LA PORTA E IL PASTORE BELLO Giovanni 10,1-18
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LA PORTA E IL PASTORE BELLO Giovanni 10,1-18
LETTURA LA PORTA E IL PASTORE BELLO Giovanni 10,1-18 Gv 10 si apre in modo repentino con la formula amēn, amēn «in verità, in verità io vi dico, formula che nella prassi linguistica giovannea dice continuità e sviluppo piuttosto che nuovo inizio. • Quale scenario? L’evangelista non precisa il setting di questo discorso, non dice niente sul dove e sul quando. Ma l’assenza di coordinate spazio-temporali non è casuale: indica che non esiste alcun distacco cronologico e cambiamento di scenario, per cui il discorso del buon Pastore è in continuità con il racconto del cieco guarito, intende commentare il suo tragico epilogo. In effetti la coraggiosa testimonianza da parte del cieco illuminato appare drammatica: quest’uomo viene cacciato fuori dalla comunità di appartenenza, è espulso dalla sinagoga e scomunicato per la sua fede in Gesù Messia (9,34). Sembra quindi condannato a vivere da emarginato, fuori dall’ovile di Dio, lontano dal gregge del Signore. Ma così non è perché il cieco illuminato incontra il vero Pastore dell’umanità. Con la sua professione di fede ha lasciato il recinto giudaico, ma è entrato nell’ovile di Cristo. Quindi non vivrà come pecora errante, sbandata. Ha trovato la porta della salvezza, attraverso la quale si sperimenta libertà e vita in pienezza. Nel suo insieme Gv 9-10 sviluppa una prospettiva di “missione” che si realizza nel compiere “le opere” del Padre: 9,4 Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato 10,37 Se non compio le opere del Padre mio non credetemi! 10,38 Anche se non credete a me, credete alle opere. • Una grande inclusione Gv 10,1-18 è come incorniciato dal motivo cecità/vista che attraversa il c. 9 e ritorna in 10,19-21. Nella sua risposta ai farisei, Gesù dichiara di essere venuto nel mondo perché «coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi» (9,39). Dunque, ciechi che diventano vedenti e vedenti che diventano ciechi. Ed ecco che alla fine del discorso del buon Pastore si richiama nuovamente la guarigione del cieco. Pertanto Gv 10,1-18 è posto al centro di una grande inclusione, come evidenzia il seguente schema: 9,39-41 Capovolgimento di situazione: ciechi che vedono – vedenti che diventano ciechi Gesù PORTA e BUON PASTORE : 10,1-18 10,19-21 Dissenso tra i gli ascoltatori: può forse un demonio aprire gli occhi ai ciechi? Nel contesto successivo l’evangelista delinea un nuovo scenario precisando accuratamente il tempo (inverno), la festa liturgica (Dedicazione del tempio) e il luogo: “Ricorreva allora a Gerusalemme la festa della Dedicazione. 1 Era inverno. Gesù camminava nel tempio, nel portico di Salomone” (10, 22-23). • Enigma e discorso di rivelazione Gv 10,1-18 comprende due parti che iniziano con la medesima formula: Amēn, amēn “In verità, in verità io vi dico” (v. 1 e v. 7). La prima parte si chiude con il commento dell’evangelista: “disse loro questa similitudine (paroimia) ma essi non capirono” (v. 6). La parola paroimia compare soltanto qui nel Nuovo Testamento; viene tradotta con “similitudine” ma si tratta propriamente di un enigma, di una parabola criptata che necessita di spiegazione. Infatti la seconda parte riprende la parabola e ne chiarifica il senso enigmatico: PARABOLA ENIGMATICA: In verità, in verità io vi dico Ma essi non capirono … DISCORSO DI RIVELAZIONE: In verità, in verità io vi dico 10,1-5 10,6 10,7-18 • Metafore e linguaggio esodale La parabola enigmatica e il successivo discorso di rivelazione presentano varie metafore tratte dall’ambito pastorale (il recinto delle pecore, la porta, il guardiano e il pastore) mentre il linguaggio usato evoca quello dell’esodo (“condurre fuori”, “entrare e uscire”). Due sono comunque le metafore principali che rivelano la identità e la missione salvifica del Cristo: la porta e il pastore. Anche i vangeli sinottici conoscono il detto di Gesù sulla porta: “Quanto stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!” (Mt 7,14; cf. Lc 13,23-24). Ma il quarto evangelista riferisce questo detto direttamente a Gesù e colora i vari dettagli di senso cristologico. La persona di Gesù non è muro, ma