P - Missioni Consolata
Transcript
P - Missioni Consolata
Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in abb. postale "Regime R.O.C." - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, NO/TORINO EDITORIALE Ai lettori di Gigi Anataloni LUCE NELLE TENEBRE icordo una veglia pasquale di tanti anni fa, 1991, a Maralal: ci fu un black out totale proprio pochi minuti prima dell’inizio. Buio completo. Alla luce di candele quella è stata una delle veglie più suggestive che abbia mai celebrato. Un ricordo tira l’altro. Febbraio 1983, prima domenica di quaresima. Accompagno il compianto padre Oscar Goapper a celebrare il primo passo dell’iniziazione cristiana dei catecumeni in un villaggio di Neisu, dove allora stava sorgendo la missione che oggi vanta il miglior ospedale dell’Alto Huele, Nord-Est del Congo RD, allora Zaire. È buio presto all’equatore, uniche luci, le stelle. La celebrazione comincia attorno al fuoco e poi, pian piano, come per magia, la notte si illumina: una, dieci, centinaia di candele si accendono. Salgo su un termitaio per essere sopra quelle piccole luci che danzano nella notte. Stelle cadute dal cielo, gocce di gioia e pace, isola di luce nell’oscurità della foresta. Ma torno al ricordo di Maralal. Dal fuoco nuovo viene acceso il cero pasquale. Entrare in chiesa al buio non è un problema per la maggior parte dei presenti, abituati a vivere senza elettricità. Entra la Luce, «Mwanga wa Kristu!» (la luce di Cristo) canto. Piccola luce di un cero, ma grande luce di Cristo, che tutti illumina. Il cero pasquale, icona di Cristo, icona della missione della Chiesa. Mi affascina che in questo nostro tempo di lampade sempre più potenti, di luci che illuminano a giorno, si continui a usare questo segno debole che è il cero pasquale. Una luce piccola e fragile che però ha dentro una forza dirompente: condivisa, può illuminare il mondo e incendiare la terra. Per vederla devi essere al buio. Per lasciarti illuminare devi avvicinarti. Per sentirne il calore devi ridurre le distanze. Per accenderti devi lasciarti toccare. E toccato ti infiammi. Infiammato, ti consumi. Consumandoti, doni luce, accendi speranze, scacci il buio e le sue paure, fai vedere il bello, comunichi gioia. R a sembra che oggi si abbia paura a guardare questa luce che ti fa vedere dentro, che ti obbliga a incontrare te stesso e gli altri. Altre luci ammaliano, attirano e accecano. Denaro, divertimento, sesso, droga, potere. Luci che falsano i colori e rendono normale, accettabile, giustificato quello che non lo è: dalla corruzione al rave, dal sesso a tredici anni alla volgarità esibita in Tv, dalla coda per uno smartphone alla protesta contro i rifugiati, dall’evasione alla satira senza rispetto per niente e nessuno, dall’aborto all’eutanasia, dall’indottrinamento gender allo sfruttamento dei precari e stranieri sottopagati e schiavizzati, ... Anche il fanatismo ideologico alla maniera dell’Isis è una delle luci che accecano tanti. Dico fanatismo ideologico e non religioso, perché il dio dell’Isis non è Dio, ma un mostro, una aberrazione dell’orgoglio umano che si è costruito un dio a misura della sua superbia. Una luce violenta che esplode ogni tanto lungo la storia dell’umanità, con nomi diversi, ma sempre gli stessi frutti di morte e distruzione. Niente di nuovo in quanto sto scrivendo. Ma è anche vero che noi abbiamo la memoria corta e abbiamo bisogno di rinfrescarci le idee. Quante volte abbiamo sentito nella nostra vita il racconto della passione, morte e risurrezione di Gesù? Eppure ogni anno abbiamo bisogno di ridircelo, non solo per ricordare ma per rivivere. Per rispondere alla domanda «C’eri tu alla croce di Gesù?», «Sì, ci sono, oggi!». «Ci sono» alla sua morte e alla sua resurrezione, perché oggi la sua morte e resurrezione danno senso alla mia vita. E quello che «vedo e tocco» oggi dell’amore di Dio per me, lo testimonio, lo canto, lo vivo. La luce debole del cero pasquale mi ricorda questo, fa riconoscere dentro di me che l’amore di Dio in Gesù non è qualcosa del passato, ma è un fatto che mi riguarda adesso, ogni adesso. E accendendo la mia candela da quel cero, ne condivido sì la fragilità e debolezza, ma nello stesso tempo ne moltiplico la forza. Quello che ho veduto, quello che ho ascoltato, quello che ho toccato, quello che ho sperimentato come amore gratuito e liberante, questo oggi annuncio e testimonio. E la tenebra è meno oscura, grazie alle innumerevoli piccole luci che si sono lasciate toccare dalla Luce di Cristo e come Lui si lasciano consumare per amore. Buona Pasqua. M APRILE 2015 MC 3 SOMMARIO 4 | APRILE 2015 | ANNO 117 3 AI LETTORI LUCE NELLE TENEBRE Il numero è stato chiuso in redazione il 9 marzo 2015. La consegna alle poste di Torino è avvenuta prima del 31 marzo 2015. di Gigi Anataloni 5 DAI LETTORI CARI MISSIONARI (lettere a MC) OSSIER 10 ARTICOLI 10 HAITI BERRETTA ROSSA PER IL POPOLO di Marco Bello 17 ITALIA / SACROFANO 3 PUNTI DI NON RITORNO 17 33 REPORTAGE DALLA SICILIA DELL’«EMERGENZA SBARCHI» TERRA VIVA DI PESCATORI E MIGRANTI di Antonio Rovelli 24 CONGO RD /1 DOVE VITA E MORTE DANZANO di Tommaso Degli Angeli 24 DI SILVIA ZACCARIA CON CONTRIBUTO DI ENRICO 53 INDIA DIVINAMENTE ACQUA di Silvia C. Turrin 58 BOSNIA ERZEGOVINA CUBETTI DI ZUCCHERO RUBRICHE 08 CHIESA NEL MONDO di Sabina Gardovic 61 STATI UNITI SULLE SPONDE DEL GILA RIVER di Riccardina Silvestri 63 MOZAMBICO ADORABILE FACTOTUM 53 61 di Sergio Frassetto 30 LEGALITÀ E GIUSTIZIA SCANDALO PRESCRIZIONE di Gian Carlo Caselli 67 COOPERANDO ROMA E I MIGRANTI /1 NOVITÀ! di Paolo Deriu 79 LIBRARSI PRENDI IL LIBRO E MANGIA di Chiara Giovetti 72 LIBERTÀ RELIGIOSA /27 MA LE INTESE NON BASTANO di Luca Lorusso 81 FRANCOCIELO RUBRICA DI FILATELIA RELIGIOSA di Angelo Siro CASALE di Paolo Bertezzolo IN COPERTINA: Volto dell’India (foto: Claudia Caramanti). 76 I PERDENTI /3 S. GIOVANNA D’ARCO di Mario Bandera Gli articoli pubblicati sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente l’opinione dell’editore. - I dati personali forniti dagli abbonati sono usati solo per le finalità della rivista. Il responsabile del loro trattamento è l’amministratore, cui gli interessati possono rivolgersi per richiederne la verifica o la cancellazione (D. LGS. 196/2003). 4 MC APRILE 2015 WWW. RIVISTAMISSIONICONSOLATA . IT DAI LETTORI Cari mission@ri BUFALA Sono un estimatore della vostra rivista perché tratta sovente articoli di politica ed economia internazionale con grande profondità ed originalità (es. gli articoli sul mobile money). Per questo mi ha un po’ colpito che Angela Lano, che stimo, si sia lasciata ingannare da una bufala che corre su internet da quest’estate, secondo la quale il proclamato califfo dello stato islamico di Iraq e Siria, al-Baghdadi, è un agente del Mossad figlio di genitori ebrei (cfr. articolo sul numero di gennaio-febbraio). La notizia, non firmata ma probabilmente vergata dal direttore Gordon Duff, è stata lanciata dal sito neonazista Veterans Today e ripresa in Italia solo dal sito altrettanto ultraconservatore Apostatisidiventa. Giova ricordare quanto sia attendibile il sito statunitense, che nel settembre del 2012 ci informava che la Marina Usa ci stava difendendo segretamente da un attacco alieno. La fantascienza è un argomento molto usato da Gordon Duff, secondo cui la cometa Ison era formata da un gruppo di navicelle spaziali (settembre 2013); d’altronde per sua stessa ammissione, il 40% di quanto pubblica sulla sua rivista è falso. Un saluto Paolo Macina Torino, 24/01/2015 Il riferimento all’ipotesi di al-Baghdadi come agente del Mossad è stato fatto nell’ambito delle tante e diverse teorie - in una lettura attenta lo si evince bene -, e dunque non mi sono fatta ingannare da nessuno. Come studiosa e giornalista ho il dovere di citare tutte le teorie e fonti. Infatti, tra le fonti non c’è solo Veterans Today, ma anche altri due siti come citato nella nota n. 10. Angela Lano 05/02/2015 NONCHALANCE Gent.mo Direttore, sono un abbonato da anni della rivista Missioni Consolata; ho ritrovato solo oggi la copia del dicembre 2013 che avevo tenuto «troppo» da parte per scriverle, cosa che faccio solo ora, in merito alla sua risposta alla lettera «Scriveteci» pubblicata a pag. 5. Il punto interessato, a circa metà pagina di colonna 4, recitava così: «Che poi ci siano dei missionari che abbiano amato una donna, generando anche dei figli, non dovrebbe stupire nessuno, eccetto coloro che li ritengono degli automi programmati e non degli uomini in carne e ossa». Ebbene, io mi ritengo proprio tra coloro che invece si sono stupiti leggendo questa sua parte di risposta, non ovviamente (riguardo) all’amare una donna, ma al generare dei figli. Ma ciò che più ancora mi ha stupito, è la nonchalance con cui è stato scritto, quasi questa eventualità fosse una normalità e una giustificazione più che doverosamente da accettare. Per carità, non mi permetterei assolutamente di giudicare nessuno, sono io il più peccatore di tutti, ma mi ha lasciato molto perplesso quanto ho letto. Grato comunque per il lavoro che fanno i missionari nel mondo e per il suo/vostro lavoro redazionale, porgo distinti saluti. Elio Gatti Trinità CN, 03/02/2015 No, da parte mia non c’era giustificazione, ma solo comprensione di una realtà umana molto complessa. In quasi quaranta anni di vita missionaria, ho visto più di uno dei miei amici - persone anche migliori di me - lasciare il sacerdozio e la missione per amore di una donna o per senso di responsabilità verso il figlio da loro concepito. Sono sempre state storie di sofferenza e lacrime, vissute spesso in solitudine. Solitudine oggettiva, quella fisica data da ambienti geograficamente e culturalmente isolati dal mondo, e quella spirituale, causata dalla lontananza dagli amici e dal dito accusatore di confratelli poco fratelli. In certi casi c’è stata della leggerezza, in altri solo un momento di debolezza, spesso riscattato dalla scelta responsabile di dare un padre al nascituro rifiutando soluzioni che sarebbero state più semplici in accordo con le tradizioni locali. è stato redatto ben prima dei noti fatti di sangue) rispetto alla valanga di tante altre opinioni espresse in questo mese di gennaio nella stampa francese. Per queste ragioni vi chiediamo l’autorizzazione per pubblicarlo. Contando sulla vostra simpatia, vi ringraziamo anticipatamente. Cordiali saluti, Carmine Casarin Bruxelles, 29/01/2015 CIBO E VIOLENZA Abbiamo iniziato lunedì 9 febbraio 2015, a leggere nella celebrazione della messa il libro della Genesi. Il passo di oggi descrive il quinto, sesto e settimo giorno della creazione (Gn 1,20-2,4a). Secondo il primo libro della Bibbia il cibo dell’uomo è esclusivamente vegetale (cfr. Gn 1,29); così pure per gli animali (cfr. Gn 1,30). Dopo il diluvio ci fu la concessione del cibo carneo a esclusione del sangue animale, poiché il sangue è simbolo di vita. Gli animali si dividono in: carniSignor Direttore, vori - onnivori - erbivori abito a Bruxelles, in Bel- scimmie antropoidi. gio, e collaboro gratuita- L’uomo non rientra fisiomente con una rivista logicamente e anatomifrancese di dibattito eccamente nei primi tre clesiale, «Golias», con grandi insiemi. Egli è assede a Lione (http://gosai simile alle scimmie lias-editions.fr). Il diret- antropoidi il cui cibo elettore, Christian Terras, tivo è: frutta - grani - setrova che il vostro artico- mi. Un comandamento lo «Nessuna compassio- del decalogo comanda di ne per gli “infedeli”» è «non uccidere»: nel testo particolarmente illumiè riferito all’uomo. Ma se nante per evitare discorsi «Dio è amore» (1Gv all’ingrosso, soprattutto 4,8.16) come mai la viodopo gli attentati del 7 e lenza dell’uccisione di un 9 gennaio a Parigi. Non animale da parte di un mancano evidentemente altro animale è permesstudi francesi sull’Islam, sa? La scrittrice Annama Golias ritiene che il maria Manzoni, risponpunto di vista del vostro dendo al mio interrogatiarticolo è abbastanza ovo, affermò categoricariginale (e in un certo mente che nell’uomo c’è senso profetico, visto che libertà (ovvero possibilità IL DOSSIER SULL’ISIS APRILE 2015 MC 5 [email protected] [email protected] di scegliere), mentre l’animale non umano agisce per istinto. Ma rimango nell’interrogativo del perché l’esistenza della violenza. La mia risposta: «La vita è un mistero». Come sostiene il teologo Luigi Lorenzetti, non è indifferente la scelta del cibo da parte dell’essere umano: mangiare cibi vegetali è certamente meno violento che consumare cibi frutto di prevaricazione. E gli alimenti vegetali sono sicuramente portatori di maggiore serenità: tanti uomini illustri come il Mahatma Ghandi sono stati vegetariani e pacifici. La Bibbia non è certo un libro di cucina o nutrizione: consumare un alimento o l’altro è frutto di una scelta, che dovrà essere razionale e responsabile. Per non parlare dell’abbigliamento: fa freddo; è poi indispensabile coprirsi con pellicce e montoni? E se il cane è il miglior amico dell’uomo, gli altri animali possono essere uccisi senza scrupoli? Stefano Severoni Roma, 10/02/2015 Grazie della sua condivisione con noi. Mi permetto di sottolineare solo due punti. La Bibbia è una raccolta di libri molto diversi tra loro che raccontano anzitutto un’esperienza religiosa. Se è vero che si trovano frasi come quelle da lei citate a sostegno del vegetarianismo, è anche vero che ce ne sono molte altre che danno per scontato il consumo di carne. Tutta la struttura dei sacrifici, dall’agnello pasquale agli olocausti, presuppone che i partecipanti al rito consumino carne. Come lei giustamente sottolinea, «la Bibbia non è certo un libro di cucina o nutrizione». E nemmeno un libro di sartoria. A proposito delle pelli, posso dire di aver visto delle popolazioni che le indossavano quoti- 6 MC APRILE 2015 dianamente. Era una scelta di necessità causata dall’ambiente difficile, dallo stile di vita e dall’isolamento. Oggi quella stessa gente usa gli abiti di pelle solo in occasioni cerimoniali o folkloristiche, mentre normalmente veste abiti di stoffa (magari usati), ormai venduti anche negli angoli più remoti. Con gran beneficio dei denti delle loro donne, che un tempo dovevano masticare le pelli per conciarle. Quanto alla violenza, la Bibbia ci dice che è entrata nel mondo con il peccato. È il mistero della libertà. L’uomo sceglie di fare a meno di Dio. Quando l’uomo (l’adam, uomo e donna uniti) rifiuta Dio come baricentro delle sue relazioni e pone se stesso al centro, l’equilibrio delle relazioni salta ed esplode la violenza. Nel mondo riconciliato nella croce e resurrezione di Gesù, la violenza non dovrebbe aver più spazio. La comunità cristiana (popolo di Dio, Chiesa) dovrebbe essere profezia di un mondo riconciliato e in pace. Ecco perché negli ordini monastici antichi fraternità e pace, povertà e vegetarianismo, contemplazione e obbedienza a Dio viaggiavano insieme. PARROCCHIE ACCORPATE Con la presente Vi preghiamo voler annullare invio della rivista alle seguenti parrocchie... (ben quattro, ndr). Certi che comprenderete nella giusta luce quanto richiesto, porgiamo cordiali saluti La segreteria (delle 4) Parrocchie email, 09/01/2015 Questa email non era per la pubblicazione. Per questo ogni riferimento specifico è stato omesso. Ho pensato di farla conoscere ai nostri lettori per condividere alcune consi- derazioni, poiché ci è chiesto di comprendere «nella giusta luce quanto richiesto». Ovviamente comprendo benissimo la dura realtà dell’accorpamento di parrocchie, risultato della crisi in atto nella Chiesa italiana (ed europea) che si trova con un clero in costante diminuzione e sempre più anziano. È la stessa crisi che sta decimando i missionari italiani nel mondo. Ma mi è difficile capire perché cancellare tutte le quattro copie in questione. La mia illusione è che una rivista mandata a una parrocchia non debba essere solo per il sacerdote, ma per i fedeli, per il gruppo missionario, per chi ha a cuore la missione della Chiesa. Senza sacerdote, i laici di quella comunità dovrebbero sentirsi ancora più missionari e responsabili dell’annuncio del Vangelo. Una apertura alla missione universale non dovrebbe essere vista come un rubare forze all’impegno locale di evangelizzazione, ma come un incoraggiamento. L’interesse per la missione universale (quella detta ad gentes) non è un furto di risorse, una fuga dai problemi o una scusa per non impegnarsi «qui e ora». Da sempre la Chiesa sa di essere missionaria per sua natura e non invia missionari solo perché è nell’abbondanza, ma perché sa bene che se non esce da se stessa muore. La sua fede si mantiene solo donandola, condividendola nell’amore. Papa Francesco ci ricorda tutto questo con grande forza. Niente di nuovo. Lo ha già detto il Concilio Vaticano II, cinquant’anni fa. E neanche allora era una novità, solo una realtà un po’ dimenticata. FACCIA A FACCIA Gent.mo Padre, solo recentemente mi sono accorto della sua risposta alla mia lettera apparsa sulla rivista di novembre. Mi sono veramente commosso, perché non l’aspettavo più. Attendevo una risposta per corrispondenza. Nella sua risposta ho notato una ripetizione nei riguardi di Dio. La prima è quando dice: «Ha preparato i suoi figli all’incontro: faccia a faccia con Dio». La seconda quando dice: «Dal momento che la morte è l’ingresso nella visione di Dio, faccia a faccia». Questi due passaggi io non li condivido, perché: Giovanni 5,37 recita: «Voi non avete mai sentito la Sua voce, né visto mai il Suo volto». Giovanni 1,18: «Nessuno ha mai veduto Dio, l’unigenito figlio, che è nel seno del Padre, egli stesso (Cristo) ce lo ha fatto conoscere». Colossesi 1,15: «Egli Conosci lo sfogliabile di MC? Scoprilo online su www.rivistamissioniconsolata.it Cari mission@ri (Cristo) è l’immagine dell’invisibile Dio». Genesi 1,26 (nota in fondo pagina), «Dio non ha corpo». Complimenti per l’articolo «Una voce in meno» rivista n. 11. Condivido tutto quello che ha scritto. Complimenti. In chiesa vedo un vuoto dei giovani. Alla messa festiva, ove presenziano circa 200 persone, mancano i fedeli di età inferiore ai 30-40 anni e di conseguenza ci sono i bambini. «È triste», le persone assistono alla Messa in modo superficiale. Giunga a lei, a don Farinella e ai suoi collaboratori, un cordiale e sincero saluto. Guido Dal Toso, lettera da Somma Lombardo (VA), 23/01/2015 Caro Sig. Guido, pubblico con piacere la sua seconda lettera, scritta a mano in un bel corsivo che ormai si vede sempre più raramente. Mi scusi se ho tagliato molte delle cose che mi ha raccontato e non le ho risposto personalmente. Le lettere che riceviamo sono normalmente considerate per queste pagine. Riguardo al «faccia a faccia» è certamente un’espressione inadeguata per esprimere un mistero, ma il bello della Sacra Scrittura è che Dio ha scelto di parlare agli uomini di sé usando il nostro limitato linguaggio, pur senza lasciarsi esaurire dallo stesso. «Quando vedrò il tuo volto?», supplica l’orante nel salmo 41. Certamente con la morte, non più limitati da questa corporeità, potremo «vedere Dio faccia a faccia», godere cioè della sua conoscenza (amore) pieno, totale e senza veli. È un linguaggio umano, è vero, ma noi non sappiamo esprimerci in altro modo. Per questo Dio si è «abbassato» al nostro livello, mandando il suo Figlio prediletto per rivelarci il suo vero volto di Amore. CASELLI Gentili Direttore e Collaboratori vari della bella rivista MC, da tanti anni la leggo - ora un po’ meno - con i miei 80 anni. (Quello che) desidero ancora è vedere il carcere, incontrare i detenuti e tutto quanto compete. È diventato la mia casa, la mia grande famiglia, è un momento di relazioni e incontri con tanti detenuti e i loro cari, quando è possibile. Vado due volte alla settimana per i colloqui personali con i detenuti ed alle ore 16,00 per la messa. Prego ed offro la mia vita con tutti i miei limiti. Prego, ma soprattutto ci sono tante persone che pregano per me, per il carcere di Cuneo. Sono, siamo in comunicazione di amicizia con cinque monasteri di clausura e con le mie consorelle e tante persone buone. L’anno scorso ho incontrato circa 350 diverse persone, ho fatto oltre 1.300 colloqui. Le manderò una relazione annuale e qualcosa di relativo a questo campo. Preghi anche per me e quanti incontro. Grazie. Lascio una lettera per il Procuratore Caselli Giancarlo. Lo conosco da 16 anni, sempre per carcere e dintorni. Non ho un recapito, ora che non è più in Procura. Grazie tanto. Suor Elsa Caterina, Cuneo, 08/01/2015 I DANNATI DI ATENE, gli eroi del Lussemburgo e l’eroina di Berlino Spero che il giudice Caselli scriva ancora tanti articoli su MC perché quello della legalità è un concetto che va approfondito. Per me che sono credente legalità significa innanzitutto rispetto della legge naturale, quella del Vangelo, quella della Bibbia, quella della Chiesa, quella di Papa Francesco, ma siccome sono anche italiano significa anche rispetto della Costituzione della Repubblica Italiana. Ora certe leggi, certe regole, certi patti, certi impegni, dai quali i nostri governanti dicono di non poter assolutamente derogare mal si conciliano con la nostra Costituzione. Non passa giorno che la Commissione Europea non minacci sanzioni contro i paesi come l’Italia, non passa giorno che i nostri politici non discutano di riforme, non passa giorno che non si parli di spread con i bund tedeschi, di crescita, di rispetto dei parametri di Maastricht, di Grecia sull’orlo del disastro. Dopo la vittoria di Tsipras, dopo la sua decisione di riassumere una parte di coloro che erano stati licenziati, di ridare la tredicesima ai pensionati che se l’erano vista sottrarre dalle riforme di Samaras, di innalzare le pensioni minime, il Presidente della Commissione Europea J.C. Juncker, in perfetta sintonia con la signora Merkel, Schaeuble, Weidmann, Katainen & C, ha subito minacciato: «Tsipras ci rispetti, la Grecia non può derogare dagli impegni presi». Neanche due mesi prima però lo stesso Juncker, che è stato Primo Ministro del Lussemburgo per ben 18 anni, a chi gli faceva notare che nel suo paese le multinazionali avevano pagato e continuavano a pagare solo l’1% di tasse sui profitti d’impresa rispondeva: «Tutto regolare, tutto legale, non c’è evasione». La domanda che faccio al giudice Caselli è questa: c’è una relazione tra il + 40% di mortalità infantile e + 90% di suicidi in Grecia e l’1% di tasse sui profitti dei nababbi in paradisi fiscali legali come il Lussemburgo? Arriverà un giorno in cui i nostri giudici costituzionali riconosceranno l’incompatibilità di certe leggi come quelle che impongono il pagamento di tasse sulla casa e su tutti gli ambienti in cui si vive onestamente, si lavora onestamente, si produce ricchezza pulita (materiale e non…), con gli articoli 1 e 53 della nostra Costituzione? C’è una relazione tra le immani difficoltà e le tremende vessazioni fiscali che coloro che svolgono lavori umili (lavoro dei campi, lavoro casalingo, lavoro mal retribuito, e, checché ne dica Renzi, a tutele decrescenti) e il lavoro dorato a cui si sono abituati i cittadini del Lussemburgo (dove 1 abitante su 19 è banchiere o bancario)? Come mai invece di parlare di riforme in generale gli eurovertici non dicono chiaro e tondo ai governanti e ai magistrati greci di intervenire con mano ferma nei riguardi dei loro connazionali armatori? Come mai non fanno nulla contro l’evasione fiscale degli armatori in generale che, sulle loro navi, grandi e piccole, anziché la bandiera del proprio paese, fanno sventolare quella liberiana e panamense? Distinti saluti Luciano Montenigri Fano, 04/02/2015 La rubrica di Giancarlo Caselli è appena cominciata e già suscita aspettative. Bello. In verità gli abbiamo dato mano libera nella scelta degli argomenti, pregandolo di non chiudersi solo nelle problematiche italiane o europee, ma di avere a cuore il mondo, soprattutto i poveri e le vittime dell’ingiustizia globale. APRILE 2015 MC 7 La Chiesa nel mondo a cura di Sergio Frassetto EL SALVADOR CHIESA MONS. ROMERO MARTIRE CONTRO LA TRATTA i è svolta l’8 febbraio la prima apa Francesco ha autorizzato Giornata internazionale di preS la promulgazione del decreto P ghiera e riflessione contro la tratriguardante il martirio del servo di Dio Oscar Arnulfo Romero Galdamez, arcivescovo di San Salvador, ucciso, in odio alla fede, il 24 marzo 1980. Con questo atto viene spianata la strada per elevare agli altari l’arcivescovo di San Salvador, che a causa del suo impegno nel denunciare le violenze della dittatura militare, da strenuo paladino dei poveri e degli oppressi, fu assassinato sull’altare da un sicario di estrema destra mentre celebrava la messa nella cappella dell’ospedale della Divina Provvidenza. Da tempo è celebrato nei paesi latino americani come San Romero d’America, ma la causa di beatificazione, iniziata nel 1997, è stata a lungo ostacolata anche perché il partito della sinistra ha usato la bandiera di mons. Romero per sostenere la propria causa politica. E questo ha provocato opposizioni e ritardi fino a che è arrivato papa Francesco che come latinoamericano conosce la mentalità del suo continente e ha sbloccato il processo. (Sir) ta di persone, tema caro a Papa Francesco, che sin dall’inizio del suo pontificato ha più volte denunciato con forza il fenomeno. L’iniziativa, promossa dalle Unioni internazionali femminili e maschili dei superiori generali (Uisg e Usg) è stata celebrata nella ricorrenza di santa Giuseppina Bakhita, schiava sudanese, liberata e divenuta religiosa canossiana, canonizzata nel Duemila. Intitolata «Accendi una luce contro la tratta», la giornata aveva lo scopo di creare maggiore consapevolezza del fenomeno e riflettere sulla situazione globale di violenza e ingiustizia che colpisce tante persone, che non hanno voce, non contano, non sono nessuno: sono semplicemente schiavi. Al contempo provare a dare risposte a questa moderna forma di tratta di esseri umani, attraverso azioni concrete. Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) e l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine (Unodc) circa 21 milioni di perso- ne, spesso povere e vulnerabili, sono vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale o lavoro forzato, espianto di organi, accattonaggio forzato, servitù domestica, matrimonio forzato, adozione illegale e altre forme di sfruttamento. (Vatican Insider) MESSICO LA PATRONA a 20 anni un gruppo di donne denominato «la Patrona» asD siste lungo i binari gli emigranti in viaggio verso gli Stati Uniti. Guidate da Norma Romero Vázquez e da sua madre, Leonila Vázquez, un gruppo di 15 donne sta in piedi a fianco dei binari del treno chiamato «La Bestia» ad Amatlán de los Reyes, Veracruz, per offrire cibo e acqua ai migranti che attraversano in treno questa regione in transito verso gli Stati Uniti. Per celebrare questi 20 anni di servizio volontario gratuito, si sono riuniti attivisti e difensori dei diritti umani provenienti da tutto il paese. Mons. Vera López, vescovo di Saltillo, che ha celebrato la Messa lungo i binari, dove il gruppo svolge la sua attività umanitaria, ha affermato che: «Dio vuole che tutti possano mangiare tutti i giorni, e queste donne lo sanno. Ecco perché quando i migranti passano da qui, cercano di dar loro da mangiare. Il fatto di essere nato in un posto dove le cose sono molto disastrate, non giustifica il rimanere senza mangiare». Gli emigranti che viaggiano sul treno «La bestia» sembra raggiungano le 20 mila unità ogni anno. Molti di loro vengono derubati e addirittura sequestrati. (Fides) # El Salvador - Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador. 8 MC APRILE 2015 La Chiesa nel mondo MALI MISSIONE TIMBUCTU l Natale è arrivato fino alla “Regina delle sabbie”, la mitica TimIbuctu, nel cuore del Mali. Ci sono pena. Per lui è una grande gioia poter stare con quei cristiani che nonostante tutto hanno conservato la fede e mandato avanti le attività della Chiesa locale». (Vatican Insider) VATICANO PASTORALE URBANA ncontrare Dio nel cuore della città – Scenari dell’evangeliz«I zazione per il terzo millennio»: e- voluti due anni, dopo l’arrivo dei primi militari francesi, perché anche i cristiani potessero celebrare liberamente i loro riti senza rischiare di subire gli attacchi dei fondamentalisti islamici. Timbuctu fa parte della parrocchia di Gao, una città importante, con circa centomila abitanti, al nord del Mali, una parrocchia che si estende su un territorio tre volte più grande dell’Italia, perdendosi a nord fra le sabbie del deserto del Sahara. I fondamentalisti hanno distrutto la chiesa di Gao e saccheggiato quella di Timbuctu, ma i cristiani le hanno ricostruite entrambe. Il missionario impiega nove ore per raggiungere Gao, e ci va solo a Natale e a Pasqua. Un viaggio pericoloso: si rischia sempre di imbattersi nei predoni, «ma ne vale la ra questo il tema della 27ma Assemblea plenaria del Pontificio Consiglio per i Laici, svoltasi a Roma dal 5 al 7 febbraio scorso. Secondo l’Onu nel 2050 più del 70% della popolazione mondiale vivrà nei centri urbani. Per la Chiesa si tratta di un fenomeno ricco di potenzialità, ma anche una grande sfida. La Plenaria, dunque, ha guardato a questo complesso processo con gli occhi della fede, perché se, all’apparenza, la città moderna secolarizzata, paga del suo benessere e delle sue conquiste tecnologiche, sembra aver definitivamente messo Dio «in panchina» e derubricato la fede a mero fatto privato, in realtà «nel cuore di molti uomini e donne di città, non si è mai sopita la ricerca di senso, la sete di Dio». Lo sguardo dei partecipanti all’Assemblea, naturalmente, si è rivolto anche alle numerose «periferie geografi- che ed esistenziali che scuotono la Chiesa e la spingono oggi più che mai nella direzione di una conversione missionaria e pastorale, affinché diventi una Chiesa in uscita, abitata da una salutare inquietudine per Dio e per l’uomo». Alla conclusione dell’assemblea, Papa Francesco ha esortato i laici ad essere «apostoli del quartiere» all’interno del tessuto urbano delle città, dove spesso regnano indifferenza e anonimato. (Radio Vaticana) LAOS ABUSO DI PROFESSIONE inque pastori cristiani, leader C di altrettante comunità, sono stati giudicati dal Tribunale di Savannakhet colpevoli dell’omicidio di una donna cristiana di nome Chansee, a cui erano andati a far visita per darle conforto e per pregare, dato che era in punto di morte. I cinque cristiani hanno solo pregato per la donna e non hanno usato alcun farmaco. La sentenza del tribunale, tuttavia, ha assimilato la preghiera per i malati ad «abuso della professione medica». Da notare che la donna non è morta mentre si trovava in loro compagnia, ma dopo essere stata condotta in ospedale e curata da un medico autorizzato. (Fides) KENYA: CELEBRAZIONI MISSIONARIE a Chiesa cattolica del Kenya si prepara a celebrare il 25mo anniversario della Pontificia società missionaria (Pms) nel Paese. Numerosi gli eventi in programma che si terranno nel corso dell’anno, curati dalla Commissione episcopale per le missioni. A livello nazionale, in particolare, sono da ricordare la beatificazione di Suor Irene Stefani, al secolo Aurelia Jacoba Maria Mercedes, missionaria della Consolata, che avrà luogo il 23 maggio a Nyeri, alla presenza del card. Angelo Amato, prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi. Sempre a maggio, è in programma la celebrazione dei 110 anni dalla prima Conferenza di Muranga. Svoltosi nel marzo del 1904, l’incontro fu il primo di una serie annuale, nella quale i missionari della Consolata analizzavano i problemi e cercavano di individuare le strategie migliori per annunciare il Vangelo nel mondo. In particolare, nella prima Conferenza vennero tracciate le linee guida fondamentali su alcuni temi: gli strumenti migliori per l’apostolato, la scelta dei catechisti, le scuole, le cure mediche, le visite ai villaggi e la formazione dell’ambiente. (Radio Vaticana) L # Kenya - Suor Irene Stefani che sarà beatificata il 23 maggio a Nyeri. APRILE 2015 MC 9 HAItI © Af Ceh di MARCO BELLO da Port au Prince CHIBLY LANGLOIS, INCONtrO CON IL prImO CArDINALe DeLLA StOrIA DI HAItI BERRETTA ROSSA PER IL POPOLO Nato da una famiglia umile di contadini del Sud, la sua è una vocazione adulta. Da subito impegnato con i ragazzi più poveri. Si distingue dopo il terremoto. Da oltre un anno tenta una mediazione per risolvere la crisi di Haiti. 10 MC APRILE 2015 m onsignor Chibly Langlois è il primo cardinale della storia di Haiti. Vescovo di Fort Liberté nel Nord Est dal 2004 e poi di Les Cayes, Sud, dal 2011, è anche presidente della Conferenza episcopale haitiana (Ceh) dal dicembre dello stesso anno. Papa Francesco lo nomina cardinale il 12 gennaio 2014, quarto anniversario del terremoto ad Haiti. È durante il concistoro del 22 febbraio dello stesso anno che mons. Langlois riceve le insegne cardinalizie. «Accolgo questa nomina come una grazia per Haiti» dichiara in una prima intervista all’agenzia Alterpresse il giorno della nomina. Tra i cardinali più giovani (56 anni), mons. Langlois è figlio di contadini del comune La Vallée de Jacmel, zona rurale e impervia nel Sud Est di Haiti. Uomo estremamente dinamico, si è subito distinto dopo il terremoto del 2010 per la ricostruzione morale e materiale del paese. Ha assunto, inoltre, un importante ruolo di mediazione politica nella grave crisi tra il presidente della Repubblica, i partiti e altre • Cardinale | Chiesa | Politica | Ricostruzione • MC ARTICOLI © Marco Bello Papa Francesco ha richiamato l’attenzione su Haiti convocando un incontro internazionale in Vaticano il 10 gennaio scorso. Quali risultati ha portato? «Abbiamo accolto con gioia l’organizzazione (da parte del Pontificio Consiglio Cor unum e della Pontificia commissione per l’America Latina, ndr) di questo incontro. Ci attendevamo molto da esso. A cinque anni dal terremoto volevano sapere come è andata la ricostruzione, e che speranze abbiamo ad Haiti. Io sono soddisfatto di questo incontro, perché ha avuto il risultato di incoraggiare le “chiese sorelle” e gli organismi che hanno l’abitudine di dei risultati palpabili, concreti. Noi della Conferenza episcopale e le diverse istituzioni dobbiamo lavorare per materializzare quello che il papa ha detto il 10 gennaio, così gli organismi e i diversi partecipanti, devono lavorare in concerto con noi». La chiesa cattolica ha giocato un ruolo importante in questi cinque anni dopo il terremoto. Può tracciare un bilancio? «A livello di ricostruzione la priorità è stata data all’accompagnamento delle vittime. Ci sono stati feriti, morti, famiglie molto colpite. Ci sono state conseguenze non solo dal punto di vista fisico ma anche psicologico, e sul piano della fede. La chiesa ha accompagnato donne, uomini, bambini e giovani a riprendersi. Accompagnamento psicologico, ma anche materiale: alloggio, cibo, salute, educazione. In tutte le diocesi. Perché molte persone hanno lasciato Port-au-Prince per andare © Af Ceh parti sociali, tra fine 2013 e il 2014, promuovendo l’iniziativa di riconciliazione nazionale «Insieme per il bene di Haiti». È attualmente membro del Potificio consiglio Giustizia e Pace e della Pontificia commissione per l’America Latina. Molto disponibile, nonostante la sua agenda sovraccarica, ha accettato di incontrare MC in esclusiva lo scorso 31 gennaio ad Haiti. aiutare Haiti. C’è stata una risposta molto positiva e massiccia da parte degli invitati a questo incontro. La strada è stata tracciata dal Papa stesso che ha insistito sul fatto che l’essere umano è al centro dell’azione