Sintesi del n. 3 di Concilium 2004 nei punti significativi

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Sintesi del n. 3 di Concilium 2004 nei punti significativi
Sintesi del n. 3 di Concilium 2004 nei punti significativi
(pedofilia del clero)
[…]
Che cos’è la violenza sessuale? (dal capitolo a cura di Nancy Nason Clarck e
Linette Ruff )
Fredericton/N.B. (Canada)
[…]
Pag.35 – Dati sugli abusi sessuali
Nel corso di una giornata, in media, circa 234.000 persone condannate per reati
sessuali si trovano sotto l’affidamento, la custodia o il controllo di istituti di
correzione. Quasi il 60% di essi vivono reinseriti nella società civile, sotto
sorveglianza, con la condizionale. Secondo il National Child Abuse and Neglect
Data System, si stima che nei casi di abusi su minori o di incuria degli stessi,
confermati o provati nel corso del 2001, il 9,6% implicava abusi sessuali. Questa
proporzione si traduce in una cifra pari quasi a 1,2 vittime di abusi sessuali per ogni
1000 minori. Uno studio condotto dal National Institute of Justice ha appurato che
il 13% delle adolescenti femmine e il 3,4% degli adolescenti maschi sono stati
oggetto di abusi sessuali.
(dati ricavati da fonti ufficiali del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti e da
American Humane).
Risultanza n.3. “L’indagine ha fornito le prove che la diffusione degli abusi
sessuali sui minori era dovuta all’acquiescenza (acceptance) degli abusi da parte
dell’istituzione [ecclesiastica] e a una massiccia e grave incapacità (failure) da
parte dell’autorità [ecclesiastica].” (fonte: Ufficio del Procuratore generale –
Commonwealth of Massachusetts, luglio 2003) […] pagg. 36 - 46
1
Rivelazioni, accuse e condanne per abusi sessuali su minori –negli Stati Uniti, in
Canada e altrove- hanno radicalmente alterato anche la vita della comunità
ecclesiale: il potere e il prestigio del ministero sacerdotale sono decaduti e
l’immagine pubblica della chiesa cattolica romana contemporanea ne è uscita
offuscata. Ben pochi –fra i sacerdoti o fra gli stessi parrocchiani- sono rimasti
indifferenti alla recente attenzione che i media hanno riversato su ciò che alcuni
sacerdoti traviati hanno fatto subire a dei minori dietro le porte di una chiesa, di un
orfanotrofio, o di un centro giovanile. Il risultato è che le “vittime secondarie” sono
innumerevoli: alcuni hanno lasciato per sempre la chiesa; altri se ne sono andati e
poi sono ritornati, ma senza i loro figli; alcuni sono rimasti e hanno elaborato nel
privato la loro sofferenza, mentre altri hanno esortato pubblicamente la chiesa a
reagire con compassione verso le vittime e le loro famiglie. Su una cosa sono tutti
d’accordo: non si possono far tornare indietro le lancette dell’orologio; ciò che in
passato rimaneva nascosto, ora è diventato di dominio pubblico. […] La
conseguenza è che la violenza sessuale perpetrata da uomini che hanno fatto voto di
povertà e di obbedienza- per non parlare del celibato!- ha creato pubblicamente un
grande scalpore, sia all’interno della chiesa sia all’esterno delle sue mura: quanto
all’indignazione, non vi è differenza tra credenti e non credenti. […]
Una delle questioni centrali, nei casi di abuso, è ancora e sempre il tradimento, il
sentimento di fiducia che è stato infranto: ed è quasi impossibile esagerare nel
descrivere fino a qual punto le vittime di sentano vulnerabili. Il rapporto di fiducia
ha offerto al colpevole dell’abuso l’opportunità di approfittare della vittima, e
dall’altro lato ha anche aumentato le probabilità che quella mantenga il silenzio
sull’abuso subito. […]
[In Child sexual abuse] Finkelhor sostiene che si devono verificare quattro
condizioni perché accada un abuso sessuale: i fattori relativi alla motivazione per
cui il colpevole abusa sessualmente del minore; i fattori relativi al superamento nel
colpevole delle inibizioni interiori all’abuso sessuale; i fattori che portano il
colpevole a superare le inibizioni esterne; i fattori che portano chi abusa a credere
che il minore offrirà scarsa resistenza. L’interazione tra fattori interni ed esterni
indica la natura multidisciplinare di una soluzione che pretenda di essere efficace
nei riguardi di un problema sociale così rilevante.
Come campo di studio, gli abusi sessuali –includendo sia i colpevoli sia le vittime,
come pure le misure per combatterne la frequenza e la gravità- costituiscono un
settore di ricerca in crescente espansione. Il problema ha un interesse
interdisciplinare, il che significa che vi sono vari “gruppi di interesse che
competono tra loro per affermare e spiegare il fenomeno dei colpevoli di abusi
sessuali” (T.Thomas, Sex Crime. Sex Offending and Society, 2000) e che
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prescrivono interventi appropriati, sia per il colpevole che per la vittima. Le
spiegazioni variano in base a ciò che è sostenuto dalla stampa, dal pubblico e dai
politici, o in base a quello che la società considera come “specialisti” in materia di
sesso e di abusi: terapisti, medici, studiosi e attivisti. Le spiegazioni vanno dalla
visione semplicistica del “mostro”, a idee sull’infanzia delle vittime che, una volta
adulte, diventeranno a loro volta colpevoli di abusi sessuali. Certo, una sola
disciplina non può essere incaricata di tenere conto di tutte le dinamiche che fanno
insorgere l’abuso sessuale sui minori, né un gruppo di professionisti da solo può
essere incaricato della soluzione del problema. Occorreranno risorse religiose e
secolari, che lavorino di concerto tra loro per porre termine alla violenza sessuale
sui minori, sia quando ne è colpevole un genitore, sia quando ne è colpevole un
prete. E’ importante osservare che spesso l’impatto dell’abuso sessuale sul minore
va oltre la vittima, e si estende ad altri membri della famiglia o a gruppi di amici.
Quando l’abuso avviene all’interno dei confini di una comunità di fede, tra le
vittime secondarie vi sono gli altri parrocchiani, le autorità ecclesiastiche e (forse)
anche i seminaristi.
Non è insolito sentirsi chiedere se la violenza sessuale sia un fenomeno recente, un
prodotto, per così dire, della modernità. La risposta a questa domanda è no: il fatto
nuovo è che le rivelazioni non vengono immediatamente cestinate e che le azioni
dei colpevoli non rimangono semplicemente nascoste all’opinione pubblica.
Jenkins afferma che gli abusi sessuali compiuti da preti della chiesa cattolica
romana hanno “causato un danno senza paragoni al prestigio e alla credibilità”
della chiesa, ai suoi responsabili e infine ai suoi preti. Almeno sino alla fine degli
anni Ottanta le autorità cattoliche hanno adottato un approccio che privilegiava il
mantenimento del segreto sugli abusi, mancando –a quanto pare- di comprensione e
di compassione per le vittime e le loro famiglie. (Cf. Jenkins, Creating a Culture of Clergy
Deviance). Le colpe venivano semplicemente rimosse (e poi cancellate dalla memoria
dell’organizzazione) e i preti colpevoli erano trasferiti a quello che sembrava essere
un ambiente nel quale rappresentare Dio al popolo e il popolo agli occhi di Dio
implicasse meno tentazioni. Come afferma correttamente Jenkins, “questo
approccio ottimistico era infondato e alcuni preti l’hanno eluso, diventando
molestatori seriali di proporzioni epiche”. A essere franchi, la condotta
sessualmente scorretta dei preti non è un’invenzione recente. Il sociologo Anson
Shupe afferma invece che gli storici dell’Europa medievale avevano già osservato
che il terreno religioso era molto fertile riguardo al potenziale di violazioni sessuali
nel quadro di rapporti di potere ingiusti che si manifestavano all’interno della
chiesa cattolica romana. Risalendo alla storia degli abusi sessuali sui minori al di là
dei confini della chiesa cristiana si scopre che la violenza dello stupro è un dato
comune lungo tutta la storia, così come lo sono stati i vari tentativi di mettere sotto
processo i colpevoli di tali abusi. Ciò che appare particolarmente brutale è l’abuso
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del potere religioso. […] In definitiva, quelli che hanno più fiducia nei loro leader,
che li mettono su un piedestallo, sono più vulnerabili degli altri allo sfruttamento e
agli abusi, di carattere sessuale o altro.
In tutto il mondo la molestia a danno dei
minori è uno dei crimini più odiosi contemplati nel sistema penale. L’autrice di
From Victim to Offender sostiene che molte vittime diventano a loro volta autori di
abusi, ripetendo il comportamento che hanno odiato quando si erano trovati nel
ruolo di vittima. Basandosi sui dati raccolti tra uomini rinchiusi in carcere o in stato
di libertà, Briggs rivela che, tranne uno, tutti i partecipanti alla sua ricerca, fra
coloro che erano stati condannati per molestia a danno dei minori, hanno affermato
che nella loro infanzia avevano subito prolungati periodi di violenza sessuale da
parte di almeno un adulto e che prima di quella inchiesta non avevano mai pensato
di definire le loro esperienze in termini di abuso sessuale. La storia si ripete, il ciclo
si perpetua. E’ questa una delle principali ragioni per cui è così importante, non
soltanto per la salvaguardia degli individui ma anche per la difesa della società in
senso più ampio, che la reazione agli abusi sessuali su minori sia rapida. I
colpevoli devono essere denunciati all’autorità giudiziaria e, in modo altrettanto
certo, la responsabilità verso le vittime e verso le loro famiglie richiede un
intervento terapeutico. Altrimenti è molto probabile che lo schema degli abusi torni
a ripetersi. […]
Dato che una delle prime domande –anzi, la domanda- che un bambino o un
adolescente si pone dopo una violenza sessuale è “perché?”, è importante non
giustificare mai chi abusa e ignorare la responsabilità personale di colui che si è
macchiato dei delitti commessi. […] Le chiese devono essere non soltanto spazi
sacri, ma luoghi sicuri. […]
Nessun credente cristiano –laico o ordinato che sia- è rimasto al riparo rispetto alla
forza e all’impatto degli abusi sessuali compiuti da responsabili religiosi, rivelati
recentemente dai media. Alcuni pensano che i tentativi di mettere a tacere le voci
su tali abusi abbiano creato uno scandalo ancora più grande delle violazioni
sessuali compiute da quei preti, per quanto tali atti siano detestabili e del tutto
ingiustificabili. Mantenere il segreto è, sul lungo periodo, più dannoso dell’episodio
originario che ha fatto nascere la convinzione di dover mantenere il silenzio
(Benyei, Understandig Clergy Misconduct in religious Systems). Tutti i credenti –ma
specialmente coloro che sono investiti di incarichi ufficiali nella guida della chiesahanno un ruolo preciso nel far cessare qualsiasi tentativo d’incoraggiare un “sacro
silenzio” per quanto riguarda l’interfaccia tra religione e violenza.