porta: passaggio obbligato, comunicazione vivente tra il dentro e il fuori, tra il mondo e Dio. È porta di accesso alla vita divina: “Io sono la porta: se uno entra attraverso di me sarà salvato” (Gv 10,9). Successivamente Gesù si definisce “il buon pastore” (vv. 11 e 14), letteralmente il pastore “bello” (kalos). La bellezza è per sua natura affascinante e in questo caso esprime il fascino della bontà e della verità che il Cristo incarna. All’autentico pastore – quello buono/bello – si contrappongono in negativo diverse figure che acquistano rilievo sullo sfondo della Bibbia: il ladro e il brigante (vv. 1.8), l’estraneo (v. 5) e il mercenario (v. 12). Senza entrare nei dettagli, queste figure antitetiche svolgono tutte funzione distruttiva: dilapidano e opprimono il gregge, oppure lo sorvegliano per amore di guadagno. Come si differenzia il pastore dal ladro? Anzitutto per il modo in cui si avvicina alle pecore: egli passa attraverso la porta, che è la normale via di accesso al recinto. L’evangelista gioca sul linguaggio simbolico. La parola utilizzata per indicare il “recinto” delle pecore, allude sottilmente a un altro “recinto”: quello del Tempio, il luogo dell’incontro con Dio (Es 27,9; 1 Re 6,36). Nella ripresa del discorso Gesù dichiara apertamente e per due volte: “io sono la porta delle pecore” (vv. 7 e 9); quindi precisa di avere “altre pecore” non provenienti “da questo recinto” (v. 16), vale a dire fuori dal giudaismo. Anche i verbi richiamano il vocabolario dell’esodo: l’azione potente con la quale Dio ha fatto uscire il suo popolo dall’Egitto per farlo entrare nella terra promessa. Il pastore che cammina davanti al suo gregge evoca Dio stesso che guida Israele nel ritorno dall’esilio di Babilonia (Is 40,11). Notiamo una forte reciprocità e relazione affettiva: il pastore conosce personalmente le sue pecore ed esse rispondono a colui che le “chiama per nome” con l’ascolto obbediente e la sequela (vv. 3-4). Ciò non si verifica nei confronti di un estraneo, dal quale invece le pecore “fuggono via”, perché “non conoscono la voce degli estranei” (v. 5). 2 INTERPRETAZIONE Dopo essersi rivelato come acqua viva, pane disceso dal cielo e luce del mondo, Gesù si presenta qui come la porta e il pastore delle pecore. Non una porta qualunque, ma quella del “recinto” dove le pecore sono custodite dal guardiano che è Dio stesso. La porta dice “passaggio”, possibilità di entrare e di uscire. Se lasciasse solo entrare e non uscire, non sarebbe porta di libertà ma terribile prigione. Gesù invece assicura che passando attraverso di lui si entra e si esce. Attraverso di lui si può effettivamente uscire dalla prigionia dell’egoismo (personale e collettivo) e dalle varie forme di schiavitù, per entrare nella Terra della libertà. Egli fa entrare nella profondità del mistero (umano e divino) e fa uscire per comunicare la bella notizia, il vangelo dell’amore. Nella Bibbia l’immagine del pastore descrive la cura amorevole di Dio per il suo popolo e in quanto tale è particolarmente cara alla spiritualità di Israele. Pastore è colui che si prende cura delle pecore non saltuariamente, di tanto in tanto, ma in modo continuo, giorno dopo giorno, conducendole al pascolo, difendendole dai briganti e dalle bestie feroci. Diversamente dal mercenario, l’autentico pastore non fugge quando arriva il lupo ma espone la propria vita per difendere le sue pecore. Sullo sfondo di Gv 10 si può notare anche una dimensione polemica nei confronti delle autorità giudaiche che estromettono dalla sinagoga il cieco illuminato. In tal modo si comportano come i “pastori di Israele” contestati dai Profeti, soprattutto da Geremia (23,1-6) e da Ezechiele (34,1-16). Essi non si curano affatto del gregge, anzi sono responsabili della sua dispersione. Il Pastore divino invece si prende personalmente cura della pecora errante e di quella ferita, raccoglie e riconduce i dispersi. • Reciprocità di ascolto e amorosa conoscenza “Pastore d’Israele ascolta”, invoca il salmista (Sal 80,2) nel fermo convincimento che la storia di liberazione comincia proprio sulla base dell’ascolto: “Ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti …” (Es 3,7). Come il Pastore dell’esodo, Gesù ascolta e va in cerca