ecclesiale. L’evangelizzazione concerne gli uomini e le donne, comprendendo l’ambiente e tutto quello che aiuta a sviluppare le dimensioni dell’essere umano, e ne aiuta la realizzazione. Il secondo punto verteva sulla comunione che ci deve essere tra chiese sorelle e la chiesa locale e pure tra le diverse istituzioni facenti parte della chiesa haitiana. Il papa ha sottolineato che dobbiamo agire uniti, perché siamo tutti membra di un corpo, e per questo è importante la coordinazione delle azioni ecclesiali e l’unità tra i diversi attori sul terreno. Nel terzo punto il papa ha sottolineato l’importanza della chiesa locale, perché è attraverso essa e le sue istituzioni che la missione si fa molto più tangibile. Ecco perché occorre rinforzarla. E penso che questo sia particolarmente importante ad Haiti perché abbiamo una chiesa che si cerca ancora, nel senso che sta cercando di rendere solide le proprie basi per meglio rispondere alle esigenze di evangelizzazione nel paese. Questi tre punti orientano le azioni da realizzare sul terreno, e le relazioni con le chiese sorelle e le diverse istituzioni. Per me è già un buon risultato sapere che abbiamo queste indicazioni. Dobbiamo dunque lavorare per avere # A sinistra: il cardinale Langlois (primo a destra) con papa Francesco il giorno della «creazione». # Sopra: ritratto del cardinale Langlois. # A fianco: montagne del comune La Vallée de Jacmel, zona d’origine del cardinale. APRILE 2015 MC 11 HAITI Anno 2015: elezioni necessarie per uscire dalla crisi infinita I fantastici 9 per salvare il paese l paese sta attraversando una grave crisi politico - sociale. L’esecutivo del presidente Michel Martelly non è stato in grado di organizzare alcun tipo di elezione, alcune delle quali, le amministrative, sono in ritardo di 4 anni. Scaduti i sindaci e i consigli comunali, il presidente ha proceduto per nomine dirette dal ministero dell’Interno. L’ultima impasse, dell’ottobre 2014, è anche dovuta ad alcuni senatori che bloccano la modifica della legge elettorale. Si è arrivati quindi, al 12 gennaio scorso, alla scadenza del mandato della camera dei deputati e di due terzi dei senatori (ad Haiti il Senato si rinnova un terzo ogni due anni, mentre la camera ogni 4 anni e il presidente della Repubblica resta in carica 5 anni). Il Parlamento è dunque tecnicamente «non funzionante» con solo 10 senatori attivi. I a crisi, che si trascina dal 2013, ha visto un tentativo di mediazione importante da parte della Conferenza episcopale haitiana. Solo a fine 2014, il presidente Martelly, allarmato soprattutto dalla pressione delle manifestazioni di strada, aveva iniziato a cedere su alcuni punti con l’opposizione. A dicembre il primo ministro Laurent Lamothe, fedelissimo di Martelly, aveva dato le dimissioni, per essere sostituito dall’oppositore Evans © AFP/ Hector Retamal L 12 MC APRILE 2015 Paul, politico di lungo corso, cresciuto nei movimenti sociali. Ci si aspettava un grosso cambiamento di governo con l’ingresso massiccio dell’opposizione. In realtà, Evans Paul ha cambiato solo una parte dei ministri, e qualcuno parla di «governo fotocopia». Il primo ministro non ha fatto però in tempo a presentare la sua politica al Parlamento e avere la fiducia, perché questo è scaduto, e il suo è diventato un «governo de facto». Importante l’accordo, in extremis, dell’11 gennaio tra il presidente Martelly e alcuni partiti d’opposizione. I partiti più radicali non negoziano, piuttosto fomentano le folle e organizzano manifestazioni che chiedono le dimissioni del presidente. Si tratta di Fanmi Lavalas, il partito di Jean-Bertrand Aristide, della coalizione Mopod, e di Pitit Dessaline. «L’accordo dell’11 gennaio ha fatto sì che il paese non sia esploso, perché sarebbe stato possibile. Il presidente ha accettato di rifare completamente il Consiglio elettorale provvisorio (Cep)», ci dice Ricardo Augustin, vice preside all’Università Notre-Dame d’Haiti e già membro nell’équipe di mediazione politica condotta dalla Ceh nel 2014. Il punto è cruciale: il Cep è l’organo che gestisce le elezioni. Da quando è stato eletto, Martelly ha voluto imporre la maggioranza dei propri uomini sui nove MC ARTICOLI membri che lo compongono. È la prima volta che cede e accetta che il Cep sia fatto secondo i dettami dell’articolo 289 della Costituzione: ovvero ogni membro sarà espressione di un settore della società civile, e non di partiti politici o dei tre poteri. È il quinto Cep dell’era Martelly, ed è l’unico segno di speranza nella crisi. l 23 gennaio il nuovo Cep è entrato in funzione con l’obiettivo di organizzare, entro l’anno, elezioni amministrative, politiche e presidenziali. Ricardo Augustin ne fa parte in qualità di rappresentante scelto dalla Conferenza episcopale haitiana (Ceh). «Si può dire che è l’unica istituzione che attualmente ha una certa legittimità» ricorda Augustin in un perfetto italiano. «Fino adesso non sento sfiducia nei confronti del Cep, anche grazie al profilo delle persone che lo compongono. I diversi settori dicono: vediamo i primi passi. Io, dopo la nomina, sono stato subito chiamato da un politico dell’opposizione radicale, mi ha fatto i complimenti». Il nuovo Cep si è subito messo al lavoro. Occorre verificare i tempi tecnici e i mezzi economici e definire un calendario elettorale. Le opzioni sono due: dividere le legislative dalle presidenziali, iniziando le elezioni a luglio per poi passare a ottobre, oppure indire elezioni generali. «Abbiamo delle scadenze che ci vincolano. La lista elettorale deve essere chiusa 90 giorni prima della data delle elezioni. Ma oggi almeno un terzo degli elettori ha la tessera scaduta. Questa è un’altra preoccupazione su cui decidere» ricorda Augustin. Il 10 febbraio il Cep propone un calendario elettorale con la prima opzione, ma viene duramente criticato dai partiti politici. «Adesso non c’è ag- © Ricardo Augustin I gressività nei confronti del consiglio. Suppongo perché questo Cep è composto da tecnici e quindi non ci sono interessi politici immediati. La sfida per noi è riuscire a mantenere una coesione nel gruppo, fare sì che le decisioni al nostro interno siano sempre democratiche, con votazione per ogni decisione: siamo 9 e quindi si decide almeno in 5». e manifestazioni dei gruppi più radicali, che hanno spesso risvolti violenti, possono avere una grande influenza su questo processo così delicato: «Per noi l’obiettivo è anche creare un clima che permetta la realizzazione delle elezioni. Se continuano queste manifestazioni la situazione diventa critica. La questione è politica. Con questo comportamento possono arrivare a bloccare tutto e impedire le consultazioni. Ma se non si fanno, è peggio per tutti». Marco Bello L # A sinistra: manifestazioni contro il presidente Martelly e contro il governo lo scorso 7 febbraio a Port-au-Prince. # A lato: il presidente Martelly, in carica da maggio 2011. # Sopra: Ricardo Augustin, membro del Cep, rappresentante della Conferenza episcopale haitiana. APRILE 2015 MC 13 14 MC APRILE 2015 © Marco Bello nelle altre diocesi. Allora ci accordavamo su come accogliere questi profughi. Quindi la priorità è stata data alla ricostruzione della persona umana. Anche dal punto di vista della fede. C’è stato chi ha diffuso l’idea che il terremoto sia stato voluto da Dio per castigare Haiti. Noi abbiamo detto che è stata una catastrofe naturale. Dio ci ama e ci aiuta e certo non ha voluto colpire gli haitiani. Abbiamo accompagnato dunque le persone affinché potessero riprendere coraggio. In secondo luogo abbiamo dovuto anche lavorare per la ricostruzione materiale. Abbiamo messo in piedi delle istituzioni con le chiese sorelle degli Usa, Germania, Francia, Repubblica Dominicana. Abbiamo potuto fare la nostra parte. Si va avanti lentamente, occorre costruire con tecniche anti sismiche e anti cicloniche, in modo diverso rispetto a prima. Anche per questo è stato necessario molto tempo. Ma occorre anche che i fondi siano gestiti in modo trasparente. Per questo motivo abbiamo creato un’équipe che aiutasse nella gestione. Ricostruire bene e gestire bene è necessario per restare in perfetta comunione con i nostri partner, che da parte loro devono rendere conto di quello che fanno per Haiti. Ultimamente abbiamo usato dei fondi per la ricostruzione di chiese, e questo costa caro oggi. A Port-au-Prince la priorità è stata data a chiese, canoniche, scuole, conventi distrutti. Così anche a Jacmel e a Nippes. Le chiese di Grand Goave, Miragoane, una chiesa a Pétion-Ville. E l’importante chiesa del Sacro Cuore a Pacot, in capitale. Abbiamo anche ricostruito alcune scuole a Port-auPrince con l’aiuto di Cor unum. Sono dei passi che sono stati fatti, ma ad Haiti noi vorremmo che si andasse avanti molto più rapidamente. C’erano molte diocesi che aspettavano aiuti anche prima del terremoto, ma con l’evento si è fermato il processo in corso per rispondere all’emergenza. C’è una certa impazienza, ma occorrono fondi, tecnica, buona gestione. L’équipe della Ceh ha inventariato i bisogni: sulla lista di 200 progetti, circa 130 non sono ancora stati attivati». Il paese attraversa oggi una grave crisi politica, e c’è anche un contesto sociale esplosivo. La chiesa cattolica sta giocando un ruolo molto importante. Può spiegarcelo? «Abbiamo assunto un ruolo di mediazione e anche di accompagnamento. La chiesa ha sempre accompagnato il popolo haitiano nei momenti difficili. Per questo, l’anno scorso abbiamo offerto il nostro servizio per aiutare gli attori politici a dialogare. Abbiamo organizzato degli incontri di la- voro. Siamo riusciti a raggiungere un accordo tra le parti che però, purtroppo, non ha portato ai risultati desiderati. Ma ha aiutato la gente ad andare avanti nel dialogo e nel cercare altre soluzioni. Siamo arrivati a oggi. È vero che c’è una situazione piuttosto esplosiva, ma finalmente non si possono evitare le elezioni, occorre organizzarle (vedi box). Ancora oggi la chiesa non è lontana da questa realtà ma continua ad accompagnare nella misura delle sue possibilità. Siamo sempre pronti ad aiutare gli attori a dialogare. La situazione è piuttosto delicata, dobbiamo trovare il modo di favorire la realizzazione delle elezioni e avere delle persone elette dalla popolazione che possano gestire il paese secondo dei criteri democratici». © Marco Bello © Marco Bello haItI MC ARTICOLI # A sinistra: le nuove tecnologie sono arrivate anche nei luoghi più lontani. # Sopra: scuola presbiterale di Ma qualcuno potrebbe dire che la chiesa non deve immischiarsi nelle questioni politiche. Cosa risponderebbe? «Bisogna evitare la confusione in quelli che chiamiamo “affari politici”. C’è l’impegno in attività politiche, che riguarda persone attive nei partiti e poi nella gestione di beni e del potere. Noi non interveniamo a quel livello. Noi siamo impegnati ad aiutare gli attori a incontrarsi e a dialogare, per tro- vare il cammino che possa portare a gestire meglio il paese e a offrire alla popolazione la possibilità di una società più giusta, la pace e la serenità per occuparsi delle loro attività. Noi non siamo dunque impegnati in modo attivo nella politica. E quindi ci ritireremo e continueremo il nostro lavoro di evangelizzazione, con atti di carità e con tutte le nostre istituzioni, le parrocchie, le commissioni episcopali e parrocchiali, per accompagnare fedeli e popolazione». E papa Francesco vi ha incoraggiati in questo ruolo di mediazione? «Non abbiamo bisogno di una parola diretta del papa su questa realtà per incoraggiarci. Di fatto il papa ci incoraggia tramite la Commissione pontificia Giustizia e Pace, di cui io faccio parte. Questo significa che il papa accoglie favorevolmente l’accompagnamento che diamo qui, perché è suo desiderio che la chiesa susciti la giustizia sociale, ovvero favorisca un ambiente in cui le persone possano sentirsi fratelli, nella realtà, © Marco Bello Bocozelle, intitolata a padre Max Dominique. # A destra: un contadino nel duro lavoro dei campi di riso. # Sotto: la cattedrale di Jacmel, impraticabile dal terremoto. senza vivere gli uni contro gli altri, come se fossimo in guerra. Siamo chiamati sviluppare una una cultura di giustizia e una cultura dell’amore e della carità. E qui la chiesa ha il suo ruolo da giocare». La mediazione sta continuando o siamo in una fase di puro accompagnamento? «In maniera esplicita, come abbiamo fatto prima (durante il 2014, ndr), la mediazione non continua, ma con l’équipe che è stata messa in piedi continuiamo a riflettere per vedere quando e come intervenire in modo tale da migliorare la situazione. Facciamo degli incontri per riflettere sulla realtà e portare il nostro apporto nella risoluzione della crisi». Guardando la situazione di oggi, con un governo non legittimato, un Parlamento non funzionante e un nuovo Consiglio elettorale (vedi box), secondo lei cosa succederà? Che speranze ci sono? «Siamo a un bivio per cui il governo non può non organizzare le elezioni, perché altrimenti conoAPRILE 2015 MC 15 haiti # A destra: papa Francesco parla a mons. Langlois, dopo la sua «creazione» a cardinale. © Af Ceh sceremo una situazione ancora peggiore. Per far questo ognuno deve portare il suo contributo per la costruzione di un contesto che possa aiutare allo svolgimento dello scrutinio. Se questo avvenisse è sicuro che si andrebbe verso una normalizzazione della situazione. È questo che speriamo e dovrebbe essere il desiderio di tutti. Volere che il paese ritrovi una situazione di pace. Per questo pensiamo che la maggioranza degli haitiani vuole le elezioni, per cambiare i dirigenti a livello del governo e avere della gente capace di gestire il paese secondo criteri democratici attraverso istituzioni democratiche». La comunità internazionale ha sempre giocato un ruolo molto forte in haiti. Come vede la sua influenza nel contesto di oggi? «Non possiamo funzionare in modo isolato. Ai giorni nostri il pianeta è interconnesso. Vuol dire che abbiamo bisogno dell’apporto della comunità internazionale per arrivare all’organizzazione di buone elezioni nel paese, avere osservatori internazionali, un aiuto finanziario, consigli per risolvere la crisi. Non possiamo tagliare le relazioni con la comunità internazionale. Quindi è buona cosa che ci accompagni, ma ben inteso, non significa fare al nostro posto, quanto piuttosto darci l’illuminazione affinché noi siamo in grado di organizzare delle buone elezioni e scegliere i politici idonei per ben gestire il paese». E cosa pensa delle organizzazioni internazionali sbarcate in gran quantità dopo il terremoto? «Il papa ha appena detto che occorre rinforzare la chiesa locale: 16 MC APRILE 2015 qui c’è la Caritas Haiti e in ogni diocesi c’è una Caritas diocesana. Occorre dunque rinforzare queste Caritas. Succede invece che vengono dati soldi ad organizzazioni terze venute dall’estero. È importante che la Cei e Caritas Internationalis sostengano direttamente la nostra Caritas. Se il papa parla in questo modo è per evitare che si moltiplichino in eccesso gli interventi sul terreno, a nome della chiesa. La chiesa locale deve assumere la sua responsabilità nei confronti della gente, ma per questo ha bisogno dell’appoggio della comunità internazionale e delle istituzioni sorelle. Sarebbe importante non frammentare i diversi interventi. È quello che è successo dopo il terremoto: diverse Caritas sono arrivate ad Haiti e si sono installate. Molte hanno aiutato la Caritas Haiti, ma allo stesso tempo hanno fatto i loro progetti. A volte c’è stata duplicazione, a volte molti soldi sono stati spesi in amministrazione o nell’acquisto di veicoli e affitto di case. E questo ha fatto sì che la popolazione alla quale questi soldi erano destinati abbia ricevuto solo una piccola parte di essi. Ci lamentiamo molto di questa situazione in Haiti. Se un’altra istituzione viene a lavorare ad Haiti deve farlo in cooperazione, in comunione con la struttura locale, per dare anche una visibilità alla chiesa locale. Non escludiamo il partenariato». a livello sociale vediamo un grande scontento rispetto all’esecutivo attuale, perché forse la gente sperava in qualcosa che non è arrivato. E la crisi è peggiorata. Cosa bisognerebbe fare e che programma ha la chiesa a livello sociale? «A livello sociale la situazione è molto tesa. Occorre dire che la gente sta vivendo un momento disastroso, nel senso che molte famiglie vivono in povertà, manca lo stretto necessario. Per questo è una situazione davvero esplosiva. Sarebbe importante che noi chiesa riuscissimo ad accompagnare le nostre comunità per arrivare a una normalizzazione della situazione sociale. Ma la chiesa ha potuto dare l’accompagnamento nei limiti delle sue capacità. Noi chiesa haitiana viviamo la crisi del nostro paese. Per questo sarà ancora necessario il supporto delle chiese sorelle per aiutare la gente. Ma chiese e istituzioni sorelle devono intervenire per fare in modo che la chiesa haitiana faccia il lavoro di accompagnamento e di evangelizzazione della popolazione. Gli haitiani conoscono la loro chiesa e sanno che ha attualmente ha grossi problemi economici». Marco Bello ItALIA di ANTONIO ROVELLI © AfMC/ Gigi Anataloni È calato il sipario sul convegno di Sacrofano (20-23 Novembre 2014) e tutti siamo tornati a casa, nelle rispettive Chiese locali con il desiderio di poter iniziare cammini ed esperienze nuove. Probabilmente ci stiamo ancora chiedendo cosa fare, da dove iniziare e con chi. Il convegno ha restituito alcuni punti di non ritorno per vivere la Missione. Vale la pena di sottolinearli, in un momento nel quale c’è chi è tentato di rimetterli in discussione e noi stessi corriamo il rischio di perderli di vista, non considerandoli importanti. In questa prospettiva proviamo a fare alcune considerazioni e proporre alcuni orientamenti per tenere