprietà dell'alloggio sociale a un prezzo inferiore rispetto a quello sostenuto dalla cooperativa, benché il primo fosse stato fissato "giudizialmente" da una Ctu. La decisione I giudici di Cassazione sottolineano che in tema di edilizia agevolata, il sistema di determinazione del prezzo di cessione degli alloggi (cosiddetto prezzo prefissato) ha la finalità di facilitare l'acquisto della casa alle categorie disagiate e implica il divieto di pattuire prezzi superiori a quelli fissati secondo le norme. Non conta che l'eccedenza possa conseguire da maggiori spese che il costruttore si è accollato. Secondo l'articolo 35 della legge 865/1971, i criteri per il calcolo dei prezzi di cessione degli alloggi di edilizia pubblica sono delegati ai Comuni. Nel caso specifico la convenzione tra Comune e cooperativa prevedeva che il prezzo fosse determinato sulla base del prezzo medio degli appalti di edilizia residenziale pubblica effettuati nella Provincia. Apprendistato con regole standard in attesa delle norme regionali di Giampiero Falasca Il decreto legislativo correttivo della riforma del mercato del lavoro contiene l'ennesima innovazione in materia di apprendistato. Per consentire l'utilizzo di questo contratto anche in mancanza delle discipline regionali, viene stabilito che il contratto di alta formazione e ricerca può essere attivato anche prima dell'approvazione delle discipline regionali: in mancanza di esse, gli aspetti formativi del contratto sono regolati dal decreto del ministero del Lavoro del 12 ottobre 2015. Mediante tale decreto, il ministero ha definito gli standard formativi che devono essere applicati ai contratti di apprendistato di alta formazione e ricerca, parametri che valgono su tutto il territorio nazionale, in quanto vengono definiti come livelli essenziali delle prestazioni. Gli standard formativi Secondo tale atto, i datori di lavoro che intendono stipulare contratti di alta formazione e ricerca devono avere capacità strutturali, tecniche e competenze formative. Inoltre il decreto stabilisce i criteri che devono essere rispettati per l'organizzazione didattica dei percorsi di formazione in apprendistato e, rinviando alla copiosa normativa esistente, definisce le caratteristiche e i compiti del tutor aziendale, regolamenta i criteri di redazione del piano formativo, definisce i criteri e le modalità di valutazione e certificazione delle competenze. Il medesimo decreto ministeriale stabilisce quali sono i diritti e i doveri dell'apprendista: l'istituzione formativa, d'intesa con il datore di lavoro, deve informare i giovani e, nel caso di minorenni, i titolari della responsabilità genitoriale, garantendo la consapevolezza della scelta di utilizzare tale contratto e informandoli sui suoi possibili sbocchi occupazionali e formativi. Le regole in attesa delle discipline regionali Il decreto legislativo correttivo appena approvato prevede anche che, fino all'approvazione delle discipline regionali, sono fatte salve le convenzioni stipulate dai datori di lavoro (o dalle loro associazioni) con le università, gli istituti tecnici superiori e le altre istituzioni formative o di ricerca. Il Dlgs si occupa, inoltre, di un'altra tipologia di apprendistato, quella destinata ai giovani dai 15 ai 25 anni per l'acquisizione di una qualifica o di un diploma professionale. Per i contratti di questo tipo, stipulati quando era ancora vigente il Testo unico del 2011, viene riconosciuta la possibilità di prorogare per un periodo massimo di un anno tutti i rapporti di apprendistato, qualora siano ancora in corso alla data di entrata in vigore del decreto e nel caso in cui, alla scadenza del periodo formativo, l'apprendista non abbia conseguito la qualifica o il diploma professionale. Con questa innovazione il legislatore estende ai contratti di apprendistato stipulati in base alla vecchia e ormai abrogata disciplina (il Dlgs 167/2011) la facoltà di proroga riconosciuta dall'articolo 43, comma 4, del Dlgs 81/2015 in favore dei nuovi contratti di apprendistato per la qualifica e il diploma. Come accaduto per decine di volte in passato, queste norme nascono con l'intenzione di risolvere i tanti e incessanti problemi applicativi che caratterizzano l'apprendistato. E probabilmente anche queste ultime modifiche, pur avendo un contenuto sensato e condivisibile, non produrranno