match point - Barz and Hippo

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match point - Barz and Hippo
MATCH POINT
scheda tecnica
durata: 124 minuti
nazionalità: Gran Bretagna, Stati Uniti
anno: 2005
regia: WOODY ALLEN
soggetto e sceneggiatura: WOODY ALLEN
produzione: MAGIC HOUR MEDIA, THEMA PRODUCTION, INVICTA CAPITAL LTD.,
BBC FILMS.
fotografia: REMI ADEFARASIN
montaggio ALISA LEPSELTER
scenografia: JIM CLAY
costumi: JILL TAYLOR
effetti: EFFECTS ASSOCIATES LTD., MARTIN HOBBS, THE MOVING PICTURE
COMPANY (MPC)
musiche: tratte da opere di GIUSEPPE VERDI, GAETANO DONIZETTI, GEORGES
BIZET E GIOACCHINO ROSSINI
interpreti: BRIAN COX (ALEC HEWETT), MATTHEW GOODE (TOM HEWETT),
SCARLETT JOHANSSON (NOLA RICE), EMILY MORTIMER (CHLOE HEWETT),
JONATHAN RHYS-MEYERS (CHRIS WILTON), PENELOPE WILTON (ELEANOR
HEWETT), MIRANDA RAISON (HEATHER), ZOE TELFORD (SAMANTHA), ROSE
KEEGAN (CAROL), EDDIE MARSAN (REEVES), ALEXANDER ARMSTRONG (SIG.
TOWNSEND), STEVE
PEMBERTON (DETECTIVE PARRY), EWEN
BREMNER
(ISPETTORE DOWD), JAMES NESBITT (DETECTIVE BANNER), SELINA CADELL
(MARGARET), GEORGINA CHAPMAN (COLLEGA DI NOLA), JOHN FORTUNE
(JOHN, L'AUTISTA), MARK
GATISS (GIOCATORE DI PING-PONG), EMILY
GILCHRIST (AMICA DEGLI HEWETTS), SCOTT HANDY (AMICO DEGLI HEWETTS),
MARY
HEGARTY (MUSICISTA DEL 'RIGOLETTO'), PAUL
KAYE (AGENTE
IMMOBILIARE), TOBY KEBBELL (POLIZIOTTO), JANIS KELLY (MUSICISTA DELLA
'LA TRAVIATA' ), SIMON KUNZ (ROD CARVER), PHILIP MANSFIELD (CAMERIERE),
ANTHONY O'DONNELL (CUSTODE), ALAN OKE (MUSICISTA DE 'LA TRAVIATA'),
RUPERT
PENRY-JONES (HENRY), COLIN
SALMON (IAN), GEOFFREY
STREATFEILD (ALAN SINCLAIR), MARGARET TYZACK (SIG.RA EASTBY), WOODY
ALLEN
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la parola ai protagonisti
Woody Allen
Il film ricorda per alcuni aspetti il precedente Crimini e Misfatti, è una scelta voluta?
L'unica affinità con Crimini e misfatti è che c'è un omicidio e l'assassino resta impunito. In
Crimini e misfatti il tema centrale è che bisogna trovare una morale in sé. Ci sono milioni di
crimini che vengono commessi ogni giorno e restano impuniti, così gira il mondo. Match
Point è un film sul tema della fortuna, su come alcuni sono fortunati e altri no, sul fatto che
pensiamo di controllare le cose ma in realtà non possiamo. La nostra capacità di controllo
non riguarda la vita e la morte, siamo in un certo senso appesi al filo della fortuna.
Come ha scelto i protagonisti?
Scarlett e Jonathan hanno un talento e un carisma innati, sono belli, sensibili, capaci di
essere protagonisti a tutto tondo, riescono a coinvolgere emotivamente il pubblico anche se
fanno cose terribili. Li ho scelti per la loro naturale carica sexy, volevo che si instaurasse
una forte chimica sensuale tra i protagonisti.
Non crede che la scelta di due attori così belli e affascinanti si finisca con l'essere indulgenti verso
il terribile crimine commesso?
Lei ha esattamente centrato la questione principale del film: la bellezza che copre gli
inganni e il commettere atti orribili. E' qualcosa che succede spesso al cinema: basta
pensare ad un film come Il padrino di Francis Ford Coppola dove accade esattamente la
stessa cosa. Per questo motivo ho scelto attori come Jonathan Rhys Meyers e Scarlett
Johansson che sono talmente carismatici e attraenti da conquistare il pubblico. Anche se il
personaggio di Jonathan commette un'azione orribile, il suo fascino porta comunque gli
spettatori a essere coinvolti emotivamente e perfino indulgenti verso di lui. In ogni caso il
personaggio di Chris non è intenzionalmente cattivo: è una persona perbene che prende
una decisione sbagliata cui seguono una serie di azioni turpi.
Il protagonista nel film sostiene che un innocente, a volte, deve essere sacrificato per dei fini più
alti. Lei è d'accordo?
Credo esattamente nel contrario. Un aspetto tragico del film, e della vita, è che gli innocenti
siano sacrificati in nome di qualche beneficio superiore. E' terribile che persone credano
nell'impunità, che giustifichino i loro comportamenti brutali per la soddisfazione dei propri
desideri.
Il protagonista legge 'Delitto e castigo', il suo film è una storia di crimine senza castigo. Si è ispirato
al romanzo?
"Mentre scrivevo l'inizio della storia non sapevo come sarebbe finito, ma certo c'è un
legame. Io sono un cultore della letteratura russa che considero la migliore del Novecento.
Per questo, nel film, il protagonista legge il libro. E' un piccolo legame con la letteratura
russa che ho voluto regalare al mio film, volevo soddisfare una mia passione personale".
C'è una battuta drammatica che il personaggio principale pronuncia parlando con quelli che si
possono considerare dei fantasmi: "il più grande dono che ho fatto a mio figlio è quello di non
nascere".
Mi rendo conto che è una posizione discutibile ed estrema, che, però, è stata trattata da
molti filosofi. In realtà è una frase estrapolata da una tragedia di Sofocle che al personaggio
principale serve per razionalizzare quello che ha fatto: l'atto orribile che ha compiuto. Non è
quello in cui credo io, ovviamente, ma in quel momento del film mi serviva per esprimere la
necessità di razionalizzare del protagonista. E' in quel momento, attraverso questa
considerazione, che lui decide di andare avanti nella sua vita...
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Nel film, ci sono molte scene sensuali tra i giovani protagonisti, che fanno l'amore sotto la pioggia
e si divertono con piccoli giochi erotici. Possiamo definirlo il suo film più sexy?
Sinceramente, questi aspetti erano nella sceneggiatura. Ma se pensi che, in generale, i film
si poggiano sui due cardini di sesso e violenza, questo film non è particolarmente sensuale.
Ci sono solo delle scene in cui i protagonisti fanno sesso e neanche troppo violento. C'è
solo una scena in cui si commette un omicidio. Voglio dire: magari per il mio cinema è un
film sexy, ma di certo non lo è in generale.
In questo film manca completamente l'elemento comico, è una scelta che pensa di portare avanti?
Quando scrivo un film non ho un piano ben preciso se non l'idea stessa che è alla base del
film, non decido mai a priori se un film dovrà far ridere o meno e di certo non ho pianificato
di allontanarmi dalla commedia per il futuro, anzi il nuovo lavoro che ho appena finito di
girare con Scarlett si intitola Scoop ed è un film molto leggero e, spero, divertente. Un
qualcosa di cui sicuramente potrei fare a meno in futuro però, è la mia presenza nel film
come attore, lavorare solo come autore mi lascia molta più libertà e lo preferisco.
Lei ha più volte dichiarato di non aver mai realizzato capolavori, ma solo film belli. Quanto nella
sua carriera ha inciso la fortuna e quanto il talento?
Sono sempre stato molto fortunato, fin dall'inizio. Mi sono quasi sempre trovato al posto
giusto nel momento giusto e ho avuto tutti i vantaggi che potevo sperare, anche la critica è
sempre stata molto buona con me sorvolando sugli aspetti negativi delle mie opere ed
esaltando quelli positivi. Ma i miei film non sono capolavori semplicemente perchè mi
manca l'elemento fondamentale: la genialità. D'altronde l'ho detto più volte, l'unico ostacolo
fra me e la grandezza sono io. Non si tratta di un elemento quantificabile, ma questo è
sicuramente l'aspetto che manca nel mio cinema, quella qualità che per esempio
possedeva Cechov e che tutto cercano di riprodurre senza riuscirci.
Che cosa pensa Woody Allen del cinema di oggi?
Il cinema sta cambiando per due motivi principali, uno è l'enorme progresso tecnologico,
l'altro è la politica delle major cinematografiche. La tecnologia ha ottenuto risultati talmente
spettacolari che sta diventando il contenuto dei film. L'interesse per le persone, per le
relazioni tra loro, per le storie diminuisce ed il rischio è quello di produrre film spettacolari
ma vuoti. Ci sono scrittori, sceneggiatori e registi bravi che devono combattere con gli
studios perché la politica attuale è quella di investire tantissimo in una cosa sola invece di
cercare di realizzare molti film. E' come nel gioco d'azzardo, quando punti sulla posta più
alta rischi la bancarotta. Così le case di produzione esercitano un controllo molto forte su
tutto e i registi non sono più liberi.
Woody Allen è anche musicista, ha pensato subito all'opera come colonna sonora del film?
L'opera è entrata nel film perché i protagonisti sono mecenati della lirica, è una cosa molto
diffusa tra i ceti abbienti. Poi mi sono accorto che l'opera è la musica adatta al film anche
per i suoi contenuti: è la musica del desiderio, della passione, del sangue, ma ci è entrata
per caso. Come musicista sono mediocre, se non avessi fatto i film non verrebbe nessuno
ad ascoltarmi, il pubblico più che altro viene per vedermi, rimango sempre stupefatto
quando vedo un teatro pieno.
Match Point è anche un giallo ed è ambientato a Londra, si è ispirato a Hitchcock?
Non mi sono ispirato direttamente a Hitchcock, ma senz'altro i grandi maestri esercitano
sempre la loro influenza anche se non si tratta di un'imitazione consapevole. E' come nella
musica, a volte mentre si suona ci si accorge che si sta suonando alla maniera di qualche
grande, come ad esempio Charlie Parker, senza averci pensato. Così nel cinema,
Hitchcock, Bergman e Fellini sono i registi che mi piacciono di più e in qualche modo
agiscono sull'inconscio.
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Ha girato a Londra solo perché le garantivano l'indipendenza artistica o ama l'atmosfera di questa
città?