vivo l’interesse su Sacrofano e incentivare la ricerca di strade nuove. Per tenere vivo il «fuoco della missione» che il convegno ha contribuito a riaccendere. IN MARGINe AL CONVeGNO DI SACROFANO PUNTI DI NON RITORNO SuI quALI RITORNARE CONtINuAMeNte I VANGeLO eD eVANGeLIZZAZIONe l primo punto di non ritorno è «Vangelo e evangelizzazione», cioè la centralità del riferimento a Gesù, da una parte, e alla responsabilità di tutti i battezzati, dall’altra. Questo richiede di coltivare una famigliarità con la Parola di Dio tale da regalarci l’esperienza della presenza misericordiosa del Maestro nella nostra vita e da stanarci dalle nostre chiusure verso le periferie, chiamandoci alla sequela e alla ricerca. Senza questa esperienza di amore non è possibile praticare una condivisione cordiale e allo stesso tempo mantenere una resistenza evangelica, per cui diventa anche troppo facile arrendersi alla logica mondana dell’affermazione, del potere e del risentimento. Solo così il Vangelo potrà alimentare un dinamismo di uscita verso «il mondo» con uno sguardo di simpatia e di speranza. Da una parte l’incarnazione del Figlio e, dall’altra, lo stile di Gesù ci regaleranno la gratitudine e la fiducia necessarie per intraprendere il cammino al quale siamo chiamati. È un andare (itineranza) che implica l’esperienza dell’ospitalità, che prima di essere offerta sarà richiesta confidando sul buon cuore di chi incontreremo. In ogni caso sarà un’itineranza che ci porterà all’incontro con i poveri. Essi accoglieranno il Vangelo e a loro volta ci evangelizzeranno, secondo quella regola dell’evangelizzazione per la quale chi dona il Vangelo lo riceve di nuovo e in modo nuovo da coloro ai quali lo ha donato. ITALIA l secondo punto di non ritorno riguarda «la Chiesa e la sua natura missionaria». «La missione non serve alla Chiesa, piuttosto la Chiesa serve alla missione», scrive il teologo Gianni Colzani. La Chiesa esiste, cioè, per la missione e la missione è per il bene dell’umanità. Oltre a richiamare una rinnovata teologia del Regno di Dio, dove tutti e tutte siamo impegnati nel servizio reciproco, la natura missionaria della Chiesa pone la questione del «popolo di Dio» come soggetto dell’evangelizzazione. Di «carismi e ministeri» non parliamo più da tempo. Del sensus fidei ricominciamo a parlare adesso, con lo stupore di chi si chiede come abbiamo potuto dimenticare tanto a lungo un «magistero» così importante (e che il Concilio ci aveva indicato). Esso domanda con urgenza di imparare di nuovo a vedere l’opera dello Spirito di Gesù nelle esistenze concrete della gente che incontriamo («segni dei tempi»), dentro e fuori la Chiesa. Con due caratteristiche: la Chiesa nel mondo è minoranza che sperimenta la fragilità. Minoranza La Chiesa è oggi una minoranza (piccolo gregge o lievito nella pasta) nel nostro mondo. Questo suscita reazioni diverse. Non sono pochi coloro che si percepiscono sotto assedio e rimpiangono ancora i bei tempi passati. Sembra che il lutto per la fine della «civiltà cattolica» non sia stato ancora elaborato. Da qui la metafora della «comunità sotto assedio» e dei tre diversi comportamenti che in teoria © AfMC/ Benedetto Bellesi si possono assumere quando si è sotto assedio. Il primo è arrendersi, o venire a patti, trattare la resa. Il secondo comportamento è resistere. Attrezzarsi per resistere all’infinito, sviluppando tutti i vissuti tipici della persona sotto assedio: vittimismo, chiusura, incapacità di cogliere i nuovi contesti e le diverse occasioni di interazione con essi, dogmatismo, ecc. Il terzo atteggiamento è uscire, sortire dall’assedio, aprire le porte, abbattere le mura, correre il rischio di camminare su spazi sconosciuti, avere il coraggio di affrontare nuove domande e nuove sfide, lasciare il centro per rischiare la vita nelle periferie. Questo perché le periferie sono il luogo antropologico e teologico decisivo per capire il Vangelo, cioè chi è Dio e chi siamo noi, anche come Chiesa. Fragilità Un altro luogo antropologico e teologico significativo è quello della fragilità. Le periferie ne sono spesso segnate. Anzi, alcune sono tali proprio perché la esprimono al massimo (povertà materiali e culturali, peccati, devianze, ecc.) e questo spiega anche il perché non ci si vada volentieri. Le periferie che Gesù ha visitato e addirittura abitato erano rese o quantomeno mantenute tali da un «centro» che si riteneva (anche con qualche ragione) a posto, puro, perfetto. La condizione per vivere un reale atteggiamento di uscita verso le periferie che diventi condivisione è allora quella di farle diventare in qualche modo nostre. Anzi, di riconoscerle già presenti nella nostra esperienza. Senza assunzione seria delle nostre miserie non ci può essere da parte nostra alcuna autentica misericordia. Se partiamo dal fatto che tutti siamo fragili, allora assumeremo le nostre difficoltà e limiti non (solo) come ostacoli da superare, ma (anche) come risorse per presentarci agli altri quali compagni di viaggio nel ricercare, desiderare, costruire, sperare, amare… insieme! © www natidallospirito com I LA NATURA MISSIONARIA DELLA CHIESA • Convegno missionario l Missione l Nuova Evangelizzazione • MC ARTICOLI PROSPETTIVE PER LA NOSTRA PASTORALE MISSIONARIA # A sinistra: cristiani, minoranza fragile. Martirio dei cristiani copti per mano dell’Isis in Libia e fiaccolata dei partecipanti al convegno missionario del 2004 a Montesilvano. A fianco: studiando la Bibbia durante una settimana biblica al Consolata Shrine di Nairobi. Offro qualche indicazione, poco più di un elenco perché non ci sono ricette o scorciatoie possibili. Ogni comunità dovrà fare la gioiosa fatica del proprio concreto discernimento. A) Centro e periferie Gesù fu un uomo delle periferie. «Ebreo marginale» lo chiama un grande studioso della sua vicenda, John P. Meyer. Si mosse lontano da Gerusalemme, passava per città e villaggi della Galilea, periferia dell’impero romano, incontrava pagani, peccatori, malati, donne disprezzate e peccatrici, povera gente. Proclamava beati i poveri. Affermava che prostitute e pubblicani avrebbero preceduto tutti nel regno di Dio. Dalle periferie annunciò che il Regno di Dio era in mezzo a noi e che iniziava a realizzarsi con lui. Al banchetto del Regno Dio avrebbe riempito la sala con «poveri, storpi, ciechi, zoppi» (Lc 14,21), «buoni e cattivi» (Mt 22,10), dopo il rifiuto dei primi invitati. Morì maledetto come un malfattore con la morte peggiore per il suo tempo, circondato da un piccolo gruppo di seguaci impauriti. Ricollochiamo Gesù di Nazareth al centro della nostra vita personale e comunitaria: tutto Gesù, quello pasquale e glorioso natu- ralmente, ma anche quello cosiddetto pre-pasquale, messianico, liberatore. Messo Gesù al centro, scopriremo subito che egli cederà volentieri il posto a coloro che stanno ai margini: li metterà nel mezzo, farà loro spazio, concederà loro il primo piano sulla scena, intercederà per loro! Allora guardiamole queste periferie, cerchiamo di conoscerle e di vedere in esse se e come lo Spirito sta agendo. Il «se» è certo; il come è da discernere. B) Sensus fidei/fidelium Quello che a livello istituzionale si fa fatica a smuovere, bisogna tentare di cambiarlo con coraggio e serena intraprendenza a livello di «popolo di Dio». Non perché non si ami l’istituzione, ma proprio perché non possiamo abbandonarla a se stessa e alla sua autoreferenzialità. La vogliamo diversa, più al servizio nostro e della nostra missione. Ma dobbiamo essere in grado di dirle che cosa ci serve per un’evangelizzazione maggiormente efficace, in un atteggiamento di dialogo e ascolto. Allora se ad alcuni non è dato il giusto riconoscimento, riconosciamoli noi, in nome di un servizio, di frutti e di «profezie» che abbiamo sperimentato e che possiamo raccontare. Li pos- siamo abilitare prestando loro ascolto e facendo spazio a ciò che hanno da dire o da mostrare. C) Sinodalità (camminare insieme) Abbiamo bisogno tutti, sempre, gli uni degli altri. Nessuno può farcela da solo. Ma dobbiamo crescere nella capacità di vivere una vera alterità che è fatta di differenze che collaborano e condividono lo stesso sogno. Nella comunità di Gesù l’essere altro non sarà mai tolto, e anzi i doni dello Spirito lo accentueranno. Questo richiede non solo una grande capacità di dialogo e ascolto ma anche di intesa e mediazione. Non è per niente facile. Tuttavia non si può evitare la fatica di intendersi, di cercare insieme, di collaborare nella diversità di doni e carismi, pena la perdita della propria libertà e lo svilimento del Vangelo. Anche qui dobbiamo elaborare atteggiamenti e buone pratiche in modo tale da istruire le questioni sempre e solo con il consiglio di molti. Arriveremo un giorno non solo a sopportare (quando va bene) i consigli pastorali, ma addirittura a desiderarli? Non è la missio ad gentes a dirci che «perdere» tempo a elaborare insieme le cose è stata la migliore garanzia di risultati duraturi e degni del Vangelo? APRILE 2015 MC 19 ITALIA Giona, il missionario tipo del convegno, non era affatto desideroso di andare verso Ninive. Viviamo in un tempo in cui il rischio più forte è lasciarsi prendere da quello che Zygmunt Bauman chiama il demone della paura: ci sentiamo incerti, fragili, insicuri, incapaci di controllare la realtà, pronti a trattare gli altri come nemici. La paura come nemica della speranza. La paura che ci spinge a fare come Giona che «si mise in cammino per fuggire a Tarsis, lontano dal Signore». Siamo attratti anche noi, spesso, dalle sirene di Tarsis. Incapaci non tanto di uscire ma di farlo dalla parte giusta, nella direzione di Ninive. All’improvviso, però, Dio sconvolse il suo ordine irrompendo nella sua vita come un torrente in piena, privandolo di ogni sicurezza e comodità: lo (ri)inviò a Ninive, «la grande città», simbolo di tutti i reietti ed emarginati, luogo di tutti i mali, per proclamare la sua Parola, per ricordare a tutti gli uomini smarriti che le braccia di Dio erano aperte e che Lui avrebbe offerto loro il suo perdono e la sua tenerezza. La chiamata rivolta a Giona, risuona incessante anche per noi e ripete l’invito a vivere l’avventura di Ninive, ad assumerci il rischio di essere i protagonisti di una nuova missione, frutto dell’incontro con Dio. Questo incontro è sempre una novità e ci sprona a rinunciare alle abitudini, a metterci in marcia verso le periferie e le frontiere, là dove si trova l’umanità più ferita e dove i giovani, dietro la loro apparenza di superficialità e conformismo, non si stancano mai di cercare una risposta alle proprie domande sul senso della vita. Aiutando i nostri fratelli a trovarlo, anche noi comprenderemo, in modo rinnovato, il senso dell’azione e la gioia della vocazione educativa, la ragione delle nostre preghiere e il valore della nostra dedizione. La soluzione peggiore consiste nel trincerarci nel nostro piccolo mondo emettendo giudizi amari sulle condizioni in cui versa la società. Non ci è permesso di tra- 20 MC APRILE 2015 sformarci in «scettici» a priori. Dobbiamo invece lanciare messaggi positivi: vivere noi per primi in pienezza e farci testimoni e costruttori di un nuovo modo di essere uomini e donne. Ma questo non succederà se perseveriamo nello scetticismo: bisogna convincersi che le cose non solo «si possono» cambiare, ma che la rivoluzione di cui ci facciamo portatori è una «imprescindibile necessità» (Cfr. Jorge Mario Bergoglio, Messaggio alle comunità educative, Buenos Aires 2007). E) Uscire per cambiare mentalità Ormai abbiamo capito, dopo 50 anni di mancata applicazione del Concilio, che il problema è la mentalità da cambiare (metànoia) e che non basta un cambio di struttura (anche se a un certo punto è indispensabile). Per questo occorre partire dalla missione. A mio avviso il problema è quello di potere e sapere © AfMC/ Gigi Anataloni D) Oltre il rancore e il risentimento leggere la missione che lo Spirito sta già suscitando adesso, con i suoi profeti e i suoi protagonisti, le sue pratiche, le sue frontiere e periferie, i suoi incontri. Questo è un punto che dobbiamo assolutamente credere! E su questa base vogliamo motivare una maggiore, più decisa e meglio illuminata estroversione e animazione missionaria. Il nostro problema principale è uscire, e la promessa che ne sostiene il dinamismo è che così facendo ritroveremo la gioia del Vangelo e di conseguenza potremo anche individuare passi di riforma della Chiesa. In poche parole: (re)imparare la missione da ciò che accade, da coloro ai quali siamo inviati, dal lavoro dello Spirito nel mondo. L’accento mio è che solo guardando fuori e dicendosi (lasciandosi dire) cosa si vede e si sperimenta, si capisce cosa fare di di- Continua a pag. 22 MC ARTICOLI Gustavo Gutiérrez DIO AMA GRATIS Evangelizzazione omincio commentando tre frasi. La prima di Paolo VI che nella Evangelii Nuntiandi ha detto che «la Chiesa esiste per evangelizzare». Questa è la ragione d’essere della Chiesa, evangelizzare, e (non si può dire che) la Chiesa esiste prima e evangelizza dopo. Esistenza e impegno per l’evangelizzazione sono una sola cosa. Se la Chiesa non evangelizza non esiste, non è Chiesa, è un gruppo di persone. La seconda frase viene da papa Francesco: evangelizzare è fare presente il regno di Dio nel mondo. Semplicemente questo. È fare presente il regno che è il centro della predicazione di Gesù. Gesù è venuto per questo, per dire (che) il regno è qui, ma non pienamente. Questa definizione di evangelizzazione è molto ricca. La terza è sempre di Francesco: la motivazione dell’evangelizzazione è l’amore di Dio che noi abbiamo ricevuto. È una espressione dell’amore di Dio. Questa è la radice. Senza amore non c’è evangelizzazione. Dobbiamo amare come Gesù ha amato. Nei Sinottici dice: noi dobbiamo dare gratuitamente ciò che abbiamo ricevuto gratuitamente. Qui l’accento è sulla gratuità dell’amore di Dio. Credo che qui abbiamo una questione molto centrale in tutta la Bibbia, primo e secondo testamento: l’amore di Dio è gratuito. Certamente quando dico gratuito non dico arbitrario. Abbiamo visto questo parlando del libro di Giona. Una perla. Quello che Giona non ha capito è la gratuità dell’amore di Dio. Non ha saputo capire il senso dell’amore di Dio che ama tutte le persone. © AfMC/ Gigi Anataloni C el Concilio abbiamo un documento, l’Ad gentes, che ha ricuperato il senso globale della evangelizzazione. All’inizio del documento dice che l’evangelizzazione della Chiesa è un prolungamento delle due missioni, quella del Figlio e dello Spirito Santo. Questo è molto ricco, perché lega la missione della chiesa alla missione della Trinità. Quella della chiesa è una missione che viene da lontano. Questo testo risente della mano del padre Yves Congar. È un punto teologico molto importante. La missione deve creare la comunione con la Trinità, una comunione con il dio della nostra fede, una comunione fra gli esseri umani e tra noi. È il senso di una parola importante nella Bibbia: koinonia. Ha tre sensi. Koinonia fra le persone divine. Koinonia sull’essere umano con Dio, La koinonia tra le persone umane. La colletta per aiutare i poveri è chiamata koinonia. [...] N Grazia e impegno iona è un credente ma rifiuta di agire secondo la fede nell’amore gratuito di Dio, non ha capito che Dio è un Dio di tutti. Questo è anche oggi, c’è chi rifiuta (questa verità). Quando si dice il Dio del perdono. Per-dono: dono è regalo, per è superlativo, (quindi) è un gran regalo. (Noi) dobbiamo comprendere che non c’è un regalo senza una esigenza. Le beatitudini sono molto chiare in questo. Amare come Gesù ci ha amato. Gesù ringrazia parecchie volte e allo stesso tempo è molto presente al suo momento storico. Accettare il dono di essere figli di Dio non significa una chiamata a (diventare) suore, a fare amici, perché il dono (è) … In tedesco c’è una espressione. Grazia si dice gaben, obbligazione si dice ausgaben. (Così) dicono che la vita cristiana è tra la gaben e la ausgaben, fra la grazia e l’esigenza. Mons. Romero ha mostrato questo. Le due grandi dimensioni della vita cristiana sono la preghiera e l’azione per cambiare quello che non è degno della persona umana. Cercare di capire che qui non c’è una opposizione (tra le due) è molto importante per il credente nel Dio incarnato. Grazie. G Dalla registrazione della conferenza di Gustavo Gutiérrez a Sacrofano. Nostra trascrizione, non rivista dall’autore. _____________________ APRILE 2015 MC 21 ITALIA verso e meglio della nostra animazione. Per non correre il rischio di parlarci addosso. Per una volta dimentichiamoci un po’ di noi e chiediamoci che cosa ci dona la città (Ninive, la periferia) e di che cosa ha bisogno. Saremo allora capaci di vedere tracce e odorare profumi di Vangelo intorno a noi e anche lontano da noi, ma certo fuori di noi. Poi vedremo cosa possiamo fare e cosa cambiare. Se siamo autoreferenziali, non si esce davvero. Se invece ci confrontiamo con qualcosa di veramente altro, allora forse cominciamo a cambiare. F) Evangelizzati dai poveri G) Ninive è la novità di Dio Il convegno ha suscitato in noi almeno l’interesse per Ninive. Lasciando allora che la città ci cambi con le sue domande e inquietudini, disagi e ferite. Se posso essere anche più esplicito: dobbiamo decentrarci perché ci deve stare a cuore Ninive (anche se non ne vogliamo proprio sapere)! Perché i cambiamenti delle nostre comunità, dei gruppi, associazioni e istituti, avverranno solo dopo aver raccontato quali segni di grazia vediamo in Ninive e sul territorio e che cosa o chi infiamma il nostro cuore di nuova comprensione dell’evangelo e di rinnovata responsabilità missionaria. Perché se di segni non ne vediamo e di fiamme in cuore non ne abbiamo, avremmo davvero un grande problema. A quel punto neppure la migliore delle riforme strutturali ci servirebbe granché. Perché Dio ci sta parlando nella «novità» di Ninive. E la novità ci fa sempre un po’ di paura, perché ci sentiamo più sicuri se abbiamo tutto sotto controllo, se siamo noi a costruire, a programmare, a progettare la nostra vita secondo i nostri schemi, le nostre sicurezze, i nostri gusti. E questo avviene anche con Dio. Forse non come Giona, ma spesso anche noi Dio lo seguiamo, lo accogliamo, ma fino a un certo punto; ci è difficile abbandonarci a Lui con piena fiducia, lasciando che sia lo Spirito © AfMC/ Chiara Giovetti «I poveri sono i compagni di viaggio di una Chiesa in uscita, perché sono i primi che essa incontra. I poveri sono anche i vostri evangelizzatori, perché vi indicano quelle periferie dove il Vangelo deve essere ancora proclamato e vissuto» (dal messaggio di Papa Francesco ai partecipanti al convegno, 22/11/14). Per stare al convegno e alle sue relazioni: Ninive e Dio convertono Giona; i poveri e lo Spirito istrui- scono Gesù; la missione e i suoi profeti riorientano la nostra azione; la città e le sue risorse interpellano la nostra animazione; il perdono ricevuto e la benevolenza divina ci aiutano a trovare il volto amabile del mondo. Da qui possiamo eventualmente ripensare la nostra responsabilità per la missione ed evangelizzazione. Ogni giorno che passa mi convinco sempre di più che il nostro mondo ecclesiale e missionario con i suoi schemi sta finendo. O forse è già finito. È vero: alcune nostre proposte non passano o non sono mai passate, e forse sarebbe opportuno rifarle; ma forse hanno fallito anche perché sono esattamente sulla lunghezza d’onda (tipo l’ossessione per l’identità, la collocazione, il ruolo, lo specifico…) di quelle realtà che ci tengono ai margini. Occorre rischiare strade nuove. All’inizio sarà inevitabile sbagliare e anche trovarsi un po’ confusi, ma quale sorpresa poi cominciare a intravedere ciò che davvero appare nuovo. Credo che il convegno abbia tentato di mettere le premesse per fare spazio e incoraggiato la creatività nel cercare e inventare strade nuove nella missione. 