Dal pareggio di bilancio i nuovi limiti all`indebitamento

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Dal pareggio di bilancio i nuovi limiti all`indebitamento
Dal pareggio di bilancio i nuovi
limiti all'indebitamento
di Luciano Cimbolini
La legge 164/2016 ha introdotto, anche in materia di ricorso all'indebitamento,
importanti modifiche alla legge 243/2012 di attuazione del principio del
pareggio di bilancio in base all'articolo 81, comma 6, della Costituzione.
La nuova formulazione dell'articolo 10 prevede, conformemente all'articolo 119,
comma 6, della Costituzione, che il ricorso all'indebitamento da parte delle
Regioni, dei Comuni, delle Province, delle Città metropolitane e delle Province
autonome di Trento e di Bolzano sia consentito esclusivamente per finanziare
spese di investimento.
In altre parole, viene confermata la regola, introdotta con la modifica
costituzionale del 2001, che ha costituzionalizzato il principio del rispetto del
pareggio di bilancio corrente da parte degli enti territoriali (la cosiddetta "golden
rule"), che finalizza il ricorso all'indebitamento al solo finanziamento di spese
d'investimento.
Il piano d'ammortamento
Le operazioni d'indebitamento possono essere effettuate solo contestualmente
all'adozione di piani di ammortamento di durata non superiore alla vita utile
dell'investimento, che evidenzino l'incidenza delle obbligazioni assunte sui
singoli esercizi finanziari futuri, nonché le modalità di copertura dei relativi
oneri. Non si potranno pertanto contrarre, ad esempio, debiti di durata
ventennale per acquisire beni che hanno un ammortamento quinquennale.
Questo dovrebbe impedire dei deficit intergenerazionali, derivanti dal fatto che
l'utilità del bene sia interamente consumata da una generazione precedente e
l'ammortamento, invece, sia posto a carico anche delle generazioni successive.
Il piano d'ammortamento dovrà evidenziare sia l'onere derivante dalla
restituzione del capitale, sia il costo, in termini d'interessi, del ricorso al debito,
sia le modalità con le quali l'ente provvederà al relativo finanziamento nei bilanci
futuri.
Le intese regionali
Essendo entrata non rilevante, al pari dell'avanzo di amministrazione, ai fini del
conto consolidato delle Pa ai sensi del Sec 2010, le operazioni di indebitamento e
le operazioni di investimento realizzate attraverso l'utilizzo dei risultati di
amministrazione degli esercizi precedenti, potranno essere effettuate solo sulla
base di apposite intese concluse in ambito regionale che garantiscano, per l'anno
di riferimento, il rispetto del saldo finale di competenza non negativo di cui
all'articolo 9, comma 1, della stessa legge 243/2012 del complesso degli enti
territoriali della regione interessata, compresa la medesima Regione. La Regione
e i suoi enti territoriali, dunque, potranno giocarsi gli spazi finanziari al loro
interno, ma non potranno "forzare" il saldo finale loro assegnato.
Qualora le intese regionali non siano sufficienti, l'indebitamento e gli
investimenti finanziati attraverso l'utilizzo degli avanzi di amministrazione degli
esercizi precedenti, potranno essere garantiti mediante patti di solidarietà
nazionali, restando fermo però il saldo finale non negativo di competenza per
complesso degli enti territoriali.
I criteri e modalità di attuazione della nuova versione dell'articolo 10 della legge
243/2012, ivi incluse le modalità attuative del potere sostitutivo dello Stato, in
caso di inerzia o ritardo da parte delle regioni e delle province autonome di
Trento e di Bolzano, saranno disciplinate con decreto del Presidente del
Consiglio dei ministri, da adottare d'intesa con la Conferenza unificata.
Nel Def 9-10 miliardi di nuova
«flessibilità»
di Marco Rogari e Gianni Trovati
Le misure che in manovra bloccheranno gli aumenti Iva previsti dalle clausole di
salvaguardia e punteranno a rilanciare gli investimenti privati e pubblici avranno
il compito di far salire il Pil dello 0,4% in più rispetto alla dinamica che si
disegnerebbe a legislazione invariata. La scommessa è indicata nella nota di
aggiornamento al Def approvata nella tardissima serata di ieri dal Consiglio dei
ministri: quest'anno la ricchezza nazionale crescerà dello 0,8%, cioè quattro
decimali in meno rispetto all'1,2% previsto del Documento di aprile, mentre per
l'anno prossimo il «tendenziale», cioè appunto il risultato che l'economia
otterrebbe senza nuovi interventi, è indicato dal governo allo 0,6%: toccherà
appunto agli stimoli della manovra farlo salire fino al +1%, il nuovo obiettivo
fissato per il 2017 al posto dell'1,4% ipotizzato ad aprile.
A motivare la differenza, nei programmi del governo, c'è lo stop alle clausole di
salvaguardia che avrebbero fatto aumentare l'Iva, e il pacchetto fiscale basato sul
rilancio del superammortamento e sugli altri interventi previsti per l'«Industria
4.0» e per le piccole e medie imprese. A permettere questa spinta all'interno
della nuova legge di bilancio, che dovrebbe di conseguenza valere fra i 22 e i 25
miliardi, è lo spazio aggiuntivo che il governo punta a ottenere nel corso del
difficile confronto con l'Europa, destinato a sfociare a metà novembre nel
giudizio ufficiale.
La nota di aggiornamento al Def fissa al 2% il rapporto fra deficit e Pil per l'anno
prossimo, contro il 2,4% con cui si chiude il 2016; il nuovo obiettivo si colloca
quindi due decimali sopra all'1,8% che era stato indicato in primavera. Le tabelle
approvate ieri, però, aggiungono un ulteriore 0,4%, riconducibile alle circostanze
eccezionali per sisma e migranti: fino a ieri pomeriggio l'ipotesi dominante
parlava di uno 0,3% aggiuntivo, ma alla fine del consiglio dei ministri il premier
Renzi ha ufficializzato il decimale in più, che porta il deficit "sostanziale" del
2017 al 2,4%. Tradotta in euro, questa mossa metterebbe a disposizione del
governo 9-10 miliardi aggiuntivi. Per arrivare all'obiettivo bisogna però superare
due passaggi non scontati: il governo deve prima di tutto ottenere in Parlamento,
a maggioranza assoluta come impone la riforma della legge di bilancio,
l'autorizzazione a chiedere all'Europa di poter utilizzare questi spazi aggiuntivi, e
la Ue deve a sua volta accendere il disco verde guardando anche al deficit
strutturale e al percorso per centrare il pareggio di bilancio che per il ministro
Padoan rimane al momento confermato nel calendario attuale.
Il rallentamento del prodotto nazionale si riflette anche sul peso del debito,
facendo mancare l'obiettivo di limare già da quest'anno la sua incidenza sul Pil.
La nota di aggiornamento certifica che il passivo della Pubblica amministrazione
resta a quota 132,8%, mentre il Def di aprile prevedeva una leggera discesa, a
132,4. La sfida viene quindi rinviata all'anno prossimo, quando il rapporto fra
debito e Pil è chiamato a scendere al 132,2% anche grazie a una nuova tranche di
privatizzazioni, altro filone che nel 2016 ha marciato a ritmi più lenti del
previsto. Per completare il quadro dei numeri di finanza pubblica manca a oggi il
dato sulla pressione fiscale, che per il momento il governo non ha fornito.
In questo quadro, i nuovi margini di «extra-deficit» al centro della trattativa con
Bruxelles dovrebbero permettere al Governo di costruire una manovra da 22-25
miliardi. La coperta resta corta, e la conferma arriva dall'orientamento di
limitare a 1,5 miliardi la dote per il pacchetto pensioni che sarà discusso oggi con
i sindacati, in questi giorni già "freddi" di fronte all'ipotesi iniziale che parlava di
uno stanziamento intorno ai due miliardi. Solo la sterilizzazione delle clausole di
salvaguardia legate agli aumenti Iva, del resto, "ipoteca" oltre 15 miliardi di euro,
dunque intorno al 60 per cento della manovra complessiva. Il resto, come
ribadito in più di un'occasione dal ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan,
andrà concentrato sulla spinta agli investimenti: in questo quadro così stretto,
però, resta ancora da capire quale sarà la dote effettiva sul versante degli
investimenti pubblici, a partire da quelli locali. Revisori, al via la nuova procedura
per visualizzare gli incarichi in
scadenza
di Patrizia Ruffini
Da oggi i revisori dei conti che sono iscritti al registro, sperando nell'estrazione a
sorte, potranno conoscere le prossime scadenze degli incarichi, grazie a una
nuova funzione «Scadenze incarichi» attivata nella pagina internet dedicata
all'Elenco
dei
revisori
dei
conti
degli
enti
locali
(www.finanzalocale.interno.it/ser/revisori_intro.html).