E' stata un'esperienza meravigliosa. Quest'estate tornerò per un altro film, che sarà una
commedia divertente. Tutto ha funzionato perfettamante: il tempo meteorologico è 'molto
figo', il cielo è grigio tutti i giorni, quindi è perfetto per me.
Quindi anche in questa pellicola il casting degli attori è stato fondamentale.
Sì, ma lo è per tutti i miei film. Per questa pellicola in particolare, io avevo bisogno di vedere
sviluppata una grande alchimia tra i due protagonisti: per questo ho scelto Jonathan e
Scarlett, che avevo apprezzato molto nei loro film precedenti: due attori dotati di una carica
erotica innata. Li ho voluti perché entrambi, oltre che bravi, sono molto sexy sullo schermo,
ed esprimevano senza bisogno di sforzarsi l'attrazione irresistibile che i due personaggi
provano l'uno per l'altra.
E' possibile considerare Match Point come una sorta di omaggio a Un posto al sole?
Ovviamente conosco il film di George Stevens con Elizabeth Taylor e Montgomery Clift, ma
non credo mi abbia influenzato in nessuna maniera. No, Match Point non è un omaggio:
semmai l'ispirazione mi può essere arrivata da "Delitto e castigo". Non voglio sembrare
cinico, sono solo realista. Ero interessato all'idea che una persona qualsiasi obbligasse il
suo prossimo a coprire il crimine da lui commesso. Tra l'altro non ho mai letto "An American
Tragedy" di Theodore Dreiser che ha ispirato Un posto al sole. Volevo approfondire la
leggerezza con cui una persona può commettere delitti orribili. Desideravo domandarmi da
dove nasce tutta questa nonchalance.
Non è paragonabile nemmeno a Crimini e misfatti?
No, non credo. Entrambi hanno un crimine al loro interno, ma tra Match Point e Crimini e
misfatti non c'è un possibile paragone più di quanto ci possa essere tra quest'ultimo e
Criminali da strapazzo. Crimini e Misfatti ha un lato comico e un versante più 'oscuro'. E' più
un film con un pensiero religioso alle spalle. Match Point riguarda la passione e l'ambizione.
Però, rispetto il punto di vista di qualsiasi persona che ha un'idea, magari, più fresca della
mia a proposito della storia.
Quindi nessuno dei due film l’ha ispirata?
L'ispirazione per Match Point è stata di tutt'altro genere: ero a casa, e all'improvviso ho
pensato a qualcuno che uccide un vicino di casa, per coprire il vero omicidio che ha voluto
commettere. Da qui è nato tutto: con Crimini e misfatti non vedo altri punti di contatto a
parte l'omicidio di un'amante. In quel film si parlava di una questione morale ed
esistenziale, mentre qui è tutto incentrato sulla fortuna e su come possa influire sulle
decisioni fondamentali della nostra vita
Quali sono gli ingredienti 'vincenti' di questo risultato?
Una buona storia, un ottimo cast, una troupe di gente in gambissima. E' da molti anni che
lavoro in questo ambiente. Praticamente non ho mai diretto nessuno. Il mio sforzo sta tutto
nella loro scelta. Quasi quasi - sul set - non gli parlo nemmeno e quando loro sono al lavoro
offrono delle interpretazioni straordinarie di cui io mi prendo impunemente il credito...
Con Scarlett Johansson lei ha girato due film uno dopo l'altro: cosa pensa di lei?
Scarlett ha girato con me Match Point quando aveva solo diciannove anni, ma sullo
schermo si muove e recita con una grande maturità. Farà molta strada e sono sicuro che
diventerà anche un'ottima regista quando - verso i 25 anni avrà lavorato con altri cineasti e
avrà incamerato altre ottime esperienze. Trovo, però, già molto interessante il fatto che fin
da adesso dimostri il desiderio di passare dietro alla macchina da presa.
Lei è diventato un regista di donne...
Mi ci è voluto un bel po' di tempo per diventarlo. All'inizio i miei film riguardavano soprattutto
i maschi e, in particolare, me. Poi conoscendo Diane Keaton ho scoperto quanto fosse
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facile scrivere per le donne. Soprattutto per le donne. E adesso, credo, sia la cosa che mi
viene meglio...
Quanto, nel suo lavoro, è passione e quanto è abitudine?
Il cinema per me è una distrazione. Faccio film, perché se non li facessi non saprei cosa
fare e come distrarmi. Tutta la mia vita si è concentrata su questo lavoro. Così ho
combattuto le ansie, le paure, il terrore. Trovo che il mio caso sia simile a quelli dei pazienti
dei manicomi. Se tengono il paziente occupato a dipingere con le dita è meglio per tutti,
perché sono più rilassati. Così è per me. Tenermi occupato è terapeutico. Non è, però, un
rito e non si tratta di soldi. Lo faccio per me.
Scarlett Johansson
Cosa pensa del suo personaggio?
Non penso che il mio personaggio sia particolarmente piacevole ma nemmeno
particolarmente cattivo, non vuole deliberatamente rovinare la vita di qualcuno ma è la
disperazione che la porta ad agire in quel determinato modo. E' questo d'altronde che mi ha
attratto della sceneggiatura e del personaggio, questo senso di desperazione che pensavo
di riuscire a portare sullo schermo.
In Match Point, lei è ancora più sexy del solito. Merito di Woody?
Io mi sento piuttosto a mio agio con la mia sessualità e non ho fatto degli sforzi per essere
più sexy in questo film... al di là delle cinque ore di trucco e parrucchiere che sono previste!
Forse recitare accanto a Jonathan Rhys, che è già molto sexy, mi ha aiutato. Si diventa più
attraenti quando si ha di fronte una persona attraente che è attratta da te, si stabilisce una
sorta di bramosia seducente, quando due persone si piacciono.
Ma com'è Woody Allen regista?
Woody Allen sceglie attori che già di per sé incarnino i personaggi senza doverli poi
costruire con tanti ragionamenti o conversazioni. E' esigente ma non nel senso tradizionale
del termine anche perché quando si lavora con qualcuno che si ammira si chiede già molto
a sé stessi. Lui si aspetta che tu abbia qualche idea sulla scena o sul personaggio in modo
che si giri velocemente e lui possa prenotare il ristorante per la cena non troppo tardi.
Corpo bollente, testa brillante, la giovanissima Scarlett ha già le idee chiare sul suo futuro...
Vorrei dirigere un film, credo che sia il sogno nel cassetto di tutti gli attori. A volte leggendo
il copione ti vengono delle idee, poi però sul set non hai nessuna voce in capitolo. Un
giorno dirigerò un film, ma ho ancora del tempo per rifletterci e trovare il progetto giusto.
Accanto a Woody ho imparato a non scendere mai a compromessi, non perdere mai la
propria integrità morale con gli studios per avere più soldi o più attenzioni o qualsiasi cosa ti
offrano.
Anche come spettatrice, Scarlett ha le idee chiare. E non è di gusti facili...
Sono usciti pochissimi buoni film negli ultimi tempi. Ho visto l'elenco di quelli usciti in
Europa lo scorso anno: in una lista di 180 titoli c'erano solo tre film che mi hanno dato la
sensazione di avere speso bene i miei dieci dollari del biglietto. Wallace & Gromit... mi è
piaciuto Capote, The Woodsman e poi forse ce n'era un altro ... non mi ricordo. Ah sì,
penso che Ray fosse un bel film dello scorso anno.
recensioni
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Maurizio Porro - Il Corriere della Sera, 20 gennaio 2006
Riscossa di Woody. Dopo un periodo di manierismo manhattese, Mr. Zelig si trasferisce a Londra
e firma un film magnifico per coerenza narrativa, eleganza e stile, cinismo socio-letterario, citando
a man bassa i classici, da Thackeray a Stendhal a Dostoevskji passando per Dreiser. Cronaca di
un arrivista che scala l' upper class seducendo una ragazza, sposandola e poi tradendola con l' ex
fiamma del cognato. Ma il destino è cinico e baro: non si sa mai se la pallina da tennis passerà la
rete e di chi sarà il match point. È come se Allen riversasse in questo racconto tutto il suo scibile di
cinema e di uomo, finalmente libero dall' ansia di divertire. Giunto con disincanto ai 70, lascia i
fantasmi del cinema d' autore e fa il miracolo da solo con una padronanza del mezzo e un gusto di
tutti i supporti, dalla musica d'opera in vinile a un cast perfetto. VOTO: 10
Tullio Kezich - Il Corriere della Sera, 13 maggio 2005
Buone notizie dal 57esimo festival: Woody Allen è sempre grande, sempre lui. Ma «lui» chi? Il
personaggio che ha segnato una data nella storia della commedia? O addirittura una delle menti
illuminate del nostro tempo, come sostiene il professor Roland Quilliot nel recente libro
«Philosophie de Woody Allen» pubblicato da Ellipses? Certamente, alla vigilia della terza età e
dopo qualche operina meno felice, Allen è un maestro capace di rimescolare le carte e iniziare con
Match Point una partita tutta nuova. Niente più Manhattan, ma Londra; niente più jazz, ma la
musica lirica; niente più risate, ma un conflitto d'anime che sconfina nella tragedia. Un segnale
l'autore lo fornisce subito, quando ci presenta il suo Chris ( l'ottimo Jonathan Rhys Meyers), ex
campioncino riciclatosi come maestro di tennis nella grande città, mentre legge «D elitto e
castigo». Attenzione perché al momento giusto riconosceremo, in veste di variazioni inattese,
Raskolnikov, l'usuraia assassinata e il giudice Porfirio. Il tutto contrappuntato da arie d'opera,
proprio come faceva Visconti, per ricordarci che oscillando fra amore e morte la vita è un
melodramma. Però sulle prime più che dalle parti di Dostoevskij sembra di essere da quelle di
Maupassant: Chris è un «Bel Ami» con la racchetta, che incanta e seduce per scalare uno a uno i
gradini della società. Senza niente alle spalle, si ritrova fidanzato, e presto marito, dell'ereditiera
Chloe ( Emily Mortimer), ben piazzato nella ditta del suocero. Manca solo, a completare il quadro,
l'erede sospiratissimo dalla famiglia: e qui si inserisce un paradosso pirandelliano ( con Woody i
riferimenti letterari abbondano) perché Chris non potendo avere il figlio desiderato dalla moglie
scopre di aspettarne uno indesiderato dall'amante, l'americana Nola. Ovvero l'ex morosa del
cognato, attricetta fallita, un'anima persa con una storia di dolori e disastri. Questo personaggio
vulnerato e appassionato, fino a un certo punto paziente e poi pronto a esplodere, è una palpitante
creazione di Scarlett Johansson, che avrebbe tutti i diritti di sentirsi defraudata di un premio
sicurissimo dall'austera abitudine di Allen di non andare in concorso. Ho anticipato, esagerando,
che nel film non c'è niente da ridere, ma devo ammettere che si sorride spesso; e se il finale svela
qualche nota stonata, come il faccia a faccia del protagonista chiamato a confrontarsi con due
fantasmi, è risollevato da un colpo di genio. Proprio al culmine della tragedia, un paio di «punch
lines» ( le battute a effetto sicuro che sono la specialità di Woody) scatenano l'ilarità generale e
scaldano il pubblico per l'applauso che arriva puntuale sui titoli di coda.