22 MC APRILE 2015 © Cogliati Matteo 2013 MC ARTICOLI # A sinistra: periferia nel «centro» di Nairobi; 15.000 persone vivono nello slum di Deep Sea, più volte bruciato e sempre risorto, incastonato tra i quartieri bene della città «più vivibile» dell’Africa. Sopra: interno di baracca sotto ponte ferroviario in via Malaga a Milano. Santo l’anima, la guida della nostra vita, in tutte le scelte. Abbiamo paura che Dio ci faccia percorrere strade nuove, ci faccia uscire dal nostro orizzonte spesso limitato, chiuso, egoista, per aprirci ai suoi orizzonti. Ma, in tutta la storia della salvezza, quando Dio si rivela porta novità Dio porta sempre novità -, trasforma e chiede di fidarsi totalmente di Lui. Non è la novità per la novità, la ricerca del nuovo per superare la noia, come avviene spesso nel nostro tempo. La novità che Dio porta nella nostra vita è ciò che veramente ci realizza, ciò che ci dona la vera gioia, la vera serenità, perché Dio ci ama e vuole solo il nostro bene. Domandiamoci oggi: siamo aperti alle «sorprese di Dio»? O ci chiudiamo, con paura, alla novità dello Spirito Santo? Siamo coraggiosi per andare per le nuove strade che la novità di Dio ci offre o ci difendiamo, chiusi in strutture caduche che hanno perso la capacità di accoglienza? (Cfr. Papa Francesco, piazza San Pietro domenica 19 maggio 2013). H) Tra continuità e discontinuità Il cambiamento avverrà in modo graduale. L’importante è che non diventi un semplice prolungamento (e magari miglioramento) del presente, ma che sia caratterizzata dall’irruzione di elementi sorprendenti, inattesi, che determinano un sostanziale mutamento qualitativo. Si tratta di imparare a contemplare l’oltre verso cui la missione ad gentes deve protendersi. Il punto al quale noi siamo giunti, nelle realtà e nei contesti in cui operiamo in Italia e nel mondo, non può essere considerato come il modello di un perpetuo ritorno per rifare le stesse cose, ma il semplice punto di partenza per qualcosa di nuovo che va oltre sia a livello geografico che contenutistico. Hannah Arendt ha scritto in Vita activa: «Il fatto che l’uomo sia capace d’azione significa che da lui ci si può attendere l’inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile. E ciò è possibile perché ogni uomo è unico e con la nascita di ciascuno viene al mondo qualcosa di nuovo nella sua unicità». Sì, perché abbiamo ancora bisogno di utopia, abbiamo bisogno di speranza e di fede, abbiamo bisogno di vivere amando anche ciò che non potremo vedere realizzato. Questo amore è una potenza feconda e generante: è una forza profetica che crea futuro, dà speranza, apre orizzonti di senso, dà forza per vivere nella storia e nel mondo attendendo il regno di Dio, che è il fine della storia e il futuro del mondo. Concludo con l’accorato appello fatto da Papa Francesco ai partecipanti al convegno: «Vi esorto a non lasciarvi rubare la speranza e il sogno di cambiare il mondo con il Vangelo, con il lievito del Vangelo, cominciando dalle periferie umane ed esistenziali. Uscire significa superare la tentazione di parlarci tra noi dimenticando i tanti che aspettano da noi una parola di misericordia, di consolazione, di speranza. Il Vangelo di Gesù si realizza nella storia. Gesù stesso fu un uomo della periferia, di quella Galilea lontana dai centri di potere dell’Impero romano e da Gerusalemme. Incontrò poveri, malati, indemoniati, peccatori, prostitute, radunando attorno a sé un piccolo numero di discepoli e alcune donne che lo ascoltavano e lo servivano. Eppure la sua parola è stata l’inizio di una svolta nella storia, l’inizio di una rivoluzione spirituale e umana, la buona notizia di un Signore morto e risorto per noi. E noi vogliamo condividere questo tesoro». Andiamo avanti con speranza! Antonio Rovelli ___________ L’articolo è debitore in vari modi e forme alla relazione di Aluisi Tosolini tenuta al Convegno e ad alcuni contributi e riflessioni di Luca Moscatelli fatte in occasioni diverse. APRILE 2015 MC 23 Congo rD Testo e foto di TOMMASO DEGLI ANGELI DIArIo DI un gIovAne DA IsIro DOVE VITA E MORTE DANZANO 16 settembre 2014 un giovane di 22 anni decide di fare un’esperienza di missione in Congo rD, a Isiro, con i missionari della Consolata. Parte a settembre 2014, con la prospettiva di tornare in Italia nel giugno 2015. Ciò che scopre è un mondo diverso, ma soprattutto se stesso. Da subito inizia a condividere con gli amici su Facebook ciò che vive e vede, senza l’idea di descrivere il Congo, ma semplicemente la sua esperienza. una piccola testimonianza fresca, divertente e riflessiva. gli abbiamo chiesto di poterne pubblicare degli stralci. eccoli. Ore 4.45 am, partenza. Sto per intraprendere un viaggio che non immagino minimamente! Come prima cosa, leggo sul biglietto aereo una clausola che dice: «La compagnia si riserva di rispondere a eventuali danni, ferite o morte» (Ah, partiamo bene!). Quando arrivo a Isiro in un aeroporto senza finestre, una struttura fatiscente in mezzo alla foresta, e vedo le strade di terra rossa e il verde infinito, penso: «Questa sì che è la vera Africa!». Dopo un’accoglienza calorosissima di padre Flavio (Pante), padre Rinaldo (Do) e Ivo (Lazzaroni - volontario laico), ci avviamo alla missione: sono in un posto meraviglioso. L’aria che si respira è carica di voglia di mettersi in gioco. 19 settembre Oggi prima mattinata passata a Gajen (il Gruppo d’appoggio a giovani e bambini bisognosi), una realtà fatta di centro nutrizionale, scuola materna della diocesi e il mitico forno! Senza dimenticarsi dello zoo di fratel Domenico (Bugatti). Il centro nutrizionale accoglie i bambini malnutriti (portati generalmente dai loro fratellini e sorelline) e le loro mamme (che arrivano in seguito), tra le 7 e le 8. Vengono dati un pasto alla mattina e uno per pranzo (inoltre vengono fatte visite e somministrate medicine varie). La scuola materna è piena di bambini che mi chiamano già père Tommaso (qua funziona così: bianco = missionario). Sono troppo belli quando ripetono in coro ciò che imparano in francese, o quando mi studiano toccandomi le braccia e i capelli, come fossi un alieno. Arriviamo al forno: è uno spettacolo! Vengono fatti pane e biscotti poi venduti per strada. Stamattina mi hanno fatto fare l’impasto per i biscotti. Mi sono divertito un sacco. Io ho sfoderato la mia «esperienza» da pasticcere e mi hanno fatto i complimenti. Infine lo zoo di fratel Domenico: gattini, cagnolini, polli, anatre, conigli e, colpo di scena, una scimmia. Credo che diventeremo presto amici: oggi le lanciavo oggetti che lei prendeva al volo. Fa troppo ridere! Al pomeriggio sono andato con il mitico padre Tarcisio (Crestani) a giocare a pallavolo. Non l’avessi mai fatto: siamo arrivati in questo campo della Consolata, dove tutti i pomeriggi si trovano dei giovani MC ARTICOLI # A sinistra: Tommaso in un incontro «giocoso» con donne intente alla pulizia dei tuberi di manioca. Pagine seguenti: al Gajen i bambini condividono un pasto di pezzi di canna da zucchero e un piatto di foglie di manioca cotte nell’olio di palma. Hillesum, ebrea deportata nei campi di concentramento, bè, quando sono entrato nella prigione mi è sembrato di essere finito in un lager. Dopo la messa abbiamo distribuito il pasto. Non nascondo di essermi messo vicino alla porta, pronto a scappare in caso di necessità! 24 settembre a giocare, e abbiamo fatto una partita tiratissima, a dei ritmi da matti. Modestamente si sono complimentati con me, ma ora sono a pezzi. Mi hanno chiesto di tornare anche domani. Se non imparo in fretta a dire no, non sopravvivo più di un mese. La cosa che mi ha colpito di più oggi sono stati i bambini malnutriti. Dovete sapere che la denutrizione si manifesta con un’eccessiva magrezza, oppure con pance e piedi gonfi e capelli sbiaditi. Ma ciò che mi fa più impressione sono quegli occhi grandi, spenti e profondamente vuoti. Questi bambini, che sarebbero per eccellenza l’esuberanza e la vitalità, appaiono come prosciugati, e si trascinano in giro come se anche la vita pesasse su di loro. Quello sguardo che non reagisce a sorrisi, pernacchie, scherzi e smorfie, è difficile da mandare giù. Credo che mi dovrò «abituare», ma non credo che l’abitudine toglierà il senso di angoscia e impotenza, e quella domanda: come può succedere questo mentre c’è tanta ricchezza e spreco nel nostro mondo? 23 settembre Il mio servizio di questi mesi lo svolgerò la mattina al centro nutrizionale di Gajen. Per la comunità invece curerò l’orto. Poi, per lo «svago», farò parte della squa- dra di pallavolo. Mi ripeto che devo cercare di vivere giorno per giorno, perché altrimenti vengo inghiottito dal tempo stesso. Al centro stamattina mi sono dovuto ancora confrontare (a volte con il groppo in gola) con i bambini denutriti. Spesso dietro la malnutrizione si cela un discorso molto più ampio di problemi a livello familiare, come quello delle ragazze madri che non sanno gestire i figli, o devono ancora andare a scuola, o quello dei figli nati da violenze. C’è un bambino, tra i più gravi, che lotta tra la vita e la morte, ricoperto di piaghe. Anche se mangia, queste non guariscono. La madre ha una faccia talmente rassegnata che potrebbe prendere da un momento all’altro e andarsene. Oggi sono andato anche in carcere. Bè, non che mi abbiano arrestato… per adesso. Ogni due settimane viene portato un pasto, un pezzo di sapone e la celebrazione della messa. La prigione è un capannone che non ha finestre, ma solo qualche feritoia per la luce. Dentro questo unico spazio ci sono circa cinquanta persone con una quindicina di letti in legno, stretti come delle cuccette, e sparpagliati per la stanza che è anche sala da pranzo, gabinetto e quant’altro. In questi giorni ho letto il «Diario» di Etty Mentre sono perso nei miei pensieri sulla lontananza da casa, arrivo al centro e vengo investito da un dolore a cui non sono preparato: sono grida di disperazione. Vedo la mamma del bimbo con le piaghe inginocchiata fuori dalla cameretta. Grida diverse parole. Ne riconosco una: Nzambe (Dio). Non ero pronto alla vita di questo posto, figuriamoci alla morte. È impossibile trattenere la commozione: vedo il padre sul letto del figlio, in lacrime, mentre la madre raccoglie le poche cose che ha con sé (qualche scodella, tazza e lenzuolino). La preghiera insieme davanti al corpicino del bimbo. Vedo il padre che gli socchiude le palpebre e gli mette sul viso un piccolo panno bianco, e poi esce dal cancello con il corpo del figlio avvolto in un panno e fissato al petto. Per tornare a casa, con quel figlio come in grembo, devono fare 25 Km a piedi. Non immagino la lunga agonia del viaggio di ritorno. Ho potuto «solo» pregare, non sapevo fare altro. Questa è stata una mattina di pioggia a Gajen, pioggia dal cielo e dagli occhi. Eppure in questo strano equilibrio in cui vita e morte danzano follemente, un’ora dopo, tutto era tornato normale: di nuovo al lavoro per preparare il cibo ad altri bambini. Mi sono confrontato con un mistero troppo grande e non so se mai lo comprenderò. APRILE 2015 MC 25 CONGO RD 28 settembre Sono passati appena pochi giorni eppure è come se fossi qua già da mesi, come è possibile? Qui la giornata sembra più lunga e piena forse perché si gusta tutta, ora per ora, minuto per minuto: dalle cose semplici a quelle straordinarie. Anzi, se si fa attenzione, sono le cose semplici a diventare straordinarie. Qui le persone non hanno grandi programmi e si gustano la giornata senza essere proiettati all’impegno della sera o del week end, senza perdersi il presente. Ieri abbiamo disputato il primo match di pallavolo contro un’altra squadra. È stata una partita combattuta. Io mi son guadagnato il soprannome di «Boucanier», perché faccio le schiacciate. Del resto i miei compagni si chiamano Mosè, Messia, Geremia, Isacco, Elia, Miracolato (perché quando è nato non si sapeva se ce l’avrebbe fatta), e Aristotele: non potrei essere in mani migliori. Anche questa domenica la messa in lingala, celebrata in un corridoio dell’ospedale, è stata accompagnata da grida e lamenti di una trentina di persone a causa della morte di qualcuno, così la morte quatta quatta mi si ripresenta come a dire: «Faccio parte della vita, non puoi ignorarmi». La coppia fatta da fratel Domenico e padre Tarcisio fa morire dal ridere. Il primo, per leggere lodi o vespri, usa la lente d’ingrandimento e si addormenta ovunque; il secondo, per dirne una, si fa tostare il pane bello duro e poi lo ammolla nell’acqua. Dopo pranzo, ma soprattutto la sera, mi metto a guardare la «televisione» con padre Tarcisio: ci sediamo dietro al cancello e guardiamo fuori, l’unico programma disponibile è la vita. Quante cose si vedono! Una marea di gente che passa e saluta. Se ne vedono di tutti i colori (bè, in realtà sono tutti neri, ma avete capito). Anche tante persone che vengono a chiedere aiuto, e stanno lì fino a sera per avere 100 franchi (10 centesimi di Euro). Vi racconto un aneddoto: avevo buttato uno spazzolino molto vecchio. Mentre siamo sulla porta, arriva uno di 26 MC APRILE 2015 quelli che lavorano in casa. Sta andando via e in mano ha un sacchetto di pane in cui spicca qualcosa di blu… il mio spazzolino! Cioè, capite che questa povertà non si può ignorare? Quante cose abbiamo noi e ci lamentiamo? È vero, saremo in un momento di crisi, ma qui ci farebbero la firma per essere nella nostra «crisi». 02 Ottobre Sorella morte ormai è di casa: è morta la sorella di una delle cuoche, inoltre un cuoco (in servizio da 24 anni) si è ammalato gravemente. D’altra parte la vita, dal canto suo, si fa sentire a gran voce con la sua più bella melodia: l’amore. Al centro è arrivata una mamma sordomuta con il suo bimbo, è veramente commovente guardare come se ne prende cura. Anche se non è riuscita (per ignoranza o mancanza di beni) a dargli cibo correttamente, di sicuro l’ha fatto sempre sentire amato. È un bimbo di dieci mesi bellissimo, sorride a tutti e mi saluta sempre con la manina. Il caso di una mamma così è raro purtroppo: ci sono troppi bambini nati da mamme troppo giovani, e magari abbandonate dal loro uomo, che non sanno prendersene cura. La mancanza di amore provoca ferite visibili quanto la malnutrizione. In questo vortice di vite intrecciate mi sono chiesto cosa potessi fare io. La risposta l’ho trovata in un libro letto per «caso» (il caso è lo pseudonimo che Dio usa quando non si firma personalmente): «Ama più ancora, e altri intorno a te ameranno. Chi ama, fa amare». E allora mi son messo ad animare i bambini malati, e soprattutto le loro sorelle più grandi con bans e giochi (dato che non ci capiamo, vi lascio immaginare le risate) e, perché no, ho animato anche le mamme che si fanno delle grandi risate. Non vi nascondo l’emozione nel vedere alcuni bimbi che, pian piano, mi conoscono e mi cercano invece di evitarmi o piangere. Forse almeno in un posto, sono riuscito a cambiare l’immagine che la gente ha del bianco = soldi da chiedere. Al centro è arrivato un altro bimbo con grave malnutrizione. Sembra che le medicine facciano effetto. Detto questo, non posso però ignorare le sue grida di dolore, che mi risuonano nelle orecchie durante la giornata. Malembe malembe (piano piano) imparo qualche cosa di lingala. 6 Ottobre Stamattina al centro abbiamo fatto gli auguri a un lavoratore che è diventato papà: lui ha 19 MC ARTICOLI anni e la mamma 16! Quando mi hanno chiesto la mia età, è scattata la domanda: quanti figli hai? Mi son scusato dicendo che ero un po’ indietro. Sono arrivati cinque nuovi bambini. Eritié (con grave malnutrizione) continua a strillare, ma tra me e me penso che almeno è ancora vivo e anzi sta migliorando, inoltre è tanto bello vedere tutta la famiglia (mamma, papà e fratellino) che sta insieme a lui e non lo lascia mai solo. Tra tutti i bimbetti ce n’è uno particolarmente «aggressivo» che mi ha preso di mira e mi insegue di continuo «picchiandomi». Si chiama Radis. Ho scoperto che si comporta così perché non viene considerato, e allora, da quando ho iniziato a stuzzicarlo, è diventato la mia ombra. 