(traduzione dall’inglese di Maria Sbaffi Girardet)
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Il fattore razza/etnia nell’abuso sessuale di ecclesiastici su bambini (dal
capitolo a cura di Tracy T. West) – Madison/ NJ (USA) Pagg.59-63
Quando avviene un abuso sessuale da parte di membri del clero ha luogo una
violazione della psiche. L’identità spirituale ed emotiva delle vittime sopravvissute
all’abuso viene colpita da colui che ha perpetrato l’abuso, il quale, se è un
ecclesiastico, può fare ricorso a mezzi –fra gli altri- quali l’intimidazione, la
vergogna, l’isolamento, il terrore, le credenze o la Scrittura. Queste dinamiche
emotive e spirituali dell’abuso sessuale da parte di membri del clero non sono solo
interpersonali (relative alle due persone coinvolte); includono anche dimensioni
sociali che contribuiscono a perpetuare l’impatto distruttivo dell’abuso in modi
fondamentali. Le dinamiche connesse al genere, razza/etnia, alla sessualità, alla
classe, permeano tanto le interazioni interpersonali coinvolte, quanto gli effetti di
lungo termine dell’abuso sessuale di un ecclesiastico sulle vittime sopravvissute.
Queste dinamiche sociali interconnesse rappresentano un fattore delle
manipolazioni da parte dell’ecclesiastico che ha perpetrato la violenza, e delle
risposte della vittima sopravvissuta, ma variano sia il modo esatto sia il grado in cui
ciascuna ha un ruolo nella situazione specifica dell’abuso. In aggiunta a questo, i
significati sociali connessi al genere, alla razza/etnia, alla sessualità e alla classe
sociale condizionano in maniera fondamentale il contesto istituzionale religioso
dell’abuso sessuale e la modalità secondo cui viene interpretato il suo significato. A
seguito di un abuso sessuale da parte di un ecclesiastico il trauma della vittima
sopravvissuta viene spesso rinforzato dalla risposta data dalla comunità (per
esempio i membri della stessa famiglia, i responsabili ecclesiali, il sistema di
giustizia penale). Perciò l’esperienza di intimidazione, vergogna, isolamento,
terrore, credenza o l’uso della Scrittura nell’abuso sessuale da parte di ecclesiastici
è sempre modellata da una combinazione di dinamiche sia emotive che spirituali,
sia sociali.
[…]
Sfortunatamente c’è una tendenza generale a separare l’impatto psicologico
dell’abuso intimo dal suo impatto sociale. Nel suo studio sulla cattiva condotta
sessuale dei preti cattolici, lo psichiatra Len Sperry afferma che questa condotta
sessuale può venir concettualizzata come “un disordine psichiatrico, un crimine o
un atto immorale” (Sex, Priestly Ministry, and Church, Liturgical Press, Collegeville/Mn.2003, 106) .
Secondo Sperry, trattare l’abuso sessuale da parte di ecclesiastici come disordine
psichiatrico mantiene un punto di vista personale, mentre trattarlo come crimine e
atto immorale indica un punto di vista comunitario. Egli giustamente crede che
tanto l’impatto personale quanto quello comunitario dovrebbero essere seguiti.
Comunque per concettualizzare utilmente e trattare la cattiva condotta sessuale di
ecclesiastici credo sia necessario andare al di là di questo stadio. Un approccio che
accetta una distinzione tra l’impatto personale e quello comunitario è insufficiente e
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fuorviante. La nostra concettualizzazione del torto morale deve essere modificata
per includere a pieno titolo le conseguenze distruttive dell’abuso definite come
personali (le dimensioni psicologica e spirituale). E quelle conseguenze “personali”
devono venir comprese come completamente legate alle dinamiche comunitarie. La
nostra concettualizzazione primaria del problema dell’abuso sessuale da parte di
membri del clero deve essere quindi mutata, così che si possa andare al di là del
punto di vista esclusivamente individualistico, sul disordine psichiatrico, sul
crimine o sull’atto immorale dell’ecclesiastico che ha commesso l’abuso, per
riconoscervi la collusione istituzionale e comunitaria, che costituisce un più ampio,
sistematico problema di danno morale. Riconoscere come l’angoscia della vittima
sopravvissuta implichi una dimensione personale che non può venir separata dagli
interessi sociali (e istituzionali) fornisce un punto di partenza. Accettare una falsa
dicotomia che divida il piano personale da quello sociale (e istituzionale) maschera
dinamiche cruciali dell’abuso. Per esempio, prestando attenzione a questioni di
genere, rifiutiamo di ignorare che la mascolinità è una delle caratteristiche più
costanti degli
ecclesiastici che hanno perpetrato violenza, in gruppi di
violentatori sia cattolici sia protestanti, ed è un dato comune nelle esperienze di
vittime sopravvissute tanto di sesso maschile quanto di sesso femminile. Perciò
potremmo chiederci che tipo di potere istituzionale abbia la mascolinità nella
chiesa, dal momento che la mascolinità stessa potrebbe intensificare o rinforzare
l’intimidazione, per esempio, della persona che subisce l’abuso. Quali significati
sociali della mascolinità connessi a un ecclesiastico che ha commesso abusi
contribuiscono all’angoscia della persona che ne è stata vittima? Il tipo di potere
riconosciuto alla mascolinità nella chiesa (rappresentata da Dio e dal clero
maschile) condiziona il modo in cui chi commette l’abuso riesce ad ottenere una
via d’accesso spirituale ed emotiva nella vittima sopravvissuta; condiziona il modo,
inoltre, in cui la vittima sopravvissuta si sente in grado/nella posizione di poter
reagire a chi commette l’abuso; e condiziona l’impatto dell’abuso, quanto alla
modalità secondo la quale esso è interpretato dalla persona che lo subisce, dalla
chiesa e dal più ampio contesto della comunità.
La chiave sta quindi nell’esplorare il significato del genere all’interno dell’impatto
dell’abuso sessuale da parte di membri del clero, in parte a motivo della centralità
del genere nel sistema di autorità della chiesa e nella sua comprensione del potere.
Questo è ovvio nell’insistenza cattolico-romana e ortodossa sulla necessità
teologica di un clero esclusivamente maschile. Appare nell’enfasi sul
riconoscimento di Dio come Padre, un dato questo che è primario nella
comprensione trinitaria di Dio da parte della cristianità, e che è tenuto fermo in
tutte le tradizioni della chiesa. […] Chiedersi i significati della mascolinità che
potrebbero aver parte nell’angoscia delle vittime sopravvissute dell’abuso sessuale
da parte di ecclesiastici significa esplorare la colpevolezza istituzionale (e sociale),
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significa domandarsi come la comprensione profondamente radicata dell’autorità
morale della chiesa sia implicata nell’abuso.
In aggiunta a questo, le questioni razza/etnia non devono venir ignorate. In
particolare, sono vitali per qualsiasi discussione sull’abuso sessuale da parte di
ecclesiastici commesso in specie da preti cattolici negli Stati Uniti. Come ha scritto
la psicologa Nanette de Fuentes, gli oltre 61 milioni di membri della chiesa
cattolica negli Stati Uniti creano un ricco mosaico di differenti retroterra razziali,
etnici e socio-economici […]; per esempio, l’arcidiocesi di Los Angeles, una delle
maggiori della nazione, dichiara di celebrare la messa in ben trentasette lingue […];
non è inusuale per una parrocchia ispanica o afroamericana avere preti residenti che
sono Irlandesi, Filippini o Vietnamiti. Comunque la questione e l’importanza della
diversità, dell’etnicità e della razza nella letteratura critica sulle vittime
sopravvissute all’abuso sessuale di membri del clero è stata quasi interamente
trascurata […] (N. De Fuentes, Hear our Cries –1999)
[…] Inoltre, nella società statunitense le dinamiche razziali sono sature di questioni
di potere, soprattutto istituzionale. E’ necessaria una maggiore ricerca su come, per
esempio, la mascolinità bianca di chi perpetra l’abuso sia parte dell’intimidazione
che egli utilizza ai danni della vittima sopravvissuta, o su come la risposta dei
membri della sua chiesa alle denunce rivoltegli sia modellata dalla mascolinità
ispanica di un violentatore e la presenza intimidatoria, ineludibile, di pregiudizi
sociali sulla superiorità bianca. I modi complessi in cui la mascolinità viene
strumentalizzata aiutano a fornire importanti informazioni sull’impatto dell’abuso
su coloro che ne sono toccati direttamente, e allo stesso modo su come il suo
significato può essere interpretato. Nei notiziari dedicati all’abuso sessuale su
bambini da parte di ecclesiastici cattolici si sono già avute alcune discussioni di
genere, connesse a questioni quali: perché più uomini che donne si sono esposti alla
denuncia di abusi avvenuti quando erano bambini o adolescenti; se i ragazzi siano
più facili obiettivi dell’abuso per i preti rispetto alle ragazze; o se i ragazzi sono più
spesso scelti da chi perpetra ripetutamente l’abuso rispetto alle ragazze per il fatto
che questi potrebbe essere un maschio omosessuale (si veda ad esempio S. Pfeiffer, Women
Face Stigma of Clergy Abuse, Many Are Reluctant To Come Forward, in Boston Globe del 27 dicembre 2002
[…]) . Questo genere di inchiesta consiste prevalentemente in una ricerca di
caratteristiche comuni e di tendenze di genere. Prestare attenzione al ruolo del
genere nell’intensificarsi dell’angoscia nella vittima sopravvissuta ci spinge invece
a ricercare più precisamente che cosa è moralmente sbagliato nell’abuso da parte di
membri del clero. Ci porta ad affrontare la questione di come il genere dovrebbe
esercitare una funzione istituzionale (e sociale) sì da non essere un elemento che
favorisce la reiterazione dell’abuso.