Tullio Kezich - Il Corriere della Sera, 13 gennaio 2006
Diceva un saggio cinese che sulla soglia della terza età ogni uomo si trova di fronte due strade,
l'una in discesa e l'altra in salita. La prima induce a scivolare più o meno dolcemente verso
l'indifferenza, il progressivo distacco e la cancellazione; e la seconda, invece, induce a inerpicarsi
gambe in spalla verso quell'ultima meta che in fondo al cuore nessuno vorrebbe raggiungere...
Oltrepassata la settantina, superate le sue note turbolenze esistenziali e vari intoppi professionali
dovuti alla sopravvenuta ostilità del pubblico americano, Woody Allen ha felicemente scelto la
strada giusta, scoprendo di avere ancora il fiato dello scalatore. Scrivendo e dirigendo Match Point
ha accettato una sfida a tutto campo, senza ricorrere alle sue tradizionali risorse. Niente più
Manhattan, Londra; niente più jazz, musica lirica; niente più risate, ma un conflitto d'anime che
sconfina nella tragedia. Il diapason dell'operazione l'autore lo fa vibrare fin dalle prime immagini,
quando ci presenta il suo Chris (l'ottimo Jonathan Rhys Meyers), ex campioncino tennista divenuto
maestro povero di clienti ricchi, mentre legge «Delitto e castigo». Attenzione perché al momento
giusto non solo riconosceremo in lui un nuovo Raskolnikov, ma compariranno anche, sotto nuove
apparenze, la vecchia trucidata e l'acuto investigatore Porfirio. Il tutto contrappuntato da arie
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d'opera, come faceva Visconti, forse per ricordarci che oscillando sull' altalena fra amore e morte
la vita può apparire un melodramma. Per un po', più che dalle parti di Dostoevskij sembra di
essere in zona Maupassant: Chris è un Bel-Ami con la racchetta, che incanta e seduce. Senza
titoli né santi in paradiso si ritrova fidanzato, e presto marito, dell' ereditiera Chloe (Emily
Mortimer), ottimamente piazzato nella megaindustria del suocero che l'ha preso in simpatia.
Manca solo, a completare il quadro, l'erede sospiratissimo dalla coppia felice: e qui si inserisce un
paradosso pirandelliano (con Woody i riferimenti letterari si sprecano) perché Chris non potendo
avere il figlio desiderato dalla moglie scopre di aspettarne uno indesiderato dall' amante, la
provinciale americana Nola. Ovvero l'ex morosa del cognato, un'anima persa con alle spalle una
lunga teoria di frustrazioni. Questo personaggio trepido e carnale, docile fino a un certo punto e
improvvisamente pronto a esplodere, è una creazione di Scarlett Johansson, la nuova musa del
Maestro. Ho anticipato, forse esagerando, che in Match Point non c' è niente da ridere, ma si
sorride spesso: e proprio al culmine della tragedia, un paio di «punch lines» (le battute a effetto
sicuro che sono la specialità di Woody) scatenano l'ilarità generale e introducono un finale in
chiave di riso amaro. Dove il colpevole, in bilico fra condanna e assoluzione, è come la pallina del
tennis sospesa per un frazione di secondo sulla rete prima di cadere di qua e di là a segnare il
punto della vittoria. In questo film, il cui tema deve essere profondamente radicato nell'anima sua
perché l'aveva anticipato facendolo raccontare da un personaggio di Crimini e misfatti (1989),
Allen fa una stoica e dispettosa riverenza al caso come giudice cieco e inappellabile degli eventi
umani. A voler cercare il pelo nell'uovo di un film pressoché perfetto, mi è parsa un stonatura
l'apparizione dei due fantasmi nel sottofinale. Ma non è il caso di trovare difetti in un'opera che
rivela una qualità molto rara nel cinema, quella di valere quanto uno di quei libri che lasciando il
segno. A Woody, che nel frattempo ha girato a Londra un secondo film e ne sta preparando un
terzo, non si può che raccomandare di proseguire così. Fortuna aiutando, la strada in salita che ha
intrapreso con Match Point potrebbe essere ancora ricca di soddisfazioni per lui e per noi.
Roberto Nepoti - La Repubblica, 13 gennaio 2006
Il nuovo film di Woody Allen rappresenta una piccola rivoluzione nella sua filmografia. Se il
discorso amoroso resta centrale, infatti, cambiano il contesto (Londra), lo stile delle immagini e
della scenografia. il commento musicale (lirica anziché jazz), perfino la durata (2 ore). La storia,
molto nera, coinvolge un uomo e due donne: l’ambizioso proletario Chris Wilton, maestro di tennis
per l’alta borghesia; l’aristocratica Chloe, che potrebbe fargli fare il salto di classe: Nola, l’attricetta
che lo attrae irresistibilmente. Lo spartiacque è l’appartenenza a una classe sociale o a un’altra.
Allen tesse una ragnatela intorno a Chris, per arrivare alla conclusione che il crimine è socialmente
determinato, che l’abisso sociale spinge al delitto.Adepto di Dostoevskij, mette assieme lotta di
classe e senso di colpa; poi compie una piroetta cinica, portando lo spettatore verso una soluzione
aspra e divertente nello stesso tempo. Ateo dichiarato, Woody si sottrae all’epilogo edificante per
imporci una morale della favola squisitamente amorale: tutto dipende dalla fortuna; come quando
la palla da tennis resta in bilico per un istante sulla rete, senza che si sappia da quale parte cadrà.
Nella diversità dell’impaginazione, il ‘Woody’s touch” resta intatto. Come il talento nel dirigere gli
attori: Scarlett Johansson fantasmatizzata tra sensualità e richiesta di protezione; il bel Jonathan
Rhys-Meyers ambiguo e perverso, come un eroe di Stendhal.
Lietta Tornabuoni - La Stampa, 13 gennaio 2006
Ambizione senza qualità, delitto senza castigo, i capricci incontrollabili del caso in un mondo
insensato (o meglio, nichilista): e fame, lussuria, crudeltà in Match Point, un film di Woody Allen
straordinariamente riuscito, interessante e diverso da tutti. Senza New York, siamo nella Londra
dei grandi ricchi: quartieri belli dalle strade quasi deserte e niente affatto rumorose, la dolce vita dei
giovani, gli arredamenti comodi e preziosi, l'eleganza troppo semplice delle donne e quella troppo
ricercata degli uomini, i ristoranti, le mostre, i teatri, sembra la città dei romanzi di Wodehouse con
il giovane Psmith e il suo maggiordomo Jeeves. Senza intellettuali, senza battute spiritose o quasi.
Senza canzoni americane ma con molte arie d'Opera italiane: «Una furtiva lagrima» (Elisir
d'amore), «Un dì felice, eterea» (Traviata) «Caro nome» (Rigoletto), «Mal reggendo l'aspro
assalto» (Trovatore). E' un avvertimento. In ammirevole stile classico, Allen racconta una storia
classica d'amori, di morte, di destino. L'arrampicatore sociale protagonista del racconto morale è il
bellissimo attore Jonathan Rhys Meyers: un maestro di tennis irlandese di origini popolari che per il
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suo fascino, la sua bravura e la sua gentile pazienza viene assunto in un club aristocratico di
Londra, diventa amico d'un giovanotto dell'alta società appassionato di lirica come lui, ne seduce e
sposa la sorella, si rende simpatico al padre che gli dà un posto nell'azienda di famiglia. Ma intanto
lui ha perduto la testa per la fidanzata e poi ex fidanzata dell'amico Scarlett Johansson,
un'aspirante attrice americana sensuale, bionda e volgaruccia che rimane incinta di lui, vuole che
lui lasci la moglie e minaccia di dirle tutto, protesta, grida, l'aspetta sotto casa. Tra la passione
carnale e la perdita della condizione sociale, lui sceglie (come il rabbino Martin Landau di Crimini e
misfatti) l'omicidio: e viene salvato dal caso. «Il fatto che buona parte della nostra vita sia dovuta al
caso spaventa la gente. E' angoscioso dirsi che una tale quantità di cose sfuggono al nostro
controllo», è una riflessione, mentre un'altra riflessione spiega il titolo del film, che significa più o
meno Punto Decisivo: «Succede, in un match di tennis, che la palla sfiori la sommità della rete e,
per un quarto di secondo, possa andare da un a parte o dall'altra. Con un po' di fortuna, vinci. Ma
può anche ricadere dalla tua parte, e allora perdi». Woody Allen ha vinto. E' splendido il cast, è
magnifica la leggerezza e insieme la forte critica sociale con cui la storia è raccontata, è perfetto il
contrasto tra la cruda durezza dei fatti e la piacevolezza del vivere. Match Point è molto bello,
molto significativo, dark.
Lietta Tornabuoni - La Stampa, 13 maggio 2005
Un altro Woody Allen ha diretto «Match Point», presentato fuori concorso: senza New York (siamo
a Londra), senza chiacchiericcio, senza intellettuali, senza donne-idolo. Senza battute spiritose, o
quasi: «Gli uomini dicono che sono speciale», dice lei; «E lo sei?», s'informa lui; «Nessuno ha mai
chiesto d'essere rimborsato», replica lei. Senza canzoni americane, o quasi, ma con molte arie
d'Opera italiane: «Una furtiva lagrima» (Elisir d'amore), «Un dì felice, eterea» (Traviata), «Caro
nome» (Rigoletto), «Mal reggendo l'aspro assalto» (Trovatore). In ammirevole stile classico, Allen
racconta una storia classica d'amore, di morte e dei destini del caso, affrontando insieme i
fenomeni sociali più contemporanei: l'ambizione senza qualità, il delitto senza castigo.