dell’uomo che è stato “cacciato fuori” (Gv 9,35), perché niente “vada perduto” di ciò che il Padre gli ha dato (6,37-39). Proprio perché ascolta il Padre, Gesù è capace di ascoltare profondamente ogni persona nella sua unicità e situazione esistenziale: “Egli chiama le sue pecore ciascuna per nome” (10,3). Nel linguaggio biblico la “conoscenza” implica la dimensione affettiva fino a includere l’intimità che lega lo sposo alla sposa. Il Signore ha conosciuto il suo popolo con la passione di un uomo per la donna del suo cuore (Os 2,18-22; Is 54,4-8), con la tenerezza di una madre per il frutto delle sue viscere (Is 49,15). L’ascolto amante suscita di sua natura reciprocità per cui “le pecore ascoltano la voce” del pastore (10,3). L’imperativo «ascolta, Israele!» trova qui la sua attuazione. Anzi, appare una sorta di connaturalità tra l’essere pecore e l’ascolto del Pastore. Non c’è bisogno di impartire un ordine, un comando. Gesù non dice: “pecore mie, ascoltate!”, ma usa l’indicativo: “le mie pecore ascoltano”. È un dato di fatto, le pecore (i credenti) ascoltano, si fidano. La fiducia intessuta di ascolto obbediente introduce i credenti nella stessa relazione di Gesù con il Padre: “conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre” (vv. 14-15). Tra il buon Pastore e il suo gregge si dà una tale reciprocità che ricalca la stessa conoscenza amorosa che lega eternamente il Padre al Figlio e il Figlio al Padre. • Guida affidabile La scena del pastore che al mattino fa uscire dal recinto il suo gregge, rimanda a un altro “uscire” che ha segnato radicalmente la storia di Israele: l’uscita dalla schiavitù. Gesù è il pastore in grado di condurre l’intera avventura dell’esodo, quello definitivo: come Mosè “fa uscire” dall’Egitto, come Giosuè “fa entrare” nella terra promessa. Egli è la porta di accesso al Padre, la porta della vera salvezza: “se uno entra attraverso di me sarà salvo” (10,9). 3 In un singolare intreccio di simboli Gesù si presenta qui come porta che si fa pastore, il “condottiero (archegos) della salvezza” (Eb 2,10). Come il Dio dell’esodo camminava davanti al suo popolo (Dt 1,30; Sal 68,8), così il buon Pastore cammina davanti alle sue pecore. 1 Le pecore non sono esortate a seguire il pastore, come non vengono esortate ad ascoltare. Per Giovanni è inconcepibile immaginare un credente che non sia “seguace”: il pastore cammina davanti e le pecore gli vanno dietro, lo seguono e lo ascoltano. • Vita in pienezza Il buon Pastore Gesù manifesta la stessa passione per la vita che muove Dio a cercare e liberare il suo popolo. Egli non ha altro interesse che quello di promuovere la vita: “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (10,10). Ma la vita è spesso minacciata e va difesa. Gesù si contrappone ai pastori di morte, “ladri e briganti” (v. 8). Nel quarto vangelo “ladro” e “brigante” sono termini che qualificano Giuda Iscariota (Gv 12,6) e Barabba (18,40). Gesù non sostiene il movimento degli zeloti, si distanzia dai nazionalismi alla Barabba che producono solo morte e distruzione. Al contrario, perché le pecore abbiano vita, Gesù “depone” la propria (10,11.15). La sua è una vita “per” (hyper). Nel quarto vangelo la preposizione hyper indica la pro-esistenza del Cristo, il suo essere-per, la dedizione piena di sé, fino al sacrificio. Gesù dà la vita per le pecore, la sua carne per la vita del mondo (6,51), muore per riunire in uno i dispersi figli di Dio (11,50-52). La vita offerta dal buon Pastore è sovrabbondante: come il vino offerto a Cana (2,7), come lo Spirito donato “senza misura” (3,34), come il buon pane che sfamò tutti e ne avanzò (6,11-12). Gesù dona la propria vita liberamente. Nessuno ha il potere di strappargliela, ma egli stesso la depone, come depone la veste per lavare i piedi ai discepoli, e quindi la riprende di nuovo (10,17-18). Ora chi può dare e riprendere non è un servo: fa il servo ma è signore, come viene esplicitato dopo la lavanda dei piedi: “Voi mi chiamate Maestro e Signore, e dite bene, perché lo sono” (13,13). La sovrana libertà nel donare la propria vita costituisce il “comando” che Gesù ha ricevuto dal Padre e anche il motivo per cui il Padre lo ama. Perché in tal modo il Pastore Gesù introduce i