9 Ottobre in orario e ho chiesto come mai, mi hanno risposto che dipendeva da come si era ridotta la loro casa, essendo fatte per lo più di terra e quattro pali, non è raro che vengano distrutte dall’acqua. Al centro tutte le mattine un matto che sta alla porta mi accoglie come se fossi il presidente, cantando e salutandomi in un misto di francese, inglese e lingala. Il fatto è che continua per tutta la mattina, e mi urla addirittura «I love you», facendo il saluto dei militari. E come dimenticarsi della grande coco (significa nonna) che viene due volte alla settimana: è malata e sola, quindi le diamo una mano. Passiamo i nostri venti minuti a parlare (lei in lingala e io in italiano), mentre le dò una tazza di fagioli, una di riso, una di zucchero, tre banane e mille fran- chi (un euro). Poi ci salutiamo e siamo contenti così. Oggi ho provato la canna da zucchero! Praticamente si staccano dei morsi e si succhia. Poi si sputa. Se non fosse che bisogna avere mascelle da cavallo per mangiarla, è davvero buona! Stamattina è stato fatto il peso settimanale dei bambini. Quando ho visto una ragazza che pesava 20 kg, le ho chiesto quanti anni avesse, e lei mi ha risposto 13. Radis continua a importunarmi. Domattina parto! Andrò a Bayenga, nella foresta equatoriale, per l’ordinazione di un sacerdote. Ho preparato il mio zaino: oltre a vestiti e solite cose, dietro consiglio dei più saggi, ho preso un rotolo di carta igienica, sapone e imodium (consigli incoraggianti insomma). La vita scorre tranquilla a Isiro, anche se la stagione delle piogge ogni tanto, con la sua simpatia, smuove le cose. Ieri mattina c’era un gran caldo, poi nel pomeriggio sono arrivati i nuvoloni neri e si è scatenata la fine del mondo, acqua a secchiate e vento. Oggi al centro le mamme non arrivavano APRILE 2015 MC 27 CONGO RD 14 Ottobre Bayenga: che avventura! Partiti venerdì alle 8, siamo arrivati alle 17. Per il ritorno invece siamo partiti lunedì (ieri) alle 8 e siamo arrivati a mezzogiorno di oggi. Con il senno di poi il viaggio di andata è stato buono, anche se mi rifiuto di chiamare strade quelle che abbiamo attraversato: un campo arato in confronto è il paradiso. La missione è bellissima, immersa nella foresta, uno spettacolo per gli occhi. Qui viene in particolare seguito un programma con i Pigmei per sostenere la loro cultura. Sì, anche qui c’è del razzismo: i Pigmei sono considerati inferiori e sfruttati dalla altre tribù locali. Nel breve tempo a disposizione, ho visitato un loro accampamento nella foresta. Piante curative, sistemi di caccia, pitture, danze: qualcosa di così «antico» e puro non avrò la fortuna di rivederlo. Ho già chiesto di tornare. Mentre tutti sono indaffarati nei preparativi della festa, io mi metto a giocare con i bambini: io faccio la verticale e loro mi insegnano dei passi di danza. Il giorno della festa c’erano veramente tante persone! La messa è durata dalle 9 alle 13, ma con i canti della corale e i balletti dei bambini, non si è sentita la lunghezza. Dopo c’è stato il pranzo, e a seguire, per tutto il pomeriggio, i balli di gruppo e quelli dei pigmei. È stato un giorno pieno di sguardi, volti, sorrisi, comunicazione, emozioni. Arriviamo così al viaggio di ritorno, su cui potrebbe essere girato un film. Siamo partiti alle 8, e dopo 15 minuti ci siamo fermati per un camion impantanato, rimanendo ad aspettare fino alle 14. A quel punto, data l’assenza di progressi, abbiamo pagato dei ragazzi che stavano lì seduti a guardare (e che non aspettavano altro). Hanno letteralmente costruito la strada. Prima hanno tolto l’acqua a secchiate, poi hanno spalato il fango, sono andati con il macete a tagliare dei tronchi in foresta per metterli a terra, e infine ci hanno buttato sopra della terra asciutta e dura. Alle 18 siamo riusciti a partire. Un 28 MC APRILE 2015 # A destra: Tommaso con una famiglia di pigmei a Bayenga. Qui sotto: verso Bayenga da Isiro su una strada che non vede più manutenzione da molti anni. Le disavventure dei viaggiatori diventano spettacolo e opportunità per chi vive lungo il tracciato. Un aiuto non è mai negato in cambio, ovviamente, del dovuto riconoscimento. Succede anche che la buca che è stata riparata sia poi riaperta, in attesa del prossimo, raro, viaggiatore che non potrà così evitare le premure dei suoi soccorritori. ragazzo che era lì ad aspettare come noi mi ha detto: «Questa è la sofferenza del Congo. I congolesi sono abituati a soffrire». Dunque il viaggio riprende mentre cala la notte. Ci ritroviamo in un buio pesante, in un rettilineo nel mezzo della foresta. Incontriamo l’ennesima buca e ci blocchiamo. Scendiamo dalla macchina che ora è in obliquo. Dalle 19 a mezzanotte si susseguono spalate e tentativi dell’autista di uscire dal fango. A condire il meraviglioso buio ci sono i suoni della foresta che di notte non sono troppo incoraggianti. Decidiamo di dormire. Naturalmente incomincia a piovere e quindi ci rifugiamo tutti dentro l’auto. Ero pronto a dormire in macchina, ma non in una macchina mezza rovesciata nel fango! Il mio posto è dietro al conducente nel lato opposto a quello affondato, quindi per non cadere addosso agli altri sto tutto il tempo attaccato al finestrino mezzo aperto con un braccio di fuori. In più tra noi c’è un autentico russatore. Verso le 5,30 inizia ad albeggiare. Alle prime luci dell’alba vedo dall’altra parte della strada alcune capanne. Dunque io mi chiedo: ma nelle 5 ore in cui abbiamo fatto una confusione tremenda tra grida, frizione dell’auto a manetta, vangate, ecc., nessuno poteva alzarsi e venire a vedere cosa succedeva? Mah! In ogni caso, la gente spunta fuori e arriva come se già sapesse di doverci aiutare (dietro ricompensa ovviamente). Questa volta riusciamo a liberarci verso le 7, e ripartiamo. Dopo dieci minuti MC ARTICOLI che traspare dai nostri paesi più ricchi è che la felicità la fanno le cose e i soldi. Questa logica malata purtroppo inquina anche questi luoghi, dove la gente brama il denaro per imitarci. E così, oltre a rovinare noi stessi, roviniamo anche quei popoli che avrebbero tanto da insegnarci. Eritié è migliorato e non pernotta più al centro. Radis continua a menarmi, ma in fondo l’ho conquistato: a volte viene e appoggia la testa sulle mie gambe. 26 Ottobre l’auto si spegne, ma ripartiamo dopo mezz’ora. Poco più avanti si spegne di nuovo, e questa volta sembra che il motore non voglia proprio saperne. Mentre qualcuno prova a cercare aiuto, il motore, non si sa come, riparte (a detta dell’autista e di tutti gli altri è un miracolo). Ripartiamo per l’ennesima volta e, dopo un altro lungo pezzo di strada e un altro stop con relativo aiuto (dietro compenso) di alcuni giovani, finalmente arriviamo a casa. 21 Ottobre Bula, Bula, Bula! Pioggia, pioggia, pioggia! Molti prodotti alimentari non arrivano, e i prezzi di quelli locali schizzano alle stelle. È la seconda notte che non dormo, causa matanga dei vicini. La matanga è una sorta di veglia funebre, ma in pratica è un’occasione per spolpare la famiglia in lutto che deve offrire da bere e mangiare. La povertà arriva a intaccare anche i valori, e anche la morte diventa occasione per mettere qualcosa sotto i denti. La malattia attuale più grande non è l’ebola o la malaria, ma il sentimento di essere indesiderabile, disprezzato e abbandonato. Mi rendo conto di come la ricchezza e la povertà rendano ciechi (la prima per superbia e egoismo, la seconda per disperazione e logoramento) davanti alla grande verità che solo un essere umano può rendere felice un altro essere umano. Infatti l’idea Prima di partire non avrei mai immaginato che avrei vissuto il razzismo sulla mia pelle. Sono in un paese sconosciuto, da solo e non conosco la lingua. Ma soprattutto sono mundele (bianco). Qui sembra che l’unica relazione possibile con i bianchi sia finalizzata ad avere soldi. Mi ritrovo a girare per strada a testa bassa, perché non è facile sostenere quegli sguardi, alcuni dei quali ti giudicano. E come biasimarli del resto? Io sono ricco, ho un sacco di possibilità. Non posso non sentirmi in colpa, benché, effettivamente, che colpa posso avere? Spesso mi metto a osservare la gente che passa: questo popolo non avrà da mangiare, ma è sempre in cammino. Non si lascia paralizzare dalle difficoltà. Sembra dire: «Non ci sto a rimanere con la faccia nella polvere, comunque vada c’è qualcosa che quasi nessuno può togliermi: la vita». 29 Ottobre Qua a Isiro l’istruzione risente, come tutto il resto, della povertà. Se avessi fatto questa esperienza anni fa, avrei riconosciuto il vero valore della scuola. Girando per strada vedo sempre studenti con zappe e macete. Allora un giorno ho chiesto loro il perché. Dunque dovete sapere che gli stipendi statali degli insegnanti non arrivano mai. Quindi vengono tolti dei soldi dalla tassa di iscrizione (molto cara), e in più, diversi docenti fanno lavorare gli studenti nei campi e a casa loro. Questa settimana a Gajen ho seguito la scuola materna. Ovviamente i bambini stavano la mag- gior parte del tempo girati verso di me invece di seguire l’insegnante. A parte qualche balletto e canzoncina la mattina, per il resto non esistono attività o giochi. Durante le lezioni i bambini ripetono a macchinetta e in coro quello che dice l’insegnante, anche perché devono imparare il francese. Comunque io mi sono divertito un mondo! Facevo le smorfie e, da bravo studente, ripetevo in coro con loro canzoncine e poesie. Una frase dice: «L’anima guarisce stando con i bambini». Cavolo, è proprio vero! Per il resto tutto bene. Volente o nolente il lingala lo sto assorbendo. Sono sempre stato abituato a fare e fare, ma in questo momento mi viene chiesto «solo» di vivere: sono due cose diverse e non è per niente facile comprenderlo. Novità delle ultime ore. Domani partirò per la missione di Neisu di nuovo nella foresta, quindi pronti per una nuova avventura. Tommaso degli Angeli* (1 - continua) * Dopo aver studiato all’Istituto tecnico agrario, ho conseguito la laurea triennale presso la Facoltà di Tecnologie alimentari a Bologna. Ho 22 anni. Abito a Bagnarola di Cesenatico (Forlì-Cesena). Ho conosciuto la Consolata grazie a padre Francesco Giuliani. Dopo aver fatto insieme a lui e altri giovani un percorso di animazione missionaria e due brevi viaggi (Gibuti nel 2011, Kinshasa, Congo Rd nel 2013), è nato in me il desiderio di vivere un’esperienza più lunga e intensa. Allora ho deciso di prendermi un tempo per riflettere su me stesso e sulla mia vita mettendomi al servizio del prossimo. Padre Francesco mi ha suggerito Isiro, e a settembre 2014 sono partito. Ciò che faccio è principalmente aiutare il centro nutrizionale di Gajen. Il diario è nato dall’idea che è importante scrivere le cose per rendere materiale ciò che vivo nel cuore (e per essere testimone). Tra le motivazioni del viaggio, la più importante è la fede: mi sentivo chiamato a vivere lo stile di vita missionario, così mi sono buttato, senza tante sicurezze, spinto dallo Spirito che me lo suggeriva. APRILE 2015 MC 29 Della legalità e della giustizia La rubrica di Gian Carlo Caselli LO SCANDALO DELLA PRESCRIZIONE Torniamo a parlare di corruzione e dei danni che produce. Pur registrando livelli da primato, nelle carceri italiane ci sono soltanto una decina di persone (su 54 mila!) detenute per quel reato. Colpa anche della prescrizione che, da norma di garanzia, si è trasformata in una scappatoia legale per imputati eccellenti e colletti bianchi. Le soluzioni ci sarebbero, ma troppo spesso manca la volontà politica. Così, a 25 anni dall’uscita di «Educare alla legalità», in Italia la situazione è addirittura peggiorata. apa Francesco ha fatto riferimento al tema della corruzione, dal giorno della sua elezione a Pontefice, in moltissime occasioni, in particolare nella Evangelii gaudium. Parole dure egli le ha pronunziate anche in occasione dell’incontro con la delegazione dell’Associazione internazionale di diritto penale (23 ottobre 2014). Secondo il Papa la corruzione, come gravità, viene subito dopo la tratta delle persone. È un male più grande del peccato e, più che perdonato, va curato. È diventata «una pratica abituale nelle transazioni commerciali e finanziarie, negli appalti pubblici, in ogni negoziazione che coinvolga agenti dello Stato. È la vittoria delle apparenze sulla realtà». Quanto alla sanzione penale, essa «è come una rete che cattura solo i pesci piccoli, mentre lascia i grandi liberi nel mare». Meritano maggiore severità le forme di corruzione «che causano gravi danni in materia economica e sociale». Per esempio, «le gravi frodi contro la pubblica amministrazione o l’esercizio sleale dell’amministrazione»; ovvero «qualsiasi sorta di ostacolo frapposto al funzionamento della giustizia con l’intenzione di procurare l’impunità per le proprie malefatte o per quelle di terzi». Di corruzione, purtroppo, ce n’è un po’ dovunque, ma P in Italia - almeno rispetto gli altri paesi europei - di più, se è vero che da noi si registra una corruzione pari al 50% di quella dell’intera Comunità. Le parole del Papa, dunque, ci interpellano in modo speciale. a prima considerazione da fare è che la corruzione (nonostante le tante inchieste, da «Tangentopoli» in poi) sembra riprodursi all’infinito. C’è quindi prima di tutto un problema di regole, di leggi che riescano a rendere la corruzione non conveniente. Questo problema investe l’adeguamento delle pene (non solo carcerarie; anche e soprattutto interdittive, quelle in ultima analisi ancor più temute e quindi assai efficaci). Nonché la definizione delle fattispecie, che una recente riforma (attesa per oltre vent’anni e tradottasi nella cosiddetta «legge Severino») ha finito per confondere e annacquare, costringendoci a mettere in cantiere una nuova riforma. Ma ancor più gravi e urgenti sono i problemi connessi alla certezza della pena. Se i tempi del processo sono biblici e la prescrizione quasi sempre inghiotte tutto e lo azzera, o si interviene efficacemente su questo versante o si continua a ballare sul Titanic. Per salvarsi bisogna avere coraggio: interrompere la prescrizione quanto meno con la con- L LA GIUSTIZIA: qualche numero Procedimenti penali estinti per prescrizione (2013) 123.078 (337 al giorno) Numero di detenuti per corruzione (e concussione) dato statistico irrilevante Numero di detenuti nelle carceri italiane (31 gennaio 2015) 30 MC APRILE 2015 53.889 MC RUBRICHE # A fianco: un’immagine dall’Inferno di Dante, canto XXII. Nella bolgia ci sono i «barattieri», coloro che in vita usarono le loro cariche pubbliche per arricchirsi; il poeta immagina i dannati immersi nella pece bollente. Sotto: il logo di «Allerta Anticorruzione» (Alac), portale internet istituito dalla sezione italiana di Transparency International per assistere chi decida di segnalare episodi di corruzione. danna di primo grado, come accade ovunque nel mondo salvo che da noi (ed ecco perché i processi non finiscono mai…), e abolire il grado di appello, che di fatto non c’è nei sistemi accusatori cui anche noi ci siamo allineati col nuovo codice di procedura penale del 1988. Occorre poi prendere atto che la corruzione in Italia non è riconducibile a un circolo delimitato per quanto esteso, ma è sempre più un vero e proprio «sistema», che mette in crisi l’intero apparato economico-sociale del paese. Per poter fotografare questa realtà, la legge anticorruzione deve allo stesso tempo essere inserita in un sistema di misure e interventi che la supportino. Per cominciare vanno incentivate le denunzie delle situazioni illecite. La corruzione è un fenomeno occulto, e il controllo più efficace è quello interno (nell’ambito pubblico e privato), per cui sono indispensabili misure protettive e premiali per i collaboratori di giustizia. Va inoltre disciplinato l’impiego di «agenti provocatori» come fonte di prova. Nello stesso tempo anche il nostro paese deve dotarsi di forme di difesa tipo Whistleblower (letteralmente «suonatori di fischietto»), ovvero le vedette civiche che con le loro segnalazioni possono smascherare comportamenti illeciti. Ovviamente tutto ciò deve viaggiare di pari passo con un monitoraggio e un potenziamento degli istituti ispettivi che puntino a uno Stato con mura di vetro e porte blindate, attraverso la trasparenza integrale della pubblica amministrazione (specie in punto svolgimento ed esiti di gare e concorsi; dati sull’uso delle risorse; bilanci). Utili possono essere appositi test di integrità per politici, amministratori e funzionari. Confisca dei beni e reimpiego per fini sociali vanno estesi dalla mafia alla corruzione. Per la loro decisiva funzione di reati civetta vanno perseguiti - con efficacia e non per finta - il falso in bilancio, l’evasione fiscale, vari reati societari GLOSSARIO Corruzione di pubblico ufficiale - Delitto contro la pubblica amministrazione consistente nel dare o promettere denaro o altri vantaggi a un pubblico ufficiale perché egli ometta o ritardi un atto del suo ufficio o compia un atto contrario ai doveri di ufficio oppure perché compia un atto del suo ufficio. Gli esempi sono quotidiani: tangenti («mazzette») per concedere autorizzazioni, per evitare controlli, per ottenere dichiarazioni, per avere informazioni riservate su appalti e concorsi. Concussione di pubblico ufficiale - È il reato commesso dal pubblico ufficiale quando pretende dal cittadinoutente denaro o altri vantaggi per svolgere il servizio pubblico cui