L'arrampicatore è il bellissimo attore Jonathan Rhys- Meyers: un maestro di tennis irlandese di
origini popolari che per il suo fascino, la sua gentile pazienza e la sua bravura viene assunto in un
club aristocratico di Londra, diventa amico di un giovanotto dell'alta società appassionato di lirica
come lui (Matthew Goode), ne seduce e sposa la sorella (Emily Mortimer), si rende simpatico al
padre che gli dà un posto nella propria azienda. Ma intanto lui ha perduto la testa per la fidanzata e
poi ex fidanzata dell'amico (Scarlett Johansson), un'aspirante attrice americana bionda, sensuale e
volgaruccia, che rimane incinta di lui, vuole che lui lasci la moglie e minaccia di dirle tutto, protesta,
grida, l'aspetta sotto casa: tra l'amore carnale e la perdita della condizione sociale a cui s'è
abituato, lui sceglie (come Martin Landau in «Crimini e misfatti») l'omicidio. La uccide e rimane a
festeggiare in famiglia la nascita del proprio figlio, ad accrescere l'immensa schiera dei criminali
impuniti. L'ha salvato il caso, già oggetto delle sue meditazioni: «Il fatto che buona parte della
nostra vita sia dovuta al caso spaventa la gente. E'angoscioso dirsi che una tale quantità di cose ci
sfugge. Succede, in un match di tennis, che la palla sfiori la sommità della rete e, per un quarto di
secondo, possa andare da una parte o dall'altra. Con un po'di fortuna, raggiunge il bersaglio e
vinci. Ma può anche ricadere dalla tua parte, e allora perdi». Woody Allen stavolta ha vinto: «Match
Point» è bellissimo. E'perfetto il contrasto fra la crudele durezza dei fatti e la lussuosa
piacevolezza dell'ambiente: Londra dei ricchi impeccabile e stupenda, le belle case di campagna,
la dolce vita dei giovani, gli arredamenti preziosi e comodi, l'eleganza troppo semplice delle donne
e quella troppo ricercata degli uomini, le automobili, i ristoranti, i libri, il teatro. E'descritto con
autentica maestria l'appetito (anzi, la fame) sessuale degli amanti che si trovano finalmente a poter
esprimere la passione senza temere d'essere considerati con ironia, senza sentirsi in soggezione.
E'magnifica la scelta degli attori, la levità e insieme la forte critica sociale con cui la tragedia è
raccontata; e l'ironia sempre sottesa, mai espressa però evidente. Alle prime proiezioni il film è
piaciuto molto, ha avuto grandi applausi. Soltanto i cineasti e giornalisti greci restavano
preoccupati, rannuvolati: il nuovo governo di destra ha subito licenziato Theo Anghelopoulos, il
maggiore regista del Paese, il più celebre all'estero, dalle commissioni cinematografiche statali che
presiedeva o a cui partecipava. E adesso chissà che cosa capiterà d'altro, nella Grecia che non sa
dimenticare i colonnelli.
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Maurizio Cabona - Il Giornale, 13 gennaio 2006
Nella Londra di Match point Woody Allen ritrova parte dello smalto perduto a New York.
Ultimamente era infatti declinato ulteriormente, all'ombra di Spielberg produttore, a sua volta in
declino con la Dreamworks. Perfino gli incassi europei di Allen sono diventati sempre più esigui,
mentre quelli americani lo sono sempre stati. Canuto e sordo, Allen torna a dedicarsi al filone
criminale di Prendi i soldi e scappa, Crimini e misfatti, Pallottole su Broadway, Criminali da
strapazzo e de La maledizione dello scorpione di Giada, che costella la sua filmografia di una
quarantina di pellicole in trentacinque anni. La lotta di classe ridotta all'essenziale (perché tu sei
ricco e io no?) s'intreccia qui con quello gli amori irregolari, come nel filone principale di Allen. Il
quale resta incline alle lungaggini (Match point dura due ore e dieci minuti), mentre basterebbe
metà tempo per raccontare di un tennista (Jonathan Rhys Meyers) arrivista, oltre che irlandese
(dunque implicitamente cattolico), che sposa una milionaria londinese e sopprime l'amante
americana incinta (Scarlett Johansson), oltre alla vicina (Margaret Tyzack) di casa, testimone
ingombrante. Ogni riferimento a Una tragedia americana di Dreiser (e al film derivatone, Un posto
al sole di Stevens) non è casuale; come non lo è evocare Delitto e castigo di Dostoevskij, letto dal
personaggio principale (ma questo è uno specchietto per le allodole). Quanto alla genealogia
puramente filmica, essa risale, col tennista assassino, a L'altro uomo di Hitchcock; e con la
scoperta finale del diario a Sangue blu di Hamer. Di tipicamente alleniano, allora, che cosa c'è? Il
finale, che per una volta vale la pena di attendere. Dopo averlo visto, vi chiederete: Allen si rivela
finalmente cinico, come un inglese? Ma per un americano dichiararsi cinico è la morte civile. Così
fin dal Festival di Cannes (dove il film era fuori concorso) Allen negava tutto, anche l'evidenza:
«Non sono cinico. Anzi, voglio mostrare che i crimini, anche politici, troppo spesso giovano a chi li
compie». Infatti nel film si parla anche di «danni collaterali» per la vittima imprevista. Ma si divertirà
amaramente anche chi non capisse l'allusione.
Luigi Paini - Il Sole 24 Ore, 15 gennaio 2006
Chris ha le carte in regola. Ha deciso di abbandonare il tennis professionistico perché è stanco di
una vita randagia, senza un vero scopo. Ancora molto giovane, sbarca a Londra dalla natìa
Irlanda, progettando di trovare la sua strada. Un ragazzo come tanti, quello scelto da Woody Allen
per Match Point, convinto che un colpo di fortuna (la palla che rimbalza sulla rete e, dopo un attimo
di suspense, forse cade dalla parte giusta...) possa cambiare la vita. Per portare a casa qualche
soldo inizia a dare lezioni proprio di tennis, l’unica cosa che per il momento sa fare a dovere. Un
po’ di sterline, giusto per tirare avanti, e la possibilità di conoscere gente interessante. Come Tom,
rampollo di una ricchissima famiglia. Simpatico, sincero, desideroso di aprire a Chris le porte dei
mondo che contano. E Chris, che ama tanto leggere Dostoevskij, si lascia condurre, affacciandosi
in un universo dorato che non conosce, e che non può mancare di affascinarlo. Niente di male,
niente droga o sesso facile. Anzi, la più tranquilla delle routine, accompagnata addirittura da una
fresca, allettante storia d’amore con Chloe, la sorella di Tom. Ma è solo l’inizio di una discesa agli
inferi: difficile, forse impossibile abbandonare il nuovo ambiente dopo che si è entrati, per caso, a
farne parte. E allora, come conciliare tutto ciò con il desiderio sfrenato che suscita già al primo
sguardo la fidanzata di Tom, la disinibita americanina Nola? Ma attenzione, Allen non ci conduce
all’intèrno di una banale storia di seduzioni, tradimenti, pianti e riconciliazioni. Ricordate quale
autore amava leggere Chris? Siamo dalle parti di Crimini e misfatti, non di Provaci ancora, Sam: lo
sguardo del regista, servito da una regia forse mai così impeccabile e “matura” e accompagnato
da struggenti arie d’opera, osserva impietrito il dipanarsi di una tragedia senza tempo.
Fabio Ferzetti - L'Unità, 13 maggio 2005
Un Woody Allen senza Woody Allen è sempre un’eccezione oltre che un azzardo. Ma dall’autore di
“Manhattan” nessuno si aspettava una storia di infamia e ascesa sociale ambientata nell’alta
società londinese lunga per giunta più di due ore. Dopo il fiacco “Melinda e Melinda” si poteva
temere insomma un’altra delusione. Invece “Match Point” (fuori concorso), asciutto e incalzante
come un teorema, è un vero gioiello. Nonché un film del tutto inatteso per tono, linguaggio, visione
del mondo. Siamo dalle parti del lontano “Crimini e misfatti”, 1989, altra vicenda di amori
clandestini e delitti quasi perfetti. Lì però Woody giocava ancora in casa, e non solo perché non si
muoveva dagli Stati Uniti. Qui invece il tratto è ancora più secco, lo sguardo più disilluso, la
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condanna e l’indignazione espressi fin dal titolo nel film americano (alla lettera “Crimini e
quisquilie”, non misfatti), lasciano il posto a un’ironia amara e perfino crudele. Non esistono il bene
e il male, o meglio non c’è morale né legge che tenga. In fondo è tutta questione di fortuna, è il
Caso l’arbitro supremo, che la pallina da tennis cada da una parte o dall’altra della rete dopo aver
fatto “net” (è la sorprendente scena d’apertura) dipende solo da un dio così capriccioso che
conviene non crederci e nemmeno sperarci. Il bello è che tutto questo possiamo dirlo dopo, a film
finito, ma in platea ogni cosa, a partire dalla voce narrante, ci porta a vivere la vicenda con gli
occhi del personaggio peggiore, ovvero a simpatizzare con lui, a sposare il suo punto di vista e le
sue ragioni, senza immaginare che passo dopo passo lo spiantato opportunista diventerà un
criminale. Spalleggiato da comprimari ignari ma non migliori di lui anche se nessuno infrange la
legge, nessuno si sporca le mani ma tutti in fondo, fra buone maniere e convenienze sociali,
spingono nella sua stessa direzione. Abbiamo detto che il film è secco e preciso come un
teorema, dunque non lo guasteremo dettagliando una vicenda per molti versi banale. Diciamo solo
che Jonathan Rhys-Meyers è perfetto nei panni dell’ex-campione di tennis irlandese impalmato
dalla figlia di un ricchissimo mecenate londinese, che Scarlett Johansson è ancora una volta
magnifica come attricetta americana fidanzata al figlio del mecenate e non meno fuori posto in
quella grande famiglia europea, e che Londra con i suoi templi del lusso, la Tate, le Jaguar, le
vetrine, non è mai stata più desiderabile e irraggiungibile. Ma il film non sarebbe così crudo e
sferzante se non mescolasse abilmente le carte della libidine e del (ri)sentimento di classe. Sono
l’amarezza e la vulnerabilità della Johansson a conquistare il tennista facendolo sentire vicino a lei;
sono la sua malizia, i suoi fianchi burrosi, le sue forme perfette a farlo crollare (la prima scena
d’amore sotto l’acquazzone è incredibilmente esplicita). Ma sono gli agi, i lussi, le regole della sua
nuova famiglia a condurre la danza, che sarà macabra come nel suo Strindberg prediletto. E qui
torniamo ad Allen, del quale quasi ci si dimentica tanto il film è insolito. Chissà quanti avrebbero
riconosciuto la sua mano a proiettarlo senza titoli. Ma questi son giochi che nessun festival può
fare. Purtroppo.
