la stanza del drago

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la stanza del drago
massimo rizzante
la stanza del drago
e il mondo della prosa
archivio di saggi 6
la stanza del drago e il mondo della prosa
© 2013 Massimo Rizzante
massimo rizzante, la stanza del drago e il mondo della prosa
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Negli anni ottanta del secolo scorso ho studiato a
Urbino, la città di Raffaello.
A quell’epoca frequentavo Palazzo Benedetti, un palazzo rinascimentale situato di fronte al duomo, dove
vivevano alcune amiche. Sulla parete di una stanza era
stato disegnato – non sono mai riuscito a sapere da chi
– un drago. Ho trascorso molte notti in quella stanza.
Si può dire che una parte di me, la mia parte poetica, vi
abbia ancora fissa dimora. Lì è iniziata la mia personale
lotta con il drago che, a differenza del santo della tradizione cristiana, non conduce a nessuna liberazione dal
male.
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Alla fine degli anni ottanta sono uscito dalla stanza
del drago (una parte di me, soltanto una parte). Sono
andato a Roma, a Leuven, nelle Fiandre, poi a Nimega,
in Olanda, a Granada, a Vienna, a Klagenfurt.
A Klagenfurt, nel 1926, era nata Ingeborg Bachmann, la poetessa e scrittrice austriaca morta tragicamente nel 1973 a Roma, dove viveva da diversi anni.
Prima di dedicarsi alla prosa, aveva pubblicato due importanti raccolte poetiche: Die gestundete Zeit (Il tempo
dilazionato) nel 1953 e Anrufung des Großen Bären (Invocazione all’Orsa Maggiore) nel 1956. Ero fisicamente
innamorato di Ingeborg Bachman, anche se, naturalmente, non l’avevo mai conosciuta: un amore nato da
alcune sue foto. Quando sorrideva non riusciva a nascondere la sofferenza. Perché soffriva? L’idea che mi
ero fatto è che la Bachmann era una di quelle persone
sempre in viaggio le cui radici affondano più nella loro
lingua che in un luogo preciso.
Tuttavia le radici della sua arte non prevedono nessuno stravolgimento linguistico. Scrivere, per lei, significava fare del bene, cioè trasformare l’antico in autentico.
La sua esistenza era esposta con tale vulnerabilità alla
violenza della Storia che il suo grado di compassione nei
confronti di chi da quella stessa Storia era stato escluso era pari soltanto alla sua volontà di comprenderlo.
Comprendere l’esistenza di qualcuno per una poetessa
come la Bachmann significava cercare di immaginarsi il
suo dolore. Ed esprimerlo con rigore, fedele in questo
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al suo maestro e concittadino Musil. Tutto quello che so
della lingua tedesca l’ho imparato traducendo una delle sue poesie: Rede und Nachrede (Discorso ed epilogo).
Non fu una scelta casuale. Ritrovavo in quei versi le mie
notti nella stanza del drago. Così inizia la poesia:
Non varcare le nostre labbra
parola che semini il drago
E continua:
Non giungere alle nostre orecchie
fama dell’altrui colpa
parola, muori nella palude
da cui la pozzanghera sgorga
Parola, stai al nostro fianco
più tenera di pazienza
e d’impazienza. Bisogna che questa semina
abbia una fine!
Non domerà la bestia chi ne imita il verso.
Chi svela segreti d’alcova, rinuncia a ogni amore.
La parola bastarda serve all’arguzia per immolare [uno stolto.
La parola poetica, per la Bachmann, è una parola
di speranza, utopica, ma allo stesso tempo consapevole
che la Storia, questa «semina» piena di orrori, non avrà
mai fine. Tuttavia, se non si può sconfiggere il «drago»
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non si deve neppure ripeterne il verso. Il male più grande sta nel volersi liberare dal male, mentre la parola poetica, per quanto aspiri alla purezza, per quanto il suo
sogno sia farsi musica, ha il compito etico di accettare il
conflitto con pazienza, impazienza, discrezione e senza
cedere alla facilità.
Questo comporta per il poeta, come recitano i versi
finali della poesia, un sacrificio, un giuramento di fedeltà alla piccola porzione di bene che gli è concessa, a
condizione che non rinunci a riconoscere il male. Egli
deve mettere la mano sul fuoco che esce dalle fauci del
drago. La poesia, in altri termini, non deve aver paura di
bruciarsi venendo a contatto con il mondo della prosa,
quel mondo che è là fuori, anche qualora dai suoi versi
si diffondesse una bellezza molto più desolata, molto
meno lirica.
Vieni e concediti,
poiché siamo in conflitto con tanto male.
Prima che sangue di drago protegga l’avversario,
questa mano cadrà nel fuoco.
O mia parola, salvami!
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Nel 1990 sono tornato nella mia piccola patria veneziana: sono e resterò sempre un provinciale cosmopolita. L’anno dopo mi trovavo a Parigi, dove sono rimasto
qualche tempo.