La nuova procedura
Con un comunicato di ieri, il ministero dell'Interno ha pubblicizzato la nuova
procedura, che mostra tutti gli enti locali i cui incarichi di revisione economico
finanziaria dovrebbero essere rinnovati nel periodo di un anno dalla data
dell'interrogazione.
È possibile visualizzare la scadenza naturale dell'incarico triennale degli organi
di revisione per i quali non è stata ancora effettuata l'estrazione a sorte per il
relativo rinnovo, con l'indicazione della data di inizio e di fine incarico ovvero,
nel caso in cui non siano stati ancora inseriti nel sistema gli estremi della
nomina consiliare, della data del sorteggio. L'estrapolazione dei dati può
avvenire tramite un'interrogazione a più livelli (nazionale, regionale,
provinciale) e con ordinamento alfabetico oppure temporale in base alla data di
scadenza dell'incarico.
Il sito dedicato
A oltre tre anni dal suo avvio il sito dedicato al nuovo sistema di scelta dei
revisori dei conti degli enti locali mediante estrazione a sorte dall'apposito
elenco continua ad arricchirsi di funzionalità informative. Nel mese di luglio era
stata aggiunta la possibilità di conoscere i dati relativi alla composizione,
decorrenza e scadenza degli organi di revisione nominati con il nuovo sistema.
La funzione mostra tutti i sorteggi che hanno interessato ciascun ente locale, a
partire dal 10 dicembre 2012 (data di inizio del nuovo sistema di scelta dei
revisori) e le successive nomine effettuate.
Doppio accantonamento per le
perdite delle società
di Anna Guiducci
La programmazione degli enti locali deve fare i conti con i risultati di esercizio
dei soggetti partecipati. L'articolo 21 del Dlgs 175/2016 integra e modifica le
disposizioni già recate dai commi 550 e seguenti della legge 147/2013
riguardanti l'obbligo per le pubbliche amministrazioni locali di accantonare un
fondo vincolato parametrato alle perdite dell'esercizio precedente di aziende
speciali, istituzioni e società partecipate.
Le regole sono però diverse a seconda che l'ente proprietario adotti la contabilità
finanziaria o quella civilistica. Nel primo caso, occorre accantonare in bilancio
un importo pari al risultato negativo non immediatamente ripianato, in misura
proporzionale alla quota di partecipazione posseduta. Le pubbliche
amministrazioni locali che adottano invece le regole contabili civilistiche sono
tenute ad adeguare il valore della partecipazione all'importo corrispondente alla
frazione di patrimonio netto della società partecipata. L'adeguamento deve
essere operato nel corso dell'esercizio successivo laddove il risultato negativo
non sia stato immediatamente ripianato e quindi costituisca perdita durevole di
valore.
Per le società che redigono il bilancio consolidato, il risultato di esercizio è quello
relativo al gruppo. Nelle società che svolgono servizi pubblici a rete di rilevanza
economica, il risultato di esercizio è da intendersi quale differenza tra valore e
costi della produzione come prevede l'articolo 2425 del Codice civile.
Lo svincolo delle somme accantonate da parte dell'ente proprietario può
avvenire a seguito di ripiano della perdita di esercizio, per dismissione della
partecipazione o per messa in liquidazione del soggetto partecipato.
Per gli anni 2015, 2016 e 2017, gli enti pubblici locali in contabilità finanziaria
possono
applicare
gli
accantonamenti
in
maniera
graduale.
Un'attenzione particolare viene posta nei confronti delle società a partecipazione
di maggioranza diretta e indiretta che risultino titolari di affidamento diretto per
una quota superiore all' 80 per cento del valore della produzione. In caso di
conseguimento nei tre esercizi precedenti di un risultato economico negativo
occorre infatti operare una riduzione del 30 per cento del compenso dei
componenti degli organi di amministrazione. La perdita registrata per due
annualità consecutive costituisce inoltre giusta causa di revoca degli
amministratori. Resta in ogni caso inteso che le sanzioni in questione non si
applicano laddove il risultato negativo risulti coerente con un piano di
risanamento
preventivamente
approvato
dall'ente
proprietario.
L'utilizzo di risorse pubbliche deve in ogni caso rispondere a principi di
correttezza e trasparenza. Le decisioni di acquisto o mantenimento delle
partecipazioni societarie devono infatti scaturire a seguito di valutazioni da
operare anche sul piano della convenienza economica e della sostenibilità
finanziaria. Le analisi di convenienza economica devono poi considerare la
possibilità di destinazione alternativa delle risorse pubbliche impegnate, nonché
ipotesi di gestione diretta o esternalizzata dei servizi affidati.
Violazioni Ici, solo l'incertezza
normativa obiettiva esclude le
sanzioni
di Ulderico Izzo
Con la sentenza n. 18008 del 14 settembre 2016, la Corte di Cassazione precisa
due particolari aspetti in tema di imposta comunale sugli immobili: il primo
relativo ai presupposti in cui si può avallare l’incertezza normativa delle
disposizioni tributarie; il secondo sulla qualificazione di area edificabile di un
terreno inserito in uno strumento di pianificazione generale.
Il fatto
La controversia concerne l'impugnazione del contribuente di un avviso di
accertamento, in materia di imposta comunale sugli immobili per l’anno 2006,
attraverso il quale un comune recuperava la maggiore imposta su un’area
edificabile, considerata tale, sulla base della sola adozione del Piano regolatore
generale.
Il giudice di merito di primo grado si pronunciava favorevolmente all’ufficio,
mentre quello di appello dava ragione, parzialmente, al contribuente, ritenendo
non dovuti gli interessi e le sanzioni per obiettive condizioni di incertezza sulla
portata
e
sull’ambito
di
applicazione
della
norma
tributaria.
Il comune ha impugnato, mediante ricorso per Cassazione, la sentenza della
Commissione Tributaria Regionale, sostenendo che, al caso di specie, non
sussistevano le condizioni di oggettiva incertezza normativa.
La decisione
La sentenza in rassegna, richiama il consolidato orientamento dei giudici di
legittimità secondo il quale in tema di sanzioni amministrative per violazione di
norme tributarie, per incertezza normativa obiettiva, quale causa di esenzione
del contribuente da responsabilità, deve intendersi la situazione che si crea per
effetto dell'azione di tutti i formanti del diritto, tra i quali, in primo luogo, ma
non esclusivamente, la produzione delle norme, il cui accertamento è rimesso
all'esclusiva valutazione del giudice.
La predetta incertezza è ravvisabile, solo quando risultino difficoltà di
individuazione delle disposizioni normative dovute al difetto di esplicite
previsioni di legge, ovvero oscurità o ambiguità del testo normativo.
La Corte ha, correttamente evidenziato che per l’annualità 2005, la cui
dichiarazione Ici si presentava a giugno 2006, pur sussistendo un orientamento
secondo il quale la qualifica di area edificabile presupponeva, anche ai fini fiscali,
il perfezionamento delle procedure per l'approvazione degli strumenti
urbanistici, può ritenersi, tuttavia che fosse, invece, prevalente in
giurisprudenza l’orientamento che riteneva edificabile l'area inserita in un Prg
anche in assenza di strumenti attuativi.
Il giudice di legittimità, inoltre, ha posto in evidenza che all’epoca era vigente la
norma di interpretazione sulla definizione di area fabbricale (articolo 11, Dl
203/2005), norma che la Commissione tributaria regionale avrebbe dovuto
applicare per decidere la causa in conformità alla legge.