Fabio Ferzetti - Il Messaggero, 13 gennaio 2006
Settimana d’eccezione: oltre al magnifico The New World di Malick arriva in sala uno dei migliori
film in assoluto di Woody Allen. Una storia di infamia e ascesa sociale ambientata nella high
society londinese che a Cannes lasciò tutti a bocca aperta. Dopo il fiacco Melinda e Melinda molti
temevano un’altra delusione. Invece Match Point, asciutto e incalzante come un teorema, è un
gioiello. Nonché un film del tutto inatteso per tono, linguaggio, visione del mondo. Siamo dalle parti
di Crimini e misfatti, 1989, altra vicenda di amori clandestini e delitti quasi perfetti che prefigurava il
film a venire. Lì però Woody giocava ancora in casa, e si concedeva un controcanto “leggero” in
prima persona. Qui invece il tratto è ancora più secco, lo sguardo più disilluso, condanna e
indignazione lasciano il posto a un’ironia amara e perfino crudele. Non esistono il bene e il male,
non c’è morale o legge che tenga. In fondo è il Caso l’arbitro supremo, che la pallina da tennis
cada di qua o di là dalla rete dopo aver fatto “net” (è il sorprendente incipit ) dipende solo da un dio
così capriccioso che conviene non crederci e nemmeno sperarci. Tutto questo però, ecco il bello,
possiamo dirlo dopo, a film finito; mentre in platea ogni cosa, a partire dalla voce narrante, ci porta
a identificarci nel personaggio peggiore, a simpatizzare con lui, a sposare il suo punto di vista e le
sue ragioni; senza immaginare la strada che finirà per imboccare lo spiantato opportunista.
Spalleggiato da comprimari ignari ma non migliori di lui, anche se nessuno infrange la legge,
nessuno si sporca le mani, ma tutti in fondo, fra buone maniere e convenienze sociali, spingono
nella sua stessa direzione. Dicevamo che il film è secco come un teorema, dunque non lo
guasteremo dettagliando una vicenda esemplare. Diciamo solo che Jonathan Rhys-Meyers è
perfetto nei panni dell’ex-campione di tennis irlandese impalmato dalla figlia di un ricco mecenate
londinese, che Scarlett Johansson è ancora una volta magnifica come attricetta americana
fidanzata al figlio del mecenate e non meno fuori posto in quella grande famiglia europea. E che
Londra con i suoi templi del lusso, la Tate, le Jaguar, le vetrine, non è mai stata più desiderabile e
irraggiungibile. Ma il film non sarebbe così crudo e sferzante se non mescolasse abilmente le
carte della libidine e del (ri)sentimento di classe. Sono l’amarezza e la vulnerabilità della
Johansson a conquistare il tennista facendolo sentire vicino a lei; sono la sua malizia, i suoi fianchi
burrosi, le sue forme perfette a farlo crollare (la prima scena d’amore sotto l’acquazzone è
incredibilmente esplicita). Ma sono gli agi, i lussi, le regole della famiglia upper class a condurre la
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danza. Danza macabra, inutile dirlo, come nello Strindberg prediletto da Allen. Che con questo film
implacabile e perfetto entra definitivamente fra i grandi, anche se in una categoria imprevista.
Valerio Caprara - Il Mattino, 14 gennaio 2006
Un campo da tennis in terra rossa. La pallina gialla vola da una parte all'altra, entrando e uscendo
dall'inquadratura. La voce fuori campo del protagonista riflette sull'incidenza del caso nella vita
degli esseri umani: «Succede, nel corso di un match, che la pallina urti il bordo superiore della rete
e s'impenni per pochi decimi di secondo. Con un po' di fortuna, cadrà sul lato del campo che vi da
la vittoria. Ma può cadere su quello opposto e allora avrete perduto». È il prologo di Match Point, il
migliore film di Woody Allen senza Woody Allen che ci fa capire per l'ennesima volta come solo
grazie a titoli di questo calibro il cinema possa ridestare lo spossato interesse del pubblico grande.
A suo pieno agio nella trasferta britannica, il regista rinuncia a mettersi in scena come adorato
gaffeur, ma in compenso costruisce -a partire dalla sceneggiatura a orologeria- un thrilling d'amore
e odio, di «lotta di classe» esistenziale che da una parte richiama il nichilismo di Dostoevskij e il
naturalismo di Dreiser («Una tragedia americana»), dall'altra gli azzardi in chiaroscuro di Alfred
Hitchcock. Match Point si giova, innanzitutto, di stupende recitazioni, supportate da dialoghi scritti
in stato di grazia che sarebbe opportuno poter gustare nello squisito inglese fatalmente appiattito
dal nostro doppiaggio; poi centra col necessario understatement la combinazione di tutti i dettagli
psicologici, tutte le sfumature ambientali, tutte le serrature narrative mantenendo costanti ritmo e
tensione e intarsiando i concetti di delitto e castigo col pessimismo innato del supremo umorista.
Nella sua inesorabile progressione, infatti, resta incollato ai corpi, ai gesti, alle espressioni, ai
complessi di colpa occulti o manifesti dei personaggi, abrogando ogni (pre)giudizio morale e
limitandosi a utilizzare come sarcastico evidenziatore la colonna sonora gremita di hit operistici, da
«La traviata» a «L'elisir d'amore», da «Rigoletto» a «Guglielmo Tell». Dettagliare la trama sarebbe,
in questo caso, un'imperdonabile scorrettezza: basta dire che assistiamo all'irresistibile ascesa
dell'aitante ex promessa del tennis Chris (Jonathan Rhys Meyers) nell'alta società londinese,
messa in grave pericolo al momento dell'apoteosi dalla passione per l'irrequieta e torbida aspirante
attrice yankee Nola (Scarlett Johansson, sempre aggressiva e sexy, ma mai inespugnabile nel
maniero country come nello squallido basement). A un passo dal paradiso i foschi capricci del
destino s'intrecciano alle ciniche ambiguità dell'istinto e, sullo scenario di un comfort pressoché
tattile (la Londra chic, competitiva e snob di Mayfair e di Belgravia, ma anche quella aggiornata,
mutevole e fuori standard della Tate Modern e della Royal Opera House ne risultano gratificate
come l'indimenticabile New York alleniana), s'aprono profonde crepe, spaventosi crepacci che
fanno oscillare il protagonista come la pallina del prologo sugli opposti versanti del colpo di scena
finale.
Titta Fiore - Il Mattino, 13 maggio 2005
Un po'più cinico, un po'più vecchio, molto più realista, Woody Allen porta al festival il miglior film
degli ultimi dieci anni con l'aria disincantata di chi ha imparato a dare il giusto valore alle cose. Di
«Match Point», una storia raffinata di delitti senza castighi che vira con sapienza dalla commedia al
giallo, lungamente applaudito in sala e all'incontro stampa da un pubblico devoto, dice con parco
entusiasmo: «È un film baciato dalla fortuna, di solito non mi risparmio critiche, ma questa volta
tutto è andato per il verso giusto e sono molto soddisfatto». Giocato sul tema della bizzarria del
caso, sull'incidenza della sorte sulla vita di ciascuno, recitato benissimo da Scarlet Johansson,
Jonathan Rhys Meyers ed Emily Mortimer che parlano del loro regista con venerazione, pieno di
romanze celeberrime cantate in sottofondo da Enrio Caruso, «Match Point» segna nella filmografia
di Allen anche un'altra novità: l'ambientazione londinese, tra le case meravigliose dell'upper class
e gli appartamentini di giovani arrampicatori sociali, le boutique più eleganti e i teatri più famosi.
Perché ha scelto proprio Londra, signor Allen? «Avrei potuto girare questa storia ovunque, ma a
Londra ho trovato le condizioni migliori, produttori disponibili e per niente ficcanaso, attori con un
accento invidiabile e un clima delizioso. D'estate a New York il caldo diventa insopportabile e
lavorare è troppo faticoso, a Londra invece pioveva sempre, una vera consolazione». Anche il suo
prossimo film sarà ambientato in Inghilterra. Il feeling con Manhattan si è definitivamente
spezzato? «Naturalmente continuo ad amare New York, ma lavorare negli Stati Uniti diventa
sempre più difficile. Le major investono ancora su un regista come me e non avrei difficoltà a
trovare i soldi, ma vogliono mettere bocca nel progetto, influire sulla scelta degli attori, sulla
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sceneggiatura, sulle location. Non l'ho mai sopportato, io voglio fare i film alla mia maniera, in
totale autonomia. A Londra non ho subito pressioni né sono stato costretto a cedere a
compromessi, una situazione ideale». «Match Point» parla di delitti senza castighi, di un uomo che
sacrifica le passioni allo status sociale, di due omicidi rimasti impuniti, di innocenti che muoiono
senza un perché, liquidati brutalmente come «danni collaterali». Da questo punto di vista è il suo
film più cinico. «Direi piuttosto il più realistico. Si sa che il mondo è pieno di ingiustizie e la maggior
parte dei crimini resta senza un colpevole. La vera tragedia sta nel fatto che troppe vittime
innocenti perdono la vita in nome di uno scopo superiore, di un falso ideale, di un raptus di follia o
per sete di potere. Lo trovo insopportabile». Tra le sue fonti d'ispirazione c'è posto anche per
Dostoevskij? «Mi sembrava che la sceneggiatura avesse dei punti in comune con certa letteratura
del diciannovesimo secolo, soprattutto la russa, la mia preferita. E il paragone con ”Delitto e
castigo” mi dà una certa soddisfazione, non lo nego, ma in un film certi temi si possono solo
adombrare, l'approfondimento resta una prerogativa della pagina scritta». Accetta invece i rimandi
a «Una tragedia americana» e a «Un posto al sole» di George Stevens? «Non credo ci siano
legami con ”Match Point”. M'interessava capire come si possa uccidere un innocente per coprire
un altro delitto. Questo ha stimolato la mia creatività». Per ritrovare i toni della commedia dovrà
tornare a Manhattan? «Non ce n'è bisogno: il prossimo film sarà pieno di humour e, ripeto, lo
girerò a Londra. Non so ancora se ci sarà una parte per me, ma non me ne preoccupo, faccio
scelte più casuali di quanto si immagini». Che cos'è il lavoro per lei, una passione o un dovere? «È
una terapia, una distrazione. Un film mi permette di vivere per un anno in un mondo irreale fatto di
belle donne, uomini affascinanti, luoghi magnifici. Quando finisce ripiombo nei problemi di tutti i
giorni e allora sento il bisogno di ricominciare subito, di scappare di nuovo. In fondo, negli ospedali
psichiatrici si usa lo stesso metodo: per calmare i pazienti li si tiene occupati».