lo stesso è preposto. Denunzie corruzione - L’Italia è il paese più corrotto dell’Unione europea e uno dei primi del mondo, ma i cittadini - per paura o sfiducia - faticano a denunciare. Per questo, è nato un sito web - alac.transparency.it - cui segnalare i presunti casi di corruzione, anche in forma anonima. Autoriciclaggio - È il riciclaggio di denaro di provenienza illegale, compiuto dalla stessa persona che ha ottenuto tale denaro in maniera illecita. Fino al dicembre 2014 nel Codice penale italiano esisteva soltanto il delitto di riciclaggio, ma non quello di autoricilaggio. Falso in bilancio - È uno dei metodi classici per pagare meno imposte, distribuire dividendi, accantonare «fondi neri», questi ultimi quasi sempre utilizzati per atti di corruzione. È ritenuto la madre di tutti i reati economici. Le sanzioni più dure contro il falso in bilancio sono in vigore nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Prescrizione del reato - La prescrizione del reato è l’istituto giuridico in base al quale lo Stato rinuncia a perseguire l’autore di un reato quando sia trascorso un determinato periodo di tempo. In Italia, la prescrizione si è trasformata da norma di garanzia a scappatoia legale, aumentando a dismisura il «tasso d’impunità» e negando alle vittime il diritto alla giustizia. Un esempio di prescrizione del reato: a novembre 2014 la Cassazione ha annullato per prescrizione le condanne del processo Eternit. Le vittime dell’amianto, passate, presenti e future sono rimaste senza giustizia. (a cura di Paolo Moiola) APRILE 2015 MC 31 LA CORRUZIONE: cosa comporta e come si combatte L’imPAtto deLLA CoRRuzione • gli effetti: avvelena l’economia (mercato, denaro pubblico, investi• © Corrieredelmezzogiorno Le PoSSibiLi SoLuzioni • • • • • • • • • oRgAniSmi StAtALi menti), inquina la democrazia ed erode i legami sociali («Riparte il futuro», campagna anticorruzione di Libera-Gruppo Abele); i costi stimati: 60 miliardi di euro all’anno di soli costi diretti (4% del Pil italiano), ma l’esattezza del dato è contestata. certezza della pena e interruzione della prescrizione; precisa definizione delle fattispecie; adeguamento delle pene (carcerarie e interdittive); abolizione del grado d’appello; confisca dei beni dei corrotti e loro reimpiego a fini sociali; potenziamento degli istituti ispettivi; controllo interno con premi per i collaboratori; introduzione di test d’integrità per politici, amministratori e funzionari; introduzione delle vedette civiche (whistleblower). • l’«Autorità nazionale anticorruzione» (Anac), attualmente presieduta dal magistrato Raffaele Cantone: www.anticorruzione.it. e l’autoriciclaggio (quest’ultimo dopo una lunga attesa segnata da veti contrapposti, alla fine vietato e punito, ma con la ambigua esclusione del reimpiego del denaro sporco per… godimento personale). a da sé infine che la battaglia va combattuta con determinazione, senza che gli ammonimenti del Pontefice restino isolati o peggio senza seguito concreto. Come invece sembra purtroppo essere accaduto per la nota pastorale della Commissione ecclesiale della Cei «Giustizia e pace» del 4 ottobre 1991 intitolata Educare alla legalità, che denunziava come inquietante «la nuova criminalità così detta dei “colletti bianchi”, che volge ad illecito profitto la funzione di autorità di cui è investita, impone tangenti a chi chiede anche ciò che gli è dovuto, realizza collusioni con gruppi di potere occulti e asserve la pubblica amministrazione a interessi di parte». Parole energiche e di straordinario valore, ma presto dimenticate: forse perché non vi è stata quella «mobilitazione delle coscienze» che i vescovi di allora segnalavano come assolutamente necessaria, e che ancora oggi è conditio sine qua non per sperare di frenare e ridurre i fenomeni illegali. Perché «non vi è solo paura, ma spesso anche omertà; non si dà solo disimpegno ma anche collusione; non sempre si subisce una concussione, ma spesso si trova comoda la corruzione per ottenere ciò che altrimenti non si potrebbe avere. Non sempre si è vittima del sopruso del potente o V # A destra: la copertina del libro di papa Francesco dedicato alla corruzione (Emi, Bologna 2013). In alto: Raffaele Cantone, il magistrato che dal 2014 presiede l’Autorità nazionale anticorruzione (Anac). 32 MC APRILE 2015 del gruppo criminale, ma spesso si cercano più il favore che il diritto, il “comparaggio” politico o criminale che il rispetto della legge e della propria dignità». Peccato che queste parole del 1991 sembrano essere state come cenere al vento, tanto da poter essere ripetute pari pari ancora oggi. La speranza è che gli interventi di papa Francesco riescano finalmente a trasformare le buone intenzioni in vere attitudini cristiane. Gian Carlo Caselli PS - Mentre chiudiamo la rivista (3 marzo), governo e parlamento discutono (e litigano) sulle pene per la corruzione e per il falso in bilancio. Nel frattempo, è stata approvata la norma che rafforza (era già prevista dalla legge Vassalli del 1988) la responsabilità civile (indiretta) dei magistrati. (Pa.Mo.) REPORTAGE DALLA SICILIA DELL’«EMERGENZA SBARCHI» TERRA VIVA DI PESCATORI E MIGRANTI TESTO E FOTO DI SILVIA ZACCARIA, CON UN CONTRIBUTO DI ENRICO CASALE SIcILIa, Tappa dI uN’uMaNITà IN fuga © Chiara Giovetti DOVE GLI EROI NON SONO DÈI DI SILVIA ZACCARIA Nel canale che divide la Tunisia dalla Sicilia passa il confine tra due continenti, tra il Nord e il Sud del mondo. Ma i confini sul mare sono per loro stessa natura liquidi ed effimeri, così come i confini tra i gesti degli dei dell’antichità classica e quelli dell’umanità ferita che oggi nell’isola di Verga vive e resiste. In quel mare nostrum si mescolano i destini dei pescatori siciliani con quelli dei migranti. Lì si consuma quel fenomeno strutturale, inarrestabile e prevedibile che impropriamente politici e media chiamano «emergenza sbarchi». d Aci Trezza, in provincia di Catania, tutti conoscono «Grillo» il pescatore. «Da giovane mi chiamavano Fellini», dice accennando un sorriso sotto la barba bianca. Quando lo vediamo uscire dall’acqua con la sua preda, a noi ricorda piuttosto Tritone, il figlio del dio del mare, per metà uomo e per metà pesce. Carlo Levi, durante uno dei suoi viaggi nella Sicilia del secondo dopoguerra, esperienza da cui nacque il libro Le parole sono pietre (1955), ebbe modo di visitare il borgo marinaro immortalato da Verga ne I malavoglia e da Visconti ne La terra trema, e raccolse le impressioni di una signora straniera che, come lui, viaggiava alla scoperta dell’isola: «Camminando per le vie di Aci Trezza, le era parso “di passare in mezzo a un popolo di A 34 MC APRILE 2015 dèi tanto era chiaro in ciascuno che il suo viso, i suoi gesti, le sue vicende, il suo destino, erano fissati ed eterni, non seguendo una storia individuale ma uno stile o un costume a tutti comune ed immutabile. Non mi sembrano uomini, donne, bambini di oggi, ma alberi di una foresta, o esseri antichi, come gli dèi. Mi pare che qui tutto debba essere sempre stato così e che sarà sempre così”». Grillo-Fellini ha catturato da poco una murena: «Nel mese di maggio - spiega ai turisti che si accalcano curiosi attorno a lui - le vipere in calore si spingono sugli scogli e si accoppiano con certe specie di pesci e così nascono le murene». Nella cultura popolare gli eroi non sono dèi, ma piccoli uomini, persone comuni le cui gesta però, I fantasmi DOSSIER MC SICILIA MIGRANTI nel momento in cui essi superano il confine dei mondi, assumono contorni mitici. Mito e fiaba, infatti, raccontano, in modo più o meno diretto, soprattutto viaggi di scoperta, in cui la conoscenza di sé e la generosa apertura verso l’Altro a volte costa il sacrificio dei loro protagonisti. Così, se nella mitologia greca Tritone può trascinare fino al Mediterraneo la nave Argo arenata nel deserto della Libia grazie ai suoi poteri soprannaturali, nella leggenda sicula, Colapesce, un pescatore di Messina1 trasformato in una creatura anfibia da una maledizione, può salvare la Sicilia decidendo di rimanere per sempre in fondo al mare per sostituirsi a una delle colonne che sorreggono l’isola, quella consumata dal fuoco dell’Etna2, e per essere d’aiuto ai marinai. Per la gente di Sicilia «Colapisci» non è morto, e un giorno tornerà sulla terra: quando nessun uomo soffrirà più per dolore o per castighi, per quell’atavica condizione d’ingiustizia Foto di copertina: allo scalo di Aci Trezza, la Provvidenza, una delle imbarcazioni dipinte di cui si parla a pagina 38. A sinistra: Lampedusa, la testa del corteo del 3 ottobre 2014 per commemorare l’anniversario del naufragio del 3 ottobre 2013. A reggere lo striscione, i sopravvissuti al naufragio e il sindaco Giusi Nicolini. La prima persona a destra è Abba Mussie Zerai, sacerdote eritreo intervistato a pagina 47. | Qui sopra: il pescatore «Fellini», e il bronzo di Colapesce, in una delle sue numerose rappresentazioni presenti in città a Catania. di Portopalo Natale 1996. Muoiono tra Malta e Lampedusa 283 migranti. Nell’indifferenza delle istituzioni. I l ricordo della strage di Lampedusa dell’ottobre 2013, sarebbe, con tutta probabilità, scivolato via, se nella notte tra l’8 e il 9 febbraio 2015 non ci fosse stata una nuova tragedia di migranti nel Mediterraneo. Il numero delle vittime, nei giorni in cui scriviamo, non è stato ancora accertato, ma i sopravvissuti parlano di più di 300 dispersi. Ad ogni modo, passato il momento dello sdegno, anche questa vicenda cadrà nell’oblio, così come quella avvenuta nell’ormai «lontano» 1996, quando una «carretta del mare», allora carica di 283 indiani, tamil e pakistani, naufragò tra Malta e la Sicilia. Una strage rimossa da subito: all’inizio di gennaio 1997 arrivarono dalla Grecia le prime denunce dell’accaduto, ma la reazione delle autorità italiane fu il rifiuto di credervi. Quando, nei mesi seguenti, i pescatori di Portopalo di Capo Passero, che battevano quel tratto di mare, iniziarono a trovare nelle proprie reti, insieme al pescato, resti umani, ebbero paura che l’avvio di indagini avrebbe comportato la chiusura dello spazio di pesca per un tempo indeterminato. In più un collega che aveva portato a riva un cadavere era stato bloccato in porto dalla burocrazia perdendo giorni di lavoro tra verbali e interrogatori. Tutti presero la stessa decisione: ributtare quei corpi in mare. Per anni un intero paese custodì l’atroce segreto finché il giornalista Giovanni Maria Bellu non lo svelò ricostruendo l’intera vicenda nel libro I fantasmi di Portopalo, Mondadori, Milano 2004. Per dimostrare che quel naufragio era davvero avvenuto, il giornalista raccolse le testimonianze dei protagonisti: il pescatore Salvatore Lupo che ruppe il silenzio, il parroco che assolveva tutti - «L’hanno fatto per non interrompere il loro lavoro; se ci pensiamo bene, il mare è un luogo di pace quanto e forse anche più della terra» -, e l’intellettuale del luogo che invece riconosce nei pescatori delle gravi responsabilità: «Quando seppi quello che stava succedendo in mare, dissi a qualche pescatore che stava sbagliando, ma non ti ascoltano; ognuno pensa al suo: ora c’è fretta di guadagnare, paura di restare indietro. Un tempo c’erano meno soldi ma più rispetto. È vero che a molti manca una coscienza civica, ma non sono razzisti». Per Dino Frisullo che, in quell’inverno del ’97, bussò insieme ai parenti delle vittime alle porte della nuova sinistra di governo per chiedere il recupero della nave e del suo carico umano, e il ripensamento delle politiche di chiusura, «i pescatori s’erano comportati in quel modo perché non avevano avvertito nessun interesse da parte delle autorità». S.Z. APRILE 2015 MC 35 che Levi trovò radicata nella terra siciliana, «antica, composita, enormemente stratificata che forze eterne, oscure e prepotenti tengono da sempre in soggezione». Lo scrittore riteneva di poter comprendere quella terra «solo indugiando su quanto ancora in Sicilia ristagna e imputridisce, di violento investe, di penoso sgomenta, di dolce sfiora, di mitico-storico-poetico torna alla memoria». Tappa di un’umanità in fuga Tappa di passaggio per naviganti della mitologia antica, l’isola è oggi sulle rotte di un’umanità in fuga «che si imbarca, senza geografia, da qualunque spiaggia, verso qualunque approdo»3, estremo baluardo, suo malgrado, di quella «fortezza Europa»4 che proprio nel mito classico va a cercare i nomi per le sue operazioni di controllo delle frontiere, forse nell’intento di dare un’aura eroica alle imprese poco gloriose del presente: Hermes, Aeneas, Poseidon, fino all’ultima Triton, che però, per l’appunto, della divinità benevola, capace di calmare le acque e d’indicare la rotta agli Argonauti, non ha nulla. Con questa stessa retorica classicheggiante era cominciata anche Mare Nostrum, la missione militare e umanitaria tutta italiana di «sorveglianza e soccorso in mare», inaugurata pochi giorni dopo il naufragio in cui morirono annegate, a largo di Lampedusa, più di 360 persone, e chiusa il primo novembre scorso, sostituita dalla più modesta missione europea Triton. È il 3 ottobre 2014, primo anniversario della trage- dia: la commemorazione ufficiale si svolge sull’isola con la passerella delle autorità e le contestazioni delle associazioni locali (Askavusa, «a piedi scalzi» in dialetto lampedusano, in primis), mentre i parenti delle vittime e i superstiti5 sono ricevuti dal Papa. In piazza dell’Esquilino, a Roma, si tiene una sommessa cerimonia interreligiosa: un imam legge un passo del Corano, un prete ivoriano intona l’Ave Maria e un esponente delle «religioni tradizionali» suona una specie di olifante come a evocare gli spiriti dei morti. Si leggono le testimonianze dei sopravvissuti e poesie di scrittori africani: «Per ognuno di noi c’è una stella nel cielo, ogni persona che muore è una stella che non sopravvive». Le donne eritree, avvolte in un leggero panno bianco, con cui nascondono il viso dai fotografi, hanno in mano una candela accesa. La sera c’è l’anteprima del film documentario Io sto con la sposa, dove il senso dell’incredibile viaggio di un gruppo di profughi palestinesi e siriani attraverso le frontiere europee è espresso nei versi di un poeta tunisino: «Se devi vivere, vivi libero. Se devi morire, muori come un albero, immobile». E mentre ancora si commemorano le vittime di Lampedusa, alle operazioni di controllo e soccorso in mare si affiancano quelle di monitoraggio delle frontiere «esterne», aeree, marittime e terrestri: Mos Maiorum6 (letteralmente «costume degli antenati», locuzione che nell’antica Roma indicava i valori cui conformarsi per essere parte della civiltà romana, ndr) è lo slogan della maxi retata lanciata tra il 13 e il 26 ottobre 2014 dal ministero dell’Interno italiano, in collaborazione con l’Agenzia europea Da sinistra: esponenti delle religioni tradizionali durante la commemorazione interreligiosa per i migranti morti nel Mediterraneo tenutasi a Roma il 3 ottobre 2014. | La locandina del film Io sto con la sposa, sul viaggio di un gruppo di profughi palestinesi e siriani. | Uno scorcio del quartiere di San Berillo, a Catania. | Copertina del rapporto Unhcr So close, Yet so far (from safety). 36 MC APRILE 2015 Così vicini, DOSSIER MC SICILIA MIGRANTI Frontex, per schedare gli immigrati irregolari presenti sul nostro territorio europeo. Il richiamo al «costume dei padri», quasi a indicare una presunta - ma fittizia - identità culturale comune a tutti i paesi membri dell’Ue, assume inquietanti connotazioni xenofobe. Fenomeno strutturale, non emergenza Al mercato del pesce di Aci Trezza il signor Liberato prepara le reti per l’indomani. Gli diciamo che siamo in Sicilia per seguire l’«emergenza sbarchi». «Ma è vero - ci chiede - che Mare Nostrum costa all’Italia 9 milioni di Euro al mese?». «Tempo fa», racconta Liberato, «trovai una barca in avaria con dei clandestini a bordo vicino a Cassibile. Chiamai la polizia marittima di Siracusa. Mi risposero: “Siamo in zona!”. Ma arrivarono quattro ore dopo e trovarono solo il capitano. I clandestini erano già stati caricati su una barca più piccola e portati fino alla costa. Mi chiamarono addirittura dal tribunale per farmi l’interrogatorio: “Quanti erano?”. Ma io ci dissi: “Mentre li salvavo, non li contavo mica”. Lo sa che c’è, signora? La prossima volta mi faccio i fatti miei. La giornata di lavoro persa non me la paga nessuno». (Cfr. Box pagina 35) La risposta alla domanda sul costo di Mare Nostrum del signor Liberato si trova scritta a chiare lettere sul sito della Camera dei deputati7, nel quale si legge che l’operazione è stata finanziata per un terzo «dalle entrate dell’Inps derivanti dagli oneri di regolarizzazione degli immigrati» dell’ultima sanatoria8, nonché da «corrispondente riduzione del Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso, delle richieste estorsive e dell’usura», la quale ha comportato un taglio senza precedenti proprio nella Regione chiave di Cosa Nostra. Spenti i riflettori sull’operazione Mare Nostrum, sostituita da Triton, si è interrotta anche la «cronaca degli sbarchi» che riportava, come un bollettino di guerra, il numero dei dispersi e dei salvati. (Cfr. Box in questa pagina) così lontani 170mila arrivi. Più di 100mila persone salvate dall’operazione Mare Nostrum. 3mila le vittime. 