Sintesi del n. 3 di Concilium 2004 nei punti significativi
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Sintesi del n. 3 di Concilium 2004 nei punti significativi
Sintesi del n. 3 di Concilium 2004 nei punti significativi (pedofilia del clero) […] Che cos’è la violenza sessuale? (dal capitolo a cura di Nancy Nason Clarck e Linette Ruff ) Fredericton/N.B. (Canada) […] Pag.35 – Dati sugli abusi sessuali Nel corso di una giornata, in media, circa 234.000 persone condannate per reati sessuali si trovano sotto l’affidamento, la custodia o il controllo di istituti di correzione. Quasi il 60% di essi vivono reinseriti nella società civile, sotto sorveglianza, con la condizionale. Secondo il National Child Abuse and Neglect Data System, si stima che nei casi di abusi su minori o di incuria degli stessi, confermati o provati nel corso del 2001, il 9,6% implicava abusi sessuali. Questa proporzione si traduce in una cifra pari quasi a 1,2 vittime di abusi sessuali per ogni 1000 minori. Uno studio condotto dal National Institute of Justice ha appurato che il 13% delle adolescenti femmine e il 3,4% degli adolescenti maschi sono stati oggetto di abusi sessuali. (dati ricavati da fonti ufficiali del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti e da American Humane). Risultanza n.3. “L’indagine ha fornito le prove che la diffusione degli abusi sessuali sui minori era dovuta all’acquiescenza (acceptance) degli abusi da parte dell’istituzione [ecclesiastica] e a una massiccia e grave incapacità (failure) da parte dell’autorità [ecclesiastica].” (fonte: Ufficio del Procuratore generale – Commonwealth of Massachusetts, luglio 2003) […] pagg. 36 - 46 1 Rivelazioni, accuse e condanne per abusi sessuali su minori –negli Stati Uniti, in Canada e altrove- hanno radicalmente alterato anche la vita della comunità ecclesiale: il potere e il prestigio del ministero sacerdotale sono decaduti e l’immagine pubblica della chiesa cattolica romana contemporanea ne è uscita offuscata. Ben pochi –fra i sacerdoti o fra gli stessi parrocchiani- sono rimasti indifferenti alla recente attenzione che i media hanno riversato su ciò che alcuni sacerdoti traviati hanno fatto subire a dei minori dietro le porte di una chiesa, di un orfanotrofio, o di un centro giovanile. Il risultato è che le “vittime secondarie” sono innumerevoli: alcuni hanno lasciato per sempre la chiesa; altri se ne sono andati e poi sono ritornati, ma senza i loro figli; alcuni sono rimasti e hanno elaborato nel privato la loro sofferenza, mentre altri hanno esortato pubblicamente la chiesa a reagire con compassione verso le vittime e le loro famiglie. Su una cosa sono tutti d’accordo: non si possono far tornare indietro le lancette dell’orologio; ciò che in passato rimaneva nascosto, ora è diventato di dominio pubblico. […] La conseguenza è che la violenza sessuale perpetrata da uomini che hanno fatto voto di povertà e di obbedienza- per non parlare del celibato!- ha creato pubblicamente un grande scalpore, sia all’interno della chiesa sia all’esterno delle sue mura: quanto all’indignazione, non vi è differenza tra credenti e non credenti. […] Una delle questioni centrali, nei casi di abuso, è ancora e sempre il tradimento, il sentimento di fiducia che è stato infranto: ed è quasi impossibile esagerare nel descrivere fino a qual punto le vittime di sentano vulnerabili. Il rapporto di fiducia ha offerto al colpevole dell’abuso l’opportunità di approfittare della vittima, e dall’altro lato ha anche aumentato le probabilità che quella mantenga il silenzio sull’abuso subito. […] [In Child sexual abuse] Finkelhor sostiene che si devono verificare quattro condizioni perché accada un abuso sessuale: i fattori relativi alla motivazione per cui il colpevole abusa sessualmente del minore; i fattori relativi al superamento nel colpevole delle inibizioni interiori all’abuso sessuale; i fattori che portano il colpevole a superare le inibizioni esterne; i fattori che portano chi abusa a credere che il minore offrirà scarsa resistenza. L’interazione tra fattori interni ed esterni indica la natura multidisciplinare di una soluzione che pretenda di essere efficace nei riguardi di un problema sociale così rilevante. Come campo di studio, gli abusi sessuali –includendo sia i colpevoli sia le vittime, come pure le misure per combatterne la frequenza e la gravità- costituiscono un settore di ricerca in crescente espansione. Il problema ha un interesse interdisciplinare, il che significa che vi sono vari “gruppi di interesse che competono tra loro per affermare e spiegare il fenomeno dei colpevoli di abusi sessuali” (T.Thomas, Sex Crime. Sex Offending and Society, 2000) e che 2 prescrivono interventi appropriati, sia per il colpevole che per la vittima. Le spiegazioni variano in base a ciò che è sostenuto dalla stampa, dal pubblico e dai politici, o in base a quello che la società considera come “specialisti” in materia di sesso e di abusi: terapisti, medici, studiosi e attivisti. Le spiegazioni vanno dalla visione semplicistica del “mostro”, a idee sull’infanzia delle vittime che, una volta adulte, diventeranno a loro volta colpevoli di abusi sessuali. Certo, una sola disciplina non può essere incaricata di tenere conto di tutte le dinamiche che fanno insorgere l’abuso sessuale sui minori, né un gruppo di professionisti da solo può essere incaricato della soluzione del problema. Occorreranno risorse religiose e secolari, che lavorino di concerto tra loro per porre termine alla violenza sessuale sui minori, sia quando ne è colpevole un genitore, sia quando ne è colpevole un prete. E’ importante osservare che spesso l’impatto dell’abuso sessuale sul minore va oltre la vittima, e si estende ad altri membri della famiglia o a gruppi di amici. Quando l’abuso avviene all’interno dei confini di una comunità di fede, tra le vittime secondarie vi sono gli altri parrocchiani, le autorità ecclesiastiche e (forse) anche i seminaristi. Non è insolito sentirsi chiedere se la violenza sessuale sia un fenomeno recente, un prodotto, per così dire, della modernità. La risposta a questa domanda è no: il fatto nuovo è che le rivelazioni non vengono immediatamente cestinate e che le azioni dei colpevoli non rimangono semplicemente nascoste all’opinione pubblica. Jenkins afferma che gli abusi sessuali compiuti da preti della chiesa cattolica romana hanno “causato un danno senza paragoni al prestigio e alla credibilità” della chiesa, ai suoi responsabili e infine ai suoi preti. Almeno sino alla fine degli anni Ottanta le autorità cattoliche hanno adottato un approccio che privilegiava il mantenimento del segreto sugli abusi, mancando –a quanto pare- di comprensione e di compassione per le vittime e le loro famiglie. (Cf. Jenkins, Creating a Culture of Clergy Deviance). Le colpe venivano semplicemente rimosse (e poi cancellate dalla memoria dell’organizzazione) e i preti colpevoli erano trasferiti a quello che sembrava essere un ambiente nel quale rappresentare Dio al popolo e il popolo agli occhi di Dio implicasse meno tentazioni. Come afferma correttamente Jenkins, “questo approccio ottimistico era infondato e alcuni preti l’hanno eluso, diventando molestatori seriali di proporzioni epiche”. A essere franchi, la condotta sessualmente scorretta dei preti non è un’invenzione recente. Il sociologo Anson Shupe afferma invece che gli storici dell’Europa medievale avevano già osservato che il terreno religioso era molto fertile riguardo al potenziale di violazioni sessuali nel quadro di rapporti di potere ingiusti che si manifestavano all’interno della chiesa cattolica romana. Risalendo alla storia degli abusi sessuali sui minori al di là dei confini della chiesa cristiana si scopre che la violenza dello stupro è un dato comune lungo tutta la storia, così come lo sono stati i vari tentativi di mettere sotto processo i colpevoli di tali abusi. Ciò che appare particolarmente brutale è l’abuso 3 del potere religioso. […] In definitiva, quelli che hanno più fiducia nei loro leader, che li mettono su un piedestallo, sono più vulnerabili degli altri allo sfruttamento e agli abusi, di carattere sessuale o altro. In tutto il mondo la molestia a danno dei minori è uno dei crimini più odiosi contemplati nel sistema penale. L’autrice di From Victim to Offender sostiene che molte vittime diventano a loro volta autori di abusi, ripetendo il comportamento che hanno odiato quando si erano trovati nel ruolo di vittima. Basandosi sui dati raccolti tra uomini rinchiusi in carcere o in stato di libertà, Briggs rivela che, tranne uno, tutti i partecipanti alla sua ricerca, fra coloro che erano stati condannati per molestia a danno dei minori, hanno affermato che nella loro infanzia avevano subito prolungati periodi di violenza sessuale da parte di almeno un adulto e che prima di quella inchiesta non avevano mai pensato di definire le loro esperienze in termini di abuso sessuale. La storia si ripete, il ciclo si perpetua. E’ questa una delle principali ragioni per cui è così importante, non soltanto per la salvaguardia degli individui ma anche per la difesa della società in senso più ampio, che la reazione agli abusi sessuali su minori sia rapida. I colpevoli devono essere denunciati all’autorità giudiziaria e, in modo altrettanto certo, la responsabilità verso le vittime e verso le loro famiglie richiede un intervento terapeutico. Altrimenti è molto probabile che lo schema degli abusi torni a ripetersi. […] Dato che una delle prime domande –anzi, la domanda- che un bambino o un adolescente si pone dopo una violenza sessuale è “perché?”, è importante non giustificare mai chi abusa e ignorare la responsabilità personale di colui che si è macchiato dei delitti commessi. […] Le chiese devono essere non soltanto spazi sacri, ma luoghi sicuri. […] Nessun credente cristiano –laico o ordinato che sia- è rimasto al riparo rispetto alla forza e all’impatto degli abusi sessuali compiuti da responsabili religiosi, rivelati recentemente dai media. Alcuni pensano che i tentativi di mettere a tacere le voci su tali abusi abbiano creato uno scandalo ancora più grande delle violazioni sessuali compiute da quei preti, per quanto tali atti siano detestabili e del tutto ingiustificabili. Mantenere il segreto è, sul lungo periodo, più dannoso dell’episodio originario che ha fatto nascere la convinzione di dover