Ici, sanzionata l'omessa
dichiarazione fino alla sua
presentazione
di Ulderico Izzo
Con la sentenza n. 18230 del 16 settembre 2016 la Sezione V della Corte di
Cassazioneafferma il principio in base al quale il comportamento omissivo del
contribuente, in relazione alla mancata presentazione della dichiarazione Ici,
viene sanzionato per tutte le annualità in cui l’omissione si protrae, mentre
l’avvenuto adempimento è valido anche per gli anni successivi.
Il giudice di legittimità afferma, inoltre, il principio per cui la rendita catastale
risultante in atti al 31/12/1999, ma non recepita in atti impositivi dell’ente locale
alla data di entrata in vigore della legge 342/2000, non esclude il pagamento di
sanzioni e interessi in relazione all'accertamento della debenza di una somma
maggiore a titolo di imposta per immobili la cui iscrizione in catasto e relativa
attribuzione della rendita sia anteriore all'istituzione del tributo, anche se tale
rendita non risulti notificata precedentemente all'emissione degli avvisi di
accertamento.
Il fatto
La controversia concerne l'impugnazione, da parte del contribuente, di una serie
di avvisi d'accertamento e liquidazione emessi dal comune, con i quali si
richiedeva il pagamento dell'imposta Ici per il periodo 1999/2003 relativamente
ad un immobile di proprietà della medesima contribuente.
La ricorrente ha evidenziato di aver effettuato il versamento dell'imposta dovuta
sulla base della rendita presunta, poiché non conosceva i dati di classamento
della propria unità immobiliare, comunicati dal Comune solo in sede di notifica
dell'avviso d'accertamento.
Il giudizio di merito di primo grado si concludeva parzialmente favorevole al
contribuente, mentre la Commissione Tributaria Regionale del Friuli, Trieste,
adita dallo stesso contribuente, rigettava l'appello principale con accoglimento
integrale di quello incidentale spiegato dall’ente impositore.
La decisione
La sentenza in rassegna ha deciso la controversia in linea con il proprio
orientamento giurisprudenziale, in base al quale l'articolo 74 della legge
342/2000 non è applicabile alla fattispecie portata all’attenzione dei giudici di
merito, in quanto alla data del primo pagamento Ici, l'immobile della
contribuente era regolarmente censito con attribuzione di categoria e rendita;
d'altra parte, la rendita catastale era stata elevata a far data dal 1° gennaio 1992 a
seguito della revisione generale delle tariffe d'estimo del Nuovo catasto edilizio
urbano di cui al Dm 27/9/1991.
Tale variazione delle rendite è stata una variazione generalizzata che ha
interessato tutti gli immobili iscritti in catasto e per la quale, costituendo una
mera attuazione del disposto normativo, non era prevista una specifica notifica
per ogni singolo contribuente.
A contrario, invece, l'articolo 74 della legge 342/2000 riguarderebbe
esclusivamente gli atti attributivi della rendita catastale a fabbricati non iscritti
in catasto e gli atti modificativi della medesima rendita risultante in catasto,
quando non è più adeguata per intervenute variazioni permanenti nel fabbricato
e troverebbe esclusiva applicazione nel caso di legittimo utilizzo da parte del
contribuente della cd rendita presunta.
Inoltre, dalla sentenza in rassegna emerge un ulteriore principio inerente
l’omessa presentazione della dichiarazione Ici: l’omessa dichiarazione si protrae
per tutte le annualità successive e per ogni annualità l’ente impositore applica la
dovuta sanzione; l’avvenuta presentazione si estende agli anni successivi.
L'annullamento del permesso di
costruire non determina
l'automatica demolizione
dell'opera
di Gianni La Banca
L’annullamento del permesso di costruire non comporta l'obbligo automatico
per il Comune di disporre la demolizione di quanto realizzato sulla base del titolo
annullato: tale consequenzialità è circoscritta al solo divieto di riprodurre i
medesimi vizi (formali o sostanziali) che lo avevano connotato, nell’ipotesi di
adozione di un nuovo titolo edilizio. È quanto afferma il Tar Campania, Napoli,
con la sentenza 12 settembre 2016, n. 4234.
Il fatto
I ricorrenti, tutti comproprietari di alcuni appezzamenti di terreno,
impugnavano il provvedimento dirigenziale con il quale il Comune disponeva, in
via di autotutela, l’annullamento del permesso di costruire in sanatoria,
rilasciato ai sensi dell’articolo 38 del Dpr n. 380 del 2001 per l'esecuzione dei
lavori di completamento del fabbricato situato sui fondi predetti, e la successiva
ordinanza di demolizione delle opere.
Il dibattito in materia di sanatoria
Nonostante indirizzi divergenti sull’esistenza di un generale divieto di
rinnovazione dei permessi di costruire, annullati in sede giurisdizionale per vizi
di carattere sostanziale, si privilegia un’interpretazione dell’articolo 38 Dpr n.
380 del 2001 volta alla conservazione dell’opera costruita in base al titolo
annullato ogni volta che sia possibile una rinnovazione del permesso di costruire
emendata dai vizi riscontrati, quale che ne sia la natura (formali o sostanziali).
La finalità della norma è quella di dettare una disciplina che tenga in adeguata
considerazione, in ragione degli interessi implicati, la circostanza che
l’intervento edilizio è stato realizzato in presenza di un titolo abilitativo che, solo
successivamente, è stato dichiarato illegittimo. L’Amministrazione deve,
pertanto, valutare, con specifica motivazione, in ragione soprattutto di eventuali
sopravvenienze di fatto o di diritto e della effettiva situazione contenutistica del
vincolo,
se
sia
possibile
convalidare
l’atto
annullato.
In altri termini, l’annullamento del permesso di costruire non comporta affatto
per il Comune l'obbligo, sempre e comunque, di disporre la demolizione di
quanto realizzato sulla base del titolo annullato, ma è circoscritto al divieto, in
caso di adozione di un nuovo titolo edilizio, di riprodurre i medesimi vizi
(formali o sostanziali che siano) che detto titolo avevano connotato.
Il termine per l’annullamento in autotutela
Quanto alla tempestività del provvedimento impugnato, l’articolo 21-nonies
della legge n. 241 del 1990, nel prevedere il limite temporale del «termine
ragionevole», ha introdotto un parametro indeterminato ed elastico – a
differenza di altre fattispecie tipiche di annullamento codificate da norme
speciali quali l’articolo 1, comma 136, della legge n. 311 del 2004 – finendo così
per lasciare all’interprete il compito di individuarlo in concreto, in
considerazione del grado di complessità degli interessi coinvolti e del relativo
consolidamento, secondo il canone costituzionale di ragionevolezza.
Nel caso di annullamento in autotutela di provvedimenti autorizzativi come i
permessi di costruire, è ragionevole un termine di intervento che non superi il
termine decennale assegnato in generale all’Amministrazione regionale (ex
articolo 39 del Dpr n. 380 del 2001), per disporre l’annullamento dei titoli edilizi
comunali contrastanti con la normativa urbanistico-edilizia vigente al momento
della loro adozione.
Conclusioni
Il prevalente interesse pubblico all’annullamento può trovare la sua
corretta ratio nel recupero delle aree affinché se ne faccia un utilizzo conforme
alla loro destinazione urbanistica, e dunque alla relativa disciplina di Piano,
risultando recessivo l’interesse dei ricorrenti alla conservazione di un’opera
illegittima, realizzata in palese contrasto con le previsioni urbanistiche e
condotta nel corso degli anni quasi ad ultimazione, nonostante fosse da subito
evidente la concreta prospettiva che se ne potesse definitivamente accertare
l’illegittimità.
Il car sharing sul territorio
comunale conta come taxi e mezzi
pubblici
di Mara Ciriani e Michela Magnani
Il car sharing nell'ambito del territorio comunale è una possibile alternativa ai
mezzi di trasporto con vettore. Lo ritiene l'agenzia delle Entrate, nella
risoluzione n. 83/E, pubblicata ieri in risposta a un interpello.