quella svolta tanto attesa, in quanto non affrontano il tema di fondo che caratterizza sia questo che i precedenti interventi: la fattispecie è costruita in maniera troppo complessa, come si capisce già leggendo i nomi di alcune sotto-tipologie (la definizione dell'apprendistato di primo livello si compone di ben 21 parole!). Parte l'ispettorato unico per la vigilanza sul lavoro di Matteo Prioschi Avvio delle attività per l'Ispettorato nazionale del lavoro, previsto dal Jobs act quale nuovo soggetto destinato a vigilare sul rispetto delle norme in materia lavoristica, aggregando in prospettiva le attività oggi svolte dal ministero del Lavoro, dall'Inps e dall'Inail. A darne notizia è il ministero del Lavoro che ieri ha annunciato l'insediamento, avvenuto il 15 settembre, del consiglio di amministrazione e del collegio dei revisori dell'Ispettorato, organi che si aggiungono al direttore Paolo Pennesi. Come funzionerà Dal punto di vista operativo, però, l'attività della nuova struttura verrà svolta grazie a una convenzione, del 14 settembre, tra ministero e Ispettorato, in base a cui il secondo utilizzerà il personale, le risorse e le strutture del primo, in particolare della direzione ispettiva, fino a che, con decreto interministeriale, verrà soppressa la direzione e data piena autonomia al nuovo organismo. I dipendenti ministeriali che opereranno per conto dell'Ispettorato rimangono gerarchicamente dipendenti dagli uffici ministeriali. Il coordinamento delle attività Il punto di forza dell'Ispettorato dovrebbe essere il coordinamento delle attività oggi svolte anche da Inps e Inail. Tuttavia il personale di questi due istituti rimarrà in organico agli stessi, fino alla pensione. L'accentramento dell'attività di coordinamento dovrebbe comunque determinare maggior efficacia ed efficienza dei controlli, grazie all'incrocio delle informazioni contenute nelle banche dati, tra cui quella dell'agenzia delle Entrate, e l'eliminazione della duplicazione delle ispezioni nelle aziende da parte del personale che fa capo a ministero, Inps e Inail. Primo «sì» dalla Camera al rilancio dei piccoli Comuni di Gianni Trovati Arriva all'unanimità, ma dopo tre anni di faticosa navigazione parlamentare, il via libera della Camera al disegno di legge per i piccoli Comuni, che ora passa al Senato. Il testo, che ieri a Montecitorio ha ottenuto 484 «sì», istituisce un fondo da 100 milioni di euro dal 2017 al 2023, che sarà gestito dal Viminale e andrà utilizzato per progetti di rilancio dei centri storici e del turismo, ma anche di sostegno all'economia con l'estensione della banda ultra-larga e gli incentivi all'insediamento produttivo e alle attività agricola. Il Fondo per lo sviluppo, che secondo i programmi della legge sarà alimentato con 10 milioni nel 2017 e con 15 milioni all'anno dal 2018 al 2023, è rivolto agli interventi nei 5.585 Comuni (cioè poco meno del 70% dei municipi italiani) che non raggiungono i 5mila abitanti, anche nel caso in cui in questi anni si siano fusi con altri enti fino a creare realtà più grandi di questa soglia. Ma oltre alla questione finanziaria, il testo portato al voto dai relatori Enrico Borghi, Antonio Misiani e Tito Iannuzzi (tutti del Pd) prova a rilanciare il ruolo dei piccoli enti anche nello svolgimento dei servizi pubblici, compresi quelli postali da tempo al centro di una battaglia tra amministratori locali e poste sulle chiusure dei piccoli uffici e sulla consegna a giorni alterni della corrispondenza. L'arrivo del testo al voto favorevole dell'Aula ha offerto ieri una nuova occasione per rilanciare il dibattito sul bicameralismo. A porre il tema è stato in particolare il primo firmatario, il presidente della commissione Ambiente della Camera Ermete Realacci, ricordando la maratona parlamentare che già per tre volte, nelle scorse tre legislature, aveva condotto il "suo" testo al traguardo di Montecitorio, a cui però non è mai seguita finora l'approvazione al Senato. Il sindaco non ha potere di ordinanza contro il gestore idrico che chiude i rubinetti ai morosi di Francesco Clemente Il sindaco non può intromettersi nel rapporto contrattuale tra il gestore del servizio idrico e gli utenti per risolvere un contenzioso di carattere privato, di conseguenza non può emettere un'ordinanza urgente per sbloccare le forniture dell'acqua che sono state