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A Parigi ho fatto molti incontri importanti. Il più
importante di tutti è stato quello con Milan Kundera.
Sotto la sua direzione, per diversi anni, una volta alla
settimana, in modo semiclandestino, si riuniva in un
aula dell’École des Hautes Études un ristretto gruppo
di lettori di romanzi. Ciò che legava quelle persone, oltre la loro non appartenenza alla genia degli «agelasti» –
categoria umana a cui con il cordone ombelicale hanno
tagliato per sempre il senso del comico – era la passione per la bellezza prosaica del mondo, una bellezza che
solo il romanzo, secondo quanto mi convincevo sempre
di più, può esplorare.
Così scoprii uno dei miei paradossi: sulla soglia della
stanza del drago, dove ha fissa dimora la mia parte poetica, c’è un usciere maligno, pieno di lusinghe, tentazioni, ricordi osceni, banalità imprevedibili, il quale pensa
che ogni individuo sia intoccabile in virtù della sua infima diversità rispetto a tutti gli altri individui. In altre
parole, il custode della mia stanza poetica è un uomo
prosaico.
Per quanto come poeta non possegga alcuna certezza
su quello che scrivo, la mia poesia ambirebbe a coniugare il colloquio con il passato – descrivere un orizzonte
dove tutto il passato è presente – a un’investigazione
dei luoghi, una sorta di scoperta poetica dei luoghi, che
è spesso scoperta di voci poetiche. Ciò significa da una
parte mettersi in una prospettiva storicamente millenaria e a volte escatologica (esiste una poesia non escatologica?), dall’altra rinunciare a scavare dentro la miniera
della sola tradizione italiana, atto che comporta molti
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rischi, non ultimo quello dell’eclettismo.
Imitazioni, omaggi, traduzioni, commenti posti
all’interno di un’opera poetica hanno per me questa funzione: estinguere quel ridicolo monarca chiamato «Io»,
estinguere quella specie di monarchia chiamata letteratura nazionale. Resto eliotiano (un Eliot illuminato e
tradotto da Seferis): «Il sentimento dell’arte è impersonale». E resto gombrowicziano: nel suo Diario, scritto
durante gli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso
in Argentina, afferma che la cultura polacca dovrebbe,
per emanciparsi dalla sua «polacchità», abbandonare
ogni mito nazionale. Borges, non proprio un poeta e
scrittore amato da Gombrowicz, nella stessa epoca pronunciava una conferenza intitolata Lo scrittore argentino e la tradizione nella quale si domandava: «Qual è la
tradizione argentina? [...] Credo che la nostra tradizione sia l’intera cultura occidentale». Queste parole sono
del 1953. Più di cinquant’anni dopo, nel nostro mondo
che si vuole così emancipato e multiculturale, non hanno forse assunto un significato ancora maggiore?
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A Parigi ho scoperto poeti che sono diventati per me
molto importanti. Tra questi, Czeslaw Milosz.
Nell’opera del poeta polacco (1911-2003), ho incontrato qualcosa che in fondo avevo già trovato: una poesia che invece di esprimere sentimenti era una riflessione sulla storia europea.
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Fatte le debite proporzioni, anch’io a Parigi mi sentivo un «enfant de l’Europe» (titolo di una sua poesia). Un’Europa che in quegli anni novanta, come cinquant’anni prima, faceva guerra all’Europa. Un’Europa
che per festeggiare la fine del comunismo massacrava
intere popolazioni e costruiva campi di concentramento. La storia dell’Europa si ripeteva e lo scandalo di questa ripetizione era vissuto a Parigi e altrove come una
tragica necessità. Ricordo di aver pensato: se l’oggetto
della tua poesia è una riflessione su che cosa significa
essere europei nell’epoca della fine del comunismo, la
tua ars poetica non può che essere, come affermava Milosz, «né troppo poesia né troppo prosa». Inoltre, essa
deve avere il coraggio di inglobare le forme più diverse,
dalla lettera al ritratto, dal commento alla traduzione,
dall’imitazione degli Antichi alla biografia. L’ideale era
ed è per me una poesia-zibaldone. Milosz mi aiutava a
disseppellire la «Musa della circostanza» di ascendenza
goethiana (autore molto importante per lui). La poesia,
mi dicevo, deve aprirsi alla varietà dei contenuti, deve
essere cioè in grado di sopportare il peso prosaico della
realtà. Ciò non significa che la poesia deve rinunciare
alla versificazione, al dialogo con le forme antiche o alla
metafora. E neppure al dono dell’attenzione per i dettagli. In un suo saggio autobiografico, La terra di Ulro,
c’è un passaggio su cui sono tornato più volte. Milosz
si interroga sul rapporto tra memoria e immaginazione.
La memoria è sempre stata la madre di tutte le muse.