Secondo l'Agenzia, il servizio di car sharing nelle aree urbane rappresenta una
evoluzione dei tradizionali sistemi di mobilità. Pertanto, se opportunamente
documentati, anche i rimborsi delle spese di trasporto sostenute dai dipendenti
in trasferta nel comune sede di lavoro rientrano tra quelli esenti da imposta, di
cui al comma 5 dell'articolo 51 del Tuir.
Viene quindi "aggiornata" la normativa in vigore, in base alla quale sono
imponibili le indennità e i rimborsi di spese relative a trasferte effettuate nel
medesimo comune ove è ubicata la sede di lavoro del dipendente, ad eccezione,
solo, dei «rimborsi di spese di trasporto, comprovate da documenti provenienti
dal vettore».
L'interpretazione delle Entrate
La risposta fornita dall'Agenzia si basa sulla sostanziale equiparazione del
servizio fornito dal taxi con il servizio fornito dal car sharing e dalla
documentazione rilasciata da quest'ultimo. Il servizio di taxi consiste infatti nel
trasportare il cliente da un luogo (di partenza) alla destinazione pattuita e, per
tale servizio, viene richiesto un corrispettivo sulla base della tariffa comunale in
vigore. Analogamente, car sharing consiste nel mettere a disposizione del cliente
un veicolo in un luogo predefinito (di partenza) con cui egli raggiunge la
destinazione desiderata. Similmente al servizio di taxi, anche per il car sharing il
corrispettivo è quantificato in ragione dell'effettivo utilizzo del veicolo, cioè in
base alla durata e ai chilometri.
Le fatture
In conseguenza della possibilità di controllare tramite gli strumenti inseriti sui
veicoli la durata e i chilometri percorsi dai clienti, le società di car sharing
emettono fatture al termine di ogni utilizzo del tutto paragonabili, per analiticità
e dettagli, ai documenti predisposti dai conducenti dei taxi. Quindi tali fatture, in
linea di principio, possono essere riconosciute come documenti di spese di
trasporto sostenute dai dipendenti e rimborsabili a "pie' di lista" ai sensi
dell'articolo 51, comma 5, del Tuir.
Pertanto, se le fatture emesse dalle società di car sharing nei confronti dei
dipendenti in trasferta nell'ambito del comune hanno il contenuto richiesto dalla
norma, analogamente ai documenti provenienti dal vettore possono, secondo
l'Agenzia, dare sufficienti garanzie di effettività dello spostamento dalla sede di
lavoro e di utilizzo del servizio da parte del dipendente. Così anche tali fatture,
come i documenti rilasciati dal vettore, si conformano alla ratio dell'articolo 51,
comma 5, ultimo periodo, del Tuir, che è tesa ad evitare che le indennità o i
rimborsi spese per spostamenti nel comune possano sostituire la retribuzione
ordinaria.
Inoltre, ai fini della non concorrenza del rimborso alla formazione del reddito
del lavoratore dipendente nonché della deducibilità del costo dal reddito
d'impresa, è irrilevante il fatto che la fattura sia intestata al dipendente e non
contenga alcun riferimento al datore. A tale proposito la prassi (risoluzioni 1979
n. 9/1108; 20 maggio 1980, n. 9/1000; 5 gennaio 1981, n. 9/2796) ha infatti, da
sempre, ribadito che, ai fini della deducibilità dei relativi costi dal reddito
d'impresa (e, di conseguenza, anche ai fini della non imponibilità in capo al
dipendente) sia indispensabile, ma al contempo sufficiente, che risulti il
collegamento tra incarico della trasferta e i documenti occorrenti per il rimborso
analitico delle spese necessarie all'espletamento dello stesso incarico. In ogni
caso, ai fini del rimborso non tassato, l'Agenzia convalida anche la
documentazione relativa al cosiddetto utilizzo incrociato, in cui la società/datore
sia intestataria della fattura emessa dalla società di car sharing e rimborsa al
lavoratore la spesa sostenuta per l'utilizzo del veicolo.
Edilizia pubblica, il prezzo
concordato tra Comune e
costruttore non può aumentare
di Daniela Casciola
Il prezzo dell'alloggio di edilizia residenziale pubblica è quello determinato in
base all'accordo tra Comune e cooperativa edilizia e non può essere aumentato
per tenere conto delle spese realmente sostenute nel corso della costruzione. Lo
stabilisce la Corte di cassazione nella sentenza n. 18836, depositata ieri.
I fatti
Nella vicenda all'esame dei giudici, la corte d'appello di Roma, adita dal
pretendente all'assegnazione di un alloggio contro la cooperativa edilizia
incaricata della costruzione, aveva escluso che si potesse pretendere di acquisire
la proprietà dell'alloggio sociale a un prezzo inferiore rispetto a quello sostenuto
dalla cooperativa, benché il primo fosse stato fissato "giudizialmente" da una
Ctu.
La decisione
I giudici di Cassazione sottolineano che in tema di edilizia agevolata, il sistema di
determinazione del prezzo di cessione degli alloggi (cosiddetto prezzo prefissato)
ha la finalità di facilitare l'acquisto della casa alle categorie disagiate e implica il
divieto di pattuire prezzi superiori a quelli fissati secondo le norme. Non conta
che l'eccedenza possa conseguire da maggiori spese che il costruttore si è
accollato.
Secondo l'articolo 35 della legge 865/1971, i criteri per il calcolo dei prezzi di
cessione degli alloggi di edilizia pubblica sono delegati ai Comuni. Nel caso
specifico la convenzione tra Comune e cooperativa prevedeva che il prezzo fosse
determinato sulla base del prezzo medio degli appalti di edilizia residenziale
pubblica effettuati nella Provincia.
Apprendistato con regole standard
in attesa delle norme regionali
di Giampiero Falasca
Il decreto legislativo correttivo della riforma del mercato del lavoro contiene
l'ennesima innovazione in materia di apprendistato. Per consentire l'utilizzo di
questo contratto anche in mancanza delle discipline regionali, viene stabilito che
il contratto di alta formazione e ricerca può essere attivato anche prima
dell'approvazione delle discipline regionali: in mancanza di esse, gli aspetti
formativi del contratto sono regolati dal decreto del ministero del Lavoro del 12
ottobre 2015. Mediante tale decreto, il ministero ha definito gli standard
formativi che devono essere applicati ai contratti di apprendistato di alta
formazione e ricerca, parametri che valgono su tutto il territorio nazionale, in
quanto vengono definiti come livelli essenziali delle prestazioni.
Gli standard formativi
Secondo tale atto, i datori di lavoro che intendono stipulare contratti di alta
formazione e ricerca devono avere capacità strutturali, tecniche e competenze
formative.
Inoltre il decreto stabilisce i criteri che devono essere rispettati per
l'organizzazione didattica dei percorsi di formazione in apprendistato e,
rinviando alla copiosa normativa esistente, definisce le caratteristiche e i compiti
del tutor aziendale, regolamenta i criteri di redazione del piano formativo,
definisce i criteri e le modalità di valutazione e certificazione delle competenze.
Il medesimo decreto ministeriale stabilisce quali sono i diritti e i doveri
dell'apprendista: l'istituzione formativa, d'intesa con il datore di lavoro, deve
informare i giovani e, nel caso di minorenni, i titolari della responsabilità
genitoriale, garantendo la consapevolezza della scelta di utilizzare tale contratto
e informandoli sui suoi possibili sbocchi occupazionali e formativi.
Le regole in attesa delle discipline regionali
Il decreto legislativo correttivo appena approvato prevede anche che, fino
all'approvazione delle discipline regionali, sono fatte salve le convenzioni
stipulate dai datori di lavoro (o dalle loro associazioni) con le università, gli
istituti tecnici superiori e le altre istituzioni formative o di ricerca.
Il Dlgs si occupa, inoltre, di un'altra tipologia di apprendistato, quella destinata
ai giovani dai 15 ai 25 anni per l'acquisizione di una qualifica o di un diploma
professionale.
Per i contratti di questo tipo, stipulati quando era ancora vigente il Testo unico
del 2011, viene riconosciuta la possibilità di prorogare per un periodo massimo
di un anno tutti i rapporti di apprendistato, qualora siano ancora in corso alla
data di entrata in vigore del decreto e nel caso in cui, alla scadenza del periodo
formativo, l'apprendista non abbia conseguito la qualifica o il diploma
professionale.