interrotte a chi è in ritardo con i pagamenti delle bollette, tantomeno senza dimostrare in alcun modo il paventato rischio per l'incolumità o l'igiene pubblica. Il Tar di Lecce, in dieci sentenze sostanzialmente identiche depositate tra il 12 maggio e il 25 luglio scorso – nn. 1089-1090-10911189-1190-1191-1192 e nn. 795, 796 e 797 del 2016, rispettivamente dalla prima e seconda Sezione -, ha annullato così i provvedimenti d'urgenza adottati da tre sindaci pugliesi – a capo dei Comuni di Nardò, Casarano e Tuglie – che avevano cercato di impedire all'Acquedotto Pugliese di chiudere i rubinetti a diversi residenti di alloggi popolari risultati «ripetutamente inadempienti» nel liquidare le fatture. Lo sviamento di potere In tutte le pronunce – tra le ultime su un tema ampiamente dibattuto dalla giurisprudenza (vedi in particolare la causa vinta da Acea contro le ordinanze di alcuni sindaci nel Frusinate, Tar Lazio nn. 707-711 del 2015) - i giudici amministrativi hanno dato ragione all'Aqp ribadendo che le ordinanze sindacali anti-distacco in questo caso comportano in realtà «uno sviamento di potere» poiché il Comune interviene in un rapporto contrattuale di cui è «estraneo», vietando al gestore di adottare un rimedio che in realtà è previsto dalle norme contrattuali - in via generale dalle norme civilistiche in tema di contratti e somministrazione (rispettivamente articoli 1460 e 1565 del Codice civile) -, «e ciò a prescindere dall'imputabilità di siffatto inadempimento». Secondo il Tar, questi provvedimenti non rispettano le competenze assegnate ai primi cittadini come autorità locale «in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale» (commi 4 e 5 dell'articolo 50 del Tuel), e sono illegittimi soprattutto quando, per lo stesso motivo, vengono ripetuti nel tempo a riprova del «difetto della condizione indispensabile di provvisorietà dell'atto emanato con i poteri contingibili e urgenti». Necessità e urgenza: provvisorietà delle ordinanze Come ribadito dalle Sezioni salentine, l'ordinanza di necessità e urgenza deve essere invece l'«extrema ratio», cioè un «rimedio straordinario che l'amministrazione ha a disposizione per fronteggiare situazioni eccezionali ed imprevedibili, non altrimenti governabili». L'ammonimento dei giudici è però ancora più chiaro quando viene ricordato ai primi cittadini che questa peculiarità dell'ordinanza «fa sì che uno dei suoi caratteri immancabili sia quello della provvisorietà, allo scopo evidente di non istituzionalizzare situazioni emergenziali». Per questi motivi, il Tar ha bocciato anche altre ordinanze che erano state emesse senza un termine finale di efficacia – a Casarano per almeno 30 giorni «in attesa di definire e chiarire la situazione di morosità», a Tuglie invece per almeno 60 giorni per consentire il saldo del debito –, ma in particolare perché negli immobili interessati dalle interruzioni vi erano «numerosi nuclei familiari con persone anziane, bambini e disabili» in difficoltà economica. I sindaci avevano quindi giudicato «non opportuno, sotto il profilo igienico-sanitario,…privare gli stessi del servizio idrico, servizio pubblico essenziale». Secondo i giudici invece, questo richiamo, oltre alla mancata prova dei pericoli per l'igiene e la salute pubblica, non può aver importanza se, come accaduto in questa vicenda, si far riferimento a «una generica condizione di pregiudizio non valevole ai fini dell'adozione di un provvedimento amministrativo atipico, in quanto non connotata da caratteristiche di immediatezza ed irreparabilità». Il ricorso al giudice Come sottolineato nelle sentenze, uno degli strumenti a disposizione degli utenti rimasti senz'acqua per bollette non pagate è il ricorso al giudice ordinario per chiedere un provvedimento cautelare urgente (articolo 700 del Cpc), ma anche, come in questo caso, la possibilità di beneficiare del «bonus idrico» messo a disposizione dalla Regione per i servizi alla persona garantiti dagli enti comunali a determinate condizioni. In ogni caso l'ordinanza che interviene in soccorso degli utenti economicamente in difficoltà «disattende gli specifici compiti in materia socio-assistenziale affidati al Comune», oltre a non poter essere utilizzata per il «soddisfacimento di finalità che si correlano solo ed esclusivamente al manifestarsi di una patologia nei rapporti di