credenti nel rapporto di amorosa reciprocità che egli stesso ha con il Padre. • Le altre pecore: sguardo universale Lo sguardo del Cristo si allarga sul grande progetto del Padre che vuole raccogliere in unità l’intera famiglia umana. La sua missione non può limitarsi a Israele: “E ho altre pecore che non provengono da questo recinto; anche quelle io devo guidare” (10,16). Il Padre lo ha mandato per radunare “in uno” i dispersi figli di Dio (11,52). Non solo Israele ma tutti, anche i samaritani e i pagani. La missione che il Padre gli ha affidato, Gesù la compie nella prospettiva del Servo di cui parla Isaia: “E’ troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti di Israele. Io ti renderò luce delle nazioni perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra (Is 49,6). Notiamo un aspetto significativo: non si dice che le “altre” pecore vengono riunite nel medesimo “recinto”, ma che Gesù deve “condurre/guidare” anche loro: un verbo che riassume il compito del buon pastore. Dunque, l’unità del gregge non viene realizzata conducendo tutti in un solo ovile. Non è questione di appartenere al medesimo ovile o “recinto”. Si prospetta invece una meta ulteriore: diventeranno “un solo gregge, un solo pastore” (10,16). È questa l’unità che lo Spirito realizza e per la quale il Cristo ha pregato alla vigilia della sua morte: “Tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (17,21). 1 Cf. E. BOSETTI, Il Pastore, EDB, Bologna 1990, pp. 227-258. 4 ATTUALIZZAZIONE Come Gesù anche la Chiesa nella sua azione pastorale è chiamata a compiere “le opere del Padre” che vuole il bene dell’umanità, la vita in pienezza. “La santa inquietudine di Cristo deve animare il pastore: per lui non è indifferente che tante persone vivano nel deserto. E vi sono tante forme di deserto. Vi è il deserto della povertà, il deserto della fame e della sete, vi è il deserto dell’abbandono, della solitudine, dell’amore distrutto. Vi è il deserto dell’oscurità di Dio, dello svuotamento delle anime senza più coscienza della dignità e del cammino dell’uomo. I deserti esteriori si moltiplicano nel mondo, perché i deserti interiori sono diventati così ampi. Perciò i tesori della terra non sono più al servizio dell’edificazione del giardino di Dio, nel quale tutti possono vivere, ma sono asserviti alle potenze dello sfruttamento e della distruzione. La Chiesa nel suo insieme, ed i Pastori in essa, come Cristo devono mettersi in cammino, per condurre gli uomini fuori dal deserto, verso il luogo della vita, verso l’amicizia con il Figlio di Dio, verso Colui che ci dona la vita, la vita in pienezza” (Benedetto XVI, Omelia della Messa per l’inizio del ministero petrino, 24 aprile 2005) • Conoscere e farsi conoscere Dal Cristo buon Pastore occorre apprendere l’arte della conoscenza spirituale, la profonda conoscenza delle persone affidate alla nostra cura. Nessuna forma di dominio o potere, ma solo amore. Chiamare “per nome” è segno di un’attenzione particolare. Ma anche di più perché nella Bibbia il nome dice l’unicità della persona. Per il Pastore le pecore non sono numeri, ciascuna ha il suo nome e con quel nome suo proprio viene chiamata e condotta “fuori”, verso i pascoli buoni e le sorgenti d’acqua. Il conoscere che emerge da Gv 10 si sviluppa nella reciprocità. Diversamente è una forma di potere, il potere di conoscere detenuto dal solo pastore. Gesù parla invece di una conoscenza reciproca che immette nella relazione amorosa della conoscenza divina, nella reciprocità del Padre e del Figlio. Scrive il beato Giacomo Alberione: “La prima dote del buon pastore è di conoscere le pecorelle e farsi da loro conoscere. Questa sarà la prova del loro interessamento; questa sarà la condizione perché le pecorelle non temano la loro presenza. Questa dote la riscontriamo perfettamente in Gesù: «cognosco meas». Ed è da notarsi che le conosce una per una; a tutte ha assegnato il proprio nome e per nome le chiama. Anche le pecorelle debbono conoscere il pastore: «cognoscunt me meae» (Gv 10,14), ed è interessante notare che la conoscenza è data più dall’udito che dalla vista. Non si tratta di conoscere i corpi che si vedono, ma le anime che ascoltano” (gennaio 1947). • La difficile arte del prendersi