mantenere il silenzio (Benyei, Understandig Clergy Misconduct in religious Systems). Tutti i credenti –ma specialmente coloro che sono investiti di incarichi ufficiali nella guida della chiesahanno un ruolo preciso nel far cessare qualsiasi tentativo d’incoraggiare un “sacro silenzio” per quanto riguarda l’interfaccia tra religione e violenza. (traduzione dall’inglese di Maria Sbaffi Girardet) 4 Il fattore razza/etnia nell’abuso sessuale di ecclesiastici su bambini (dal capitolo a cura di Tracy T. West) – Madison/ NJ (USA) Pagg.59-63 Quando avviene un abuso sessuale da parte di membri del clero ha luogo una violazione della psiche. L’identità spirituale ed emotiva delle vittime sopravvissute all’abuso viene colpita da colui che ha perpetrato l’abuso, il quale, se è un ecclesiastico, può fare ricorso a mezzi –fra gli altri- quali l’intimidazione, la vergogna, l’isolamento, il terrore, le credenze o la Scrittura. Queste dinamiche emotive e spirituali dell’abuso sessuale da parte di membri del clero non sono solo interpersonali (relative alle due persone coinvolte); includono anche dimensioni sociali che contribuiscono a perpetuare l’impatto distruttivo dell’abuso in modi fondamentali. Le dinamiche connesse al genere, razza/etnia, alla sessualità, alla classe, permeano tanto le interazioni interpersonali coinvolte, quanto gli effetti di lungo termine dell’abuso sessuale di un ecclesiastico sulle vittime sopravvissute. Queste dinamiche sociali interconnesse rappresentano un fattore delle manipolazioni da parte dell’ecclesiastico che ha perpetrato la violenza, e delle risposte della vittima sopravvissuta, ma variano sia il modo esatto sia il grado in cui ciascuna ha un ruolo nella situazione specifica dell’abuso. In aggiunta a questo, i significati sociali connessi al genere, alla razza/etnia, alla sessualità e alla classe sociale condizionano in maniera fondamentale il contesto istituzionale religioso dell’abuso sessuale e la modalità secondo cui viene interpretato il suo significato. A seguito di un abuso sessuale da parte di un ecclesiastico il trauma della vittima sopravvissuta viene spesso rinforzato dalla risposta data dalla comunità (per esempio i membri della stessa famiglia, i responsabili ecclesiali, il sistema di giustizia penale). Perciò l’esperienza di intimidazione, vergogna, isolamento, terrore, credenza o l’uso della Scrittura nell’abuso sessuale da parte di ecclesiastici è sempre modellata da una combinazione di dinamiche sia emotive che spirituali, sia sociali. […] Sfortunatamente c’è una tendenza generale a separare l’impatto psicologico dell’abuso intimo dal suo impatto sociale. Nel suo studio sulla cattiva condotta sessuale dei preti cattolici, lo psichiatra Len Sperry afferma che questa condotta sessuale può venir concettualizzata come “un disordine psichiatrico, un crimine o un atto immorale” (Sex, Priestly Ministry, and Church, Liturgical Press, Collegeville/Mn.2003, 106) . Secondo Sperry, trattare l’abuso sessuale da parte di ecclesiastici come disordine psichiatrico mantiene un punto di vista personale, mentre trattarlo come crimine e atto immorale indica un punto di vista comunitario. Egli giustamente crede che tanto l’impatto personale quanto quello comunitario dovrebbero essere seguiti. Comunque per concettualizzare utilmente e trattare la cattiva condotta sessuale di ecclesiastici credo sia necessario andare al di là di questo stadio. Un approccio che accetta una distinzione tra l’impatto personale e quello comunitario è insufficiente e 5 fuorviante. La nostra concettualizzazione del torto morale deve essere modificata per includere a pieno titolo le conseguenze distruttive dell’abuso definite come personali (le dimensioni psicologica e spirituale). E quelle conseguenze “personali” devono venir comprese come completamente legate alle dinamiche comunitarie. La nostra concettualizzazione primaria del problema dell’abuso sessuale da parte di membri del clero deve essere quindi mutata, così che si possa andare al di là del punto di vista esclusivamente individualistico, sul disordine psichiatrico, sul crimine o sull’atto immorale dell’ecclesiastico che ha commesso l’abuso, per riconoscervi la collusione istituzionale e comunitaria, che costituisce un più ampio, sistematico problema di danno morale. Riconoscere come l’angoscia della vittima sopravvissuta implichi una dimensione personale che non può venir separata dagli interessi sociali (e istituzionali) fornisce un punto di partenza. Accettare una falsa dicotomia che divida il piano personale da quello sociale (e istituzionale) maschera dinamiche cruciali dell’abuso. Per esempio, prestando attenzione a questioni di genere, rifiutiamo di ignorare che la mascolinità è una delle caratteristiche più costanti degli ecclesiastici che hanno perpetrato violenza, in gruppi di violentatori sia cattolici sia protestanti, ed è un dato comune nelle esperienze di vittime sopravvissute tanto di sesso maschile quanto di sesso femminile. Perciò potremmo chiederci che tipo di potere istituzionale abbia la mascolinità nella chiesa, dal momento che la mascolinità stessa potrebbe intensificare o rinforzare l’intimidazione, per esempio, della persona che subisce l’abuso. Quali significati sociali della mascolinità connessi a un ecclesiastico che ha commesso abusi contribuiscono all’angoscia della persona che ne è stata vittima? Il tipo di potere riconosciuto alla mascolinità nella chiesa (rappresentata da Dio e dal clero maschile) condiziona il modo in cui chi commette l’abuso riesce ad ottenere una via d’accesso spirituale ed emotiva nella vittima sopravvissuta; condiziona il modo, inoltre, in cui la vittima sopravvissuta si sente in grado/nella posizione di poter reagire a chi commette l’abuso; e condiziona l’impatto dell’abuso, quanto alla modalità secondo la quale esso è interpretato dalla persona che lo subisce, dalla chiesa e dal più ampio contesto della comunità. La chiave sta quindi nell’esplorare il significato del genere all’interno dell’impatto dell’abuso sessuale da parte di membri del clero, in parte a motivo della centralità del genere nel sistema di autorità della chiesa e nella sua comprensione del potere. Questo è ovvio nell’insistenza cattolico-romana e ortodossa sulla necessità teologica di un clero esclusivamente maschile. Appare nell’enfasi sul riconoscimento di Dio come Padre, un dato questo che è primario nella comprensione trinitaria di Dio da parte della cristianità, e che è tenuto fermo in tutte le tradizioni della chiesa. […] Chiedersi i significati della mascolinità che potrebbero aver parte nell’angoscia delle vittime sopravvissute dell’abuso sessuale da parte di ecclesiastici significa esplorare la colpevolezza istituzionale (e sociale), 6 significa domandarsi come la comprensione profondamente radicata dell’autorità morale della chiesa sia implicata nell’abuso. In aggiunta a questo, le questioni razza/etnia non devono venir ignorate. In particolare, sono vitali per qualsiasi discussione sull’abuso sessuale da parte di ecclesiastici commesso in specie da preti cattolici negli Stati Uniti. Come ha scritto la psicologa Nanette de Fuentes, gli oltre 61 milioni di membri della chiesa cattolica negli Stati Uniti creano un ricco mosaico di differenti retroterra razziali, etnici e socio-economici […]; per esempio, l’arcidiocesi di Los Angeles, una delle maggiori della nazione, dichiara di celebrare la messa in ben trentasette lingue […]; non è inusuale per una parrocchia ispanica o afroamericana avere preti residenti che sono Irlandesi, Filippini o Vietnamiti. Comunque la questione e l’importanza della diversità, dell’etnicità e della razza nella letteratura critica sulle vittime sopravvissute all’abuso sessuale di membri del clero è stata quasi interamente trascurata […] (N. De Fuentes, Hear our Cries –1999) […] Inoltre, nella società statunitense le dinamiche razziali sono sature di questioni di potere, soprattutto istituzionale. E’ necessaria una maggiore ricerca su come, per esempio, la mascolinità bianca di chi perpetra l’abuso sia parte dell’intimidazione che egli utilizza ai danni della vittima sopravvissuta, o su come la risposta dei membri della sua chiesa alle denunce rivoltegli sia modellata dalla mascolinità ispanica di un violentatore e la presenza intimidatoria, ineludibile, di pregiudizi sociali sulla superiorità bianca. I modi complessi in cui la mascolinità viene strumentalizzata aiutano a fornire importanti informazioni sull’impatto dell’abuso su coloro che ne sono toccati direttamente, e allo stesso modo su come il suo significato può essere interpretato. Nei notiziari dedicati all’abuso sessuale su bambini da parte di ecclesiastici cattolici si sono già avute alcune discussioni di genere, connesse a questioni quali: perché più uomini che donne si sono esposti alla denuncia di abusi avvenuti quando erano bambini o adolescenti; se i ragazzi siano più facili obiettivi dell’abuso per i preti rispetto alle ragazze; o se i ragazzi sono più spesso scelti da chi perpetra ripetutamente l’abuso rispetto alle ragazze per il fatto che questi potrebbe essere un maschio omosessuale (si veda ad esempio S. Pfeiffer, Women Face Stigma of Clergy Abuse, Many Are Reluctant To Come Forward, in Boston Globe del 27 dicembre 2002 […]) . Questo genere di inchiesta consiste prevalentemente in una ricerca di caratteristiche comuni e di tendenze di genere. Prestare attenzione al ruolo del genere nell’intensificarsi dell’angoscia nella vittima sopravvissuta ci spinge invece a ricercare più precisamente che cosa è moralmente sbagliato nell’abuso da parte di membri del clero. Ci porta ad affrontare la questione di come il genere dovrebbe esercitare una funzione istituzionale (e sociale) sì da non essere un elemento che favorisce la reiterazione dell’abuso. 