Gian Luigi Rondi - Il Tempo, 10 gennaio 2006
Woody Allen ha ritrovato il suo smalto. E il suo vigore creativo. A Londra, non più a New York, e in
nero, come in Crimini e misfatti. Con uno scetticismo però anche più nero perché, se anche qui c’è
un delitto senza castigo, questa volta, per spiegarlo, si cita la fortuna, pilotata dal caso. Due termini
cui ormai Allen sembra affidare i destini dell’uomo, senza che la morale vi abbia voce. Si comincia
con Chris, un giovane irlandese senza molti mezzi che, dando lezioni di tennis, conosce Tom, figlio
di ricchi, è introdotto nella sua famiglia e presto lascia innamorare di sé la sorella di Tom, Chloe, a
tal segno bene accolto dai suoi da finire per sposarla, grato al suocero che intanto gli ha trovato un
lavoro redditizio. Ma Tom ha una fidanzata americana molto sensuale, Nola. Chris ne è attratto in
modo quasi ossessivo e quando lei lascia Tom ne fa la sua amante segreta, tacendo ovviamente
tutto alla moglie. Se non che Nola non tarda a ritrovarsi incinta e pretende che Chris lasci Chloe,
con scenate molto pericolose per l’avvenire sociale dell’altro. Bisogna dunque farla tacere e Chris
non esita. Anziché salvarsi, potrebbe perdersi, ma ci pensano il caso e, appunto, la fortuna. Così
segnerà il «match point», il punto con cui, all’ultimo, si vince la partita. Gli rimarrà il rimorso, ma
anche tutto il resto... Un testo scritto con mano maestra. I personaggi con segni precisi, non solo il
protagonista e le sue due donne, un’azione dipanata con esattezza matematica; ogni elemento
dosato senza più svolte umoristiche ma privilegiando il freddo, il calcolo e, appunto, il nero,
portando il dramma fino alla lacerazione grazie ad accenti, che più sono lisci e lineari e più sanno
diventare spietati, pur evitando le increspature. Sulla stessa linea la regia: in cornici londinesi che
spaziano tra quartieri nobili come Chelsea e Belgravia, concedendosi soste in sontuose dimore di
campagna o invece negli uffici avveniristici sul Tamigi dove il protagonista è soddisfatto di regnare.
Mentre l’azione — sempre trattenuta, quasi sospesa, anche nei passaggi più esplosivi — anziché
esser commentata questa volta da quegli echi jazz tanto cari ad Allen, lascia spazio solo alla lirica
italiana, Verdi soprattutto, con la voce di Caruso, per sottolineare, all’unisono o in contrasto, con il
Rigoletto, con la Traviata, con il Macbeth, quei passaggi in cui un idillio apparente slitta nel tragico.
Splendida la recitazione di tutti. L’americana è Scarlett Johansson, sempre più incisiva, Chris, di
fronte a lei, è l’inglese Jonathan Rhys Meyers. Ha tanti film alle spalle, questo è il suo migliore.
Alessandra De Luca - L'Avvenire, 13 maggio 2005
Di nuovo crimini e misfatti per Woody Allen. Ancora un delitto senza castigo per il regista che ha
spiazzato la platea di Cannes con un film tutt'altro che comico, lontano dalle sue ultime fiacche
commedie. Con Match Point Allen abbandona Manhattan per approdare a Londra e firma un vero
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thriller, un apologo lucido e amarissimo su ambizione e passione, fortuna e ingiustizia. Niente
battute ma dialoghi sferzanti che mettono a confronto due classi sociali e due culture, quella
americana e quella europea. La storia è quella di un giovane maestro di tennis che per una serie di
fortunate circostanze viene a contatto con il rampollo di una ricca famiglia. Si innamorerà della sua
fidanzata ma sposerà sua sorella in grado di assicurargli un invidiabile tenore di vita, per poi
tornare tra le braccia della cognata, nel frattempo divenuta una ex. La passione infiamma i due
amanti, ma quando lei, in attesa di un figlio, chiederà a lui di abbandonare la moglie e il suo felice
status sociale, il giovane deciderà di mettere in atto un piano diabolico per sbarazzarsi della
minaccia. «Non credo di aver realizzato un film cinico- dice Woody Allen, accompagnato sulla
Croisette dagli attori Scarlett Johansson, Emily Mortimer e Jonathan Rhys Meyers- penso invece di
aver osservato la realtà da una prospettiva realistica. Ogni giorno assistiamo a grandi ingiustizie, a
crimini fisici, morali e politici che restano impuniti. Troppo stesso persone innocenti vengono
sacrificate in nome di un bene superiore o di una presunta verità». Lontano dalla sua amata New
York l'hanno portato motivi esclusivamente economici: «È sempre più difficile trovare finanziamenti
in America- ammette il regista- perché gli Studios non vogliono essere delle banche: quando
concedono dei soldi pretendono di mettere in naso nella sceneggiatura e nel casting. Io invece non
sopporto interferenze, ho bisogno di qualcuno che mi dia i soldi e mi faccia fare quello che voglio.
In Gran Bretagna ho potut o farlo. E poi a Londra c'è quel cielo grigio che mi piace tanto e gli attori
parlano con un accento che tutti gli americani non possono non invidiare. Il mio prossimo film lo
farò ancora lì e sarà una commedia». Tornato in gran forma proprio mentre molti giudicavano
esaurita la sua vena creativa, Allen aggiunge: «Fare cinema per me è una grande distrazione, mi
impedisce di sprofondare nella depressione. Se i miei film piacciono al pubblico sono felicissimo,
ma quando questo non accade ho almeno la consolazione di aver vissuto per mesi nel mondo
irreale del set, lontano dalla realtà troppo piena di problemi».
Alberto Crespi - L'Unità, 12 maggio 2005
«Più che cinico, mi definirei realistico. Quanti crimini impuniti ci sono nel mondo? E penso a crimini
privati ma anche a crimini internazionali...». Forse pensa, Woody Allen, alla sua amata New York e
alle Torri Gemelle: un crimine rimasto impunito anche perché il presidente degli Stati Uniti ha
pensato bene di usarlo come pretesto per attaccare l'Iraq, colpevole di altri crimini, ma non di
quello. Sta di fatto che Woody Allen ci ha dato una lezione: dopo qualche film così così lo avevamo
dato, in tanti, per bollito, e lui sfodera con Match Point - passato oggi fuori concorso a Cannes un'opera straordinaria, un Delitto e castigo ambientato nell'alta borghesia londinese. Interpretato
da una brillantissima squadra di giovani attori (Jonathan Rhys-Meyers, Scarlett Johansson, Emily
Mortimer, Matthew Goode), Match Point è una commedia brillante che sfocia improvvisamente
nella tragedia. E sappiamo che quando Woody riesce a mescolare le due cose sforna capolavori,
come in Crimini e misfatti e in Misterioso omicidio a Manhattan.
Mariuccia Ciotta - Il Manifesto, 13 maggio 2005
Woody Allen è in perfetta sintonia con il leit-motiv del festival nel suo Match Point, che coniuga
thriller, imprevisto e paternità in un sol colpo, quello della pallina da tennis che sbatte contro il
bordo alto della rete e resta indecisa se cadere di qua o di là. In un quarto di secondo, la vita è
risolta. Si può perdere o si può vincere, così per caso. Tutto gira intorno a questa metafora che il
regista newyorkese ribalta, giocando fuori casa, a Londra. Se fosse un Hitchcock, Woody Allen
non avrebbe preso alla leggera l'imprevisto che non salva mai il colpevole. C'è sempre qualcosa al
di là del McGuffin, l'espediente, che conduce alla resa dei conti nel cinema del maestro del brivido.
Ma Allen è qui particolarmente amaro, disilluso e implacabilmente matematico nel descrivere la
fortuna dei criminali, che sbagliano, lasciano tracce, mentono, imbrogliano e la fanno franca.
Chissà se dietro Match Point c'è anche la resa del cinema davanti alla vita reale come immorale
messa in scena. Chris Wilton, il sensuale Jonathan Rhys Meyers, è un po' un Mister Ripley, vittima
della lussuria e di una calcolato desiderio di ascesa sociale. Buon tennista irlandese, entra nel club
esclusivo della borghesia londinese e da paria si trasforma in businessman con autista grazie
all'amicizia con il rampollo dell'alta società Tom Hewett, che ha per fidanzata un'altra
arrampicatrice sociale, attrice americana fallita, Nola Rice (Scarlett Johansson), eccellente miele
erotico. Chris Wilton recita la sua parte di ragazzo che si è fatto da sé, servizievole, educato e
seduttivo. Conquisterà la sorella di Tom, Chloe (Emily Mortimer), e la sposerà. Obiettivo raggiunto,
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il povero irlandese ce l'ha fatta. Ma. La borghesia ha il sangue blu mentre quello di Chris e Nola è
rosso e caldo, e si mescola volentieri in torride sedute di sesso appena i fidanzati Hewett si girano
per un drink nel salotto con veduta sul Tamigi, o s'incantano all'Opera ascoltanto Donizetti, Verdi,
Bizet e Rossini. Woody Allen li segue freddamente, in agguato. Troverà il suo joke all'improvviso
con un capovolgimento di fronte, quando la pallina famosa contravverrà al suo destino. I ricchi
vincono barando, e Chris Wilton ormai è uno di loro. È un Allen fuori genere Match Point,
irriconoscibile se misurato sull'humor surreale, l'acidità ribelle, i vezzi metropolitani e tutto il
repertorio da strizza-cervelli conosciuti. Il malessere si fa atto di «normale» follia e avanza verso
un esito alla Patricia Highsmith con Chris che lucidamente decide di eliminare la «lussuria» con un
colpo di fucile e di praticare la paternità di classe. Due figli sono in viaggio, sceglierà quello
vincente. La risata dei festivalieri alla trovata di Allen è sinistra, come il fantasma di Nola Rice che
chiede spiegazione. Chris Wilton, il sensuale Jonathan Rhys Meyers, è un po' un Mister Ripley,
vittima della lussuria e di una calcolato desiderio di ascesa sociale. Buon tennista irlandese, entra
nel club esclusivo della borghesia londinese e da paria si trasforma in businessman con autista
grazie all'amicizia con il rampollo dell'alta società Tom Hewett, che ha per fidanzata un'altra
arrampicatrice sociale, attrice americana fallita, Nola Rice (Scarlett Johansson), eccellente miele
erotico. Chris Wilton recita la sua parte di ragazzo che si è fatto da sé, servizievole, educato e
seduttivo. Conquisterà la sorella di Tom, Chloe (Emily Mortimer), e la sposerà. Obiettivo raggiunto,
il povero irlandese ce l'ha fatta. Ma. La borghesia ha il sangue blu mentre quello di Chris e Nola è
rosso e caldo, e si mescola volentieri in torride sedute di sesso appena i fidanzati Hewett si girano
per un drink nel salotto con veduta sul Tamigi, o s'incantano all'Opera ascoltanto Donizetti, Verdi,
Bizet e Rossini. Woody Allen li segue freddamente, in agguato. Troverà il suo joke all'improvviso
con un capovolgimento di fronte, quando la pallina famosa contravverrà al suo destino. I ricchi
vincono barando, e Chris Wilton ormai è uno di loro. È un Allen fuori genere Match Point,
irriconoscibile se misurato sull'humor surreale, l'acidità ribelle, i vezzi metropolitani e tutto il
repertorio da strizza-cervelli conosciuti. Il malessere si fa atto di «normale» follia e avanza verso
un esito alla Patricia Highsmith con Chris che lucidamente decide di eliminare la «lussuria» con un
colpo di fucile e di praticare la paternità di classe. Due figli sono in viaggio, sceglierà quello
vincente. La risata dei festivalieri alla trovata di Allen è sinistra, come il fantasma di Nola Rice che
chiede spiegazione. C'è poco da ridere, Chris Nolan ha vinto un match point e perso il campionato.