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Come possono le dinamiche razziali/etniche presenti, quando emergono nelle
testimonianze sugli abusi sessuali commessi da ecclesiastici, contribuire ad
alimentare gli abusi? Nei notiziari dei mass-media americani, l’identità
razziale/etnica non viene generalmente menzionata se le persone coinvolte sono
bianche. (La maggior parte dei giornalisti credono che si debba identificare la razza dei soggetti dei loro
resoconti solo quando è rilevante. Ma essi vedono l’essere bianco come identità “normale” intrinsecamente
meno rilevante (è la notizia meno interessante) dell’identificazione di altri (di altra razza) che figurano nei
resoconti. Perciò il privilegiare l’essere bianco come norma tende ad essere mantenuto). Comunque,
persino l’assenza di un’identificazione razziale per le vittime sopravvissute
bianche, per chi ha perpetrato l’abuso o per le comunità ecclesiali, ha un significato
nelle testimonianze sugli abusi sessuali da parte di ecclesiastici: riflette il privilegio
dell’essere bianchi nella società statunitense, il privilegio cioè di non dover pensare
a implicazioni razziali. Ma per le vittime sopravvissute principali (le persone
abusate) e per quelle secondarie (l’incarico pastorale e/o la comunità ecclesiale di
chi ha commesso l’abuso) che siano bianche, potrebbero forse le aspettative di un
privilegio o di un diritto –che sono tanto normalizzate da essere raramente o mai
riconosciute o chiamate in causa- intensificare sentimenti di devastazione,
confusione, vergogna o demoralizzazione nell’essere vittime di fidati ecclesiastici
bianchi? Come ho accennato sopra, la mascolinità bianca del chierico che ha
commesso l’abuso potrebbe risultare essenziale in ordine alla fiducia posta nella
sua autorità e quindi essere parte del suo arsenale di potere socio-religioso per
esercitare intimidazione e provocare sentimenti di impotenza in coloro che ne sono
vittime. Queste dinamiche emotive, spirituali e sociali interconnesse nei casi di
abuso sessuale da parte di ecclesiastici meritano uno studio molto più approfondito.
[…]
pagg.69-73
Le distruttive dinamiche psico-sociali che fanno parte dei casi di abuso sessuale da
parte di ecclesiastici e l’angoscia sofferta da chi subisce violenza sono riprodotte
nelle risposte date dalla comunità. Tanto quanto in altre forme di stupro e di abuso
sessuale, nell’abuso sessuale da parte di ecclesiastici la vittimizzazione di persone
di genere femminile ha fatto scattare discussioni su diversi gradi di vittimizzazione.
Forse alcuni casi di abuso sessuale da parte di ecclesiastici sono moralmente
peggiori di altri perché certe vittime sopravvissute sono più innocenti di altre?
Alcuni ministri della chiesa vedono l’abuso su persone di genere femminile come
una minore depravazione morale. Il cardinale di Chicago, Francis George,
commentò che “c’è una differenza fra un mostro immorale come Geoghan che
abusa di bambini piccoli e lo fa in maniera seriale, e chi, forse sotto l’effetto
dell’alcol, compie dei gesti con una giovane di diciassette o sedici anni che
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ricambia il suo affetto”.
(A. Cooperman, “One Strike” Plan for Ousting Priests Has Catholic Divided,
(John Geoghan è stato un violentatore protetto
dalla chiesa mentre ha abusato di molti bambini nell’arcidiocesi di Boston).
Analogamente, prima delle sue dimissioni, il vescovo Bernard Law ha
commentato, durante una deposizione in un procedimento contro l’arcidiocesi di
Boston, che “vi era una ‘differenza qualitativa’ fra l’abuso sessuale da parte di un
membro del clero commesso su un minore e quello commesso su una donna. Gli
avvocati di Law hanno interrotto il discorso del suo assistito prima che questi
potesse spiegare la differenza …” (Fonte: Boston Globe del 15 agosto 2002). Da parte di un
ministro della chiesa affermazioni come queste, che stabiliscono una gerarchia
morale per la valutazione dell’abuso sessuale da parte dei membri del clero,
secondo cui solo ragazzini sotto i dodici anni sono definiti come veramente
innocenti, riproducono su scala istituzionale il comportamento traumatico di chi ha
commesso l’abuso; utilizzano il genere come un modo per svalutare moralmente il
merito di alcune vittime sopravvissute, abusando della loro vulnerabilità (il loro
essere vittime del clero), sfruttando la loro mancanza di potere, mantenendo in
modo sadico un controllo e un’autorità che fa gli interessi di chi è il più forte dal
punto di vista istituzionale. Persino quando delle donne denunciano abusi sessuali
avvenuti quando erano minori, esse non vengono necessariamente prese sul serio.
[…] Al tempo stesso, le diagnosi psicologiche sono state utilizzate per proteggere
e reinserire nel loro ufficio gli ecclesiastici che avevano perpetrato abusi, mettendo
deliberatamente a rischio quanti si trovavano sotto la loro autorità pastorale. […]
Come ha scritto lo psichiatra Richard Sipe, “la psichiatria e la psicologia possono
essere addotte a difesa di un sistema clericale. La chiesa non porterà frutto facendo
appello a queste e altre professioni perché la aiutino ad eludere istanze
fondamentali che consentono la tolleranza e la reiterazione degli abusi” (A.R.Sipe. The
problem of Prevention in Clergy Sexual Abuse). Quando i fattori psicosociali che sono complici
e alimentano l’abuso vengono svelati, vi sono possibilità emancipatorie per le
vittime sopravvissute agli abusi sessuali perpetrati da parte di membri del clero. Le
vittime sopravvissute potrebbero essere in grado di intravedere alcuni dei modi in
cui tali fattori, durante e dopo l’abuso sessuale, li “predispongono” all’angoscia.
L’analisi di questo processo coinvolge tutti noi (la società nel suo senso più ampio)
nell’abuso sessuale. La nostra percezione egemonica del genere e della razza/etnia,
fra altre categorie sociali che sono istituzionalmente sostenute e rese comuni nella
pratica, aiuta a reiterare l’abuso sessuale da parte di ecclesiastici, intensificando il
trauma delle vittime sopravvissute. Se quel trauma deve essere alleviato, e ulteriori
traumi evitati, biasimare solo casi individuali di chierici “malati”, capri espiatori
omofobici, appelli al perdono cristiano e all’unità razziale nera, ignorare le donne o
biasimare le donne vittime sopravvissute, ogni attaccamento dell’autorità morale
alla mascolinità –sono tutti esempi di una corruzione sistemica che dovrà venir
rigettata nelle risposte istituzionali cristiane date all’abuso sessuale da parte degli
in Washington Post del 19 maggio 2002 […])
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ecclesiastici. Un problema alimentato socialmente e istituzionalmente come l’abuso
sessuale da parte di membri del clero può essere disinnescato socialmente e
istituzionalmente. (traduzione dall’inglese di Gianmaria Zamagni)
Le teologie operative del sacerdozio hanno contribuito agli abusi su minori?
(dal capitolo a cura di Eamonn Conway – Limerick – Irlanda)
(avvertenza: a causa della loro ponderosità, nella trascrizione sono state omesse la maggior parte delle note
bibliografiche a margine) pagg.101-114 e 117-120
Introduzione
Nel presente studio si esprime la convinzione che per affrontare in modo giusto e
responsabile il problema degli abusi sessuali sui minori compiuti da membri del
clero, si debbano prendere in considerazione le teologie operative eventualmente
conniventi con tale comportamento o che lo abbiano facilitato. Si ritiene che
abbiamo a che fare con due forme di comportamento violento: il primo è l’abuso
sessuale su un minore commesso da singoli sacerdoti; il secondo è l’esperienza
della violenza subita dalle vittime quando hanno riferito di tali abusi ai responsabili
della chiesa. Le vittime hanno osservato che il secondo tipo di violenza e il
sospetto, la sfiducia e persino l’ostilità che la denuncia di tale violenza suscitava
nei rappresentanti della chiesa era talvolta più difficile da accettare dell’atto
criminoso compiuto con l’abuso iniziale (Cf. H.Goode – H.McGee – C.O’Boyle,
Time to
Listen. Confronting Child Sexual Abuse by Clergy in Ireland, Dublin 2003 […]). Ambedue le forme di
violenza hanno provocato interrogativi su costrutti, valori, credenze e identità
operative, profondamente sentiti e dati per scontati in una comunità cristiana. In
genere le autorità della chiesa ritengono che la responsabilità della crisi causata
dagli abusi sessuali sui minori ricada interamente su un ridotto numero di singoli
preti, e che la loro colpa sia il risultato di un fallimento e di un peccato personale.
(Cf. Giovanni Paolo II, Lettera ai sacerdoti per il Giovedì Santo 2002 […]). In modo analogo, la
leadership ecclesiastica tende a ritenere i singoli vescovi responsabili del fatto che i
casi di abusi sessuali non siano stati affrontati in modo adeguato, anziché
considerare la possibilità di un fallimento di carattere istituzionale.
Psicologi e psicoterapeuti, tra cui Marie Keenan (Irlanda), Martin Kafka (Stati
Uniti), Bill Marshall e Karl Hanson (Canada), sono convinti che negli abusi
sessuali dei sacerdoti sui minori giochino particolari fattori legati al loro sviluppo e
alla loro situazione, oltre ai fattori relativi alla socializzazione del clero. La loro
ricerca clinica va presa in considerazione da un punto di vista teologico e
strutturale. Sostenere tale necessità non vuol dire cercare di giustificare i singoli
sacerdoti colpevoli di abuso, che rimangono comunque i responsabili ultimi del
loro grave comportamento. Questo studio porrà al centro dell’attenzione le teologie
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operative e le comprensioni del sacerdozio, e il loro possibile legame con gli abusi
sessuali sui minori. Nondimeno, altre teologie operative meritano di essere prese in
considerazione: per esempio, immagini di Dio e teologie della rivelazione che vi
trovano il loro puntello, oltre ai modelli operativi di chiesa e alla loro influenza
sull’esercizio del potere. E’ anche necessaria una riflessione sulla teologia
operativa della sessualità, in modo particolare nella formazione del clero.
Fattori specifici negli abusi sessuali del clero
Dobbiamo essere cauti quando traiamo deduzioni dai dati statistici riguardanti la
natura e l’estensione degli abusi sessuali sui minori. Buona parte, se non la
maggioranza, degli abusi sessuali non viene denunciata. Anche quando si prendono
in esame gli abusi sessuali che vengono riferiti, molti dati importanti ai fini della
nostra indagine non sono stati ancora sufficientemente raccolti e analizzati. In
generale si accetta il dato che la percentuale di responsabili di abusi fra il clero è
minore della percentuale di colpevoli di abusi sessuali nella popolazione maschile
adulta nel suo insieme (Cf. Th. G. Plante, A Perspective on Clergy Sexual Abuse, in
San José Mercury News del 24 marzo 2002 […]); ne consegue che gli abusi sessuali sui
minori non sono un problema che riguardi in primo luogo la chiesa. Nondimeno,
bisogna prendere in considerazione un certo numero di elementi: il primo riguarda
il profilo specifico del sacerdote responsabile degli abusi.