Con questa innovazione il legislatore estende ai contratti di apprendistato
stipulati in base alla vecchia e ormai abrogata disciplina (il Dlgs 167/2011) la
facoltà di proroga riconosciuta dall'articolo 43, comma 4, del Dlgs 81/2015 in
favore dei nuovi contratti di apprendistato per la qualifica e il diploma.
Come accaduto per decine di volte in passato, queste norme nascono con
l'intenzione di risolvere i tanti e incessanti problemi applicativi che
caratterizzano l'apprendistato. E probabilmente anche queste ultime modifiche,
pur avendo un contenuto sensato e condivisibile, non produrranno quella svolta
tanto attesa, in quanto non affrontano il tema di fondo che caratterizza sia
questo che i precedenti interventi: la fattispecie è costruita in maniera troppo
complessa, come si capisce già leggendo i nomi di alcune sotto-tipologie (la
definizione dell'apprendistato di primo livello si compone di ben 21 parole!).
Parte l'ispettorato unico per la
vigilanza sul lavoro
di Matteo Prioschi
Avvio delle attività per l'Ispettorato nazionale del lavoro, previsto dal Jobs act
quale nuovo soggetto destinato a vigilare sul rispetto delle norme in materia
lavoristica, aggregando in prospettiva le attività oggi svolte dal ministero del
Lavoro, dall'Inps e dall'Inail. A darne notizia è il ministero del Lavoro che ieri ha
annunciato l'insediamento, avvenuto il 15 settembre, del consiglio di
amministrazione e del collegio dei revisori dell'Ispettorato, organi che si
aggiungono al direttore Paolo Pennesi.
Come funzionerà
Dal punto di vista operativo, però, l'attività della nuova struttura verrà svolta
grazie a una convenzione, del 14 settembre, tra ministero e Ispettorato, in base a
cui il secondo utilizzerà il personale, le risorse e le strutture del primo, in
particolare della direzione ispettiva, fino a che, con decreto interministeriale,
verrà soppressa la direzione e data piena autonomia al nuovo organismo. I
dipendenti ministeriali che opereranno per conto dell'Ispettorato rimangono
gerarchicamente dipendenti dagli uffici ministeriali.
Il coordinamento delle attività
Il punto di forza dell'Ispettorato dovrebbe essere il coordinamento delle attività
oggi svolte anche da Inps e Inail. Tuttavia il personale di questi due istituti
rimarrà in organico agli stessi, fino alla pensione. L'accentramento dell'attività di
coordinamento dovrebbe comunque determinare maggior efficacia ed efficienza
dei controlli, grazie all'incrocio delle informazioni contenute nelle banche dati,
tra cui quella dell'agenzia delle Entrate, e l'eliminazione della duplicazione delle
ispezioni nelle aziende da parte del personale che fa capo a ministero, Inps e
Inail.
Primo «sì» dalla Camera al rilancio
dei piccoli Comuni
di Gianni Trovati
Arriva all'unanimità, ma dopo tre anni di faticosa navigazione parlamentare, il
via libera della Camera al disegno di legge per i piccoli Comuni, che ora passa al
Senato. Il testo, che ieri a Montecitorio ha ottenuto 484 «sì», istituisce un fondo
da 100 milioni di euro dal 2017 al 2023, che sarà gestito dal Viminale e andrà
utilizzato per progetti di rilancio dei centri storici e del turismo, ma anche di
sostegno all'economia con l'estensione della banda ultra-larga e gli incentivi
all'insediamento produttivo e alle attività agricola.
Il Fondo per lo sviluppo, che secondo i programmi della legge sarà alimentato
con 10 milioni nel 2017 e con 15 milioni all'anno dal 2018 al 2023, è rivolto agli
interventi nei 5.585 Comuni (cioè poco meno del 70% dei municipi italiani) che
non raggiungono i 5mila abitanti, anche nel caso in cui in questi anni si siano
fusi con altri enti fino a creare realtà più grandi di questa soglia. Ma oltre alla
questione finanziaria, il testo portato al voto dai relatori Enrico Borghi, Antonio
Misiani e Tito Iannuzzi (tutti del Pd) prova a rilanciare il ruolo dei piccoli enti
anche nello svolgimento dei servizi pubblici, compresi quelli postali da tempo al
centro di una battaglia tra amministratori locali e poste sulle chiusure dei piccoli
uffici e sulla consegna a giorni alterni della corrispondenza.
L'arrivo del testo al voto favorevole dell'Aula ha offerto ieri una nuova occasione
per rilanciare il dibattito sul bicameralismo. A porre il tema è stato in particolare
il primo firmatario, il presidente della commissione Ambiente della Camera
Ermete Realacci, ricordando la maratona parlamentare che già per tre volte,
nelle scorse tre legislature, aveva condotto il "suo" testo al traguardo di
Montecitorio, a cui però non è mai seguita finora l'approvazione al Senato.
Il sindaco non ha potere di
ordinanza contro il gestore idrico
che chiude i rubinetti ai morosi
di Francesco Clemente
Il sindaco non può intromettersi nel rapporto contrattuale tra il gestore del
servizio idrico e gli utenti per risolvere un contenzioso di carattere privato, di
conseguenza non può emettere un'ordinanza urgente per sbloccare le forniture
dell'acqua che sono state interrotte a chi è in ritardo con i pagamenti delle
bollette, tantomeno senza dimostrare in alcun modo il paventato rischio per
l'incolumità o l'igiene pubblica. Il Tar di Lecce, in dieci sentenze sostanzialmente
identiche depositate tra il 12 maggio e il 25 luglio scorso – nn. 1089-1090-10911189-1190-1191-1192 e nn. 795, 796 e 797 del 2016, rispettivamente dalla prima e
seconda Sezione -, ha annullato così i provvedimenti d'urgenza adottati da tre
sindaci pugliesi – a capo dei Comuni di Nardò, Casarano e Tuglie – che avevano
cercato di impedire all'Acquedotto Pugliese di chiudere i rubinetti a diversi
residenti di alloggi popolari risultati «ripetutamente inadempienti» nel liquidare
le fatture.
Lo sviamento di potere
In tutte le pronunce – tra le ultime su un tema ampiamente dibattuto dalla
giurisprudenza (vedi in particolare la causa vinta da Acea contro le ordinanze di
alcuni sindaci nel Frusinate, Tar Lazio nn. 707-711 del 2015) - i giudici
amministrativi hanno dato ragione all'Aqp ribadendo che le ordinanze sindacali
anti-distacco in questo caso comportano in realtà «uno sviamento di potere»
poiché il Comune interviene in un rapporto contrattuale di cui è «estraneo»,
vietando al gestore di adottare un rimedio che in realtà è previsto dalle norme
contrattuali - in via generale dalle norme civilistiche in tema di contratti e
somministrazione (rispettivamente articoli 1460 e 1565 del Codice civile) -, «e
ciò
a
prescindere
dall'imputabilità
di
siffatto
inadempimento».
Secondo il Tar, questi provvedimenti non rispettano le competenze assegnate ai
primi cittadini come autorità locale «in caso di emergenze sanitarie o di igiene
pubblica a carattere esclusivamente locale» (commi 4 e 5 dell'articolo 50 del
Tuel), e sono illegittimi soprattutto quando, per lo stesso motivo, vengono
ripetuti nel tempo a riprova del «difetto della condizione indispensabile di
provvisorietà dell'atto emanato con i poteri contingibili e urgenti».