7 Come possono le dinamiche razziali/etniche presenti, quando emergono nelle testimonianze sugli abusi sessuali commessi da ecclesiastici, contribuire ad alimentare gli abusi? Nei notiziari dei mass-media americani, l’identità razziale/etnica non viene generalmente menzionata se le persone coinvolte sono bianche. (La maggior parte dei giornalisti credono che si debba identificare la razza dei soggetti dei loro resoconti solo quando è rilevante. Ma essi vedono l’essere bianco come identità “normale” intrinsecamente meno rilevante (è la notizia meno interessante) dell’identificazione di altri (di altra razza) che figurano nei resoconti. Perciò il privilegiare l’essere bianco come norma tende ad essere mantenuto). Comunque, persino l’assenza di un’identificazione razziale per le vittime sopravvissute bianche, per chi ha perpetrato l’abuso o per le comunità ecclesiali, ha un significato nelle testimonianze sugli abusi sessuali da parte di ecclesiastici: riflette il privilegio dell’essere bianchi nella società statunitense, il privilegio cioè di non dover pensare a implicazioni razziali. Ma per le vittime sopravvissute principali (le persone abusate) e per quelle secondarie (l’incarico pastorale e/o la comunità ecclesiale di chi ha commesso l’abuso) che siano bianche, potrebbero forse le aspettative di un privilegio o di un diritto –che sono tanto normalizzate da essere raramente o mai riconosciute o chiamate in causa- intensificare sentimenti di devastazione, confusione, vergogna o demoralizzazione nell’essere vittime di fidati ecclesiastici bianchi? Come ho accennato sopra, la mascolinità bianca del chierico che ha commesso l’abuso potrebbe risultare essenziale in ordine alla fiducia posta nella sua autorità e quindi essere parte del suo arsenale di potere socio-religioso per esercitare intimidazione e provocare sentimenti di impotenza in coloro che ne sono vittime. Queste dinamiche emotive, spirituali e sociali interconnesse nei casi di abuso sessuale da parte di ecclesiastici meritano uno studio molto più approfondito. […] pagg.69-73 Le distruttive dinamiche psico-sociali che fanno parte dei casi di abuso sessuale da parte di ecclesiastici e l’angoscia sofferta da chi subisce violenza sono riprodotte nelle risposte date dalla comunità. Tanto quanto in altre forme di stupro e di abuso sessuale, nell’abuso sessuale da parte di ecclesiastici la vittimizzazione di persone di genere femminile ha fatto scattare discussioni su diversi gradi di vittimizzazione. Forse alcuni casi di abuso sessuale da parte di ecclesiastici sono moralmente peggiori di altri perché certe vittime sopravvissute sono più innocenti di altre? Alcuni ministri della chiesa vedono l’abuso su persone di genere femminile come una minore depravazione morale. Il cardinale di Chicago, Francis George, commentò che “c’è una differenza fra un mostro immorale come Geoghan che abusa di bambini piccoli e lo fa in maniera seriale, e chi, forse sotto l’effetto dell’alcol, compie dei gesti con una giovane di diciassette o sedici anni che 8 ricambia il suo affetto”. (A. Cooperman, “One Strike” Plan for Ousting Priests Has Catholic Divided, (John Geoghan è stato un violentatore protetto dalla chiesa mentre ha abusato di molti bambini nell’arcidiocesi di Boston). Analogamente, prima delle sue dimissioni, il vescovo Bernard Law ha commentato, durante una deposizione in un procedimento contro l’arcidiocesi di Boston, che “vi era una ‘differenza qualitativa’ fra l’abuso sessuale da parte di un membro del clero commesso su un minore e quello commesso su una donna. Gli avvocati di Law hanno interrotto il discorso del suo assistito prima che questi potesse spiegare la differenza …” (Fonte: Boston Globe del 15 agosto 2002). Da parte di un ministro della chiesa affermazioni come queste, che stabiliscono una gerarchia morale per la valutazione dell’abuso sessuale da parte dei membri del clero, secondo cui solo ragazzini sotto i dodici anni sono definiti come veramente innocenti, riproducono su scala istituzionale il comportamento traumatico di chi ha commesso l’abuso; utilizzano il genere come un modo per svalutare moralmente il merito di alcune vittime sopravvissute, abusando della loro vulnerabilità (il loro essere vittime del clero), sfruttando la loro mancanza di potere, mantenendo in modo sadico un controllo e un’autorità che fa gli interessi di chi è il più forte dal punto di vista istituzionale. Persino quando delle donne denunciano abusi sessuali avvenuti quando erano minori, esse non vengono necessariamente prese sul serio. […] Al tempo stesso, le diagnosi psicologiche sono state utilizzate per proteggere e reinserire nel loro ufficio gli ecclesiastici che avevano perpetrato abusi, mettendo deliberatamente a rischio quanti si trovavano sotto la loro autorità pastorale. […] Come ha scritto lo psichiatra Richard Sipe, “la psichiatria e la psicologia possono essere addotte a difesa di un sistema clericale. La chiesa non porterà frutto facendo appello a queste e altre professioni perché la aiutino ad eludere istanze fondamentali che consentono la tolleranza e la reiterazione degli abusi” (A.R.Sipe. The problem of Prevention in Clergy Sexual Abuse). Quando i fattori psicosociali che sono complici e alimentano l’abuso vengono svelati, vi sono possibilità emancipatorie per le vittime sopravvissute agli abusi sessuali perpetrati da parte di membri del clero. Le vittime sopravvissute potrebbero essere in grado di intravedere alcuni dei modi in cui tali fattori, durante e dopo l’abuso sessuale, li “predispongono” all’angoscia. L’analisi di questo processo coinvolge tutti noi (la società nel suo senso più ampio) nell’abuso sessuale. La nostra percezione egemonica del genere e della razza/etnia, fra altre categorie sociali che sono istituzionalmente sostenute e rese comuni nella pratica, aiuta a reiterare l’abuso sessuale da parte di ecclesiastici, intensificando il trauma delle vittime sopravvissute. Se quel trauma deve essere alleviato, e ulteriori traumi evitati, biasimare solo casi individuali di chierici “malati”, capri espiatori omofobici, appelli al perdono cristiano e all’unità razziale nera, ignorare le donne o biasimare le donne vittime sopravvissute, ogni attaccamento dell’autorità morale alla mascolinità –sono tutti esempi di una corruzione sistemica che dovrà venir rigettata nelle risposte istituzionali cristiane date all’abuso sessuale da parte degli in Washington Post del 19 maggio 2002 […]) 9 ecclesiastici. Un problema alimentato socialmente e istituzionalmente come l’abuso sessuale da parte di membri del clero può essere disinnescato socialmente e istituzionalmente. (traduzione dall’inglese di Gianmaria Zamagni) Le teologie operative del sacerdozio hanno contribuito agli abusi su minori? (dal capitolo a cura di Eamonn Conway – Limerick – Irlanda) (avvertenza: a causa della loro ponderosità, nella trascrizione sono state omesse la maggior parte delle note bibliografiche a margine) pagg.101-114 e 117-120 Introduzione Nel presente studio si esprime la convinzione che per affrontare in modo giusto e responsabile il problema degli abusi sessuali sui minori compiuti da membri del clero, si debbano prendere in considerazione le teologie operative eventualmente conniventi con tale comportamento o che lo abbiano facilitato. Si ritiene che abbiamo a che fare con due forme di comportamento violento: il primo è l’abuso sessuale su un minore commesso da singoli sacerdoti; il secondo è l’esperienza della violenza subita dalle vittime quando hanno riferito di tali abusi ai responsabili della chiesa. Le vittime hanno osservato che il secondo tipo di violenza e il sospetto, la sfiducia e persino l’ostilità che la denuncia di tale violenza suscitava nei rappresentanti della chiesa era talvolta più difficile da accettare dell’atto criminoso compiuto con l’abuso iniziale (Cf. H.Goode – H.McGee – C.O’Boyle, Time to Listen. Confronting Child Sexual Abuse by Clergy in Ireland, Dublin 2003 […]). Ambedue le forme di violenza hanno provocato interrogativi su costrutti, valori, credenze e identità operative, profondamente sentiti e dati per scontati in una comunità cristiana. In genere le autorità della chiesa ritengono che la responsabilità della crisi causata dagli abusi sessuali sui minori ricada interamente su un ridotto numero di singoli preti, e che la loro colpa sia il risultato di un fallimento e di un peccato personale. (Cf. Giovanni Paolo II, Lettera ai sacerdoti per il Giovedì Santo 2002 […]). In modo analogo, la leadership ecclesiastica tende a ritenere i singoli vescovi responsabili del fatto che i casi di abusi sessuali non siano stati affrontati in modo adeguato, anziché considerare la possibilità di un fallimento di carattere istituzionale. Psicologi e psicoterapeuti, tra cui Marie Keenan (Irlanda), Martin Kafka (Stati Uniti), Bill Marshall e Karl Hanson (Canada), sono convinti che negli abusi sessuali dei sacerdoti sui minori giochino particolari fattori legati al loro sviluppo e alla loro situazione, oltre ai fattori relativi alla socializzazione del clero. La loro ricerca clinica va presa in considerazione da un punto di vista teologico e strutturale. Sostenere tale necessità non vuol dire cercare di giustificare i singoli sacerdoti colpevoli di abuso, che rimangono comunque i responsabili ultimi del loro grave comportamento. Questo studio porrà al centro dell’attenzione le teologie 10 operative e le comprensioni del sacerdozio, e il loro possibile legame con gli abusi sessuali sui minori. Nondimeno, altre teologie operative meritano di essere prese in considerazione: per esempio, immagini di Dio e teologie della rivelazione che vi trovano il loro puntello, oltre ai modelli operativi di chiesa e alla loro influenza sull’esercizio del potere. E’ anche necessaria una riflessione sulla teologia operativa della sessualità, in modo particolare nella formazione del clero. Fattori specifici negli abusi sessuali del clero Dobbiamo essere cauti quando traiamo deduzioni dai dati statistici riguardanti la natura e l’estensione degli abusi sessuali sui minori. Buona parte, se non la maggioranza, degli abusi sessuali non viene denunciata. Anche quando si prendono in esame gli abusi sessuali che vengono riferiti, molti dati importanti ai fini della nostra indagine non sono stati ancora sufficientemente raccolti e analizzati. In generale si accetta il dato che la percentuale di responsabili di abusi fra il clero è minore della percentuale di colpevoli di abusi sessuali nella popolazione maschile adulta nel suo insieme (Cf. Th. G. Plante, A Perspective on Clergy Sexual Abuse, in San José Mercury News del 24 marzo 2002 […]); ne consegue che gli abusi sessuali sui minori non sono un problema che riguardi in primo luogo la chiesa. Nondimeno, bisogna prendere in considerazione un certo numero di elementi: il primo riguarda il profilo specifico del sacerdote responsabile degli abusi. Per esempio, spesso