Per esempio, spesso i sacerdoti responsabili degli abusi hanno in mente un
immaginario rigido e negativo di Dio, prova di un rapporto con lui che si basa sulla
paura e la colpa, anziché sull’amore incondizionato di Dio. In sé ciò non può essere
peculiare dei sacerdoti responsabili di abusi; tuttavia costoro hanno seguito uno
specifico programma di formazione teologica, sicché la presenza di un tipo di
immaginario su Dio di questo genere solleva gravi interrogativi sulla natura e sul
livello adeguato della formazione.
Bisogna considerare anche il fatto che almeno per il 50% i preti responsabili di
abusi sessuali sono stati essi stessi vittime di abusi sessuali, forse in misura
maggiore di quanto non avvenga generalmente tra i colpevoli di tali reati (Plante
afferma che il 70% dei sacerdoti hanno subito essi stessi violenza sessuale. […]). Quanti di questi
uomini hanno avuto l’opportunità, durante la loro formazione iniziale e
permanente, di affrontare l’esperienza della violenza subita? I sacerdoti
responsabili di abusi tendono ad avere un quoziente d’intelligenza più alto di altri
colpevoli di abusi sessuali, e una corrispondente forte tendenza a razionalizzare e
intellettualizzare, ma dimostrano una minore capacità di esaminare sentimenti ed
emozioni (Bryant, Psycological Treatment of Priest Sex Offender […]). I terapeuti notano anche la
tendenza presente in costoro a vedere l’autorità come dominio e come potere di
11
controllo e ad avere gravi problemi psicologici irrisolti nei confronti del conflitto e
dell’autorità. Gli abusi sessuali sono spesso una questione tanto di dominio e di
potere quanto relativa alla sfera della sessualità. Il dominio che i responsabili di
abusi sessuali esercitano sulle loro vittime può servire come compensazione per
l’impotenza che essi provano in altri settori dell’esistenza. Gli aspetti della struttura
e dell’organizzazione ecclesiastica che trasmettono e acuiscono un senso di
impotenza nel clero meritano quindi di essere tenuti in considerazione come fattori
situazionali che possono contribuire agli abusi sessuali sui minori. Secondo
Connors, il 90%
dei sacerdoti ha compiuto abusi sessuali su “adolescenti che
non avevano messo in pericolo il loro sviluppo emotivo. In termini schiettamente
psicodinamici, il responsabile dell’abuso era il più delle volte un adolescente
emotivo che preferiva la compagnia e l’affetto di un adolescente cronologico”.
Vi sono notevoli evidenze cliniche secondo le quali, a differenza dei colpevoli di
abusi sessuali nella società in generale, la grande maggioranza dei sacerdoti che
hanno compiuto abusi sessuali sui minori hanno come preferenza sessuale i ragazzi
dell’età post-puberale. Ciò solleva il problema del rapporto tra abusi sessuali di
minori da parte di sacerdoti e orientamento sessuale. Gli psicoterapeuti cominciano
a notare che molti –forse la maggioranza- dei sacerdoti che abusano sessualmente
di minori hanno orientamento omosessuale. Sarebbe infondato, sulla base di questa
osservazione, dedurne un legame causale diretto tra l’orientamento omosessuale e
la violenza sessuale, dato che anche coloro i quali hanno un orientamento
eterosessuale abusano sessualmente di minori. Queste persone, siano esse di
orientamento omosessuale o eterosessuale, compiono abusi sessuali perché non
sono riuscite a sviluppare una integrazione matura, adulta e paritaria della loro
sessualità. La constatazione che la maggioranza dei sacerdoti responsabili di abusi
sessuali ha fondamentalmente un orientamento omosessuale merita comunque una
pausa di riflessione. Se è chiaro che l’orientamento omosessuale non causa di per
sé gli abusi sessuali sui minori ed è egualmente chiaro che non tutti i preti
omosessuali compiono abusi sessuali, dobbiamo chiederci allora se vi è qualcosa
nell’esperienza di vita di una parte dei sacerdoti omosessuali che li porta a tali
abusi. I fattori situazionali sembrano essere l’obiettivo ovvio per l’indagine, e tale
indagine deve anche prendere in considerazione in che modo questi fattori
differiscano da quelli che influiscono nei membri del clero che hanno un
orientamento eterosessuale e compiono abusi sessuali.
Una domanda fondamentale è se l’insegnamento e la pratica pastorale delle chiese
sulla omosessualità sia tale da inibire concretamente negli omosessuali, e forse in
particolare in quelli che sono preti, la crescita verso la maturità sessuale e una
integrazione corretta della propria sessualità nell’identità personale (vastissima
bibliografia in note omesse). Se vi è poi un numero sproporzionatamente alto di chierici
12
che hanno orientamento omosessuale, dobbiamo allora chiederci anche perché è
così, e valutarne l’impatto sulla vita e la missione della chiesa (Cf. Cozzens, The Changing
Face of Priesthood).
La realtà è che per decenni la sessualità è stata un argomento tabù nella formazione
sia iniziale che permanente del clero. I problemi e gli stimoli sessuali venivano
“spiritualizzati” o respinti nella clandestinità, e l’impegno al celibato è stato
assunto da molti preti come una fuga dall’analisi della loro capacità di intimità,
come una liberazione dal dover fare i conti con la sessualità in modo maturo. Per
molti preti l’esperienza del ministero continua a essere caratterizzata
dall’isolamento; è una esperienza in cui si porta il peso di attese irrealistiche,
vedendosi affidati tanti ruoli esigenti che difficilmente possono essere sostenuti in
modo positivo o aiutare forme positive di responsabilità. Quali presupposti
teologici, profondamente sentiti e dati per scontati, stanno alla base di questa
particolare struttura ed esperienza di ministero? Li prenderemo in esame tra poco,
ma prima di farlo dobbiamo ricordare che le vittime hanno sperimentato due tipi di
violenza, e finora abbiamo fatto allusione soltanto allo specifico degli abusi
sessuali. Anche gli abusi dell’istituzione, con la sua incapacità di gestire i problemi,
hanno bisogno di una riflessione teologica.
La reazione e la gestione del problema da parte della chiesa
La recente ricerca condotta in Irlanda sugli abusi sessuali di sacerdoti sui minori,
commissionata dalla Conferenza episcopale irlandese, ha concluso che: “La
risposta data a coloro che hanno subito abusi sessuali da parte di personale
ecclesiastico è stata caratterizzata da una mancanza di coinvolgimento, di
comunicazione, di sensibilità e di compassione. L’impressione generale era che il
personale ecclesiastico fosse soprattutto preoccupato di problemi giuridici…”
(Goode- Mc Gee – O’ Boyle, Time to Listen, cit., 141). Vi è qui l’eco delle conclusioni
dell’Ufficio del Procuratore generale del Commonwealth del Massachusetts
riguardo agli abusi sessuali sui minori della diocesi di Boston. Il rapporto notava
“una riluttanza dell’istituzione ad affrontare in modo adeguato il problema” degli
abusi sessuali sui minori e notava “le scelte dell’istituzione hanno consentito di
fatto che gli abusi continuassero”. Ma il rapporto di Boston è anche più critico. Vi
si parla di:
-
“Sistematici abusi sessuali sui minori” consentiti da una ‘cultura’
dell’accettazione degli abusi sessuali sui minori all’interno
dell’arcidiocesi”.
13
-
“Diffusione degli abusi sessuali sui minori dovuta all’acquiescenza da
parte dell’istituzione e a una massiccia e grave incapacità da parte
dell’autorità ecclesiastica”.
Qualora si ignorassero le rivelazioni di questi e di altri rapporti, essi colpirebbero al
cuore la missione della chiesa al servizio della fede. Un impegno responsabile nei
riguardi di queste rivelazioni implica che si prenda in considerazione la
cultura
della gestione e della direzione operativa nella chiesa e delle teologie che la
sottendono. Non basta semplicemente cambiare il personale (i vescovi), come è
accaduto in alcune delle diocesi dove la cattiva gestione dei casi di abusi sessuali è
stata fortemente pubblicizzata dai media.
Passeremo ora a prendere in esame le teologie che nella chiesa possono essere in
connivenza con un comportamento scorretto, o facilitarlo. L’attenzione si
concentrerà, dati i limiti delle nostre presenti considerazioni, sulle teologie
professate e operative del sacerdozio.
Due comprensioni dell’ufficio sacerdotale
Possiamo indicare due concezioni, correlate ma distinte, dell’ufficio sacerdotale
presenti nella chiesa. Da un lato si mette l’accento sul sacerdozio in quanto esso
rappresenta Gesù Cristo alla comunità cristiana. In questa concezione, che è
prevalente, il sacerdote viene inteso come unica modalità di repraesentatio Christi,
e la distinzione tra il prete e la comunità cristiana è considerata fondamentale per la
chiesa. Un modello contrastante, che comincia riemergere al concilio Vaticano II,
fa riferimento al prete come repraesentatio Ecclesiae. Qui l’accento è posto sul
prete che rappresenta la chiesa, intesa come comunità cristiana sotto la guida dello
Spirito Santo. In questo secondo modello si pone l’accento sulla unità,
sull’appartenenza, prima che sulla distinzione. Il sacerdote è uno della e con la
comunità, prima di porsi di fronte ad essa e servirla. Il suo ministero scaturisce
dalla natura apostolica della chiesa, la cui responsabilità spetta in primo luogo a
tutti i battezzati.
Intendo ora delineare alcuni aspetti chiave di ambedue questi modelli. Nella parte
finale di questo studio esamineremo le loro conseguenze nei riguardi degli abusi
sessuali dei sacerdoti sui minori e della loro gestione da parte delle autorità
ecclesiastiche.
Il sacerdote come “repraesentatio Christi”
14
Un momento alto nello sviluppo dell’idea del sacerdozio come repraesentatio
Christi è stato il concilio di Trento; contro i riformatori, Trento sottolineava la
differenza essenziale tra sacerdote e fedeli. In questa concezione il sacerdote non è
nella chiesa un mediatore secondo accanto a Cristo: egli è Cristo all’opera
nell’edificazione della chiesa (per la descrizione dei due modelli, cf. P. Hünermann, Mit dem Volk
Gottes unterweges. Eine geistliche Besinnung zur Teologie und Praxis des Kirchlichen Amtes, in Geist und
Leben 54. [...]). Il sacerdote è unicamente inteso come alter Christus; egli agisce in
persona Christi capitis. L’accento è posto più sulla distinzione che sull’unità tra il
capo e il corpo della chiesa. L’insistenza sul celibato obbligatorio, oltre a un abito
particolare, amplifica la separazione e il carattere peculiare dell’ufficio. Il sacerdote
è un messo a parte, la sua vita stessa è un’offerta sacrificale per amore della chiesa.