Necessità e urgenza: provvisorietà delle ordinanze
Come ribadito dalle Sezioni salentine, l'ordinanza di necessità e urgenza deve
essere invece l'«extrema ratio», cioè un «rimedio straordinario che
l'amministrazione ha a disposizione per fronteggiare situazioni eccezionali ed
imprevedibili, non altrimenti governabili». L'ammonimento dei giudici è però
ancora più chiaro quando viene ricordato ai primi cittadini che questa
peculiarità dell'ordinanza «fa sì che uno dei suoi caratteri immancabili sia quello
della provvisorietà, allo scopo evidente di non istituzionalizzare situazioni
emergenziali». Per questi motivi, il Tar ha bocciato anche altre ordinanze che
erano state emesse senza un termine finale di efficacia – a Casarano per almeno
30 giorni «in attesa di definire e chiarire la situazione di morosità», a Tuglie
invece per almeno 60 giorni per consentire il saldo del debito –, ma in
particolare perché negli immobili interessati dalle interruzioni vi erano
«numerosi nuclei familiari con persone anziane, bambini e disabili» in difficoltà
economica. I sindaci avevano quindi giudicato «non opportuno, sotto il profilo
igienico-sanitario,…privare gli stessi del servizio idrico, servizio pubblico
essenziale». Secondo i giudici invece, questo richiamo, oltre alla mancata prova
dei pericoli per l'igiene e la salute pubblica, non può aver importanza se, come
accaduto in questa vicenda, si far riferimento a «una generica condizione di
pregiudizio non valevole ai fini dell'adozione di un provvedimento
amministrativo atipico, in quanto non connotata da caratteristiche di
immediatezza ed irreparabilità».
Il ricorso al giudice
Come sottolineato nelle sentenze, uno degli strumenti a disposizione degli utenti
rimasti senz'acqua per bollette non pagate è il ricorso al giudice ordinario per
chiedere un provvedimento cautelare urgente (articolo 700 del Cpc), ma anche,
come in questo caso, la possibilità di beneficiare del «bonus idrico» messo a
disposizione dalla Regione per i servizi alla persona garantiti dagli enti comunali
a determinate condizioni. In ogni caso l'ordinanza che interviene in soccorso
degli utenti economicamente in difficoltà «disattende gli specifici compiti in
materia socio-assistenziale affidati al Comune», oltre a non poter essere
utilizzata per il «soddisfacimento di finalità che si correlano solo ed
esclusivamente al manifestarsi di una patologia nei rapporti di utenza».
Niente decadenza se consigliere
giustifica le assenze
di Antonio Nicodemo e Giovanni F. Nicodemo
È illegittima la delibera del Consiglio comunale che stabilisce la decadenza di
uno dei suoi componenti per non aver partecipato a tre sedute consecutive
dell’assemblea cittadina, se l’assenza è stata giustificata. È altresì illegittima la
delibera che dichiara la decadenza se non è adeguatamente motivata, né la Pa
può integrare la motivazione davanti al Giudice adito con la propria difesa. Lo
stabilisce il Tar Campania, Salerno, sezione I, con sentenza del 19 settembre
2016, n. 2180.
Il caso
La questione giunta all’attenzione del Giudice amministrativo campano ha ad
oggetto la dichiarazione di decadenza del ricorrente dalla carica di Consigliere
comunale comminatagli per via della sua assenza «ingiustificata» a tre sedute
consecutive del Consiglio.
Il ricorrente si era assentato in due occasioni per sostituire una collega sul luogo
di lavoro e una terza volta per motivi personali.
Tuttavia, il Consigliere interessato, prima che l’assemblea cittadina deliberasse
la sua decadenza, aveva fatto pervenire all’Ente, nei termini prescritti, una
sintetica nota in cui giustificava le assenze con relative allegazioni comprovanti
le giustificazioni. Tanto non è bastato a convincere il Consiglio comunale che,
sostenendo la carenza delle giustificazioni proposte, ne ha dichiarato la
decadenza.
Il Tar Salerno però, con la sentenza in commento, stigmatizza il percorso logico
argomentativo della delibera impugnata e annulla il provvedimento di
decadenza così riabilitando alla carica di Consigliere il ricorrente dichiarato
decaduto.
La decisione
Il Giudice amministrativo campano censura il mal governo della norma
statutaria secondo la quale nel caso della mancata partecipazione ai lavori del
Consiglio il Consigliere comunale decade qualora risulti assente a tre sedute
consiliari consecutive o a dieci complessive nell’anno solare, «salvo che sia
documentata l’impossibilità a parteciparvi», con possibilità quindi, per
il Consigliere censurato, di far valere «ogni ragione giustificativa».
Il Tar Salerno basa il proprio ragionamento sulla carenza e sulla
contraddittorietà della motivazione.
Per un verso, infatti, la delibera consiliare motiva la sua decisione in questo
modo: «Atteso che le giustificazioni prodotte appaiono scarsamente motivate»;
per altro verso, dall’accertamento dei fatti, per alcune delle assenze risulta
prodotta la richiesta giustificazione.
Infatti ad avviso del Giudice amministrativo aver dato prova, almeno per una
delle tre assenze, dell’esistenza di una causa di giustificazione, fa venire meno il
presupposto sanzionatorio che prescrive la decadenza in caso di assenza
ingiustificata per tre sedute consecutive.
Venendo meno l’inescusabilità di una delle tre assenze consecutive viene meno
anche il presupposto fattuale, cui ancorare il provvedimento adottato dal
Consiglio.
Il divieto di integrazione della motivazione
Infine, affrontando il caso in esame il Giudice amministrativo campano ha
ribadito che la Pa non può integrare in sede difensiva la motivazione (carente)
dei provvedimenti impugnati. Il Tar Salerno spiega infatti che, a parte la carenza
dei presupposti della decadenza, non può ritenersi ammissibile la formulazione
di argomentazioni difensive a giustificazione del provvedimento impugnato non
evincibili nemmeno implicitamente dalla sua motivazione, ciò soltanto
costituendo una integrazione postuma effettuata in giudizio, come tale non
consentita in quanto non inserita nell’ambito di un procedimento
amministrativo.
Spetta al Comune decidere se e
quando intervenire sul piano
urbanistico
di Lorenzo Camarda
E' inammissibile ricorrere alla Giustizia amministrativa contro il silenzio
osservato dal Comune in merito ad un'istanza del privato che tende a ottenere
una variante urbanistica. La decisione è stata adottata, in sede cautelare,
dal Consiglio di Stato, sezione VI, del 15 settembre 2016 n. 3917.
Il fatto
Una cittadina, proprietaria di un terreno a destinazione agricola che ospita una
comunità Rom di etnia Sinti, è ricorsa al Tar Lombardia-Milano contro il
silenzio adottato dal Comune in ordine alla richiesta diretta ad ottenere una
variante urbanistica che consentisse alla comunità Rom di restare sul posto e
così assicurare la prima casa a cittadini senza tetto e con prole in età scolare. Il
Tar è intervenuto diffidando il Comune ad adottare ogni necessario
provvedimento volto a regolarizzare la presenza di roulotte nell'area, anche
attraverso l'adozione di opportune varianti al Piano del governo del territorio. O,
in alternativa, ad individuare altre soluzioni abitative rispettose dell'unità dei
nuclei familiari, dell'integrazione sociale e lavorativa, della necessità di
assicurare il servizio scolastico ai minori. Il Comune si è appellato al Consiglio di
Stato eccependo che l'Autorità urbanistica non è obbligata ad attivare alcuna
procedura che miri ad adottare una variante urbanistica (nella fattispecie
concreta su un'area costellata da abusi edilizi).
In particolare, Il Comune ha motivato il proprio silenzio "in quanto l'interesse
particolare del singolo ad ottenere una variante di un piano urbanistico
approvato, valido ed efficace è un interesse di mero fatto, e come tale non può
ricevere tutela giurisdizionale".
La discrezionalità amministrativa della Pa e il significato del silenzio
Il Consiglio di Stato, in sede cautelare, prescinde dalle considerazioni di natura
socio-politica (che hanno fatto breccia presso il Tar Lombardia-Milano) avanzata
dalla proprietaria dell'area che trovano fondamento nell'impegno assunto
dall'Italia nei confronti dell'Europa trasfuso in un documento "Strategia
nazionale d'inclusione dei Rom, dei Sinti, e dei Caminanti in attuazione
comunicazione europea n.173/2011".
Il Consiglio di Stato affronta la questione esclusivamente sotto i due profili
tecnici di natura urbanistica:
• il limite della discrezionalità amministrativa della Pa in ordine alle
sollecitazioni dell'istanza del privato a provvedere con una variante urbanistica
specifica al fabbisogno abitativo di una comunità;
• il significato del silenzio adottato dalla Pa.