cura La cura del pastore richiama il prendersi cura della madre. Si potrebbe parlare dell’aspetto materno del pastore. La madre dona la vita facendo spazio all’altro nella sua stessa corporeità, nutre di sé il proprio figlio, si prende cura della sua creatura con amorevole tenerezza. L’agire pastorale della Chiesa rispecchia questo volto materno? Se è comprensibile la guida e il prendersi cura, è decisamente paradossale che il buon pastore sacrifichi la propria vita per le pecore. “Il pastore di tutti gli uomini, il Dio vivente, è divenuto lui stesso agnello, si è messo dalla parte degli agnelli, di coloro che sono calpestati e uccisi. Proprio così Egli si rivela come il vero pastore … Non è il potere che redime, ma l’amore! Questo è il segno di Dio: Egli stesso è amore” (Benedetto XVI, Omelia 24 aprile 2005). Non mercenari, ma pastori. Non per amore di guadagno, sia esso di tipo economico o di altro genere (carriera, successo) ma semplicemente per amore. Una madre non rinfaccia al figlio le notti che ha perduto per prendersi cura di lui: fa parte dell’essere madre. Similmente fa parte dell’essere pastore vegliare sul gregge e prendersene cura. Ai presbiteri convenuti a Mileto, l’apostolo Paolo ricorda lo stile del suo ministero pastorale: non ha desiderato né argento né oro né il vestito di alcuno, ma ha lavorato con le sue stesse mani per offrire gratuitamente il Vangelo e aiutare i poveri (cf. At 20,33-35). Nella sua Regola Pastorale san Gregorio Magno osserva che nessuno meglio di Gesù avrebbe potuto governare gli uomini, per il semplice fatto che avrebbe governato quegli stessi che aveva creato. Ma 5 quando seppe che volevano acclamarlo re, fuggì solo sul monte (Gv 6,15). “Rifiutò di essere nominato re, poiché si era incarnato per redimerci con il patire e per istruirci con la sua vita. Al patibolo della croce andò spontaneamente e i suoi seguaci ne trassero esempio. Rifiutò il potere offertogli e desiderò una morte obbrobriosa, perché noi, sue membra, imparassimo a fuggire i favori del mondo, a non temere le minacce, a preferire le avversità causate dall’amore per la verità e a diffidare, nel timore, delle situazioni favorevoli” (PL LXXVII, col. 16). • Pastorale come terapia di bellezza Non è indifferente che Gesù presenti se stesso come il pastore “bello”. La bellezza dice il fascino della verità e dell’amore. Dice l’attrazione della bontà. Dal volto di Gesù traspare la bellezza luminosa dell’amore, la tenerezza di Dio per l’umanità. Nel cippo di Abercio (la più antica epigrafe cristiana, risalente al tempo dell’imperatore Marco Aurelio), si parla del Cristo come “casto pastore che pasce greggi di pecore per monti e per piani; egli ha grandi occhi”. Sguardo a cui nulla sfugge, occhi grandi pieni di amore. Le nostre comunità riflettono questo sguardo amante? Dal Pastore bello la Chiesa deve apprendere la dimensione estetica della pastorale, la capacità di dire e comunicare la bella notizia non in modo qualunque, ma alla maniera del Cristo, con la forza attraente del suo amore. La bellezza della Chiesa è la sua santità, luminosa irradiazione della santità stessa del Cristo. Abbiamo bisogno di una spirituale terapia di bellezza perché la vocazione cristiana è chiamata alla santità e dunque alla bellezza luminosa che deve informare tutta la vita, le relazioni umane, il rapporto con l’ambiente, con il lavoro, con lo sport, con la cultura. Occorre che la bellezza pervada gli spazi della liturgia e della vita. Occorre una pastorale bella, capace di incidere nell’opaca ferialità non semplicemente per quello che offre e propone, ma per l’affascinante esemplarità del vangelo vissuto. Nella indizione del Concilio Vaticano II, Papa Giovanni XXIII parla di una Chiesa che “si adorna di nuova bellezza, una Chiesa “che sente il ritmo del tempo e che in ogni secolo si orna di nuovo splendore” (Humanae salutis, 25 dicembre 1961). È la Chiesa che sa mettersi alla sequela del Pastore bello. Vita in pienezza Una porta di vita io sogno una porta di libertà nei vasti campi dove il dolore intreccia l’amore. Un pastore di vita io sogno che si prende cura dell’essere intero e del cosmo. Un pastore che guida oltre la valle oscura nei limpidi cieli dove la luce non muore. 6