Per quanto riguarda la spiritualità del sacerdote, tale modello di sacerdozio ha
trovato espressione in una preghiera di Lacordaire che è stata usata di frequente dai
sacerdoti. Ci si aspettava che il sacerdote:
-
vivesse in mezzo al mondo senza desiderarne in alcun modo i piaceri;
-
fosse membro di ogni famiglia, pur non appartenendo a nessuna;
condividesse tutte le sofferenze, penetrasse tutti i segreti, guarisse tutte le
ferite;
-
andasse ogni giorno dagli uomini a Dio per offrirgli il loro omaggio e le loro
suppliche: “… Oh Sacerdote di Gesù Cristo”.
James Joyce ha colto bene come veniva percepito dai fedeli il sacerdote quale
repraesentatio Cristi: Ricevere questa chiamata, Stephen […] è il più grande onore
che Dio onnipotente può concedere a un uomo. Nessun re o imperatore sulla terra
ha il potere del sacerdote di Dio […], il potere, l’autorità di far discendere il
grande Dio del cielo sull’altare e prendere la forma del pane e del vino. Quale
tremendo potere, Stephen!
Il catechismo ufficiale del concilio di Trento parlava persino dei sacerdoti “non
soltanto come angeli, ma addirittura dèi, avendo essi il potere di consacrare e
offrire il corpo del Signore”. (Catechismo tridentino ad uso dei parroci, pubblicato da papa san Pio V,
per decreto del concilio di Trento, parte III, cap.7, q.11).
Il sacerdote come “repraesentatio Ecclesiae”
Agostino scriveva: “Vobis enim sum episcopus, vobiscum sum christianus (Per voi
infatti sono vescovo, con voi sono cristiano)” (Agostino D’Ippona –Sermo 340,1 ). Se il
15
modello del sacerdote come repraesentatio Christi mette l’accento sul “per voi”, il
modello del sacerdozio come repraesentatio Ecclesiae mette l’accento sul “con
voi”. Il sacerdote è innanzitutto essenzialmente “un uomo scelto tra gli uomini, un
membro della chiesa, un cristiano” (K.Rahner). Secondo questo modello la fede
della chiesa viene testimoniata in modo speciale dai primi apostoli, ma la chiesa
non ha la sua origine negli apostoli, bensì in ciò a cui essi danno testimonianza
sotto la guida dello Spirito. E’ la comunità cristiana, e non il sacerdote da solo, che
è alter Christus . Il sacerdote come repraesentatio Ecclesiae raduna il popolo di
Dio e presiede alla fede della chiesa. Abilita la predicazione del vangelo della
comunità cristiana e la agevola. Il termine “presbitero” viene quindi considerato più
appropriato di quello di “sacerdote”, usato nel Nuovo Testamento soltanto per i
sacerdoti ebrei e per Cristo. In sintesi, possiamo dire che il prete che si vede come
repraesentatio Christi si sentirà a casa propria in una concezione più cultuale del
suo ufficio e in un linguaggio che parla di sacerdote-sacrificio-altare. Il prete che si
comprende come repraesentatio Ecclesiae comprenderà il suo ruolo in modo più
comunitario e preferirà un linguaggio che parla di presbitero-mensa-compagnia. In
che modo queste teologie sono operative nella vita della chiesa?
I risultati dell’inchiesta di Priester 2000
Una inchiesta su quasi tremila fra vescovi, preti e seminaristi in sedici diocesi e in
cinque paesi europei, diretta da Paul Zulehner dell’Università di Vienna pochi anni
fa [2001, in Germania, Croazia, Austria, Svizzera e Polonia], offre alcune
percezioni dell’autocomprensione teologica del clero contemporaneo. In senso
ampio, emergono dall’indagine quattro “tipi” di sacerdoti.
L’”uomo di Cristo insensibile ai segni dei tempi” (der zeitlose Kleriker):
comprende il suo ministero strettamente e unicamente come repraesentatio
Christi;
deriva la sua autorità da Cristo attraverso il vescovo, e non attraverso la
comunità;
è lontano dalla cultura contemporanea e non s’interessa dei “segni dei
tempi”: il vangelo si predica a tempo e fuor di tempo;
-
considera il ministero principalmente come ministero sacramentale;
comprende la tradizione in modo statico, come depositum fidei che egli
deve servire e custodire;
16
-
è interessato all’unità tra i sacerdoti, i vescovi e il papa;
tranne che per i ritiri e la direzione spirituale, è restio a vedere il bisogno di
una formazione permanente;
-
si trova a disagio di fronte ai cambiamenti ed evita i rischi;
considera importanti l’abito clericale, i titoli e i simboli dell’ufficio.
Zulehner caratterizza questo tipo come guardiano ansioso o sentinella ansiosa.
Secondo questa inchiesta, tale tipo di sacerdote si trova più di frequente in
posizioni di responsabilità nella chiesa cattolica.
L’”uomo di Dio aperto ai segni dei tempi” (der zeitoffene Gottesmann):
comprende il ministero sia come repraesentatio Christi che come
repraesentatio Ecclesiae;
-
mette l’accento sul suo ruolo come ruolo profetico e dà voce specialmente ai
senza voce nella società;
-
è interessato all’unità tra la gerarchia (in senso verticale), ma altrettanto
all’unità tra i membri della comunità (a livello orizzontale);
-
dopo la celebrazione dell’eucaristia, ritiene che la funzione più importante
del suo ministero sia la predicazione e l’offerta di consigli spirituali;
vive nella tensione tra chiesa e mondo, tra sacro e profano e cerca di servire
da ponte;
-
si trova a suo agio nel prendere le decisioni in modo condiviso;
-
è orientato più alla persona che al compito.
I sacerdoti di questo tipo si trovano più di frequente a un livello medio nella
gestione della chiesa. Sono spesso eletti in posti di rappresentanza dai confratelli
sacerdoti perché sono costruttori di ponti: tra la chiesa e il mondo, tra
repraesentatio Christi e repraesentatio Ecclesiae e così via.
17
“L’uomo di chiesa vicino ai segni dei tempi” (der zeitnahe Kirchenmann):
comprende il ministero prima di tutto e principalmente come
repraesentatio Christi;
vede la sua vocazione come chiamata personale di Cristo e non ha
necessariamente, o non desidera, uno stretto rapporto con la comunità parrocchiale;
-
vede la sua vocazione come professione e distingue accuratamente tra la sua
vita privata e la sua vita pubblica;
-
è molto professionale nei suoi contatti con la gente;
-
è capace di adempiere con gioia ai vari ruoli nei quali il sacerdote viene a
trovarsi, dal celebrante al preside di scuola;
dà valore a una formazione permanente, per esempio in ciò che attiene ai
mass media e alle comunicazioni, alla psicologia e all’economia, ma non
necessariamente in teologia;
-
ascolta e consulta, ma prende le proprie decisioni.
Questa categoria di sacerdoti si trova di frequente sia negli ambienti accademici sia
nella direzione della chiesa. Tra tutti gli altri tipi, ha meno interesse ed è meno
impegnato nei confronti della comunità locale; per costoro l’unità in quanto tale, a
livello verticale o orizzontale, non ha molta importanza. Zulehner lo descrive come
un lupo solitario.
Infine, il “responsabile della comunità in sintonia con i tempi” (der zeitgemässe
Gemeindeleiter):
è fondamentalmente impegnato per favorire il sacerdozio comune di tutti i
fedeli ed è tanto meno a suo agio nella distinzione tra laici e clero;
sottolinea la natura carismatica della chiesa e promuove con gioia la
diversità dei doni nella comunità;
-
trova nutrimento per la sua spiritualità più nel servizio che nei sacramenti;
-
si preoccupa meno delle direttive provenienti da Roma;
-
dà molto valore alla discussione e al consenso nel prendere le decisioni.
18
Zulehner vede questo tipo come l’uomo ai margini, quello che ha meno probabilità
dei quattro tipi di essere promosso nella chiesa.
[…]
Modelli di sacerdozio e gestione ecclesiastica degli abusi sessuali sui minori
Possiamo parlare con maggiori elementi di certezza dell’influenza che hanno i
modelli teologici operativi del sacerdozio sul modo di trattare i casi di abusi
sessuali. L’indagine di Zulehner conferma che la maggioranza di coloro che hanno
posizioni di potere decisionale nella chiesa operano secondo una concezione del
sacerdozio quale repraesentatio Christi. Coloro che intendono il sacerdozio
soprattutto in questo senso trovano molto difficile accettare che i sacerdoti
compiano atti di abusi sessuali.
Questo spiega il senso di trauma e d’indignazione tra coloro che hanno la
responsabilità della guida della chiesa di fronte alle rivelazioni di tali abusi e spiega
per quale motivo negli ambienti ecclesiastici sembrava esservi maggiore
preoccupazione per il danno recato dai sacerdoti colpevoli all’istituzione del
sacerdozio, che non per le ferite e le violenze causate alle vittime. Si aggiunga a
questa considerazione la sacralità del voto del celibato e per quanti secoli esso sia
stato esaltato al di sopra del matrimonio. Il trauma porta spesso alla negazione, e
questa è stata la caratteristica delle prime fasi della crisi dovuta a tali abusi. E’
anche comprensibile che i dirigenti ecclesiali che operano sulla base della
comprensione del sacerdozio come repraesentatio Christi abbiano pensato che i
sacerdoti responsabili di abusi potevano essere aiutati semplicemente attraverso la
confessione e la direzione spirituale. Il predominio del modello della repraesentatio
Christi spiega anche la priorità data dai capi della chiesa alla difesa della chiesa e
del sacerdozio. Il guardiano o sentinella soffre quando la reputazione della chiesa e
del sacerdozio vengono offuscate sotto i suoi occhi. Persone che conoscono
personalmente i vescovi osservano che questi uomini nella maggior parte dei casi
non sono interessati al senso del proprio potere e della propria importanza,
nonostante l’immagine spesso riportata dai media. E’ vero invece che i vescovi
condividono uno schiacciante e solitario senso di responsabilità per la chiesa, il cui
peso vedono poggiare completamente sulle loro spalle. Quando si viene al modo di
trattare il problema dei sacerdoti responsabili di abusi, quelli che hanno elaborato
un concetto fortemente sacrale del sacerdozio possono sentirsi perplessi. Da un lato
si sentono afflitti per i sacerdoti colpevoli e pensano che quelli che hanno tradito il
loro ufficio debbano essere puniti con la dimissione. In alcuni casi si è insistito
19
sulla dimissione dallo stato clericale senza tenere debitamente conto del dovere di
una costante sollecitudine per i colpevoli, e ciò indica che potrebbe trattarsi tanto di
una punizione per il tradimento quanto di una preoccupazione per la guarigione
delle vittime e per la protezione dei minori (vedi Id.Care for Clergy Offender, in The Furrow
del maggio 2003 […]). D’altro lato abbiamo visto che alcuni leader della chiesa erano
ansiosi di evitare che la dottrina del carattere indelebile dell’ordine venisse erosa
alla base qualora si mettesse troppo prontamente in atto una sanzione come la
dimissione dallo stato clericale (cf. per esempio la critica del Vaticano alla versione originale della
C.e. degli USA della Carta di Dallas del giugno 2002). La repraesentatio Christi, specialmente
nella sua versione più distante dalla cultura contemporanea, è la meno incline a
ricercare consigli e ad attribuirvi un valore, o a confidare davvero in coloro che non
hanno la grazia del sacramento dell’ordine. E’ anche meno incline ad accettare di
dover rendere conto a livello orizzontale, per esempio a enti laici nella chiesa o a
enti secolari nella società. E’ anche la meno incline a pensare di dover essere
sensibile ai mass media e la meno toccata dalla ripetuta copertura che essi danno ai
casi di abusi. Tra i dirigenti della chiesa, il costruttore di ponti è propenso a cercare
di mediare tra l’autorità del magistero, l’autorità della ragione (per esempio la
teologia ed altre scienze) e l’autorità dell’esperienza che si vive in comunità. La
sentinella ansiosa, d’altro canto, si affiderà unicamente all’autorità di Roma e al
consiglio degli altri confratelli nell’episcopato; la critica di altri ambienti
probabilmente non la toccherà. Il lupo solitario che agisce, come la sentinella,
sulla base della repraesentatio Christi, è anch’egli ben lieto di accontentarsi di una
linea chiara dall’alto, ma se necessario desidererà farsi una propria idea
indipendente. Dando valore alla professionalità, sarà anche il meno incline ad avere
problemi per la dimissione dallo stato clericale dei sacerdoti responsabili di abusi o
a trattare le vittime preferibilmente dal punto di vista clinico, con la collaborazione
di esperti laici, come gli avvocati e gli psicologi.