i sacerdoti responsabili degli abusi hanno in mente un immaginario rigido e negativo di Dio, prova di un rapporto con lui che si basa sulla paura e la colpa, anziché sull’amore incondizionato di Dio. In sé ciò non può essere peculiare dei sacerdoti responsabili di abusi; tuttavia costoro hanno seguito uno specifico programma di formazione teologica, sicché la presenza di un tipo di immaginario su Dio di questo genere solleva gravi interrogativi sulla natura e sul livello adeguato della formazione. Bisogna considerare anche il fatto che almeno per il 50% i preti responsabili di abusi sessuali sono stati essi stessi vittime di abusi sessuali, forse in misura maggiore di quanto non avvenga generalmente tra i colpevoli di tali reati (Plante afferma che il 70% dei sacerdoti hanno subito essi stessi violenza sessuale. […]). Quanti di questi uomini hanno avuto l’opportunità, durante la loro formazione iniziale e permanente, di affrontare l’esperienza della violenza subita? I sacerdoti responsabili di abusi tendono ad avere un quoziente d’intelligenza più alto di altri colpevoli di abusi sessuali, e una corrispondente forte tendenza a razionalizzare e intellettualizzare, ma dimostrano una minore capacità di esaminare sentimenti ed emozioni (Bryant, Psycological Treatment of Priest Sex Offender […]). I terapeuti notano anche la tendenza presente in costoro a vedere l’autorità come dominio e come potere di 11 controllo e ad avere gravi problemi psicologici irrisolti nei confronti del conflitto e dell’autorità. Gli abusi sessuali sono spesso una questione tanto di dominio e di potere quanto relativa alla sfera della sessualità. Il dominio che i responsabili di abusi sessuali esercitano sulle loro vittime può servire come compensazione per l’impotenza che essi provano in altri settori dell’esistenza. Gli aspetti della struttura e dell’organizzazione ecclesiastica che trasmettono e acuiscono un senso di impotenza nel clero meritano quindi di essere tenuti in considerazione come fattori situazionali che possono contribuire agli abusi sessuali sui minori. Secondo Connors, il 90% dei sacerdoti ha compiuto abusi sessuali su “adolescenti che non avevano messo in pericolo il loro sviluppo emotivo. In termini schiettamente psicodinamici, il responsabile dell’abuso era il più delle volte un adolescente emotivo che preferiva la compagnia e l’affetto di un adolescente cronologico”. Vi sono notevoli evidenze cliniche secondo le quali, a differenza dei colpevoli di abusi sessuali nella società in generale, la grande maggioranza dei sacerdoti che hanno compiuto abusi sessuali sui minori hanno come preferenza sessuale i ragazzi dell’età post-puberale. Ciò solleva il problema del rapporto tra abusi sessuali di minori da parte di sacerdoti e orientamento sessuale. Gli psicoterapeuti cominciano a notare che molti –forse la maggioranza- dei sacerdoti che abusano sessualmente di minori hanno orientamento omosessuale. Sarebbe infondato, sulla base di questa osservazione, dedurne un legame causale diretto tra l’orientamento omosessuale e la violenza sessuale, dato che anche coloro i quali hanno un orientamento eterosessuale abusano sessualmente di minori. Queste persone, siano esse di orientamento omosessuale o eterosessuale, compiono abusi sessuali perché non sono riuscite a sviluppare una integrazione matura, adulta e paritaria della loro sessualità. La constatazione che la maggioranza dei sacerdoti responsabili di abusi sessuali ha fondamentalmente un orientamento omosessuale merita comunque una pausa di riflessione. Se è chiaro che l’orientamento omosessuale non causa di per sé gli abusi sessuali sui minori ed è egualmente chiaro che non tutti i preti omosessuali compiono abusi sessuali, dobbiamo chiederci allora se vi è qualcosa nell’esperienza di vita di una parte dei sacerdoti omosessuali che li porta a tali abusi. I fattori situazionali sembrano essere l’obiettivo ovvio per l’indagine, e tale indagine deve anche prendere in considerazione in che modo questi fattori differiscano da quelli che influiscono nei membri del clero che hanno un orientamento eterosessuale e compiono abusi sessuali. Una domanda fondamentale è se l’insegnamento e la pratica pastorale delle chiese sulla omosessualità sia tale da inibire concretamente negli omosessuali, e forse in particolare in quelli che sono preti, la crescita verso la maturità sessuale e una integrazione corretta della propria sessualità nell’identità personale (vastissima bibliografia in note omesse). Se vi è poi un numero sproporzionatamente alto di chierici 12 che hanno orientamento omosessuale, dobbiamo allora chiederci anche perché è così, e valutarne l’impatto sulla vita e la missione della chiesa (Cf. Cozzens, The Changing Face of Priesthood). La realtà è che per decenni la sessualità è stata un argomento tabù nella formazione sia iniziale che permanente del clero. I problemi e gli stimoli sessuali venivano “spiritualizzati” o respinti nella clandestinità, e l’impegno al celibato è stato assunto da molti preti come una fuga dall’analisi della loro capacità di intimità, come una liberazione dal dover fare i conti con la sessualità in modo maturo. Per molti preti l’esperienza del ministero continua a essere caratterizzata dall’isolamento; è una esperienza in cui si porta il peso di attese irrealistiche, vedendosi affidati tanti ruoli esigenti che difficilmente possono essere sostenuti in modo positivo o aiutare forme positive di responsabilità. Quali presupposti teologici, profondamente sentiti e dati per scontati, stanno alla base di questa particolare struttura ed esperienza di ministero? Li prenderemo in esame tra poco, ma prima di farlo dobbiamo ricordare che le vittime hanno sperimentato due tipi di violenza, e finora abbiamo fatto allusione soltanto allo specifico degli abusi sessuali. Anche gli abusi dell’istituzione, con la sua incapacità di gestire i problemi, hanno bisogno di una riflessione teologica. La reazione e la gestione del problema da parte della chiesa La recente ricerca condotta in Irlanda sugli abusi sessuali di sacerdoti sui minori, commissionata dalla Conferenza episcopale irlandese, ha concluso che: “La risposta data a coloro che hanno subito abusi sessuali da parte di personale ecclesiastico è stata caratterizzata da una mancanza di coinvolgimento, di comunicazione, di sensibilità e di compassione. L’impressione generale era che il personale ecclesiastico fosse soprattutto preoccupato di problemi giuridici…” (Goode- Mc Gee – O’ Boyle, Time to Listen, cit., 141). Vi è qui l’eco delle conclusioni dell’Ufficio del Procuratore generale del Commonwealth del Massachusetts riguardo agli abusi sessuali sui minori della diocesi di Boston. Il rapporto notava “una riluttanza dell’istituzione ad affrontare in modo adeguato il problema” degli abusi sessuali sui minori e notava “le scelte dell’istituzione hanno consentito di fatto che gli abusi continuassero”. Ma il rapporto di Boston è anche più critico. Vi si parla di: - “Sistematici abusi sessuali sui minori” consentiti da una ‘cultura’ dell’accettazione degli abusi sessuali sui minori all’interno dell’arcidiocesi”. 13 - “Diffusione degli abusi sessuali sui minori dovuta all’acquiescenza da parte dell’istituzione e a una massiccia e grave incapacità da parte dell’autorità ecclesiastica”. Qualora si ignorassero le rivelazioni di questi e di altri rapporti, essi colpirebbero al cuore la missione della chiesa al servizio della fede. Un impegno responsabile nei riguardi di queste rivelazioni implica che si prenda in considerazione la cultura della gestione e della direzione operativa nella chiesa e delle teologie che la sottendono. Non basta semplicemente cambiare il personale (i vescovi), come è accaduto in alcune delle diocesi dove la cattiva gestione dei casi di abusi sessuali è stata fortemente pubblicizzata dai media. Passeremo ora a prendere in esame le teologie che nella chiesa possono essere in connivenza con un comportamento scorretto, o facilitarlo. L’attenzione si concentrerà, dati i limiti delle nostre presenti considerazioni, sulle teologie professate e operative del sacerdozio. Due comprensioni dell’ufficio sacerdotale Possiamo indicare due concezioni, correlate ma distinte, dell’ufficio sacerdotale presenti nella chiesa. Da un lato si mette l’accento sul sacerdozio in quanto esso rappresenta Gesù Cristo alla comunità cristiana. In questa concezione, che è prevalente, il sacerdote viene inteso come unica modalità di repraesentatio Christi, e la distinzione tra il prete e la comunità cristiana è considerata fondamentale per la chiesa. Un modello contrastante, che comincia riemergere al concilio Vaticano II, fa riferimento al prete come repraesentatio Ecclesiae. Qui l’accento è posto sul prete che rappresenta la chiesa, intesa come comunità cristiana sotto la guida dello Spirito Santo. In questo secondo modello si pone l’accento sulla unità, sull’appartenenza, prima che sulla distinzione. Il sacerdote è uno della e con la comunità, prima di porsi di fronte ad essa e servirla. Il suo ministero scaturisce dalla natura apostolica della chiesa, la cui responsabilità spetta in primo luogo a tutti i battezzati. Intendo ora delineare alcuni aspetti chiave di ambedue questi modelli. Nella parte finale di questo studio esamineremo le loro conseguenze nei riguardi degli abusi sessuali dei sacerdoti sui minori e della loro gestione da parte delle autorità ecclesiastiche. Il sacerdote come “repraesentatio Christi” 14 Un momento alto nello sviluppo dell’idea del sacerdozio come repraesentatio Christi è stato il concilio di Trento; contro i riformatori, Trento sottolineava la differenza essenziale tra sacerdote e fedeli. In questa concezione il sacerdote non è nella chiesa un mediatore secondo accanto a Cristo: egli è Cristo all’opera nell’edificazione della chiesa (per la descrizione dei due modelli, cf. P. Hünermann, Mit dem Volk Gottes unterweges. Eine geistliche Besinnung zur Teologie und Praxis des Kirchlichen Amtes, in Geist und Leben 54. [...]). Il sacerdote è unicamente inteso come alter Christus; egli agisce in persona Christi capitis. L’accento è posto più sulla distinzione che sull’unità tra il capo e il corpo della chiesa. L’insistenza sul celibato obbligatorio, oltre a un abito particolare, amplifica la separazione e il carattere peculiare dell’ufficio. Il sacerdote è un messo