In ordine al primo punto pare pacifico che la decisione di intervenire
urbanisticamente in un'area spetti direttamente al Comune. Tale potere,
nell'esercizio di una variante urbanistica specifica, dovrà essere esercitato
tenendo conto dei caratteri della situazione e degli interessi implicati (vocazioni
territoriali che determinano la zonizzazione e la localizzazione dei servizi
pubblici), compatibilmente al quadro di pianificazione generale. Pertanto il se, il
come e il quando intervenire spetta al Comune sulla base della ponderazione
degli interessi di cui sopra. In ordine al secondo punto, quello relativo al silenzio
della Pa, esso appare discendere direttamente dal primo: pertanto non è
possibile configurare in capo al Comune un silenzio-inadempimento.
La decisione
Il ricorso proposto dal Comune contro la decisione del Tar Lombardia-Milano
viene accolto in quanto, secondo il Consiglio di Stato, in sede di fase cautelare,
non è possibile imputare al Comune un silenzio inadempimento in materia
urbanistica relativa al caso di specie (caratterizzato dalla mancanza di un chiaro
obbligo di provvedere). Se ne può trarre la seguente massima giurisprudenziale
"In tema di modifica dell'assetto urbanistico del territorio comunale,
allorquando non sussista uno specifico e chiaro obbligo di provvedere, non è
possibile configurare in capo al Comune un obbligo di iniziare un procedimento
amministrativo di modifica dell'assetto urbanistico del territorio".
Il principio di rotazione impone
una durata massima a tutti gli
incarichi dirigenziali
di Francesco Clemente
Anche se gli incarichi di funzioni dirigenziali sono rinnovabili, per il principio di
rotazione essi non possono superare una ragionevole durata e devono seguire
procedure trasparenti come garanzia minima contro il rischio di corruzione
(legge n. 190/2012): è quindi illegittimo prolungarli per anni o di fatto a vita,
tantomeno se non ci sono, o non sono giustificate adeguatamente, le «particolari
esigenze di funzionamento» che in casi eccezionali possono derogare alla regola
generale del concorso. A chiarirlo è la Corte dei conti, nella delibera n. 144/2016
depositata il 12 agosto dalla Sezione regionale di controllo per la Puglia, negando
il visto di legittimità al decreto con cui la prefettura di Lecce aveva deciso di
riaffidare allo stesso dirigente, e per la terza volta dal 2008, il servizio
amministrazione, affari generali e attività contrattuale. Col "via libera"
all'incarico, disposto a maggio scorso e valido per altri cinque anni, il dirigente di seconda fascia - avrebbe infatti mantenuto la stessa funzione per un totale di
13 anni e senza interruzioni (dal 28 aprile 2008 al 27 aprile 2021) nonostante la
presenza in organico di un altro dirigente.
Incarico illegittimo
Per i magistrati contabili, questo tipo di incarico va oltre i limiti ragionevoli di
legge ed è doppiamente illegittimo poiché la Pa non ha provato a dovere
l'indispensabilità di "bypassare" per l'ennesima volta la procedura valutativa
prevista dal testo unico sul pubblico impiego (articolo 19 Dlgs n. 165/2001). Per
la Prefettura, invece, data la «sostanziale difficoltà» a ruotare l'altro dirigente in
organico trattandosi di posizioni «differenti» e quindi non «interscambiabili», il
rinnovo avrebbe garantito continuità e buon andamento ad attività in corso
«importanti e delicate» come gli appalti e i contratti di competenza del ministero
dell'Interno. L'alternativa era la mobilità, ma non era ritenuta percorribile
poiché il dirigente utilizzava i permessi giornalieri per assistere famigliari con
handicap (articolo 33 legge n. 104/1992).
Le regole di trasparenza
Bocciando questa tesi, la Corte ha ricordato la «regola generale» che impone alla
Pa la trasparenza sul numero, sulla tipologia dei posti di funzione disponibili e
sui criteri di scelta dei dirigenti interessati (comma 1-bis, articolo 19), oltre al
tetto sulla durata (dal minimo di tre al massimo di cinque anni) e alla possibilità
di rinnovo, temi su cui è intervenuta la recente delega alla "riforma della Pa"
(lettera h, comma 1, articolo 11, legge n. 124/2015) prevedendo per gli incarichi
non a caso limiti più restrittivi, con un tetto di quattro anni e con la possibilità di
estenderli fino a sei per una sola volta e a certe condizioni.
Un rigore già applicato
Un'interpretazione "rigorosa" già applicata anche di fronte a particolari
competenze e buoni risultati (Sezione controllo Sardegna, delibera n. 87/2014),
a casi estremi di un solo dirigente (Sezione controllo Emilia Romagna, delibera
n. 180/2014), e, di recente, a un rinnovo prolungato per un totale di 14 anni a un
dirigente del ministero dell'Interno (Sezione controllo centrale, delibera n.
7/2016). Le norme, infatti, come affermato, «rispondono, oltre che ad un
interesse dei singoli candidati, anche a quello di assicurare la trasparenza e la
neutralità nella assegnazione delle funzioni», e possono essere derogate solo se
ci sono «peculiari esigenze di funzionamento», in ogni caso «adeguatamente
espresse». Esse vanno poi coordinate con quelle "anticorruzione" con cui il
legislatore ha «chiaramente manifestato un notevole disfavore nei confronti
della prolungata permanenza dei dirigenti pubblici negli incarichi conferiti».
Quest'ultima disciplina prevede, infatti, che il Dipartimento della funzione
pubblica indichi i criteri di rotazione dei dirigenti «nei settori particolarmente
esposti alla corruzione» e le misure contro sovrapposizioni o cumuli anche per
gli esterni (lettera e, comma 4, articolo 1), e che, definendo le «procedure
appropriate» per la selezione e la formazione, si assicuri la rotazione di dirigenti
e funzionari proprio nei settori più a rischio corruttivo (lettera b, comma 5,
articolo 1), oltre ad affidare il controllo sull'«effettiva rotazione» al responsabile
della prevenzione della corruzione e della trasparenza.
I limiti negli appalti
E proprio per gli appalti il legislatore impone anche un «livello essenziale» di
trasparenza in funzione anticorruttiva (comma 16, articolo 1), e a prescindere dal
numero e dal valore delle gare. Questa attività quindi, anche se «delicata e
importante» come in questo caso, è pur sempre «del tutto ordinaria e
fisiologica» per la Pa, per cui se giustificasse in automatico il rinnovo degli
incarichi verrebbe «sostanzialmente vanificata» non solo la normativa
anticorruzione, ma soprattutto la previsione dei limiti temporali, prolungando
l'incarico allo stesso dirigente «potenzialmente fino al pensionamento». In
questo caso i requisiti di assistenza a terzi del dirigente gli consentono di non
essere trasferito in un'altra Pa senza il suo consenso, ma non di conservare
l'incarico «in deroga alla normativa generalmente applicabile, ad libitum o a
tempo eventualmente indeterminato».
Sul rinnovo dei contratti si parte
da fasce di merito e relazioni
sindacali
di Giorgio Pogliotti e Gianni Trovati
Il rinnovo dei contratti per i dipendenti pubblici ha bisogno di regole e di fondi.
Sulle risorse, visto il quadro di finanza pubblica, non sarà semplice trovare il
punto d'incontro fra domanda e offerta, ma sul quadro delle regole le prospettive
potrebbero rivelarsi più semplici e facilitare il riavvio della macchina.
L'anticipo in manovra
Per questa ragione prende consistenza l'ipotesi di anticipare nell'ambito della
manovra due temi allo studio nella riforma del pubblico impiego, il cui decreto
attuativo arriverà però più tardi: l'obiettivo è quello di ridare spazi di autonomia
alle trattative contrattuali, sottraendo alla legge la disciplina di dettaglio in
particolare su flessibilità e produttività, e ripensare quindi la griglia rigida
imposta dalla legge Brunetta. La riforma del 2009, congelata insieme ai
contratti,impone di destinare ai premi individuali la «quota prevalente» delle
risorse per la produttività, e di dividere i dipendenti in tre fasce concentrando il
50% delle risorse sul 25% più produttivo. L'incrocio fra queste regole e i limiti
alle risorse a disposizione per i nuovi contratti rischia di tradurre il rinnovo in un
taglio in busta paga per un gruppo di dipendenti, e comunque rappresenta un
ostacolo pesante sulle trattative.