Conclusione
Vi è motivo di preoccuparsi per un modello di prete inteso come repraesentatio
Christi, che non serve rettamente la chiesa. Come minimo, ha bisogno di essere
integrato da una comprensione del sacerdozio come repraesentatio Ecclesiae. Tale
modello attribuirebbe maggior valore a uno stile di vita condiviso di guida
ecclesiale, con un equilibrio tra il sistema di responsabilità verticale e quello
orizzontale. Il sacerdozio inteso in primo luogo come repraesentatio Ecclesiae
offrirebbe le basi per una maggiore varietà nell’esperienza umana dei responsabili
ufficiali della chiesa. Mentre non ha fondamento l’idea che vi sia un legame diretto
tra celibato e abusi sessuali sui minori, il celibato accettato semplicemente come
parte obbligatoria del “pacchetto” del sacerdozio potrebbe essere un reale
20
impedimento al raggiungimento della maturità sessuale. Per rispondere in modo
completo alla crisi degli abusi sessuali sui minori, appare auspicabile:
-
sviluppare una teologia del sacerdote come repraesentatio Ecclesiae, sulle
basi dell’insegnamento del Vaticano II;
-
promuovere attivamente tale teologia nei programmi di formazione,
iniziale e permanente, dei sacerdoti;
-
incoraggiare i sacerdoti a riflettere sulla loro teologia operativa del
sacerdozio, dedicando particolare attenzione alla comprensione del proprio
potere e della propria autorità;
-
aiutare i sacerdoti a identificare particolari debolezze e fattori di rischio
associati alla propria teologia operativa del sacerdozio e a dedicarvi la loro
attenzione;
-
dare una valutazione aperta e sincera della teologia, professata e operativa,
della sessualità nella chiesa.
In queste pagine le immagini dominanti del sacerdozio assunte e promosse nella
formazione teologica e nelle subculture dei seminari sono state messe sotto i
riflettori del sospetto. Alcuni dei loro assunti discutibili possono alimentare
atteggiamenti indegni del vangelo e capaci addirittura di facilitare inconsciamente
gli abusi, sessuali o di altro tipo. Sia per amore della missione, sia per amore verso
coloro che hanno sofferto –e continuano a soffrire- a causa di abusi sessuali da
parte di membri del clero, la chiesa ha l’obbligo morale di riconoscere e valutare
criticamente i problemi strutturali relativi agli abusi sessuali sui minori ed
escogitare nuove strutture di autorità e di responsabilità nella chiesa.
(traduzione dall’inglese di Maria Sbaffi Girardet)
Corpo di potere e potere del corpo- La situazione della chiesa e la sconfitta di Dio
di Rainer Bucher (Austria) pagg.164-176
L’arcidiocesi di Boston ha messo in vendita la residenza vescovile per risarcire,
attraverso il ricavato, le vittime di abusi sessuali da parte di collaboratori della
chiesa, come ha riportato il Boston Herald. Secondo le indicazioni degli agenti
immobiliari, l’edificio risalente agli anni Venti e il parco annesso varrebbero – in
21
valuta europea – circa 20 milioni di euro. L’arcidiocesi si ritrova a dover
fronteggiare richieste di pagamento che ammontano complessivamente a 70 milioni
di euro. Gran parte della somma dovrebbe essere ricavata dalla riscossione di premi
d’assicurazione. Attraverso la vendita, la diocesi vuole dimostrare che i
risarcimenti alle vittime di abusi “non vengono dalle offerte o dai contributi delle
parrocchie” afferma un portavoce del giornale (Süddeutsche Zeitung del 5 dicembre 2003).
In rovine: il corpo di potere della chiesa
(per una trattazione più dettagliata di quanto segue: R. Bucher, Entmonopolisierung und Machtverlust . Wie
kam die Kirche in die Kriese? , in Id. Ed. vedere Die Provokation der Krise. Zw ölf Fragen und Antworten
zur Lage der Kirche, Würzburg 2004, 11-29)
La rovina della chiesa nelle società capitalistiche avanzate se l’aspettavano tutt’e
due: sia il marxismo sia, con un po’ più di finezza e discrezione, il liberalismo.
Entrambi sembrano essersi alquanto sbagliati. Eppure le chiese cattoliche
d’Occidente vivono la loro posizione decisamente come una crisi. Ciò non stupisce
più di tanto e capita a ragione. Le cifre di partecipazione alla chiesa cattolica, per
esempio, misurate in base al classico indicatore della “frequenza domenicale”, si
sono drasticamente ridotte nei paese dell’Europa occidentale a partire dai primi
anni cinquanta. Soprattutto, però, è il cambiamento epocale della forma di
socializzazione dell’elemento religioso nelle società avanzate a dar da fare alla
chiesa. Il “modello d’uso” della chiesa è mutato profondamente nei suoi stessi
membri.
Attualmente sta crollando questo sistema costitutivo “costantiniano” delle chiese,
certo addirittura a partire dalla tarda antichità, le aveva mantenute stabili e allo
stesso tempo flessibili attraverso tutte le rivoluzioni storiche. Nelle società
sviluppate occidentali, le chiese si trasformano oggi da comunità con cui
condividere un unico destino – in esse si nasceva, si veniva socializzati e al loro
interno, in caso di necessità, si veniva costretti – in agenzie che offrono sul mercato
il senso della vita, la gestione dell’esistenza e l’orientamento nel mondo: pur
sempre forti e influenti, ma da qualche tempo, appunto, anche dipendenti dal
successo e dal mercato.
Già il progetto di una società borghese aveva scacciato le chiese dall’Olimpo di
un’istanza dominatrice della società, spedendole nell’arena dei numerosi gruppi
sociali. La chiesa cattolica ha reagito a ciò in modo essenzialmente “moderno”, se
questo significa seguire una strategia di auto-formazione progettata. Già la Riforma
aveva dato il via a questo processo, quando la chiesa cattolica, nel momento della
22
sua maggiore minaccia istituzionale, venne per la prima volta tematizzata da se
stessa. Con il crollo dell’ambiente cattolico socio-morale semichiuso a partire dalla
metà del XX secolo, però, iniziò anche per la chiesa cattolica ciò che oggi i suoi
dirigenti percepiscono come crisi della chiesa occidentale: la perdita del monopolio
come istanza ecclesiastica d’orientamento religioso nei suoi stessi membri.
Né meccanismi sanzionistici nell’intimo delle persone, instaurati per esempio per
mezzo di una “pastorale della paura”, né la minaccia del bando dalla società
costringono oggi le persone a prendere parte alla vita della chiesa. La licenza di
rapportarsi liberamente alla religione e alle sue istituzioni è ormai giunta anche agli
uomini e alle donne cattolici, senz’altro abituati all’autorità religiosa. Questa
“irruzione della modernità” ha colpito in modo piuttosto duro proprio la chiesa
cattolica. Lo smantellamento a metà del XX secolo della sua rocca istituzionale
accuratamente eretta e rafforzata teologicamente nel XIX secolo l’ha alquanto colta
di sorpresa. Soprattutto il fatto di essere finite sotto la permanente riserva di
approvazione da parte dei loro stessi membri presenta grandi difficoltà per le chiese
e qui, in particolare, per la chiesa cattolica.
Le chiese devono oggi dolorosamente imparare a vivere nelle rovine del loro
sistema di potere, una volta trionfale, ma ormai caduto a pezzi. Alle rovine, però,
mancano soprattutto due cose: la coesione che regnava tra le loro parti quando
ancora erano un insieme, e il tetto. La coesione perduta continua pur sempre ad
essere presente tra loro – le rovine sono sempre rovine di qualcosa – ma tale
elemento esiste ora soltanto come qualcosa di più dell’immagine di un passato
andato in frantumi; per questo motivo trasmettono costantemente a chi vive in
mezzo a loro una certa esperienza di carenza, vengono percepite troppo come
frantumi di un antico insieme.
Alle rovine però manca anche il tetto: non costituiscono più uno spazio conchiuso,
ma sono elementi “a cielo aperto”. Lo spazio esterno, un tempo escluso o ammesso
solo in modo controllato, è ora continuamente visibile, penetra all’interno, si
spalanca su una vastità, cosa che viene salutata con gioia da coloro che si sono
sempre sentiti rinchiusi, ma che trasmette anche mancanza di protezione, come è
temuto da coloro che cercano riparo e protezione nello spazio delle istituzioni
religiose.
Come proseguire in tale situazione? Passate in eredità allo stato sociale come latore
della regolazione assistenziale dell’esistenza, istituzionalmente sovradimensionate
a fronte delle cifre che dicono membri e partecipazione in calo, sempre più
sottofinanziate e all’interno di un panorama religioso tale per cui non si sa se si
debba credere ai dati che documentano la secolarizzazione o a quelli di una
23
individualizzazione e deistituzionalizzazione religiose, le chiese dell’Occidente
vengono costrette niente meno che a reinventare se stesse in modo piuttosto
radicale. La partecipazione precaria dei membri stessi, che progressivamente
rendono la propria biografia e i suoi problemi di coerenza postmoderni grandezze
di riferimento primarie delle plausibilità e delle pratiche religiose, obbliga le chiese
a rinnovare sin dalle fondamenta i loro principi costitutivi. Le chiese, su un lungo
arco temporale, possiedono una certa esperienza in merito, ma senz’altro ora hanno
meno tempo a disposizione rispetto al passato per trasformarsi.