a parte, la sua vita stessa è un’offerta sacrificale per amore della chiesa. Per quanto riguarda la spiritualità del sacerdote, tale modello di sacerdozio ha trovato espressione in una preghiera di Lacordaire che è stata usata di frequente dai sacerdoti. Ci si aspettava che il sacerdote: - vivesse in mezzo al mondo senza desiderarne in alcun modo i piaceri; - fosse membro di ogni famiglia, pur non appartenendo a nessuna; condividesse tutte le sofferenze, penetrasse tutti i segreti, guarisse tutte le ferite; - andasse ogni giorno dagli uomini a Dio per offrirgli il loro omaggio e le loro suppliche: “… Oh Sacerdote di Gesù Cristo”. James Joyce ha colto bene come veniva percepito dai fedeli il sacerdote quale repraesentatio Cristi: Ricevere questa chiamata, Stephen […] è il più grande onore che Dio onnipotente può concedere a un uomo. Nessun re o imperatore sulla terra ha il potere del sacerdote di Dio […], il potere, l’autorità di far discendere il grande Dio del cielo sull’altare e prendere la forma del pane e del vino. Quale tremendo potere, Stephen! Il catechismo ufficiale del concilio di Trento parlava persino dei sacerdoti “non soltanto come angeli, ma addirittura dèi, avendo essi il potere di consacrare e offrire il corpo del Signore”. (Catechismo tridentino ad uso dei parroci, pubblicato da papa san Pio V, per decreto del concilio di Trento, parte III, cap.7, q.11). Il sacerdote come “repraesentatio Ecclesiae” Agostino scriveva: “Vobis enim sum episcopus, vobiscum sum christianus (Per voi infatti sono vescovo, con voi sono cristiano)” (Agostino D’Ippona –Sermo 340,1 ). Se il 15 modello del sacerdote come repraesentatio Christi mette l’accento sul “per voi”, il modello del sacerdozio come repraesentatio Ecclesiae mette l’accento sul “con voi”. Il sacerdote è innanzitutto essenzialmente “un uomo scelto tra gli uomini, un membro della chiesa, un cristiano” (K.Rahner). Secondo questo modello la fede della chiesa viene testimoniata in modo speciale dai primi apostoli, ma la chiesa non ha la sua origine negli apostoli, bensì in ciò a cui essi danno testimonianza sotto la guida dello Spirito. E’ la comunità cristiana, e non il sacerdote da solo, che è alter Christus . Il sacerdote come repraesentatio Ecclesiae raduna il popolo di Dio e presiede alla fede della chiesa. Abilita la predicazione del vangelo della comunità cristiana e la agevola. Il termine “presbitero” viene quindi considerato più appropriato di quello di “sacerdote”, usato nel Nuovo Testamento soltanto per i sacerdoti ebrei e per Cristo. In sintesi, possiamo dire che il prete che si vede come repraesentatio Christi si sentirà a casa propria in una concezione più cultuale del suo ufficio e in un linguaggio che parla di sacerdote-sacrificio-altare. Il prete che si comprende come repraesentatio Ecclesiae comprenderà il suo ruolo in modo più comunitario e preferirà un linguaggio che parla di presbitero-mensa-compagnia. In che modo queste teologie sono operative nella vita della chiesa? I risultati dell’inchiesta di Priester 2000 Una inchiesta su quasi tremila fra vescovi, preti e seminaristi in sedici diocesi e in cinque paesi europei, diretta da Paul Zulehner dell’Università di Vienna pochi anni fa [2001, in Germania, Croazia, Austria, Svizzera e Polonia], offre alcune percezioni dell’autocomprensione teologica del clero contemporaneo. In senso ampio, emergono dall’indagine quattro “tipi” di sacerdoti. L’”uomo di Cristo insensibile ai segni dei tempi” (der zeitlose Kleriker): comprende il suo ministero strettamente e unicamente come repraesentatio Christi; deriva la sua autorità da Cristo attraverso il vescovo, e non attraverso la comunità; è lontano dalla cultura contemporanea e non s’interessa dei “segni dei tempi”: il vangelo si predica a tempo e fuor di tempo; - considera il ministero principalmente come ministero sacramentale; comprende la tradizione in modo statico, come depositum fidei che egli deve servire e custodire; 16 - è interessato all’unità tra i sacerdoti, i vescovi e il papa; tranne che per i ritiri e la direzione spirituale, è restio a vedere il bisogno di una formazione permanente; - si trova a disagio di fronte ai cambiamenti ed evita i rischi; considera importanti l’abito clericale, i titoli e i simboli dell’ufficio. Zulehner caratterizza questo tipo come guardiano ansioso o sentinella ansiosa. Secondo questa inchiesta, tale tipo di sacerdote si trova più di frequente in posizioni di responsabilità nella chiesa cattolica. L’”uomo di Dio aperto ai segni dei tempi” (der zeitoffene Gottesmann): comprende il ministero sia come repraesentatio Christi che come repraesentatio Ecclesiae; - mette l’accento sul suo ruolo come ruolo profetico e dà voce specialmente ai senza voce nella società; - è interessato all’unità tra la gerarchia (in senso verticale), ma altrettanto all’unità tra i membri della comunità (a livello orizzontale); - dopo la celebrazione dell’eucaristia, ritiene che la funzione più importante del suo ministero sia la predicazione e l’offerta di consigli spirituali; vive nella tensione tra chiesa e mondo, tra sacro e profano e cerca di servire da ponte; - si trova a suo agio nel prendere le decisioni in modo condiviso; - è orientato più alla persona che al compito. I sacerdoti di questo tipo si trovano più di frequente a un livello medio nella gestione della chiesa. Sono spesso eletti in posti di rappresentanza dai confratelli sacerdoti perché sono costruttori di ponti: tra la chiesa e il mondo, tra repraesentatio Christi e repraesentatio Ecclesiae e così via. 17 “L’uomo di chiesa vicino ai segni dei tempi” (der zeitnahe Kirchenmann): comprende il ministero prima di tutto e principalmente come repraesentatio Christi; vede la sua vocazione come chiamata personale di Cristo e non ha necessariamente, o non desidera, uno stretto rapporto con la comunità parrocchiale; - vede la sua vocazione come professione e distingue accuratamente tra la sua vita privata e la sua vita pubblica; - è molto professionale nei suoi contatti con la gente; - è capace di adempiere con gioia ai vari ruoli nei quali il sacerdote viene a trovarsi, dal celebrante al preside di scuola; dà valore a una formazione permanente, per esempio in ciò che attiene ai mass media e alle comunicazioni, alla psicologia e all’economia, ma non necessariamente in teologia; - ascolta e consulta, ma prende le proprie decisioni. Questa categoria di sacerdoti si trova di frequente sia negli ambienti accademici sia nella direzione della chiesa. Tra tutti gli altri tipi, ha meno interesse ed è meno impegnato nei confronti della comunità locale; per costoro l’unità in quanto tale, a livello verticale o orizzontale, non ha molta importanza. Zulehner lo descrive come un lupo solitario. Infine, il “responsabile della comunità in sintonia con i tempi” (der zeitgemässe Gemeindeleiter): è fondamentalmente impegnato per favorire il sacerdozio comune di tutti i fedeli ed è tanto meno a suo agio nella distinzione tra laici e clero; sottolinea la natura carismatica della chiesa e promuove con gioia la diversità dei doni nella comunità; - trova nutrimento per la sua spiritualità più nel servizio che nei sacramenti; - si preoccupa meno delle direttive provenienti da Roma; - dà molto valore alla discussione e al consenso nel prendere le decisioni. 18 Zulehner vede questo tipo come l’uomo ai margini, quello che ha meno probabilità dei quattro tipi di essere promosso nella chiesa. […] Modelli di sacerdozio e gestione ecclesiastica degli abusi sessuali sui minori Possiamo parlare con maggiori elementi di certezza dell’influenza che hanno i modelli teologici operativi del sacerdozio sul modo di trattare i casi di abusi sessuali. L’indagine di Zulehner conferma che la maggioranza di coloro che hanno posizioni di potere decisionale nella chiesa operano secondo una concezione del sacerdozio quale repraesentatio Christi. Coloro che intendono il sacerdozio soprattutto in questo senso trovano molto difficile accettare che i sacerdoti compiano atti di abusi sessuali. Questo spiega il senso di trauma e d’indignazione tra coloro che hanno la responsabilità della guida della chiesa di fronte alle rivelazioni di tali abusi e spiega per quale motivo negli ambienti ecclesiastici sembrava esservi maggiore preoccupazione per il danno recato dai sacerdoti colpevoli all’istituzione del sacerdozio, che non per le ferite e le violenze causate alle vittime. Si aggiunga a questa considerazione la sacralità del voto del celibato e per quanti secoli esso sia stato esaltato al di sopra del matrimonio. Il trauma porta spesso alla negazione, e questa è stata la caratteristica delle prime fasi della crisi dovuta a tali abusi. E’ anche comprensibile che i dirigenti ecclesiali che operano sulla base della comprensione del sacerdozio come repraesentatio Christi abbiano pensato che i sacerdoti responsabili di abusi potevano essere aiutati semplicemente attraverso la confessione e la direzione spirituale. Il predominio del modello della repraesentatio Christi spiega anche la priorità data dai capi della chiesa alla difesa della chiesa e del sacerdozio. Il guardiano o sentinella soffre quando la reputazione della chiesa e del sacerdozio vengono offuscate sotto i suoi occhi. Persone che conoscono personalmente i vescovi osservano che questi uomini nella maggior parte dei casi non sono interessati al senso del proprio potere e della propria importanza, nonostante l’immagine spesso riportata dai media. E’ vero invece che i vescovi condividono uno schiacciante e solitario senso di responsabilità per la chiesa, il cui peso vedono poggiare completamente sulle loro spalle. Quando si viene al modo di trattare il problema dei sacerdoti responsabili di abusi, quelli che hanno elaborato un concetto fortemente sacrale del sacerdozio possono sentirsi perplessi. Da un lato si sentono afflitti per i sacerdoti colpevoli e pensano che quelli che hanno tradito il loro ufficio debbano essere puniti con la dimissione. In alcuni casi si è insistito 19 sulla dimissione dallo stato clericale senza tenere debitamente conto del dovere di una costante sollecitudine per i colpevoli, e ciò indica che potrebbe trattarsi tanto di una punizione per il tradimento quanto di una preoccupazione per la guarigione delle vittime e per la protezione dei minori (vedi Id.Care for Clergy Offender, in The Furrow del maggio 2003 […]). D’altro lato abbiamo visto che alcuni leader della chiesa erano ansiosi di evitare che la dottrina del carattere indelebile dell’ordine venisse erosa alla base qualora si mettesse troppo prontamente in atto una sanzione come la dimissione dallo stato clericale (cf. per esempio la critica del Vaticano alla versione originale della C.e. degli USA della Carta di Dallas del giugno 2002). La repraesentatio Christi, specialmente nella sua versione più distante dalla cultura contemporanea, è la meno incline a ricercare consigli e ad attribuirvi un valore, o a confidare davvero in coloro che non hanno la grazia del sacramento dell’ordine. E’ anche meno incline ad accettare di dover rendere conto a livello orizzontale, per esempio a enti laici nella chiesa o a enti secolari nella società. E’ anche la meno incline a pensare di dover essere sensibile ai mass media e la meno toccata dalla ripetuta copertura che essi danno ai casi di abusi. Tra i dirigenti della chiesa, il costruttore di ponti è propenso a cercare di mediare tra l’autorità del magistero, l’autorità della ragione (per esempio la teologia ed altre scienze) e l’autorità dell’esperienza che si vive in comunità. La sentinella ansiosa, d’altro canto, si affiderà unicamente all’autorità di Roma e al consiglio degli altri confratelli nell’episcopato; la critica di altri ambienti probabilmente non la toccherà. Il lupo solitario che agisce, come la sentinella, sulla base della repraesentatio Christi, è anch’egli ben lieto di accontentarsi di una linea chiara dall’alto, ma se necessario desidererà farsi una propria idea indipendente. Dando valore alla professionalità, sarà anche il meno incline ad avere problemi per la dimissione dallo stato clericale dei sacerdoti responsabili di abusi o a trattare le vittime preferibilmente dal punto di vista clinico, con la collaborazione di esperti laici, come gli avvocati e gli psicologi. Conclusione Vi è motivo di preoccuparsi per un modello di prete inteso come repraesentatio Christi, che non serve rettamente la chiesa. Come minimo, ha bisogno di essere integrato da una comprensione del sacerdozio come repraesentatio Ecclesiae. Tale modello attribuirebbe maggior valore a uno stile di vita condiviso di guida ecclesiale, con un equilibrio tra il sistema di responsabilità verticale e quello orizzontale. Il sacerdozio inteso in primo luogo come repraesentatio Ecclesiae offrirebbe le basi per una maggiore varietà nell’esperienza umana dei responsabili ufficiali della chiesa. Mentre non ha fondamento l’idea che vi sia un legame diretto tra celibato e abusi sessuali sui minori, il celibato accettato semplicemente come parte obbligatoria del “pacchetto” del sacerdozio potrebbe essere un reale 20 impedimento al raggiungimento della maturità sessuale. Per rispondere in modo completo alla crisi degli abusi sessuali sui minori, appare auspicabile: - sviluppare una teologia del sacerdote come repraesentatio Ecclesiae, sulle basi dell’insegnamento del Vaticano II; - promuovere attivamente tale teologia nei programmi di formazione, iniziale e permanente, dei sacerdoti; - incoraggiare i sacerdoti a riflettere sulla loro teologia operativa del sacerdozio, dedicando particolare attenzione alla comprensione del proprio potere e della propria autorità; - aiutare i sacerdoti a identificare particolari debolezze e fattori di rischio associati alla propria teologia operativa del sacerdozio e a dedicarvi la loro attenzione; - dare una valutazione aperta e sincera della teologia, professata e operativa, della sessualità nella chiesa. In queste pagine le immagini dominanti del sacerdozio assunte e promosse nella formazione teologica e nelle subculture dei seminari sono state messe sotto i riflettori del sospetto. Alcuni dei loro assunti discutibili possono alimentare atteggiamenti indegni del vangelo e capaci addirittura di facilitare inconsciamente gli abusi, sessuali o di altro tipo. Sia per amore della missione, sia per amore verso coloro che hanno sofferto –e continuano a soffrire- a causa di abusi sessuali da parte di membri del clero, la chiesa ha l’obbligo morale di riconoscere e valutare criticamente i problemi strutturali relativi agli abusi sessuali sui minori ed escogitare nuove strutture di autorità e di responsabilità nella chiesa. (traduzione dall’inglese di Maria Sbaffi Girardet) Corpo di potere e potere del corpo- La situazione della chiesa e la sconfitta di Dio di Rainer Bucher (Austria) pagg.164-176 L’arcidiocesi di Boston ha messo in vendita la residenza vescovile per risarcire, attraverso il ricavato, le vittime di abusi sessuali da parte di collaboratori della chiesa, come ha riportato il Boston Herald. Secondo le indicazioni degli agenti immobiliari, l’edificio risalente agli anni Venti e il parco annesso varrebbero – in 21 valuta europea – circa 20 milioni di euro. L’arcidiocesi si ritrova a dover fronteggiare richieste di pagamento che ammontano complessivamente a 70 milioni di euro. Gran parte della somma dovrebbe essere ricavata dalla riscossione di premi d’assicurazione. Attraverso la vendita, la diocesi vuole dimostrare che i risarcimenti alle vittime di abusi “non vengono dalle offerte o dai contributi delle parrocchie” afferma un portavoce del giornale (Süddeutsche Zeitung del 5 dicembre 2003). In rovine: il corpo di potere della chiesa (per una trattazione più dettagliata di quanto segue: R. Bucher, Entmonopolisierung und Machtverlust . Wie kam die Kirche in die Kriese? , in Id. Ed. vedere Die Provokation der Krise. Zw ölf Fragen und Antworten zur Lage der Kirche, Würzburg 2004, 11-29) La rovina della chiesa nelle società capitalistiche avanzate se l’aspettavano tutt’e due: sia il marxismo sia, con un po’ più di finezza e discrezione, il liberalismo. Entrambi sembrano essersi alquanto sbagliati. Eppure le chiese cattoliche d’Occidente vivono la loro posizione decisamente come una crisi. Ciò non stupisce più di tanto e capita a ragione. Le cifre di partecipazione alla chiesa cattolica, per esempio, misurate in base al classico indicatore della “frequenza domenicale”, si sono drasticamente ridotte nei paese dell’Europa occidentale a partire dai primi anni cinquanta. Soprattutto, però, è il cambiamento epocale della forma di socializzazione dell’elemento religioso nelle società avanzate a dar da fare alla chiesa. Il “modello d’uso” della chiesa è mutato profondamente nei suoi stessi membri. Attualmente sta crollando questo sistema costitutivo “costantiniano” delle chiese, certo addirittura a partire dalla tarda antichità, le aveva mantenute stabili e allo stesso tempo flessibili attraverso tutte le rivoluzioni storiche. Nelle società sviluppate occidentali, le chiese si trasformano oggi da comunità con cui condividere un unico destino – in esse si nasceva, si veniva socializzati e al loro interno, in caso di necessità, si veniva costretti – in agenzie che offrono sul mercato il senso della vita, la gestione dell’esistenza e l’orientamento nel mondo: pur sempre forti e influenti, ma da qualche tempo, appunto, anche dipendenti dal successo e dal mercato. Già il progetto di una società borghese aveva scacciato le chiese dall’Olimpo di un’istanza dominatrice della società, spedendole nell’arena dei numerosi gruppi sociali. La chiesa cattolica ha reagito a ciò in modo essenzialmente “moderno”, se questo significa seguire una strategia di auto-formazione progettata. Già la Riforma aveva dato il via a questo processo, quando la chiesa cattolica, nel momento della 22 sua maggiore minaccia istituzionale, venne per la prima volta tematizzata da se stessa. Con il crollo dell’ambiente cattolico socio-morale semichiuso a partire dalla metà del XX secolo, però, iniziò anche per la chiesa cattolica ciò che oggi i suoi dirigenti percepiscono come crisi della chiesa occidentale: la perdita del monopolio come istanza ecclesiastica d’orientamento religioso nei suoi stessi membri. Né meccanismi sanzionistici nell’intimo delle persone, instaurati per esempio per mezzo di una “pastorale della paura”, né la minaccia del bando dalla società costringono oggi le persone a prendere parte alla vita della chiesa. La licenza di rapportarsi liberamente alla religione e alle sue istituzioni è ormai giunta anche agli uomini e alle donne cattolici, senz’altro abituati all’autorità religiosa. Questa “irruzione della modernità” ha colpito in modo piuttosto duro proprio la chiesa cattolica. Lo smantellamento a metà del XX secolo della sua rocca istituzionale accuratamente eretta e rafforzata teologicamente nel XIX secolo l’ha alquanto colta di sorpresa. Soprattutto il fatto di essere finite sotto la permanente riserva di approvazione da parte dei loro stessi membri presenta grandi difficoltà per le chiese e qui, in particolare, per la chiesa cattolica. Le chiese devono oggi dolorosamente imparare a vivere nelle rovine del loro sistema di potere, una volta trionfale, ma ormai caduto a pezzi. Alle rovine, però, mancano soprattutto due cose: la coesione che regnava tra le loro parti quando ancora erano un insieme, e il tetto. La coesione perduta continua pur sempre ad essere presente tra loro – le rovine sono sempre rovine di qualcosa – ma tale elemento esiste ora soltanto come qualcosa di più dell’immagine di un passato andato in frantumi; per questo motivo trasmettono costantemente a chi vive in mezzo a loro una certa esperienza di carenza, vengono percepite troppo come frantumi di un antico insieme. Alle rovine però manca anche il tetto: non costituiscono più uno spazio conchiuso, ma sono elementi “a cielo aperto”. Lo spazio esterno, un tempo escluso o ammesso solo in modo controllato, è ora continuamente visibile, penetra all’interno, si spalanca su una vastità, cosa che viene salutata con gioia da coloro che si sono sempre sentiti rinchiusi, ma che trasmette anche mancanza di protezione, come è temuto da coloro che cercano riparo e protezione nello spazio delle istituzioni religiose. Come proseguire in tale situazione? Passate in eredità allo stato sociale come latore della regolazione assistenziale dell’esistenza, istituzionalmente sovradimensionate a fronte delle cifre che dicono membri e partecipazione in calo, sempre più sottofinanziate e all’interno di un panorama religioso tale per cui non si sa se si debba credere ai dati che documentano la secolarizzazione o a quelli di una 23 individualizzazione e