utenza». Niente decadenza se consigliere giustifica le assenze di Antonio Nicodemo e Giovanni F. Nicodemo È illegittima la delibera del Consiglio comunale che stabilisce la decadenza di uno dei suoi componenti per non aver partecipato a tre sedute consecutive dell’assemblea cittadina, se l’assenza è stata giustificata. È altresì illegittima la delibera che dichiara la decadenza se non è adeguatamente motivata, né la Pa può integrare la motivazione davanti al Giudice adito con la propria difesa. Lo stabilisce il Tar Campania, Salerno, sezione I, con sentenza del 19 settembre 2016, n. 2180. Il caso La questione giunta all’attenzione del Giudice amministrativo campano ha ad oggetto la dichiarazione di decadenza del ricorrente dalla carica di Consigliere comunale comminatagli per via della sua assenza «ingiustificata» a tre sedute consecutive del Consiglio. Il ricorrente si era assentato in due occasioni per sostituire una collega sul luogo di lavoro e una terza volta per motivi personali. Tuttavia, il Consigliere interessato, prima che l’assemblea cittadina deliberasse la sua decadenza, aveva fatto pervenire all’Ente, nei termini prescritti, una sintetica nota in cui giustificava le assenze con relative allegazioni comprovanti le giustificazioni. Tanto non è bastato a convincere il Consiglio comunale che, sostenendo la carenza delle giustificazioni proposte, ne ha dichiarato la decadenza. Il Tar Salerno però, con la sentenza in commento, stigmatizza il percorso logico argomentativo della delibera impugnata e annulla il provvedimento di decadenza così riabilitando alla carica di Consigliere il ricorrente dichiarato decaduto. La decisione Il Giudice amministrativo campano censura il mal governo della norma statutaria secondo la quale nel caso della mancata partecipazione ai lavori del Consiglio il Consigliere comunale decade qualora risulti assente a tre sedute consiliari consecutive o a dieci complessive nell’anno solare, «salvo che sia documentata l’impossibilità a parteciparvi», con possibilità quindi, per il Consigliere censurato, di far valere «ogni ragione giustificativa». Il Tar Salerno basa il proprio ragionamento sulla carenza e sulla contraddittorietà della motivazione. Per un verso, infatti, la delibera consiliare motiva la sua decisione in questo modo: «Atteso che le giustificazioni prodotte appaiono scarsamente motivate»; per altro verso, dall’accertamento dei fatti, per alcune delle assenze risulta prodotta la richiesta giustificazione. Infatti ad avviso del Giudice amministrativo aver dato prova, almeno per una delle tre assenze, dell’esistenza di una causa di giustificazione, fa venire meno il presupposto sanzionatorio che prescrive la decadenza in caso di assenza ingiustificata per tre sedute consecutive. Venendo meno l’inescusabilità di una delle tre assenze consecutive viene meno anche il presupposto fattuale, cui ancorare il provvedimento adottato dal Consiglio. Il divieto di integrazione della motivazione Infine, affrontando il caso in esame il Giudice amministrativo campano ha ribadito che la Pa non può integrare in sede difensiva la motivazione (carente) dei provvedimenti impugnati. Il Tar Salerno spiega infatti che, a parte la carenza dei presupposti della decadenza, non può ritenersi ammissibile la formulazione di argomentazioni difensive a giustificazione del provvedimento impugnato non evincibili nemmeno implicitamente dalla sua motivazione, ciò soltanto costituendo una integrazione postuma effettuata in giudizio, come tale non consentita in quanto non inserita nell’ambito di un procedimento amministrativo. Spetta al Comune decidere se e quando intervenire sul piano urbanistico di Lorenzo Camarda E' inammissibile ricorrere alla Giustizia amministrativa contro il silenzio osservato dal Comune in merito ad un'istanza del privato che tende a ottenere una variante urbanistica. La decisione è stata adottata, in sede cautelare, dal Consiglio di Stato, sezione VI, del 15 settembre 2016 n. 3917. Il fatto Una cittadina, proprietaria di un terreno a destinazione agricola che ospita una comunità Rom di etnia Sinti, è ricorsa al Tar Lombardia-Milano contro il silenzio adottato dal Comune in ordine alla richiesta diretta ad ottenere una variante urbanistica che consentisse alla comunità Rom di restare sul posto e così assicurare la prima casa a cittadini senza