Abbandonata l'illusione di uno scarto emotivo, di un colpo di genio, di uno zoom o di un carrello per
cambiare prospettiva alla vita, Woody Allen passa la mano.
Mariarosa Mancuso - Il Foglio, 14 gennaio 2006
Da un po’ di anni, Woody Allen dimostra che l’esercizio è un ottimo sostituto del talento. Insiste a
girar film con scadenze regolari, che abbia buone idee oppure no. Compensa con molto mestiere –
imparato strada facendo, provate a riguardare le penose luci e le penose inquadrature del
Dormiglione o di Amore e guerra – l’originalità perduta. Per raggiunti limiti di età (e dopo un penoso
tentativo di farsi sostituire dal gesticolante Kenneth Branagh) ha finalmente smesso di proporsi
come protagonista nei suoi film, scegliendo personaggi che non gli somigliano: qui il giovanotto è
un campione di tennis, e sappiamo che per Woody l’unico sport concepibile è sdraiarsi sul lettino
dello psicoanalista e rialzarsi alla fine della seduta. Se necessario, visto che negli Stati Uniti i suoi
film non incassano abbastanza da far venir voglia a qualcuno di finanziarli, lascia l’adorata New
York per Londra, dice addio agli intellettuali nevrotici (spostandosi tra i ricchi che nella villa di
campagna tengono un arsenale di fucili da caccia), rinuncia al MOMA per la Tate Gallery, ripudia il
jazz per l’opera lirica. A settant’anni, non è da tutti. Il film funziona, e gli va riconosciuto come un
merito. Di solito a quell’età uno deplora il mondo crudele e irriconoscibile, e si lagna del complotto
che gli impedisce di lavorare. Allen invece ha verso il mondo le stesse lamentele che aveva
cinquant’anni fa, e che si riassumono nella frase “sembra congegnato apposta per farci dispetto”.
Non ha perso neanche il gusto per le Grandi Domande. “Ami in me l’uomo o l’artista?” (in Pallottole
su Broadway). “La vita è una tragedia o una commedia?” (in Melinda e Melinda). “Quanto conta la
fortuna nelle vicende umane?” si chiede in Match Point, che comincia con una palla da tennis in
bilico sulla rete. Potrebbe andare di qua o di là (poi vedremo un anello, in precario equilibrio su un
ponte, a cambiare i destini). Intanto l’ex campione diventato istruttore cerca di farsi una cultura
leggendo “Delitto e castigo”, prima nella versione hard, poi nella versione soft. Scarlett Johansson
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e Jonathan Rhys Meyers hanno – insieme e separati – labbra più belle e sensuali della coppia
Brad Pitt-Angelina Jolie.
Lietta Tornabuoni - L’Espresso, 19 gennaio 2006
Battuta chiave di Match Point: «Succede, in un match di tennis, che la palla sfiori la sommità della
rete e, per un quarto di secondo, possa andare da una parte o dall’altra. Con un po’ di fortuna,
raggiunge il bersaglio e vinci. Ma può anche ricadere dalla tua parte, e allora perdi» Woody Allen
ha vinto: il film classico che racconta una storia classica d’amore, di morte e dei destini del caso è
bellissimo. Anomalo, per lui. Senza New York (siamo a Londra), senza intellettuali, senza donneidolo, senza battute spiritose o quasi, senza canzoni americane o quasi ma con molte arie d’Opera
italiane per affrontare anche due fenomeni così contemporanei: l’ambizione senza qualità, il delitto
senza castigo. Il protagonista arrampicatore è Jonathan Rhys-Meyers, bellissimo: un maestro di
tennis irlandese d’origini popolari che per il suo fascino, la sua bravura e la sua cortese pazienza
viene assunto in un club aristocratico di Londra, diventa amico di un giovanotto dell’alta società
appassionato di lirica come lui, ne seduce e sposa la sorella, si rende simpatico al padre che gli dà
un posto nella sua azienda. Ma intanto lui perde la testa per la fidanzata e poi ex fidanzata
dell’amico, un’aspirante attrice americana bionda, sensuale e volgaruccia che rimane incinta, vuole
che lui lasci la moglie, e minaccia di dirle tutto, protesta, grida, l’aspetta sotto casa; tra l’amore
carnale e la perdita della condizione sociale, sceglie (come Martin Landau in Crimini e misfatti)
l’omicidio. La uccide e rimane a festeggiare in famiglia la nascita del proprio primo figlio: l’ha
salvato il caso. È magnifica la scelta degli attori, la leggerezza e insieme la forte critica sociale con
cui la tragedia è raccontata. È perfetto il contrasto fra la cruda durezza dei fatti e la lussuosa
piacevolezza d’una Londra immaginaria.
Emanuela Martini - Film Tv, 10 gennaio 2006
Ventotto anni fa, Alvy Singer e Annie Hall si incontravano a New York durante una partita a tennis;
imbarazzati, si piacevano, si corteggiavano e, finché durava, si mettevano insieme. Nella loro
“partita”, nessuno vinceva e nessuno perdeva, perché non era giocata sulla prevaricazione ma
sull’affetto e sul rispetto. Oggi, a Londra, i tempi sono cambiati; ci sono in circolazione una durezza
di cuore, un’insensatezza dei gesti, una fragilità psicologica e morale che rendono il gioco
inevitabilmente duro e scriteriato. Oggi, si fa punto, e chi perde non si risolleva più. Dalla
commedia (amara) di Io e Annie si passa al dramma (rarefatto) di Match Point, l’ultimo, bellissimo
film di Woody Allen che racconta dell’ascesa sociale di un giovane ex tennista irlandese trasferitosi
a Londra per fare il maestro di tennis e dare la scalata alla buona società e degli “strumenti” (le
persone) che egli usa, a loro volta tutt’altro che ingenui ma istintivamente prevaricatori. Storia
durissima di classi e inganni e abbagli, dove il sesso, il denaro e il successo sono gli aridi motori
degli affetti, Match Point si apre con l’immagine congelata di una pallina che colpisce il nastro della
rete, e non si sa da che parte cadrà. Vittoria o sconfitta: «Chi disse preferisco avere fortuna che
talento aveva capito l’essenza della vita», E Jonathan Rhys Meyers, occhi azzurri ben spalancati
sul mondo e una malinconica, imperscrutabile austerità di fondo, comincia a intrecciare la propria
vita con quella di un giovane londinese ricco, di sua sorella e della sua fidanzata, anche lei
un’aliena (un’attrice americana senza successo) nel pianeta all’apparenza conciliante dello
snobismo britannico. L’atmosfera sembra lieve, fatta di passeggiate in coppia tra gallerie d’arte,
giardini, wine bar, di prime teatrali e weekend in campagna; ma il contrappunto musicale è
inequivocabile: melodramma, Elisir d’amore (Una furtiva lacrima è in pratica il “tema” del film),
Rigoletto, Traviata. E al cinema passa Rifili di Dassin, cupo noir senza redenzione, e a teatro The
Woman in White, cioè il capostipite del poliziesco inglese e un parente stretto della “gothic novel”,
scritto nel 1860 da Wilkie Collins e trasformato in un musical da Andrew Lloyd Webber nel 2004.
Perciò, quando gli occhi del protagonista incrociano quelli altrettanto azzurri di Scarlett Johansson
(anche lei pericolosa), l’ambiguità sottile che disturbava l’apparente limpidezza del quadro si fa
palpabile. Woody Allen ormai dirige con una semplicità magistrale: qualche carrello per strada,
campi e controcampi, accenni di zoom sui volti in un paio di momenti psicologicamente
determinanti, un’esemplare sequenza in montaggio alternato. Una “pulizia” alla quale corrisponde
una visione sconfortante e lucidissima dei rapporti umani. Non ci dà lezioni; semplicemente ci
racconta una storia di successo e delle sue inevitabili “casualties of war”, una storia che riecheggia
un altro film che narrava di un tennista e dei suoi problemi con le donne, Delitto per delitto di
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Hitchcock, il più disincantato maestro di cinismo, che Allen cita impercettibilmente altrove, nei
dialoghi paradossali tra i due poliziotti (Frenzy), nell’andirivieni nello scantinato nel quale sono
riposti i fucili da caccia (Notorious), nella stessa sensualità pigra della Johansson, che non può non
richiamare Kim Novak. Non sappiamo da che lato della rete cadrà la pallina da tennis; ma,
dovunque cada e di chiunque decreti la vittoria, non ci rassicurerà.