deistituzionalizzazione religiose, le chiese dell’Occidente vengono costrette niente meno che a reinventare se stesse in modo piuttosto radicale. La partecipazione precaria dei membri stessi, che progressivamente rendono la propria biografia e i suoi problemi di coerenza postmoderni grandezze di riferimento primarie delle plausibilità e delle pratiche religiose, obbliga le chiese a rinnovare sin dalle fondamenta i loro principi costitutivi. Le chiese, su un lungo arco temporale, possiedono una certa esperienza in merito, ma senz’altro ora hanno meno tempo a disposizione rispetto al passato per trasformarsi. Il potere pastorale A) Il potere pastorale è una forma di potere il cui scopo finale è assicurare la salvezza dell’anima del singolo in un altro mondo. B) Il potere pastorale non è soltanto una forma di potere che comanda; dev’essere pronto anche a sacrificarsi per la vita e la salvezza del gregge. In questo si differenzia dal potere del monarca, che esige il sacrificio dei propri sudditi quando si tratta di salvare il trono. C) E’ una forma di potere che non si occupa della comunità nel suo complesso, bensì di ogni singolo individuo per tutta la sua esistenza. D) Non si può esercitare questa forma di potere senza sapere cosa avviene nelle teste delle persone, senza indagare le loro anime, senza indurle a rivelare i loro più intimi segreti. Implica una conoscenza della coscienza e della capacità di guidarla . (M.Foucault, Warum ich Macht untersuche? Die Frage del Subjects, in H.Dreyfusa-P.Rabinov (edd.), Jenseits von Strukturalismus und Hermeneutik, Frankfurt a.M. 1987). Oggi si sta allontanando definitivamente dalle chiese ciò che Michel Foucault, in modo tanto aderente quanto analiticamente preciso, ha definito “potere pastorale” (Pastoralmacht). All’interno della cristianità, il potere pastorale si concentrava nella persona del “pastore”, cioè di colui che era incaricato del ministero. “Quale unica religione che si è organizzata come chiesa […], il cristianesimo sostiene principalmente che singoli individui, in virtù della loro particolarità religiosa, avrebbero la facoltà di servire gli altri e cioè non come principi, giudici, profeti, veggenti, benefattori o insegnanti ecc., bensì come pastori. Questo termine indica però una peculiare forma di potere” (ibidem) Diversamente dal potere politico, era volto alla salvezza dell’anima del singolo, a differenza del potere del signore era altruista, e, in contrasto con il potere giuridico, 24 non era interessato all’applicazione di regole generali, bensì all’individuo. Il potere pastorale ecclesiastico si estendeva sull’intera esistenza – dalla culla alla tomba: “Qualunque cosa faccia il pastore, essa è volta al bene del suo gregge. Ad esso va la sua costante preoccupazione. Quando il gregge dorme egli veglia. Il tema della veglia è importante, perché porta alla luce due aspetti della dedizione del pastore. Per prima cosa egli agisce, lavora, si affatica per coloro che dormono. In secondo luogo veglia su di loro. Dona a tutti la sua attenzione, non perdendo di vista nessuno.”(M.Foucault, Omnes et singulatim. Zu einer Kritik der politischen Vernunft [...]) Foucault mostra che il cristianesimo istituì in questo modo una tecnica di potere che si differenziava decisamente dalle tecniche di potere precedenti dell’antichità e che è tuttora valida nello stato moderno. Quest’ultimo si sarebbe infine servito con tanto successo della forma del potere pastorale, in origine cristiana, da diventare l’erede delle chiese quali detentrici del potere pastorale. A partire dal Settecento, secondo Foucault, il potere pastorale si trasferì nel nascente stato moderno – e ciò proprio nella sua duplice funzione di “individualizzazione” e “totalizzazione”. Nella storia delle società umane non sarebbe mai esistita una combinazione tanto efficace di tecniche di individualizzazione e processi totalizzanti all’interno di un’unica struttura politica. Ciò però dipenderebbe dal fatto che il moderno stato occidentale avrebbe integrato l’antica tecnica di potere cristiana, il potere pastorale, in una nuova forma politica. Nell’età moderna il punto di partenza primario del potere pastorale della chiesa ha perciò preso una nuova strada, che conduce dal cosmo alla comunità e infine al corpo. L’indiscutibilità del cristianesimo, cosmicamente codificata, venne messa in discussione per la prima volta da uomini come Galilei, Copernico e Keplero; l’intervento della chiesa sulla comunità (non ecclesiastica) andò perduto con il progetto di una società borghese, dunque nell’Ottocento, dopo che già l’assolutismo settecentesco era ampiamente affrancato dagli orizzonti di determinazione ecclesiastici. Infine, però, le chiese tentarono, per esempio attraverso il loro annuncio morale, di acquistare influenza sul corpo, sulle sue pratiche e sulle sue tecniche (quanto poco serva ancora il potere pastorale della chiesa, quanto si siano invertiti i rapporti di potere si dimostra non da ultimo nel fatto che l’annuncio morale cattolico, per esempio in Germania, trovi poco consenso persino tra la maggior parte dei membri della chiesa. Cf. MedienDienstleistungs GmbH, Trendmonitor Religiöse Kommunication, München – Allensbach 2003). L’abuso sessuale da parte dei sacerdoti, però, va a intaccare definitivamente il potere pastorale nell’epoca del suo dissolvimento. Questi pastori, infatti, non si sacrificano per il loro gregge, ma sacrificano per sé parti di esso. I sacerdoti dopo il potere 25 “I sacerdoti sono detentori di un ufficio tale che non se ne può immaginare uno più alto, per cui a ragione sono chiamati non solo angeli, ma addirittura dèi, poiché rappresentano in mezzo a noi la potenza e la sublimità del Dio immortale[…]. Perciò non si deve affatto dubitare che il loro ufficio [dei vescovi e dei sacerdoti] sia siffatto, che non se ne può immaginare uno più alto. Per cui non è ingiusto che vengano chiamati non solo angeli, ma addirittura dèi; poiché portano in sé la potenza e la gloria del Dio immortale (Catechismus Romanus).” Nella chiesa cattolica, come noto, i sacerdoti sono molto privilegiati, sia dal punto di vista teologico che da quello canonico. Dopo il crollo della cattedrale di potere della chiesa, tuttavia, il loro ruolo professionale concreto scivola progressivamente in un deficit di riconoscimento strutturale. Nelle società avanzate dell’Occidente, l’esistenza sacerdotale non si svolge più in un interno indiscusso, in un ovvio spazio di plausibilità. La chiesa non é più l’unica istanza interpretativa del mondo, in una società completamente modernizzata non può più costruire un cosmo esistenziale isolato, dall’impronta tradizionale. La strategia di assicurare la stabilità della chiesa attraverso la costituzione, all’interno della società moderna, di un vasto ambiente sociale incentrato sui sacerdoti, è improvvisamente a sua volta diventata una minaccia alla stabilità. Non da ultimo per l’elemento personale centrale di questa strategia: i sacerdoti. Il sacerdote, strettamente tenuto al rispetto di un’etica professionale specifica, che esige la rinuncia al matrimonio e alla famiglia, ma anche qualità come devozione personale, umiltà, ubbidienza e discrete capacità direzionali, in passato riceveva molto in cambio: status e potere, considerazione e patria, e anche il titolo di persona eletta. In una parola: riceveva riconoscimento. Quando però crollano le mura di quell’ambiente in cui sono vigenti tali criteri bisogna farsi valere nel campo aperto delle ambizioni di affermazione e dei modelli biografici concorrenziali. Sia la teoria che la prassi del sacerdozio non erano attrezzate a questo scopo: non l’autoaffermazione nel campo aperto della società, bensì la stabilizzazione interna attraverso la separazione della società liberale era l’idea organizzativa della gerarchia ecclesiastica fino al XX secolo avanzato. I sacerdoti come detentori centrali e privilegiati di questa forma sociale di chiesa sono i più colpiti dal suo tramonto. I sacerdoti che oggi vivono in una società post-moderna (cosa che qui significa semplicemente che vivono in una società in cui al presente non viene attribuito il compito, come in epoca premoderna, di succedere a un passato (normativo e idealizzato), e di cui esso non si concepisce come introduzione storica a un futuro (normativo e idealizzato), bensì come luogo in cui conta soprattutto regolare in modo possibilmente non violento i propri conflitti tendenzialmente insolubili o, per lo meno, conviverci) 26 devono cavarsela con una teoria essenzialmente pre-moderna della loro qualità di presbiteri e, in questo, vengono misurati – non da ultimo dai loro superiori – in base ai metri di successo di una società meritocratica. Da parte dei membri della loro comunità si vedono esposti inoltre alla pressione derivante dall’aspettativa che siano accompagnatori sensibili delle rispettive biografie altrui. Tra il ruolo di intermediari di salvezza con una legittimazione sacramentale, le richieste in quanto “responsabili locali” regionali dell’istituzione religiosa mondiale “chiesa cattolica” e la pressione delle aspettative di aiuto e guida terapeutici esistenziali che provengono dai singoli credenti, oggi i parroci in particolare vengono più o meno stritolati. La pertinenza legale ultima continua tutt’oggi ad accollare al sacerdote la responsabilità della comunità. A differenza del XIX secolo, però, egli non possiede più alcuna possibilità di influenza che sia conforme al suo status canonico e teologico. Agli occhi della maggior parte dei credenti, infatti, il sacerdote non deriva la sua autorità in primo luogo dalla sua posizione sacramentale gerarchica, ma dalla sua competenza pastoral-professionale (Cf.per esempio i risultati dello studio empirico: J.B.A.M.Schilderman-J.A.Van Der Ven – A,I.A.Felling, Professionalising the Shepards, in Journal of Empirical Theology 12(1999) 59-90). E’ così soprattutto la figura del parroco ad essere diventata la vittima del cambiamento epocale, oggi osservabile, della forma sociale della chiesa cattolica. Da garante legittimato per via sacrale dell’autorità ecclesiastica si trasforma in persona lacerata tra esigenze differenti – e questo già soltanto all’interno dello stesso spazio sociale ecclesiastico. Potere del corpo: la sconfitta di Dio La violenza sessuale non è tanto un fenomeno sessuale quanto di potere. Inchieste condotte su vittime dimostrano che per i colpevoli è prima di tutto l’esperienza del potere a contare, e cioè sentirsi superiori, umiliare, punire, scaricare l’aggressività o dimostrare la propria virilità. La sessualità è semplicemente uno strumento, efficacissimo, a questo scopo (U.Brockhaus-M.Kolshorn, Die Ursachen sexueller Gewalt, in G.Amann-R.Wipplinger edd., Sexueller Missbrauch. Überblick zu Forschung, Beratung und Therapie, Tübingen,1998). L’abuso sessuale nell’ambito dell’azione pastorale è un sopruso, una lesione della fiducia e, a causa del duplice gap di potere (adulto/bambino, pastore/fedele), un fenomeno di potere in un punto sensibile. Ed è anche una sconfitta di Dio nell’operato del suo popolo e dei suoi sacerdoti. 