tetto e con prole in età scolare. Il Tar è intervenuto diffidando il Comune ad adottare ogni necessario provvedimento volto a regolarizzare la presenza di roulotte nell'area, anche attraverso l'adozione di opportune varianti al Piano del governo del territorio. O, in alternativa, ad individuare altre soluzioni abitative rispettose dell'unità dei nuclei familiari, dell'integrazione sociale e lavorativa, della necessità di assicurare il servizio scolastico ai minori. Il Comune si è appellato al Consiglio di Stato eccependo che l'Autorità urbanistica non è obbligata ad attivare alcuna procedura che miri ad adottare una variante urbanistica (nella fattispecie concreta su un'area costellata da abusi edilizi). In particolare, Il Comune ha motivato il proprio silenzio "in quanto l'interesse particolare del singolo ad ottenere una variante di un piano urbanistico approvato, valido ed efficace è un interesse di mero fatto, e come tale non può ricevere tutela giurisdizionale". La discrezionalità amministrativa della Pa e il significato del silenzio Il Consiglio di Stato, in sede cautelare, prescinde dalle considerazioni di natura socio-politica (che hanno fatto breccia presso il Tar Lombardia-Milano) avanzata dalla proprietaria dell'area che trovano fondamento nell'impegno assunto dall'Italia nei confronti dell'Europa trasfuso in un documento "Strategia nazionale d'inclusione dei Rom, dei Sinti, e dei Caminanti in attuazione comunicazione europea n.173/2011". Il Consiglio di Stato affronta la questione esclusivamente sotto i due profili tecnici di natura urbanistica: • il limite della discrezionalità amministrativa della Pa in ordine alle sollecitazioni dell'istanza del privato a provvedere con una variante urbanistica specifica al fabbisogno abitativo di una comunità; • il significato del silenzio adottato dalla Pa. In ordine al primo punto pare pacifico che la decisione di intervenire urbanisticamente in un'area spetti direttamente al Comune. Tale potere, nell'esercizio di una variante urbanistica specifica, dovrà essere esercitato tenendo conto dei caratteri della situazione e degli interessi implicati (vocazioni territoriali che determinano la zonizzazione e la localizzazione dei servizi pubblici), compatibilmente al quadro di pianificazione generale. Pertanto il se, il come e il quando intervenire spetta al Comune sulla base della ponderazione degli interessi di cui sopra. In ordine al secondo punto, quello relativo al silenzio della Pa, esso appare discendere direttamente dal primo: pertanto non è possibile configurare in capo al Comune un silenzio-inadempimento. La decisione Il ricorso proposto dal Comune contro la decisione del Tar Lombardia-Milano viene accolto in quanto, secondo il Consiglio di Stato, in sede di fase cautelare, non è possibile imputare al Comune un silenzio inadempimento in materia urbanistica relativa al caso di specie (caratterizzato dalla mancanza di un chiaro obbligo di provvedere). Se ne può trarre la seguente massima giurisprudenziale "In tema di modifica dell'assetto urbanistico del territorio comunale, allorquando non sussista uno specifico e chiaro obbligo di provvedere, non è possibile configurare in capo al Comune un obbligo di iniziare un procedimento amministrativo di modifica dell'assetto urbanistico del territorio". Il principio di rotazione impone una durata massima a tutti gli incarichi dirigenziali di Francesco Clemente Anche se gli incarichi di funzioni dirigenziali sono rinnovabili, per il principio di rotazione essi non possono superare una ragionevole durata e devono seguire procedure trasparenti come garanzia minima contro il rischio di corruzione (legge n. 190/2012): è quindi illegittimo prolungarli per anni o di fatto a vita, tantomeno se non ci sono, o non sono giustificate adeguatamente, le «particolari esigenze di funzionamento» che in casi eccezionali possono derogare alla regola generale del concorso. A chiarirlo è la Corte dei conti, nella delibera n. 144/2016 depositata il 12 agosto dalla Sezione regionale di controllo per la Puglia, negando il visto di legittimità al decreto con cui la prefettura di Lecce aveva deciso di riaffidare allo stesso dirigente, e per la terza volta dal 2008, il servizio amministrazione, affari generali e attività contrattuale. Col "via libera" all'incarico, disposto a maggio scorso e valido