Da cos’altro nasce l’estasi, in una poesia, in un dipin-
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to, se non da un particolare ricordato? E se la distanza
è l’essenza del bello è perché la realtà viene purificata
dalla distanza [...] E la distanza viene raggiunta appunto nei ricordi.
Tuttavia, mi dicevo ancora, l’istante ricordato e il suo
svolgimento nel tempo passato non sono la stessa cosa.
Che cosa ricordiamo, scrive Milosz, di un’azione passata senza l’aiuto dell’immaginazione che blocca quell’istante strappandolo «alle fauci del movimento? Qual
è dunque il potere «capace di ridare vita alle ombre?».
Deve essere un’altra memoria «congiunta all’immaginazione».
Questa idea del dettaglio ricordato – essenza del bello –, frutto di memoria e immaginazione, è il miglior
viatico a quella poesia di circostanza, fedele alla propria
situazione storica e allo stesso tempo in eterno colloquio con la storia passata, di cui Milosz – come del resto
a loro modo Herbert e Rozewicz – ha dato prove altissime e di cui io mi sono sempre sentito un «enfant».
Quello che cerco e non trovo nella poesia italiana è una certa empatia con la storia antica e moderna
dell’Europa e del mondo; la capacità di colloquiare,
come se fossero viventi, con i personaggi più disparati,
da Catone l’Uticense all’ultimo dei sudditi di una provincia dell’Impero (di qualsiasi provincia, di qualsiasi
Impero); la refrattarietà a coltivare e a far crescere lungo i vetri delle sue serre i rampicanti della follia.
La poesia italiana è lirica e dolente o è mentale. Oppure, sperimentale! In essa non trovo neppure una vera
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vena ironica o grottesca in grado di compatire gli uomini e di fermarsi davanti al mistero racchiuso nei dettagli
triviali, osceni, prosaici del mondo: il regno fiammingo
dei dettagli, il regno russo dei dettagli, il regno centroeuropeo dei dettagli, il regno di Dio dei dettagli!
Nella poesia italiana mi manca la coscienza della distanza che si misura con la devastazione che il troppo
sapere o la brutale assenza di sapere provoca in una natura umana: una coscienza che è respiro naturale e che
con un soffio fa crollare il castello di carta della cultura.
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Durante i seminari sul romanzo di Milan Kundera la
poesia non era un tabù. A causa forse del tema principale di un suo libro, La vita è altrove, Kundera si è fatto
una fama di nemico della poesia. Ma non è affatto così.
Egli stesso è stato poeta, ha sempre parlato con amore
dei poeti cechi Skácel, Nezval, Blatny, è stato un grande
amico di Octavio Paz, ed anche recentemente ha dedicato un breve saggio a Oscar Vladislas de Lubicz-Milosz, un poeta lituano di lingua francese.
Ora, per Kundera esiste una poesia del romanzo,
ma non è quella del poeta affascinato dal proprio io. La
«poesia antilirica» che per Kundera è il romanzo moderno non è nemica della poesia, ma combatte fin dalle
origini il lirismo: lo sguardo lirico desidera fondersi con
il mondo, ma così rinuncia ad osservarlo, ad analizzarlo, a comprenderlo. Ecco, vorrei che ogni mia poesia
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fosse in grado di contenere una goccia di «romanzo»,
nel senso kunderiano di «poesia antilirica»: una poesia
in grado di mantenere una distanza di sicurezza dall’io.
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A Parigi scoprii anche un altro continente immenso, l’America Latina: il suo romanzo è il più importante
della seconda metà del XX secolo.
All’epoca – eravamo a metà degli anni novanta – ho
letto un saggio di Octavio Paz, La otra voz, quasi un testamento letterario.
Paz parla della poesia come «antidoto» al mercato.
Da dove viene la forza di questo «antidoto»? Per la prima volta, in modo chiaro e ineluttabile, compresi che
l’opposizione tra poesia e modernità non è accidentale,
ma consustanziale.
Il poeta guarda al passato, a tutto il passato poetico
e umano, come una casa aperta. Il suo compito è quello di integrare nel presente, di rendere contemporaneo
quell’immenso patrimonio, consapevole che come scrive Paz:
Una poesia può essere moderna per i suoi temi, per il
suo linguaggio, per la sua forma, ma quanto alla sua
natura profonda essa esprime una voce antimoderna. La poesia esprime realtà estranee alla modernità,
mondi e strati psichici che non soltanto sono antichi
ma anche impermeabili ai cambiamenti storici.
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Non so se siamo alla fine della modernità, già oltre,
o, senza saperlo, siamo precipitati all’indietro di secoli.
Quello che so è che «l’altra voce», cioè come afferma
Paz, la voce che «ha mille anni, la nostra età e tuttavia
non è ancora nata», quella voce che non porta il nostro
nome, non deve estinguersi. A costo di assomigliare a
una voce dell’oltretomba.
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