27 La cura d’anime cristiana, infatti, non è un’azione qualsiasi, ma un’azione nella sequela dell’annuncio di Dio da parte di Gesù. Nucleo dell’annuncio di Gesù è però il suo messaggio della venuta del Regno. Uno degli enunciati centrali di tale messaggio è contenuto nelle beatitudini del discorso della montagna. In esso si dice: “Beati voi poveri, perché vostro è il Regno di Dio. Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati. Beati voi che ora piangete, perché riderete” (Lc.6,20b21). I poveri, gli affamati e coloro che piangono vengono qui glorificati senza una qualifica religiosa in senso stretto: a loro spetta l’annunciata salvezza escatologica. Le beatitudini di Gesù, però, non rimandano a un futuro impossibile da prevedere. Il futuro di salvezza promesso nel Regno di Dio è sì, nella sua pienezza, una dimensione escatologica a venire, ma non è già da ora determinato soltanto in Dio, bensì sta già operando in questo momento nei piccoli, in chi è privo di potere, in quanti piangono. Per Gesù e attraverso di lui, Dio e la dimensione politico-secolare di Dio –il suo Regno- diventano una prassi concreta. Diventano prassi nella parola dell’annuncio di questo Dio e negli atti concreti di attenzione affettuosa di Gesù nei confronti di chi è bisognoso di sostegno, guarigione e aiuto. Ogni pastorale è sequela di tale operato di Gesù. La cura d’anime cristiana è quindi in primo luogo diaconia, è operato nella sequela di Gesù e del suo annuncio del regno di Dio. (note omesse su opere di Fuchs) L’elemento costitutivo della cura d’anime cristiana è l’occuparsi delle persone in stato di bisogno. Se la chiesa non lo fa, il suo operato non si fonda più nel suo fondatore. La cura d’anime è una forma di pastorale, cioè una forma di confronto creativo tra il presente e il vangelo (Vedi opera di Bucher citata all’inizio). Nella sua cura delle anime, la chiesa è tenuta a rappresentare con le parole e con le opere Gesù e la misericordia del suo Dio (vedi K.Bopp, Barmherzigzeit im pastoralen Handeln der Kirche, 1998). Nel compimento di ogni esistenza umana c’è qualcosa a cui quest’esistenza crede; e la consapevolezza non è il luogo primario in cui si trova tale fede. “Ciò a cui […] ti appigli e ti affidi con il tuo cuore in realtà è Dio”, ha scritto Lutero. Ciò si può riconoscere, nel modo meno facile da simulare, negli atti e nel compimento della propria esistenza. La nostra fede è ciò secondo cui viviamo, ciò a cui in ultima istanza ci appigliamo, ciò che speriamo davvero nelle nostre decisioni e azioni quotidiane. Il principio centrale della cura d’anime cristiana è il concetto di Dio proprio di Gesù. Egli critica tutte le divinità che opprimono la vita dell’essere umano. Com’è noto ne esistono molte, in ogni esistenza. Competenza nella cura d’anime significa porre interrogativi su Dio e sugli dèi della vita propria e altrui e saper collocare le proprie divinità nell’orizzonte del Dio di Gesù. Le divinità della nostra esistenza rendono schiavi o rendono davvero liberi per una vita coraggiosa e ricca di 28 esperienze, fedele (a se stessi e agli altri), una vita dalle relazioni intense, intrepida e avventurosa, ma soprattutto sincera e costruttiva per gli altri? La modernità avanzata ha sottratto alla chiesa quasi tutto il potere sociale religioso. L’abuso sessuale nella pastorale se lo riprende in un’altra maniera, con altri mezzi e nel luogo più intimo immaginabile –quali che siano i motivi individuali di tutto ciò (cosa che non esclude, anzi include, che, anche e appunto nell’epoca di un potere religioso ancora esistente e nei luoghi della sua concentrazione pedagogica – per esempio in istituti educativi – nelle condizioni di allora si giungesse a soprusi del genere). L’abuso sessuale ritratta ciò che la chiesa era finalmente riuscita a realizzare in tutte le sue conseguenze dopo mille anni di “formazione costantiniana” e quindi di potere sociale sanzionatore: che la cura delle anime è il libero incoraggiamento, l’aiuto diaconale del Dio di Gesù in parole e opere, altruista e senza secondi fini, semplicemente perché così vuole la volontà di salvezza universale del Signore. La cura d’anime è l’affrancamento dalle false divinità dell’esistenza, mentre l’abuso sessuale rafforza proprio queste false divinità: prima di tutto, brutalmente, quella del potere. L’abuso sessuale nella pastorale parla con i fatti di un dio dell’intimità estorta, ottenuta con l’inganno, un dio che confonde l’intimità indotta dal potere con l’amore, di un dio quindi, in senso stretto, perverso. Nella chiesa questo dio della violenza (sotterranea o manifesta) e del potere è sempre tornato a esistere, per quanto Gesù lo abbia in realtà bandito una volta per tutte. La cura d’anime è invece l’affrancamento dalle false divinità dell’esistenza, cioè da quelle piccole e miserabili idolatrie di una vita troppo comoda e compiaciuta. Dio infatti ci incita a condurre questa vita unica che ci è stata data con tutta la serietà e l’intensità possibili, rischiando per lui e per gli altri, nella certezza di fede che alla fine non periremo mai, né nel gelo del cosmo muto né in quello dell’odio umano. Quando compiono abusi sui bambini i pastori d’anime annunciano un dio della pusillanimità e del gap di potere nelle relazioni intime tra esseri umani, annunciano un dio che spedisce i bambini nel gelo di un’intimità simulata e di esperienze difficili o impossibili da rielaborare. La cura d’anime è l’affrancamento dalle divinità che accecano e inducono a una dispotica sopravvalutazione di sé, perché noi non siamo gli dèi della nostra esistenza e neppure i suoi artefici e tutto ciò che davvero è importante per noi, dalla nostra mera esistenza all’amore di una persona, è puro dono, in fondo immeritato. Quando compiono abusi sui bambini i pastori d’anime annunciano un dio che permette tutto alle autorità, persino ciò che è vietato, che fa dipendere l’amore e la dedizione dall’arrendevolezza e dal compimento di un sacrificio. Quando compiono abusi sui bambini i pastori d’anime rappresentano il dio seduttore del dispotismo privo di scrupoli. 29 La cura d’anime è l’affrancamento dalle divinità, nocive alla salute, della carenza di fiducia in se stessi e di autodeterminazione: dal lutto senza fine, da rapporti familiari e interpersonali oppressivi, dalle dipendenze incatenanti. Siamo infatti i figli prediletti di Dio, il quale non vuole la nostra infelicità, bensì la nostra vita in pienezza, persino e appunto nella nostra colpevolezza, del tutto inevitabile. Quando compiono abusi sui bambini i pastori d’anime annunciano un dio di dipendenze oppressive nel luogo più intimo, un dio che troppo spesso rende davvero malati, che distrugge la fiducia in sé e l’autonomia e, anziché prendere su di sé la colpa, carica noi di sensi di colpa. La cura d’anime è l’affrancamento dalle varie divinità della repressione umana e religiosa. Il Dio di Gesù, infatti, è un Dio di libertà e di lotta per gli esclusi, un Dio che offre tutta la sua ovvia solidarietà a coloro che davvero si trovano al di fuori da ogni modello di riconoscimento: a quelli dalla “dubbia moralità”, ai malati inguaribili, agli impuri (pur con tutto l’impegno diaconale della chiesa nel corso della sua storia, c’è una storia della colpevolezza che la chiesa deve affrontare qui, in particolare nei confronti di coloro che “deviano” dal punto di vista religioso e morale. Anche qui vale il principio: senza riconoscere la propria colpa non è possibile essere resi liberi per l’azione!), ai bambini, a chi è incapace di rendimento. Quando compiono abusi sui bambini i pastori d’anime annunciano un dio che è, in modo stridente, il contrario di tutto ciò: non un Dio di libertà, ma un dio del potere, non un Dio della lotta per gli esclusi, ma un dio che produce esclusi, non un Dio dei bambini, ma un dio degli adulti. Da Gesù sappiamo soprattutto una cosa su Dio: egli ha identificato in maniera radicale l’amore per lui, il nostro Dio, con quello per il nostro prossimo. “se uno dicesse ‘io amo Dio’ e odiasse il proprio fratello, è un mentitore” (1Gv.4,20). Tutte le divinità che asserviscono e schiavizzano gli esseri umani, che li privano della libertà e della salute, sono idoli: potenti ed efficaci, ma la cura d’anime cristiana intraprende una lotta contro di loro. Quando i pastori d’anime compiono abusi sui bambini, questa lotta è già quasi perduta. Gli idoli sono dittatori sulla nostra vita, sia che funzionino nell’interesse del potere statale o religioso, sia che lo facciano nell’interesse di una “bella vita” del singolo, della sua compiaciuta comodità, della sua esistenza soddisfatta. I pastori d’anime cristiani devono contrapporvi un Dio di cui fondamentalmente non si può disporre, che rimane di per sé un mistero: il mistero della nostra vita, che va infinitamente al di là di noi. La cura d’anime è la presentazione di questo Dio nelle realtà concrete di biografie individuali. L’abuso sessuale da parte dei pastori d’anime, però, è un rinnegamento attivo nelle realtà concrete di biografie individuali – e questo nel contesto della loro asserita testimonianza. 30 Il Dio di Gesù è la grande speranza nella vita di ogni essere umano, perché insegna a vedere il mondo con occhi diversi. Egli critica gli idoli ed è solidale con i sofferenti. Non è disponibile nelle mani di nessuno. Non è un Dio del potere, bensì della solidarietà con chi è impotente (cf. H.-J.Sander, Nicht Verleugnen. Die befremdende Ohnmacht Jesu, 2001[…]). L’abuso sessuale nel contesto della pastorale è il contrario: è parte della sconfitta di Dio nella chiesa di Dio. (traduzione dal tedesco di Anna Bologna) 31