per altri cinque anni, il dirigente di seconda fascia - avrebbe infatti mantenuto la stessa funzione per un totale di 13 anni e senza interruzioni (dal 28 aprile 2008 al 27 aprile 2021) nonostante la presenza in organico di un altro dirigente. Incarico illegittimo Per i magistrati contabili, questo tipo di incarico va oltre i limiti ragionevoli di legge ed è doppiamente illegittimo poiché la Pa non ha provato a dovere l'indispensabilità di "bypassare" per l'ennesima volta la procedura valutativa prevista dal testo unico sul pubblico impiego (articolo 19 Dlgs n. 165/2001). Per la Prefettura, invece, data la «sostanziale difficoltà» a ruotare l'altro dirigente in organico trattandosi di posizioni «differenti» e quindi non «interscambiabili», il rinnovo avrebbe garantito continuità e buon andamento ad attività in corso «importanti e delicate» come gli appalti e i contratti di competenza del ministero dell'Interno. L'alternativa era la mobilità, ma non era ritenuta percorribile poiché il dirigente utilizzava i permessi giornalieri per assistere famigliari con handicap (articolo 33 legge n. 104/1992). Le regole di trasparenza Bocciando questa tesi, la Corte ha ricordato la «regola generale» che impone alla Pa la trasparenza sul numero, sulla tipologia dei posti di funzione disponibili e sui criteri di scelta dei dirigenti interessati (comma 1-bis, articolo 19), oltre al tetto sulla durata (dal minimo di tre al massimo di cinque anni) e alla possibilità di rinnovo, temi su cui è intervenuta la recente delega alla "riforma della Pa" (lettera h, comma 1, articolo 11, legge n. 124/2015) prevedendo per gli incarichi non a caso limiti più restrittivi, con un tetto di quattro anni e con la possibilità di estenderli fino a sei per una sola volta e a certe condizioni. Un rigore già applicato Un'interpretazione "rigorosa" già applicata anche di fronte a particolari competenze e buoni risultati (Sezione controllo Sardegna, delibera n. 87/2014), a casi estremi di un solo dirigente (Sezione controllo Emilia Romagna, delibera n. 180/2014), e, di recente, a un rinnovo prolungato per un totale di 14 anni a un dirigente del ministero dell'Interno (Sezione controllo centrale, delibera n. 7/2016). Le norme, infatti, come affermato, «rispondono, oltre che ad un interesse dei singoli candidati, anche a quello di assicurare la trasparenza e la neutralità nella assegnazione delle funzioni», e possono essere derogate solo se ci sono «peculiari esigenze di funzionamento», in ogni caso «adeguatamente espresse». Esse vanno poi coordinate con quelle "anticorruzione" con cui il legislatore ha «chiaramente manifestato un notevole disfavore nei confronti della prolungata permanenza dei dirigenti pubblici negli incarichi conferiti». Quest'ultima disciplina prevede, infatti, che il Dipartimento della funzione pubblica indichi i criteri di rotazione dei dirigenti «nei settori particolarmente esposti alla corruzione» e le misure contro sovrapposizioni o cumuli anche per gli esterni (lettera e, comma 4, articolo 1), e che, definendo le «procedure appropriate» per la selezione e la formazione, si assicuri la rotazione di dirigenti e funzionari proprio nei settori più a rischio corruttivo (lettera b, comma 5, articolo 1), oltre ad affidare il controllo sull'«effettiva rotazione» al responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza. I limiti negli appalti E proprio per gli appalti il legislatore impone anche un «livello essenziale» di trasparenza in funzione anticorruttiva (comma 16, articolo 1), e a prescindere dal numero e dal valore delle gare. Questa attività quindi, anche se «delicata e importante» come in questo caso, è pur sempre «del tutto ordinaria e fisiologica» per la Pa, per cui se giustificasse in automatico il rinnovo degli incarichi verrebbe «sostanzialmente vanificata» non solo la normativa anticorruzione, ma soprattutto la previsione dei limiti temporali, prolungando l'incarico allo stesso dirigente «potenzialmente fino al pensionamento». In questo caso i requisiti di assistenza a terzi del dirigente gli consentono di non essere trasferito in un'altra Pa senza il suo consenso, ma non di conservare l'incarico «in deroga alla normativa generalmente applicabile, ad libitum o a tempo eventualmente indeterminato». Sul rinnovo dei contratti si parte da fasce di merito e relazioni