La posizione dei sindacati
Sul rilancio delle relazioni industriali puntano i sindacati che ieri, in un attivo
unitario riunito a Roma con le segreterie di categoria, hanno dato il primo via
libera alla piattaforma del rinnovo contrattuale: «Vogliamo per pubblico e
privato stesse regole sulla democrazia e stesse opportunità per la contrattazione
- sottolineano Fp-Cgil Cisl-Fp Uil-Fpl Uil-Pa –. Che vuol dire stesse
responsabilità, ma anche stesse possibilità di sviluppo professionale e
valorizzazione delle competenze. E stesso ruolo nel definire le regole del gioco.
Bisogna riassegnare alla contrattazione la funzione di regolare condizioni e
organizzazione del lavoro». La parola d'ordine, per Cgil, Cisl e Uil è superare la
legge Brunetta. Tra i sindacati c'è attesa per l'atto di indirizzo ,necessario per
avviare la fase negoziale. Il principale nodo da sciogliere è quello delle risorse
economiche: dopo sette anni di blocco dei contratti, i 300 milioni assegnati dal
governo per gli aumenti del 2016 sono considerati del tutto insufficienti dai
sindacati che, in vista della legge di Bilancio, chiedono incrementi sui livelli di
quelli ottenuti nel privato.
Italia in prima fila per sviluppare
la mobilità digitale
di Stefano Carrer
Un impegno comune a governare e guidare il processo di crescente
digitalizzazione delle infrastrutture è stato espresso dal vertice dei ministri dei
Trasporti dei Paesi del G7 che si è svolto a Karuizawa, in Giappone.
«Abbiamo espresso un messaggio di ottimismo e fiducia», ha detto il ministro
delle Infrastrutture e dei Trasporti Graziano Delrio, che ha sottolineato come
l'Italia intenda giocare un ruolo di primo piano nell'applicazione delle nuove
tecnologie e lo sta già facendo con progetti vicini al compimento (dalla
digitalizzazione completa dei porti al piano nazionale per l'applicazione delle
tecnologie intelligenti, dalla piattaforma logistica nazionale fino alla
manutenzione digitalizzata e a progetti-pilota di "smart roads" come la SalernoReggio Calabria).
Il prossimo anno sarà l'Italia a ospitare il G7 e quindi anche quello dei Trasporti.
Delrio ha anticipato che il focus non sarà solo sulle tecnologie: andranno sotto i
riflettori gli «aspetti sociali» delle infrastrutture e della loro evoluzione che sta
cambiando la vita delle persone. In questo senso, anche progetti non
necessariamente redditizi sul piano finanziario possono avere grande
importanza (Delrio cita il caso dell'Alta velocità ferroviaria Napoli-Bari, che non
prospetta una domanda pari, poniamo, alla Milano-Verona ma «è necessaria per
lo sviluppo del territorio»).
L'incontro in Giappone
A Karuizawa i ministri si sono anche confrontati con il settore privato, in
particolare sulla questione della guida automatizzata o intelligente (una
relazione è stata svolta dal direttore del centro ricerche di FiatChrysler, Enrico
Pisino). «Collaboreremo ed eserciteremo leadership nel supporto a una
ravvicinata commercializzazione delle tecnologie per l'automazione e la
connessione dei veicoli», recita il comunicato finale del G7. In questo senso,
secondo Delrio, è essenziale una «armonizzazione internazionale» del quadro
normativo e dei sistemi elettronici: il modello, dice, è quello dello spazio unico
ferroviario europeo che, applicando gli stessi standard di sicurezza, consente ai
treni di viaggiare senza frontiere.
Le cornici tecno-regolamentari
Una vaga promessa di coordinamento sulle cornici tecno-regolamentari, però,
secondo vari analisti maschera tensioni di fondo. In Giappone e in qualche
quartiere europeo si teme che gli Stati Uniti – dove società come Google stanno
puntando molte carte sullo sviluppo delle tecnologie di guida intelligente –
vogliano imporre i loro standard di sicurezza, finendo per avvantaggiare le
proprie industrie: se l'auto del futuro sarà più software che hardware, insomma,
il problema non è di per sé accedere a un modello di infrastrutturazione digitale
altrui, ma come tutelare industrie nazionali dell'auto quando il motore non sarà
più la componente più importante della vettura. Un gruppo del lavoro del G7 si
sovrapporrà alla commissione Onu per lavorare sulla regolamentazione. Più
facile e già raggiunto al G7 è un accordo sul contenimento delle emissioni nocive
nel trasporto aereo, alla vigilia di una cruciale riunione dell'International Civil
Aviation Organization a Montreal (per una crescita "carbon-neutral" dal 2020:
qui
sono
altri
i
Paesi
che
stanno
facendo
difficoltà).
Delrio è poi partito per il Vietnam, dove sta incontrando i vertici politici di un
Paese che ha bisogno di rinnovare le sue infrastrutture, oltre che i rappresentanti
dell'imprenditoria italiana.
Conto termico per riqualificare gli
edifici pubblici sul mercato
elettronico della Pa
di Roberta Giuliani
Caldaie, impianti solari termici per scuole e uffici, sostituzioni di sistemi di
illuminazione e climatizzazione: le Pa che vogliono investire sull'efficienza
energetica degli edifici trainati dagli incentivi del nuovo conto termico potranno
acquistare beni e servizi attraverso il Mercato elettronico della pubblica
amministrazione (Mepa). Il Gestore dei servizi energetici (Gse), in
collaborazione con Consip, ha pubblicato sul Mepa i «Capitolati Speciali Conto
Termico 2.0» che consentono alle Pa di acquistare i beni e i servizi elencati nella
«Tabella Prodotti Capitolati Speciali Conto Termico 2.0» e accedere agli
incentivi attraverso il Portaltermico.
Il conto termico
Le Pa che intendono realizzare interventi volti all'incremento dell'efficienza
energetica e alla produzione di energia termica da fonti rinnovabili possono
contare ogni anno sui 200 milioni del Conto termico 2.0 disciplinato dal decreto
interministeriale del 16 febbraio 2016 che ha ampliato la tipologia dei lavori
ammessi a contributo. Per Comuni e altri enti pubblici infatti la riqualificazione
può riguardare non solo impianti ma interi edifici e gli incentivi possono partire
da un rimborso minimo del 40% fino a un massimo del 65 per cento. Per le Pa è
inoltre prevista (articolo 12, comma 3 del Dm 16 febbraio), la cumulabilità con
altri incentivi in conto capitale, anche statali, fino a un massimo del 100% delle
spese ammissibili.
I capitolati
Nell'ambito del bando Free (Fonti rinnovabili ed efficienza energetica), le Pa
potranno formulare «Richieste di offerta» (Rdo) per l'approvvigionamento di
beni con caratteristiche tecniche e prestazionali conformi a quelle previste dal
Dm 16 febbraio 2016. I beni e servizi acquistabili sono elencati nella «Tabella
Prodotti Capitolati Speciali Conto Termico 2.0». Si potrà poi accedere agli
incentivi attraverso il Portaltermico di Gse, secondo le modalità di accesso
diretto o tramite prenotazione.
I capitolati speciali del Conto termico 2.0 sono otto. I primi tre rientrano nella
categoria «Impianti solari termici e servizi connessi» con i prodotti: scuole con
annessa attività sportiva, uffici e solar cooling. Altri quattro prodotti rientrano
invece nella categoria «Beni per l'efficienza energetica»: pompe di calore
elettriche per la climatizzazione, pompe di calore a gas per la climatizzazione
pompe di calore per la produzione di acqua calda sanitaria (Acs) e interventi di
relamping. Alla categoria «Fornitura e/o sostituzione di generatori a
combustibile e relativa installazione» rientra infine il prodotto caldaie a
condensazione a combustibile gassoso.