Il potere pastorale
A)
Il potere pastorale è una forma di potere il cui scopo finale è assicurare la
salvezza dell’anima del singolo in un altro mondo.
B)
Il potere pastorale non è soltanto una forma di potere che comanda;
dev’essere pronto anche a sacrificarsi per la vita e la salvezza del gregge. In
questo si differenzia dal potere del monarca, che esige il sacrificio dei propri
sudditi quando si tratta di salvare il trono.
C)
E’ una forma di potere che non si occupa della comunità nel suo
complesso, bensì di ogni singolo individuo per tutta la sua esistenza.
D)
Non si può esercitare questa forma di potere senza sapere cosa avviene
nelle teste delle persone, senza indagare le loro anime, senza indurle a
rivelare i loro più intimi segreti. Implica una conoscenza della coscienza e
della capacità di guidarla . (M.Foucault, Warum ich Macht untersuche? Die
Frage del Subjects, in H.Dreyfusa-P.Rabinov (edd.), Jenseits von
Strukturalismus und Hermeneutik, Frankfurt a.M. 1987).
Oggi si sta allontanando definitivamente dalle chiese ciò che Michel Foucault, in
modo tanto aderente quanto analiticamente preciso, ha definito “potere pastorale”
(Pastoralmacht). All’interno della cristianità, il potere pastorale si concentrava
nella persona del “pastore”, cioè di colui che era incaricato del ministero.
“Quale unica religione che si è organizzata come chiesa […], il cristianesimo
sostiene principalmente che singoli individui, in virtù della loro particolarità
religiosa, avrebbero la facoltà di servire gli altri e cioè non come principi, giudici,
profeti, veggenti, benefattori o insegnanti ecc., bensì come pastori. Questo termine
indica però una peculiare forma di potere” (ibidem)
Diversamente dal potere politico, era volto alla salvezza dell’anima del singolo, a
differenza del potere del signore era altruista, e, in contrasto con il potere giuridico,
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non era interessato all’applicazione di regole generali, bensì all’individuo. Il potere
pastorale ecclesiastico si estendeva sull’intera esistenza – dalla culla alla tomba:
“Qualunque cosa faccia il pastore, essa è volta al bene del suo gregge. Ad esso va
la sua costante preoccupazione. Quando il gregge dorme egli veglia. Il tema della
veglia è importante, perché porta alla luce due aspetti della dedizione del pastore.
Per prima cosa egli agisce, lavora, si affatica per coloro che dormono. In secondo
luogo veglia su di loro. Dona a tutti la sua attenzione, non perdendo di vista
nessuno.”(M.Foucault, Omnes et singulatim. Zu einer Kritik der politischen Vernunft [...])
Foucault mostra che il cristianesimo istituì in questo modo una tecnica di potere
che si differenziava decisamente dalle tecniche di potere precedenti dell’antichità e
che è tuttora valida nello stato moderno. Quest’ultimo si sarebbe infine servito con
tanto successo della forma del potere pastorale, in origine cristiana, da diventare
l’erede delle chiese quali detentrici del potere pastorale. A partire dal Settecento,
secondo Foucault, il potere pastorale si trasferì nel nascente stato moderno – e ciò
proprio nella sua duplice funzione di “individualizzazione” e “totalizzazione”.
Nella storia delle società umane non sarebbe mai esistita una combinazione tanto
efficace di tecniche di individualizzazione e processi totalizzanti all’interno di
un’unica struttura politica. Ciò però dipenderebbe dal fatto che il moderno stato
occidentale avrebbe integrato l’antica tecnica di potere cristiana, il potere
pastorale, in una nuova forma politica.
Nell’età moderna il punto di partenza primario del potere pastorale della chiesa ha
perciò preso una nuova strada, che conduce dal cosmo alla comunità e infine al
corpo. L’indiscutibilità del cristianesimo, cosmicamente codificata, venne messa in
discussione per la prima volta da uomini come Galilei, Copernico e Keplero;
l’intervento della chiesa sulla comunità (non ecclesiastica) andò perduto con il
progetto di una società borghese, dunque nell’Ottocento, dopo che già
l’assolutismo settecentesco era ampiamente affrancato dagli orizzonti di
determinazione ecclesiastici. Infine, però, le chiese tentarono, per esempio
attraverso il loro annuncio morale, di acquistare influenza sul corpo, sulle sue
pratiche e sulle sue tecniche (quanto poco serva ancora il potere pastorale della chiesa, quanto si
siano invertiti i rapporti di potere si dimostra non da ultimo nel fatto che l’annuncio morale cattolico, per
esempio in Germania, trovi poco consenso persino tra la maggior parte dei membri della chiesa. Cf. MedienDienstleistungs GmbH, Trendmonitor Religiöse Kommunication, München – Allensbach 2003).
L’abuso sessuale da parte dei sacerdoti, però, va a intaccare definitivamente il
potere pastorale nell’epoca del suo dissolvimento. Questi pastori, infatti, non si
sacrificano per il loro gregge, ma sacrificano per sé parti di esso.
I sacerdoti dopo il potere
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“I sacerdoti sono detentori di un ufficio tale che non se ne può immaginare uno più
alto, per cui a ragione sono chiamati non solo angeli, ma addirittura dèi, poiché
rappresentano in mezzo a noi la potenza e la sublimità del Dio immortale[…].
Perciò non si deve affatto dubitare che il loro ufficio [dei vescovi e dei sacerdoti]
sia siffatto, che non se ne può immaginare uno più alto. Per cui non è ingiusto che
vengano chiamati non solo angeli, ma addirittura dèi; poiché portano in sé la
potenza e la gloria del Dio immortale (Catechismus Romanus).”
Nella chiesa cattolica, come noto, i sacerdoti sono molto privilegiati, sia dal punto
di vista teologico che da quello canonico. Dopo il crollo della cattedrale di potere
della chiesa, tuttavia, il loro ruolo professionale concreto scivola progressivamente
in un deficit di riconoscimento strutturale.
Nelle società avanzate dell’Occidente, l’esistenza sacerdotale non si svolge più in
un interno indiscusso, in un ovvio spazio di plausibilità. La chiesa non é più l’unica
istanza interpretativa del mondo, in una società completamente modernizzata non
può più costruire un cosmo esistenziale isolato, dall’impronta tradizionale. La
strategia di assicurare la stabilità della chiesa attraverso la costituzione, all’interno
della società moderna, di un vasto ambiente sociale incentrato sui sacerdoti, è
improvvisamente a sua volta diventata una minaccia alla stabilità. Non da ultimo
per l’elemento personale centrale di questa strategia: i sacerdoti.
Il sacerdote, strettamente tenuto al rispetto di un’etica professionale specifica, che
esige la rinuncia al matrimonio e alla famiglia, ma anche qualità come devozione
personale, umiltà, ubbidienza e discrete capacità direzionali, in passato riceveva
molto in cambio: status e potere, considerazione e patria, e anche il titolo di
persona eletta. In una parola: riceveva riconoscimento.
Quando però crollano le mura di quell’ambiente in cui sono vigenti tali criteri
bisogna farsi valere nel campo aperto delle ambizioni di affermazione e dei modelli
biografici concorrenziali. Sia la teoria che la prassi del sacerdozio non erano
attrezzate a questo scopo: non l’autoaffermazione nel campo aperto della società,
bensì la stabilizzazione interna attraverso la separazione della società liberale era
l’idea organizzativa della gerarchia ecclesiastica fino al XX secolo avanzato. I
sacerdoti come detentori centrali e privilegiati di questa forma sociale di chiesa
sono i più colpiti dal suo tramonto.
I sacerdoti che oggi vivono in una società post-moderna
(cosa che qui significa
semplicemente che vivono in una società in cui al presente non viene attribuito il compito, come in epoca
premoderna, di succedere a un passato (normativo e idealizzato), e di cui esso non si concepisce come
introduzione storica a un futuro (normativo e idealizzato), bensì come luogo in cui conta soprattutto regolare in
modo possibilmente non violento i propri conflitti tendenzialmente insolubili o, per lo meno, conviverci)
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devono cavarsela con una teoria essenzialmente pre-moderna della loro qualità di
presbiteri e, in questo, vengono misurati – non da ultimo dai loro superiori – in base
ai metri di successo di una società meritocratica. Da parte dei membri della loro
comunità si vedono esposti inoltre alla pressione derivante dall’aspettativa che
siano accompagnatori sensibili delle rispettive biografie altrui. Tra il ruolo di
intermediari di salvezza con una legittimazione sacramentale, le richieste in quanto
“responsabili locali” regionali dell’istituzione religiosa mondiale “chiesa cattolica”
e la pressione delle aspettative di aiuto e guida terapeutici esistenziali che
provengono dai singoli credenti, oggi i parroci in particolare vengono più o meno
stritolati.
La pertinenza legale ultima continua tutt’oggi ad accollare al sacerdote la
responsabilità della comunità. A differenza del XIX secolo, però, egli non possiede
più alcuna possibilità di influenza che sia conforme al suo status canonico e
teologico. Agli occhi della maggior parte dei credenti, infatti, il sacerdote non
deriva la sua autorità in primo luogo dalla sua posizione sacramentale gerarchica,
ma dalla sua competenza pastoral-professionale (Cf.per esempio i risultati dello studio
empirico: J.B.A.M.Schilderman-J.A.Van Der Ven – A,I.A.Felling, Professionalising the Shepards, in Journal of
Empirical Theology 12(1999) 59-90). E’ così soprattutto la figura del parroco ad essere
diventata la vittima del cambiamento epocale, oggi osservabile, della forma sociale
della chiesa cattolica. Da garante legittimato per via sacrale dell’autorità
ecclesiastica si trasforma in persona lacerata tra esigenze differenti – e questo già
soltanto all’interno dello stesso spazio sociale ecclesiastico.
Potere del corpo: la sconfitta di Dio
La violenza sessuale non è tanto un fenomeno sessuale quanto di potere. Inchieste
condotte su vittime dimostrano che per i colpevoli è prima di tutto l’esperienza del
potere a contare, e cioè sentirsi superiori, umiliare, punire, scaricare
l’aggressività o dimostrare la propria virilità. La sessualità è semplicemente uno
strumento, efficacissimo, a questo scopo (U.Brockhaus-M.Kolshorn, Die Ursachen sexueller Gewalt,
in G.Amann-R.Wipplinger edd., Sexueller Missbrauch. Überblick zu Forschung, Beratung und Therapie,
Tübingen,1998).