sindacali di Giorgio Pogliotti e Gianni Trovati Il rinnovo dei contratti per i dipendenti pubblici ha bisogno di regole e di fondi. Sulle risorse, visto il quadro di finanza pubblica, non sarà semplice trovare il punto d'incontro fra domanda e offerta, ma sul quadro delle regole le prospettive potrebbero rivelarsi più semplici e facilitare il riavvio della macchina. L'anticipo in manovra Per questa ragione prende consistenza l'ipotesi di anticipare nell'ambito della manovra due temi allo studio nella riforma del pubblico impiego, il cui decreto attuativo arriverà però più tardi: l'obiettivo è quello di ridare spazi di autonomia alle trattative contrattuali, sottraendo alla legge la disciplina di dettaglio in particolare su flessibilità e produttività, e ripensare quindi la griglia rigida imposta dalla legge Brunetta. La riforma del 2009, congelata insieme ai contratti,impone di destinare ai premi individuali la «quota prevalente» delle risorse per la produttività, e di dividere i dipendenti in tre fasce concentrando il 50% delle risorse sul 25% più produttivo. L'incrocio fra queste regole e i limiti alle risorse a disposizione per i nuovi contratti rischia di tradurre il rinnovo in un taglio in busta paga per un gruppo di dipendenti, e comunque rappresenta un ostacolo pesante sulle trattative. La posizione dei sindacati Sul rilancio delle relazioni industriali puntano i sindacati che ieri, in un attivo unitario riunito a Roma con le segreterie di categoria, hanno dato il primo via libera alla piattaforma del rinnovo contrattuale: «Vogliamo per pubblico e privato stesse regole sulla democrazia e stesse opportunità per la contrattazione - sottolineano Fp-Cgil Cisl-Fp Uil-Fpl Uil-Pa –. Che vuol dire stesse responsabilità, ma anche stesse possibilità di sviluppo professionale e valorizzazione delle competenze. E stesso ruolo nel definire le regole del gioco. Bisogna riassegnare alla contrattazione la funzione di regolare condizioni e organizzazione del lavoro». La parola d'ordine, per Cgil, Cisl e Uil è superare la legge Brunetta. Tra i sindacati c'è attesa per l'atto di indirizzo ,necessario per avviare la fase negoziale. Il principale nodo da sciogliere è quello delle risorse economiche: dopo sette anni di blocco dei contratti, i 300 milioni assegnati dal governo per gli aumenti del 2016 sono considerati del tutto insufficienti dai sindacati che, in vista della legge di Bilancio, chiedono incrementi sui livelli di quelli ottenuti nel privato. Italia in prima fila per sviluppare la mobilità digitale di Stefano Carrer Un impegno comune a governare e guidare il processo di crescente digitalizzazione delle infrastrutture è stato espresso dal vertice dei ministri dei Trasporti dei Paesi del G7 che si è svolto a Karuizawa, in Giappone. «Abbiamo espresso un messaggio di ottimismo e fiducia», ha detto il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Graziano Delrio, che ha sottolineato come l'Italia intenda giocare un ruolo di primo piano nell'applicazione delle nuove tecnologie e lo sta già facendo con progetti vicini al compimento (dalla digitalizzazione completa dei porti al piano nazionale per l'applicazione delle tecnologie intelligenti, dalla piattaforma logistica nazionale fino alla manutenzione digitalizzata e a progetti-pilota di "smart roads" come la SalernoReggio Calabria). Il prossimo anno sarà l'Italia a ospitare il G7 e quindi anche quello dei Trasporti. Delrio ha anticipato che il focus non sarà solo sulle tecnologie: andranno sotto i riflettori gli «aspetti sociali» delle infrastrutture e della loro evoluzione che sta cambiando la vita delle persone. In questo senso, anche progetti non necessariamente redditizi sul piano finanziario possono avere grande importanza (Delrio cita il caso dell'Alta velocità ferroviaria Napoli-Bari, che non prospetta una domanda pari, poniamo, alla Milano-Verona ma «è necessaria per lo sviluppo del territorio»). L'incontro in Giappone A Karuizawa i ministri si sono anche confrontati con il settore privato, in particolare sulla questione della guida automatizzata o intelligente (una relazione è stata svolta dal direttore del centro ricerche di FiatChrysler, Enrico Pisino). «Collaboreremo ed eserciteremo leadership nel supporto a una ravvicinata commercializzazione delle tecnologie per l'automazione e la connessione dei veicoli», recita