Michele Anselmi - Ciak, febbraio 2006
Non c’è ragione perché Match Point duri oltre due ore, ma siccome è il miglior film di Woody Allen
da tre lustri a questa parte, derubrichiamo l’eccessivo metraggio a peccatuccio senile. La trasferta
londinese ha giovato al cineasta newyorkese, ci si augura solo che non diventi un cliché. Certo,
rispetto al tedioso Melinda & Melinda questa opus n. 34 giganteggia, e magari non è un caso che
la vicenda, intrisa di giallo, si ricolleghi all’insuperabile Crimini e misfatti. Anche qui si tira in ballo
Delitto e castigo, mostrando addirittura il romanzo nell’incipit, insieme a una pioggia di citazioni
colte che appartengono al coté intellettuale dell’autore. Alla rinfusa, Una tragedia americana di
Dreiser, Bel-Ami di Maupassant, Sangue blu di Hamer più Il trovatore di Verdi, perché al noir
l’opera lirica s’addice meglio del vecchio jazz. Giovane e belloccio social climber, l’insegnante di
tennis Jonathan Rhys-Meyers seduce e sposa un’aristocratica sterile; e intanto si gode a letto la
sexy americanina Scarlett Johansson. Quando lei gli rivela d’essere incinta, trasformandosi in
un’erinni ricattatoria, all’uomo non resta che passare al crimine per limitare i danni. Smentendo
Dostoevskij, questo moderno Raskolnikov non troverà il castigo meritato, e sta qui la novità,
condotta sul filo di un cinismo immoralista che stimola l’applauso. Battuta chiave? «Mio padre ha
scoperto Dio dopo aver perso una gamba». Risposta: «Be’, non mi pare un gran scambio».
Claudia Mangano - Il Mucchio Selvaggio, febbraio 2006
Ha dell’incredibile quest’ultima produzione di Woody Allen. Innanzi tutto, è la prima girata fuori da
New York: il regista ha fatto i bagagli ed è approdato nella vecchia Londra. Qui ha trovato
finanziamenti incondizionati, un cielo plumbeo “che arricchisce e rende magnifica la fotografia”, ma
soprattutto ha trovato freschezza e lucidità. Quelle in cui pochi avrebbero sperato dopo il mediocre
Melinda & Melinda, il più irritante - perché il crollo di un mito è sempre cosa difficile da sopportare degli sterili esercizi di stile in cui i suoi film più recenti si erano tramutati. Sarebbe interessante
capire cosa sia avvenuto da operare in lui una simile e quanto mai felice trasformazione. Il più
riconoscibile dei registi, che qui si fa scorgere solo attraverso i dialoghi fluidi e taglienti. Si stenta a
credere che questa commedia virata al dramma rechi in calce la sua firma. Un’opera quasi
chirurgica quella di Allen, tanto è strutturata e armoniosa, che riprende gli spunti narrativi di Crimini
e misfatti (del discretamente lontano 1989), rinunciando però alle lusinghe dell’autobiografismo
consolatorio. Un film magistralmente scritto e diretto, che riserva ottime interpretazioni: dai
protagonisti fino agli attori secondari. Più volte, in occasione del tour promozionale, il regista ha
affermato che lavorare in Europa, lontano dai vincoli commerciali imposti da Hollywood, lo fa
sentire più vicino a quella sensibilità che da ragazzo ammirava nei cineasti stranieri. Verrebbe da
credere che a rinvigorirne spirito e idee sia stato proprio il trasloco professionale; del resto è inutile
ipotizzare le ragioni più recondite di una svolta così radicale. Significherebbe fargli un torto, ora
che anche lui ha smesso di credere all’interpretazione dei sogni e che ha definitivamente sostituito
al lettino dello psicanalista la personalissima terapia del cinema. Voleva indagare il ruolo della
sorte nella nostra esistenza, destrutturare la nostra ansia di controllo sulla realtà, o almeno così ha
dichiarato. Ma se alla fortuna si associano ambizione, menzogna, tradimento e persino un crimine,
allora l’indagine si fa ben più interessante. Il punto di partenza è Chris (Jonathan Rhys Meyers) un
giovanotto irlandese che si ritrova a dare lezioni di tennis in un circolo esclusivo a un giovane
rampollo, Tom (Matthew Goode), della Londra bene. Un ottimo passepartout per accedere agli
ambienti dell’alta borghesia e dare il via a una fulminante scalata sociale. Nessuna
premeditazione, forse, ma il caso - o la fortuna? - vuole che Tom gli presenti la sorella, Chloe
(Emily Mortimer), e che nei giro di poco il giovane spiantato si ritrovi fidanzato con uno dei migliori
partiti di Londra. Un ottimo lavoro nell’azienda del futuro suocero e la Jaguar con l’autista ne sono
il piacevole corollario. Tom a sua volta si accompagna a Nola (Scarlett Johansson), un’aspirante
attrice americana, nevrotica e sensualissima. Al contrario di Chris, lei non riuscirà a entrare in
famiglia: nulla però vieta che tra i due scatti un’attrazione tutta di pelle. Una passione liberatoria
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che stride con l’ambiente sofisticato sullo sfondo e che mette inevitabilmente a repentaglio una
posizione raggiunta con discreta fatica. Quando le richieste di abbandonare la donna ufficiale
lasciano il passo alle minacce, allora il Nostro decide di eliminare l’amante. Il melodramma si fa
tragedia e il delitto perfetto prende corpo. Chris non è un assassino. Commette degli errori, si fa
prendere dal panico. La buona sorte alla fine è dalla sua, quasi a conferma che la giustizia non
esiste, né terrena, né divina. All’abituale jazz Allen questa volta preferisce l’opera, ritenendola la
colonna sonora ideale per evocare passione e nostalgia. Un dolore del ritorno che per il
protagonista significa fuggire il ricordo di un passato mediocre, così insopportabile da giustificare
qualsiasi cosa: sia esso un omicidio o una vita di ipocrisia e frustrazioni.
Claudio Barabba - News Settimanale, 11 gennaio 2006
L’avevamo dato tutti per finito (o quasi) il vecchio Woody Allen, che col cinema non ha mai smesso
di giocare, ma sembrava stanco, prigioniero del suo dolce-amaro personaggio, intristito dalla
inevitabile ricerca di un sosia a cui affidare ruoli pensati e scritti sulla sua persona. I film proposti
con rigorosa puntualità (uno all’anno) negli ultimi tempi erano stati per lo più accolti con sbuffi di
rabbia in America (patria spesso ingrata) e con indifferente gentilezza nell’amata (e di lui amante)
Europa. In effetti le novelle proposte erano sembrate (a molti, me compreso) un po’ gracili e
ripetitive: pareva difficile un nuovo scatto in avanti. Invece proprio nella stagione del suo
settantesimo compleanno («non festeggiato», perché l’evento gli sembrava malinconico, il 1°
dicembre scorso) Allen ha sorpreso tutti con Match Point, un racconto ambientato in una Londra
aggressiva e caotica, scandito da amori insinceri o indecenti, da piccoli crimini e gravi misfatti, da
delitti senza castigo. Il tono narrativo è, all’inizio, leggero, ma la storia è più da dramma che da
commedia. Al centro dell’appassionato intreccio c’è un bel giovanotto (il redivivo Jonathan
RhysMyers), maestro di tennis dalle rampanti ambizioni, che riesce a fidanzarsi con una ricca
signorina della buona società londinese, ma perde (legittimamente) la testa per la ragazza del suo
futuro cognato: ovvero per la bionda Scarlett Johansson, bella e proibita come non mai. Passati i
primi momenti caldi dell’amore, il rapporto clandestino rischia di mettere in crisi la scalata ai
quartieri alti, l’attrazione diventa fatale. Dopo vane bugie e inquieti sotterfugi, è indispensabile
trovare una soluzione: quella più drastica e definitiva arriverà quasi per caso... Anche se sono stati
citati sacri classici della letteratura ottocentesca (Dostoevskij soprattutto), il modello più diretto
sembra un vigoroso film in bianco e nero del 1951, Un posto al sole, a sua volta tratto da Una
tragedia americana (1925), celebre romanzo del premio Nobel Theodore Dreiser. Mezzo secolo fa
(o peggio, prima) la morale era ferrea e il delitto non poteva pagare: così il povero Montgomery
Clift, travolto dalla giovane grazia di Liz Taylor (l’ossessiva Shelley Winters era la sua palla al
piede) finiva nella cella della morte, senza essere neanche del tutto colpevole. Invece oggi,
secondo Woody («ho una visione un po’ tetra e cinica della vita»), la conclusione non è così
scontata. Come sempre, aldilà delle colpe individuali, conta il destino, col suo gioco vano e
crudele. Aspro e amaro, il film ha avuto buon successo di pubblico e ottime critiche in tutti i Paesi
(Francia, Inghilterra, Usa) in cui è già uscito. E potrebbe ricevere un’ulteriore spinta dal Golden
Globe, il premio (sarà assegnato il 16 gennaio) che per consolidata tradizione anticipa, almeno in
parte, il verdetto degli Oscar. Se poi anche gli accademici di Hollywood prendessero in
considerazione l’opera di Woody, sempre trascurato dopo il lontano trionfo di Annie Hall (1977),
per il cantore di Manhattan sarebbe una sorta di strepitosa rivincita, un “match point” da non
perdere. L’occasione è buona anche per la fantastica Scarlett, che l’anno scorso è stata coinvolta
nel disastro di The Island, il fantakolossal su un futuro da trapianto selvaggio che ha contribuito
all’indebitamento dell’ardito produttore, il pur fortunato Steven Spielberg, costretto a vendere la
Dreamworks, l’apparentemente florida società di produzione-distribuzione da lui fondata. In ogni
caso, Allen e la sua attrice devono aver trovato sul set un ottimo affiatamento se hanno già girato
un altro film, sempre ambientato a Londra: è già quasi pronto, si intitolerà Scoop e parlerà, con
scherzosa ironia, di crimini e giornalisti. A conferma del momento sereno e creativo, Woody nel
caso di Scoop fa anche l’attore, appunto al fianco della Johansson e dell’ “X-Men” Hugh Jackman.
Fedele al suo personaggio pubblico, schivo e riservato (o diciamo meglio alla sua natura), Woody
davanti al riaccendersi delle lodi si è tirato indietro «magari sono un regista discreto, ma mi manca
il genio, non farò mai un capolavoro»). Del resto chi è andato a vederlo in concerto. nel suo
recente giro in Italia, ha apprezzato il suo impegno di jazzista, magari non dotato di eccezionale
talento, ma concentrato e per niente narciso. Paradossalmente proprio l’industria hollywoodiana
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mai amata (ora persino la fondamentale New York è stata accantonata per Londra) ha insegnato al
piccolo comico di Prendi i soldi e scappa e di Bananas il gusto del lavoro artigianale, la voglia di
procedere a ritmo costante, non disperandosi troppo se un lavoro viene un po’ peggio. Perché
l’importante è provarci ancora, non fermarsi a pensare troppo. Senza dimenticare che essere umili
non vuoi dire rinunciare ad alte ambizioni. Come diceva proprio Woody da giovane, è bello a volte
sentirsi Dio: bisogna pur avere un modello da seguire.
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