L’abuso sessuale nell’ambito dell’azione pastorale è un sopruso, una lesione della
fiducia e, a causa del duplice gap di potere (adulto/bambino, pastore/fedele), un
fenomeno di potere in un punto sensibile. Ed è anche una sconfitta di Dio
nell’operato del suo popolo e dei suoi sacerdoti.
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La cura d’anime cristiana, infatti, non è un’azione qualsiasi, ma un’azione nella
sequela dell’annuncio di Dio da parte di Gesù. Nucleo dell’annuncio di Gesù è però
il suo messaggio della venuta del Regno. Uno degli enunciati centrali di tale
messaggio è contenuto nelle beatitudini del discorso della montagna. In esso si
dice: “Beati voi poveri, perché vostro è il Regno di Dio. Beati voi che ora avete
fame, perché sarete saziati. Beati voi che ora piangete, perché riderete” (Lc.6,20b21). I poveri, gli affamati e coloro che piangono vengono qui glorificati senza una
qualifica religiosa in senso stretto: a loro spetta l’annunciata salvezza escatologica.
Le beatitudini di Gesù, però, non rimandano a un futuro impossibile da prevedere.
Il futuro di salvezza promesso nel Regno di Dio è sì, nella sua pienezza, una
dimensione escatologica a venire, ma non è già da ora determinato soltanto in Dio,
bensì sta già operando in questo momento nei piccoli, in chi è privo di potere, in
quanti piangono. Per Gesù e attraverso di lui, Dio e la dimensione politico-secolare
di Dio –il suo Regno- diventano una prassi concreta. Diventano prassi nella parola
dell’annuncio di questo Dio e negli atti concreti di attenzione affettuosa di Gesù nei
confronti di chi è bisognoso di sostegno, guarigione e aiuto. Ogni pastorale è
sequela di tale operato di Gesù.
La cura d’anime cristiana è quindi in primo luogo diaconia, è operato nella sequela
di Gesù e del suo annuncio del regno di Dio. (note omesse su opere di Fuchs) L’elemento
costitutivo della cura d’anime cristiana è l’occuparsi delle persone in stato di
bisogno. Se la chiesa non lo fa, il suo operato non si fonda più nel suo fondatore.
La cura d’anime è una forma di pastorale, cioè una forma di confronto creativo tra
il presente e il vangelo (Vedi opera di Bucher citata all’inizio). Nella sua cura delle anime, la
chiesa è tenuta a rappresentare con le parole e con le opere Gesù e la misericordia
del suo Dio (vedi K.Bopp, Barmherzigzeit im pastoralen Handeln der Kirche, 1998).
Nel compimento di ogni esistenza umana c’è qualcosa a cui quest’esistenza crede;
e la consapevolezza non è il luogo primario in cui si trova tale fede. “Ciò a cui […]
ti appigli e ti affidi con il tuo cuore in realtà è Dio”, ha scritto Lutero. Ciò si può
riconoscere, nel modo meno facile da simulare, negli atti e nel compimento della
propria esistenza. La nostra fede è ciò secondo cui viviamo, ciò a cui in ultima
istanza ci appigliamo, ciò che speriamo davvero nelle nostre decisioni e azioni
quotidiane.
Il principio centrale della cura d’anime cristiana è il concetto di Dio proprio di
Gesù. Egli critica tutte le divinità che opprimono la vita dell’essere umano. Com’è
noto ne esistono molte, in ogni esistenza. Competenza nella cura d’anime significa
porre interrogativi su Dio e sugli dèi della vita propria e altrui e saper collocare le
proprie divinità nell’orizzonte del Dio di Gesù. Le divinità della nostra esistenza
rendono schiavi o rendono davvero liberi per una vita coraggiosa e ricca di
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esperienze, fedele (a se stessi e agli altri), una vita dalle relazioni intense, intrepida
e avventurosa, ma soprattutto sincera e costruttiva per gli altri?
La modernità avanzata ha sottratto alla chiesa quasi tutto il potere sociale religioso.
L’abuso sessuale nella pastorale se lo riprende in un’altra maniera, con altri mezzi e
nel luogo più intimo immaginabile –quali che siano i motivi individuali di tutto ciò
(cosa che non esclude, anzi include, che, anche e appunto nell’epoca di un potere religioso ancora esistente e
nei luoghi della sua concentrazione pedagogica – per esempio in istituti educativi – nelle condizioni di allora si
giungesse a soprusi del genere).
L’abuso sessuale ritratta ciò che la chiesa era finalmente riuscita a realizzare in
tutte le sue conseguenze dopo mille anni di “formazione costantiniana” e quindi di
potere sociale sanzionatore: che la cura delle anime è il libero incoraggiamento,
l’aiuto diaconale del Dio di Gesù in parole e opere, altruista e senza secondi fini,
semplicemente perché così vuole la volontà di salvezza universale del Signore.
La cura d’anime è l’affrancamento dalle false divinità dell’esistenza, mentre
l’abuso sessuale rafforza proprio queste false divinità: prima di tutto, brutalmente,
quella del potere. L’abuso sessuale nella pastorale parla con i fatti di un dio
dell’intimità estorta, ottenuta con l’inganno, un dio che confonde l’intimità indotta
dal potere con l’amore, di un dio quindi, in senso stretto, perverso. Nella chiesa
questo dio della violenza (sotterranea o manifesta) e del potere è sempre tornato a
esistere, per quanto Gesù lo abbia in realtà bandito una volta per tutte. La cura
d’anime è invece l’affrancamento dalle false divinità dell’esistenza, cioè da quelle
piccole e miserabili idolatrie di una vita troppo comoda e compiaciuta. Dio infatti
ci incita a condurre questa vita unica che ci è stata data con tutta la serietà e
l’intensità possibili, rischiando per lui e per gli altri, nella certezza di fede che alla
fine non periremo mai, né nel gelo del cosmo muto né in quello dell’odio umano.
Quando compiono abusi sui bambini i pastori d’anime annunciano un dio della
pusillanimità e del gap di potere nelle relazioni intime tra esseri umani, annunciano
un dio che spedisce i bambini nel gelo di un’intimità simulata e di esperienze
difficili o impossibili da rielaborare.
La cura d’anime è l’affrancamento dalle divinità che accecano e inducono a una
dispotica sopravvalutazione di sé, perché noi non siamo gli dèi della nostra
esistenza e neppure i suoi artefici e tutto ciò che davvero è importante per noi, dalla
nostra mera esistenza all’amore di una persona, è puro dono, in fondo immeritato.
Quando compiono abusi sui bambini i pastori d’anime annunciano un dio che
permette tutto alle autorità, persino ciò che è vietato, che fa dipendere l’amore e la
dedizione dall’arrendevolezza e dal compimento di un sacrificio. Quando
compiono abusi sui bambini i pastori d’anime rappresentano il dio seduttore del
dispotismo privo di scrupoli.
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La cura d’anime è l’affrancamento dalle divinità, nocive alla salute, della carenza
di fiducia in se stessi e di autodeterminazione: dal lutto senza fine, da rapporti
familiari e interpersonali oppressivi, dalle dipendenze incatenanti. Siamo infatti i
figli prediletti di Dio, il quale non vuole la nostra infelicità, bensì la nostra vita in
pienezza, persino e appunto nella nostra colpevolezza, del tutto inevitabile. Quando
compiono abusi sui bambini i pastori d’anime annunciano un dio di dipendenze
oppressive nel luogo più intimo, un dio che troppo spesso rende davvero malati,
che distrugge la fiducia in sé e l’autonomia e, anziché prendere su di sé la colpa,
carica noi di sensi di colpa.
La cura d’anime è l’affrancamento dalle varie divinità della repressione umana e
religiosa. Il Dio di Gesù, infatti, è un Dio di libertà e di lotta per gli esclusi, un Dio
che offre tutta la sua ovvia solidarietà a coloro che davvero si trovano al di fuori da
ogni modello di riconoscimento: a quelli dalla “dubbia moralità”, ai malati
inguaribili, agli impuri (pur con tutto l’impegno diaconale della chiesa nel corso della sua storia, c’è
una storia della colpevolezza che la chiesa deve affrontare qui, in particolare nei confronti di coloro che
“deviano” dal punto di vista religioso e morale. Anche qui vale il principio: senza riconoscere la propria colpa
non è possibile essere resi liberi per l’azione!), ai bambini, a chi è incapace di rendimento.
Quando compiono abusi sui bambini i pastori d’anime annunciano un dio che è, in
modo stridente, il contrario di tutto ciò: non un Dio di libertà, ma un dio del potere,
non un Dio della lotta per gli esclusi, ma un dio che produce esclusi, non un Dio
dei bambini, ma un dio degli adulti.
Da Gesù sappiamo soprattutto una cosa su Dio: egli ha identificato in maniera
radicale l’amore per lui, il nostro Dio, con quello per il nostro prossimo. “se uno
dicesse ‘io amo Dio’ e odiasse il proprio fratello, è un mentitore” (1Gv.4,20). Tutte
le divinità che asserviscono e schiavizzano gli esseri umani, che li privano della
libertà e della salute, sono idoli: potenti ed efficaci, ma la cura d’anime cristiana
intraprende una lotta contro di loro. Quando i pastori d’anime compiono abusi sui
bambini, questa lotta è già quasi perduta.
Gli idoli sono dittatori sulla nostra vita, sia che funzionino nell’interesse del potere
statale o religioso, sia che lo facciano nell’interesse di una “bella vita” del singolo,
della sua compiaciuta comodità, della sua esistenza soddisfatta. I pastori d’anime
cristiani devono contrapporvi un Dio di cui fondamentalmente non si può disporre,
che rimane di per sé un mistero: il mistero della nostra vita, che va infinitamente al
di là di noi. La cura d’anime è la presentazione di questo Dio nelle realtà concrete
di biografie individuali. L’abuso sessuale da parte dei pastori d’anime, però, è un
rinnegamento attivo nelle realtà concrete di biografie individuali – e questo nel
contesto della loro asserita testimonianza.
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Il Dio di Gesù è la grande speranza nella vita di ogni essere umano, perché insegna
a vedere il mondo con occhi diversi. Egli critica gli idoli ed è solidale con i
sofferenti. Non è disponibile nelle mani di nessuno. Non è un Dio del potere, bensì
della solidarietà con chi è impotente (cf. H.-J.Sander, Nicht Verleugnen. Die befremdende
Ohnmacht Jesu, 2001[…]).
L’abuso sessuale nel contesto della pastorale è il contrario: è parte della sconfitta di
Dio nella chiesa di Dio.
(traduzione dal tedesco di Anna Bologna)
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