il comunicato finale del G7. In questo senso, secondo Delrio, è essenziale una «armonizzazione internazionale» del quadro normativo e dei sistemi elettronici: il modello, dice, è quello dello spazio unico ferroviario europeo che, applicando gli stessi standard di sicurezza, consente ai treni di viaggiare senza frontiere. Le cornici tecno-regolamentari Una vaga promessa di coordinamento sulle cornici tecno-regolamentari, però, secondo vari analisti maschera tensioni di fondo. In Giappone e in qualche quartiere europeo si teme che gli Stati Uniti – dove società come Google stanno puntando molte carte sullo sviluppo delle tecnologie di guida intelligente – vogliano imporre i loro standard di sicurezza, finendo per avvantaggiare le proprie industrie: se l'auto del futuro sarà più software che hardware, insomma, il problema non è di per sé accedere a un modello di infrastrutturazione digitale altrui, ma come tutelare industrie nazionali dell'auto quando il motore non sarà più la componente più importante della vettura. Un gruppo del lavoro del G7 si sovrapporrà alla commissione Onu per lavorare sulla regolamentazione. Più facile e già raggiunto al G7 è un accordo sul contenimento delle emissioni nocive nel trasporto aereo, alla vigilia di una cruciale riunione dell'International Civil Aviation Organization a Montreal (per una crescita "carbon-neutral" dal 2020: qui sono altri i Paesi che stanno facendo difficoltà). Delrio è poi partito per il Vietnam, dove sta incontrando i vertici politici di un Paese che ha bisogno di rinnovare le sue infrastrutture, oltre che i rappresentanti dell'imprenditoria italiana. Conto termico per riqualificare gli edifici pubblici sul mercato elettronico della Pa di Roberta Giuliani Caldaie, impianti solari termici per scuole e uffici, sostituzioni di sistemi di illuminazione e climatizzazione: le Pa che vogliono investire sull'efficienza energetica degli edifici trainati dagli incentivi del nuovo conto termico potranno acquistare beni e servizi attraverso il Mercato elettronico della pubblica amministrazione (Mepa). Il Gestore dei servizi energetici (Gse), in collaborazione con Consip, ha pubblicato sul Mepa i «Capitolati Speciali Conto Termico 2.0» che consentono alle Pa di acquistare i beni e i servizi elencati nella «Tabella Prodotti Capitolati Speciali Conto Termico 2.0» e accedere agli incentivi attraverso il Portaltermico. Il conto termico Le Pa che intendono realizzare interventi volti all'incremento dell'efficienza energetica e alla produzione di energia termica da fonti rinnovabili possono contare ogni anno sui 200 milioni del Conto termico 2.0 disciplinato dal decreto interministeriale del 16 febbraio 2016 che ha ampliato la tipologia dei lavori ammessi a contributo. Per Comuni e altri enti pubblici infatti la riqualificazione può riguardare non solo impianti ma interi edifici e gli incentivi possono partire da un rimborso minimo del 40% fino a un massimo del 65 per cento. Per le Pa è inoltre prevista (articolo 12, comma 3 del Dm 16 febbraio), la cumulabilità con altri incentivi in conto capitale, anche statali, fino a un massimo del 100% delle spese ammissibili. I capitolati Nell'ambito del bando Free (Fonti rinnovabili ed efficienza energetica), le Pa potranno formulare «Richieste di offerta» (Rdo) per l'approvvigionamento di beni con caratteristiche tecniche e prestazionali conformi a quelle previste dal Dm 16 febbraio 2016. I beni e servizi acquistabili sono elencati nella «Tabella Prodotti Capitolati Speciali Conto Termico 2.0». Si potrà poi accedere agli incentivi attraverso il Portaltermico di Gse, secondo le modalità di accesso diretto o tramite prenotazione. I capitolati speciali del Conto termico 2.0 sono otto. I primi tre rientrano nella categoria «Impianti solari termici e servizi connessi» con i prodotti: scuole con annessa attività sportiva, uffici e solar cooling. Altri quattro prodotti rientrano invece nella categoria «Beni per l'efficienza energetica»: pompe di calore elettriche per la climatizzazione, pompe di calore a gas per la climatizzazione pompe di calore per la produzione di acqua calda sanitaria (Acs) e interventi di relamping. Alla categoria «Fornitura e/o sostituzione di generatori a combustibile e relativa installazione» rientra infine il prodotto caldaie a condensazione a combustibile gassoso.