44mila richieste di asilo. Il record nel 2014. S econdo l’Unhcr, nel 2014 sono stati circa 200mila i migranti che hanno tentato di attraversare il Mediterraneo. Una cifra quasi tre volte superiore al precedente record del 2011. L’Italia ha ricevuto 170mila arrivi: quasi 14.200 al mese, una media di 466 al giorno. Più di centomila le persone tratte in salvo nell’operazione Mare Nostrum tra la metà di ottobre 2013 e il 1° novembre 2014. Oltre 3mila le vittime. Se è vero che le richieste di asilo in Italia sono aumentate rispetto all’anno precedente, raggiungendo le 44mila unità, è pur vero che il nostro paese si colloca solo al quinto posto a livello europeo. Se guardiamo poi al fenomeno dei rifugiati da un punto di vista globale, scopriamo che l’onere maggiore grava sui paesi in via di sviluppo, che da soli hanno provveduto a dare accoglienza a dieci milioni di persone, ovvero l’86% del totale. Pakistan, Iran, e Libano sono i paesi che ospitano il maggior numero di rifugiati. La Turchia ospita da sola più di un milione di rifugiati siriani. In Europa, la Germania resta il paese con il maggior numero di richieste (59% del totale), seguita da Francia e Svezia. Se si confrontano i dati del ministero dell’Interno con quelli pubblicati dall’Unhcr nel rapporto So close, Yet so far (from safety), si scopre che su 28.557 cittadini eritrei e 23.945 siriani arrivati in Italia nel 2014 (gennaio-settembre), le richieste di asilo presentate nello stesso periodo sono state rispettivamente 367 e 405, il che rivela una tendenza da parte di queste persone a non chiedere asilo nel nostro paese e a spostarsi verso altri stati europei. S.Z. (Fonti: www.centroastalli.it www.redattoresociale.it). APRILE 2015 MC 37 L’uso improprio del termine «sbarco» da parte dei media e della politica, automaticamente collegato nell’immaginario collettivo all’immigrazione irregolare, ha alimentato la retorica del «flusso straordinario e fuori controllo», e quindi dell’«invasione», legittimando la dichiarazione di «stato d’emergenza» che dal 2002 viene prorogato di anno in anno da tutti i governi che si sono susseguiti9. Quello degli «sbarchi», come il flusso migratorio in generale, è invece un fenomeno strutturale, fortemente esposto alle variazioni del contesto geopolitico, il cui andamento somiglia a un fiume carsico, con stagioni di particolare dinamismo e improvvisa accelerazione, come quella attuale, seguite da fasi di quiete. Morire lontano dai sassi che ti conoscono Nel suo viaggio nel paese dei Malavoglia, Levi era rimasto colpito dall’atteggiamento dei pescatori di fronte alla vita e alla morte, dalla loro tenace accettazione di un destino stretto tra mare e vulcano. «Un mondo pieno di luce, calmo e chiuso in gesti armoniosi», come quelli dei marinai che riparano le reti o di quel vecchio che col pennello rinfresca la vernice della sua barca dipinta: «Eravamo scesi intanto tra le barche, tirate in secco sulla spiaggia tra le grandi pietre violette e levigate, l’una vicina all’altra, sì da rendere difficile il passaggio: erano come fiori colorati, come carri siciliani senza ruote». Sulla prua, al posto dei Paladini di Francia raffigurati sulle miriadi di carretti che Levi vedeva passare per le strade «come una continua emigrazione di un popolo che non può star fermo», c’era San Francesco da Paola, protettore dei pescatori, e l’immancabile occhio «scaccia guai», che, oltre alla funzione apotropaica (di allontanare le influenze maligne), aveva quella di elevare la barca a rango di persona umana. Allo scalo di Aci Trezza, di quelle imbarcazioni variopinte del tempo che fu, quando la pesca era abbondante e il mare faceva ancora paura - e quindi il pescatore, per ingraziarselo, dava il meglio di sé ornando la propria barca come una «zita» («promessa sposa», in dialetto siciliano) -, ce ne sono rimaste solo due: Venere e, naturalmente, Provvidenza, che però stanno lì solo per bellezza, decorate da qualche amatore nostalgico. Al porticciolo turistico oggi c’è movimento: vicino alla banchina si scorge la sagoma sinistra di un peschereccio quasi completamente sott’acqua con la scritta, ancora leggibile a poppa, «Water World»: il destino nel nome. «Era tutto di legno, di legno buono. Forse era libico», commentano i pescatori dilettanti che la sera si ritrovano sul molo, come Maurizio, il quale di giorno fa l’operatore ecologico a San Berillo, nel centro di Catania. «C’è crisi. Almeno per cena mi faccio una bella zuppa cu sauru». Quando è stato ritrovato in mare aperto, all’interno del peschereccio c’erano ancora abiti, pacchetti di sigarette. Ora una scarpa spaiata galleggia sullo scafo. E un giornale locale titola: «È affondato il barcone dei clandestini»10. Ad Aci Trezza non si costruiscono più pescherecci, anzi una ventina di essi sono stati «rottamati» per ottemperare a una normativa Ue. Lo storico cantiere dei Rodolico, famiglia di maestri d’ascia che fece della marineria trezzota una delle più importanti della Sicilia e di tutto il Mediterraneo, somiglia a un museo privato di tradizioni marinare, che al tramonto diventa il ritrovo degli an- Tunisini DOSSIER MC SICILIA MIGRANTI ziani del paese. Loro sono sempre lì: in silenzio, l’uno accanto all’altro, a fissare l’orizzonte. Sono quelli che non se ne sono mai andati, ligi al monito di verghiana memoria: «Per me io voglio morire dove sono nato. Ringrazia Dio piuttosto, che t’ha fatto nascer qui; e guardati dall’andare a morire lontano dai sassi che ti conoscono». Il continente liquido: confine di mescolamento tra Nord e Sud Fino a tempi recenti, erano pochi i pescatori che sapessero nuotare, come i migranti che oggi affrontano il mare senza averlo mai visto, immaginandolo come il Niger, il Gambia, o come il fiume del loro villaggio. «Contadini del mare» vennero definiti i pescatori da De Seta in un documentario del 1955. Le loro sortite infatti non erano che un intervallo o un secondo lavoro rispetto a quello del contadino. «Perché il mare è amaro e incute timore, il mare è fatica e insicurezza, il mare è guerra». Come «la guerra del pesce»11 che i pescatori siciliani combattono da quarant’anni nel canale di Sicilia, in cui, per una tragica ironia della sorte, i loro destini s’incrociano con quelli dei migranti, e che dal 2011, anno dell’«emergenza Nord Africa», si è aggravata: a sequestrare le unità da pesca italiane in acque internazionali ora sono anche le motovedette fornite tempo fa a Gheddafi dal governo italiano per contrastare l’immigrazione clandestina. Il maggiore ambito di azione nelle acque internazionali riconosciuto alle motovedette a bandiera libica ha dato il colpo di grazia a un set- di Sicilia Pescatori, braccianti, ma non solo. A Mazara del Vallo risiede il più antico nucleo di immigrati tunisini di tutto il territorio italiano. Qui la presenza tunisina ha piuttosto il significato di un ritorno: l’economia della pesca favorisce la riappropriazione da parte degli immigrati di luoghi in qualche modo a loro familiari, come la vecchia casbah araba, abitata fino a nove secoli prima dai loro antenati. L’immigrazione tunisina in Sicilia inizia verso la fine degli anni Sessanta, ma è a partire dal 1985, quando la Tunisia attraversa una terribile crisi economica e 30mila tunisini sono espulsi dalla Libia, che si registra un primo ingente arrivo di migranti. Si tratta di uomini soli, occupati, appunto, come pescatori nel trapanese, ma anche come braccianti stagionali nella provincia di Ragusa, la quale negli anni diventa la «capitale» dei tunisini soggiornanti in Italia. A partire dal 1990 aumentano gli ingressi regolari per lavoro e ricongiungimento familiare. Ahmed è nato a Vittoria e fa il mediatore culturale in un centro di prima accoglienza per minori non accompagnati a Priolo Gargallo (zona ad alto rischio ambientale per la presenza, nel triangolo compreso tra questo comune e quello di Augusta e Melilli, di un importante polo petrolchimico). I genitori avevano riportato Ahmed in Tunisia all’età di 8 anni, e lui è tornato in Italia solo quando ne aveva 18 e i tempi per la richiesta della cittadinanza erano già scaduti. Ci racconta di come gli «stranieri come lui» abbiano ripopolato alcuni comuni della provincia iblea, svuotati dall’emigrazione dei siciliani verso il Nord, e di come nelle serre tra Vittoria e Gela, dove lavorano in condizioni di semischiavitù tunisini e rumeni (soprattutto donne), sia possibile trovare anche molti immigrati prelevati direttamente al momento dello sbarco o dai centri di prima accoglienza in cui erano ospitati. S.Z. Da sinistra in alto: la prua della barca Venere. Notare l’«occhio scaccia guai» e l’immagine di San Giovanni Battista. | Una veduta del cantiere Rodolico. | I resti del peschereccio «Water world». | Due membri della famiglia di maestri d’ascia Rodolico, Salvatore (a sinistra) e Giovanni. APRILE 2015 MC 39 tore come quello ittico già messo in ginocchio dalla concorrenza spietata di paesi poco regolamentati (come il Giappone) e dalle stringenti regole provenienti da Bruxelles, nonché all’intera marineria siciliana, sui cui pescherecci sono imbarcati, da ormai quasi mezzo secolo, anche numerosi lavoratori tunisini. (Cfr. box della pagina precedente) L’immigrazione tunisina in Sicilia però ha poco a che vedere con il complessivo fenomeno della globalizzazione e va inquadrata piuttosto nel contesto di una lunga storia tutta mediterranea. Bisogna ricordare infatti che in passato i siciliani avevano formato una consistente comunità nello stato maghrebino, prima e anche dopo che diventasse protettorato francese nel 1881. Nel canale che divide la Tunisia dalla Sicilia passa il confine tra due continenti, tra il Nord e il Sud del mondo; ma i confini sul mare sono per loro stessa natura liquidi ed effimeri. Il mare non conosce discontinuità né cesure e quel breve tratto di poche miglia è sempre stato parte capitale del «continente liquido» descritto da Ferdinand Braudel, spazio di comunicazione e di scambio, terra di mezzo12. «Il mare - scrive Verga non ha paese nemmeno lui ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare, di qua e di là dove nasce e muore il sole». Non assomigliano di certo alle «zite» le «carrette del mare», rese «umane» solo dalle pene degli uomini che vi hanno viaggiato. Vita e morte si stringono dentro questi scafi. Il costo di un viaggio in coperta, «al si- curo», può costare fino a cinquemila dollari; «solo» duecento per i bambini. Molto minore il prezzo della stiva, il luogo più pericoloso, riservato solitamente ai subsahariani, dove in caso di incidente nessuno sopravvive. «Di questi viaggi, uno su dieci si perde sul fondo»13. Come quello dei genitori di A., profughi siriani rifugiati in Sudan, dove il nonno paterno fa il manager per una importante compagnia aerea araba, ai quali non bastava appartenere a una famiglia benestante ed essere scampati alla guerra per sentirsi liberi. Il sogno di ottenere la cittadinanza europea, una qualsiasi, aveva spinto la coppia - con un bambino non ancora adolescente e A., che aveva meno di due anni - a recarsi in Libia, e lì a salire su una barca diretta in Italia. C’erano anche loro tra le vittime del naufragio del 24 agosto 2014, costato la vita a 24 persone. Del suo nucleo familiare, A. è l’unica sopravvissuta: ritrovata miracolosamente aggrappata a una tavola e tratta in salvo da un connazionale. Affidata per quattro mesi alle cure di una coppia di Augusta, è stata rintracciata dal nonno, anche grazie all’intervento di Save the Children, e riportata in Sudan. Anche Sarjo è scampato a un naufragio. «Che si fa in quelle circostanze?», gli chiediamo. «Preghiamo! In barca, in mare aperto, si prega cinque volte al giorno». Era partito nell’agosto 2013 dal Gambia; aveva percorso a piedi il Senegal, il Mali, prima di entrare a Sebha, in Libia, e di lì arrivare a Tripoli. Un libico ha pagato il prezzo della traversata come compenso per il lavoro che aveva fatto per lui. Adesso, dopo più di un anno dal suo arrivo a Catania, Note alle pagine 34-41: 1 Si tratta di uno dei racconti popolari più noti e antichi della Sicilia (risalirebbe al XII sec.) giunto a noi in tante versioni differenti: secondo quella ripresa da Italo Calvino in Fiabe italiane, Colapesce è nato a Messina. In altre versioni è originario di Napoli, Catania, Bari, Genova, ma lo ritroviamo anche in Francia, Spagna, Grecia e addirittura sull’altra sponda del Mediterraneo. 2 È Colapesce, costretto dalla fatica a cambiare la mano di sostegno, a provocare di tanto in tanto le scosse telluriche. 3 Cfr. Erri De Luca, In mezzo a questo mare nostro, in «Ventiquattro», 21/03/2007. 4 Definizione elaborata da Saskia Sassen in Migranti, coloni, rifugiati. Dall’emigrazione di massa alla fortezza Europa, Feltrinelli, Milano 1999. Secondo Asher Colombo (cfr. Fuori controllo? Miti e realtà dell’immigrazione in Italia, Il Mulino, Bologna 2012) la «fortezza Europa» è un’immagine più che altro suggestiva, che sopravvaluta il grado di impenetrabilità e chiusura del continente. 5 I superstiti, quasi tutti eritrei, furono iscritti nel registro degli indagati e accusati di reato di clandestinità. Nessuna inchiesta o indagine è stata aperta invece in merito a eventuali errori o ritardi nei soccorsi. 6 «In linea con analoghe attività pianificate a livello comunitario [...], la Presidenza italiana del Gruppo Frontiere/Comitato Misto ha programmato, dal 13 al 26 ottobre 2014, l’operazione “Mos Maiorum” [...]. Scopo principale dell’operazione sarà quello di raccogliere informazioni sui flussi migratori nei paesi dell’Ue, con particolare riguardo alla pressione nei singoli stati membri, alle principali rotte utilizzate dai trafficanti di esseri umani, le principali mete di questi ultimi, i paesi di origine e transito, i luoghi di rintraccio e i mezzi di trasporto utilizzati». Dal sito web della presidenza italiana del consiglio dell’Unione europea, http://italia2014.eu/it/news/post/ottobre/mos-maiorum/ 7 Cfr. www.camera.it/leg17/465?tema=immigrazione_clandestina. 8 Nel 2012, con il nome di «ravvedimento oneroso», si è dato Uno su dieci si perde sul fondo 40 MC APRILE 2015 Bibliografia DOSSIER MC SICILIA MIGRANTI Sarjo ha in tasca un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Alla commissione che ha esaminato la sua richiesta, ha raccontato una storia fantasiosa: «“Sono rimasto orfano e nella famiglia adottiva c’erano due fratelli che mi picchiavano ha mostrato una ferita sulla tibia dovuta a una caduta nell’infanzia - e allora sono scappato”. Ho dovuto raccontare questa storia perché un giorno voglio tornare in Gambia»14. «Dove pensi di andare adesso?», gli chiediamo. Svezia, Germania, Svizzera, sono le destinazioni più ambite dai migranti per le migliori condizioni di welfare offerte da quei paesi. «Anywhere, but not in Italy», dovunque, ma non in Italia, ci risponde lui. - Giovanni Verga, I Malavoglia, Treves, Milano 1881. - Carlo Levi, Le parole sono pietre, Einaudi, Torino 1955. - Italo Calvino, Fiabe Italiane, Einaudi, Torino 1956. - Erri de Luca, Sola Andata. Righe che vanno troppo spesso a capo, Feltrinelli, Milano 2005. - Giovanni Maria Bellu, I fantasmi di Porto Palo. La morte di 300 clandestini e il silenzio dell’Italia, Mondadori, Milano 2004. - Fernand Braudel, Il mediterraneo, Bompiani, Milano 2002. - Saskia Sassen, Migranti, coloni, rifugiati. Dall’emigrazione di massa alla fortezza Europa, Feltrinelli, Milano 1999. - Asher Colombo, Fuori controllo? Miti e realtà dell’immigrazione in Italia, Il mulino, Bologna 2012. - Centro Studi e Ricerche Idos (a cura di), Dossier Statistico Immigrazione - Rapporto Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali) 2013 e 2014. Filmografia Cinema italiano e migrazioni: - Io sto con la sposa di Antonio Augugliaro, Gabriele del Grande, Khaled Soliman Al Nassiry, 2014. - Lampedusani, di Costanza Quatriglio, 2014. - Terraferma, di Emanuele Crialese, 2011. - Mare chiuso, di Stefano Liberti e Andrea Segre, 2012. - Come un uomo sulla terra, di Dagmawi Yimer e Andrea Segre, 2008. Sui pescatori di Sicilia: - La terra Trema, di Luchino Visconti, 1948. - Contadini del mare, di Vittorio De Seta, 1955. A sinistra: Sarjo. | Qui sopra: Sarjo in un locale gestito da Senegalesi nel quartiere di San Berillo. avvio a un nuovo provvedimento di emersione dei lavoratori non comunitari irregolarmente attivi sul nostro territorio. Il dossier Unar 2013 sottolinea come lo stato italiano abbia fatto ricorso ordinario a uno strumento «straordinario» per definizione. La sanatoria prevedeva il versamento di 1.000 Euro più le somme dovute a titolo retributivo, contributivo e fiscale, per un periodo non inferiore a 6 mesi. Conseguenze: traffico di falsa documentazione e consolidamento della prassi per la quale sono i migranti stessi a pagare gli oneri della regolarizzazione, e non i datori di lavoro. 9 Nei primi mesi del 2011, in piena «emergenza Nord Africa», per l’arrivo di 15.000 profughi soprattutto a seguito della rivoluzione dei gelsomini e dell’inizio della guerra civile in Libia, esponenti del governo allora in carica parlarono di «catastrofe», «tsunami umano», «esodo biblico». 10 Nel 2008, l’Ordine dei giornalisti, condividendo le preoccupazioni dell’Alto Commissariato per i Rifugiati, ha firmato un Protocollo d’intesa denominato «Carta di Roma», cioè un codice deontologico che obbliga a usare in modo opportuno i termini «rifugiato», «richiedente asilo», «migrante forzato», «migrante» tout court (chi lascia il proprio paese per ragioni economiche), «immigrato irregolare». Nel linguaggio giornalistico dei paesi del Maghreb i migranti illegali sono definiti harraga, letteralmente «quelli che bruciano» (le frontiere, oppure i documenti per evitare il rimpatrio). 11 Una guerra costata diversi morti tra i pescatori siciliani, feriti, 130 pescherecci sequestrati dai militari dei paesi della sponda Sud del Mediterraneo, 150 marittimi detenuti, anche a lungo, nelle carceri tunisine, libiche, egiziane e algerine. 12 Cfr. www.istitutoeuroarabo.it/DM/immigrazione-e-dinamiche-linguistiche-una-ricerca-a-mazara-del-vallo. 13 Erri de Luca, In mezzo a questo mare nostro. 14 Il Gambia, nazione di poco più di un milione di abitanti, che gli opuscoli turistici britannici descrivono come «The smiling coast of Africa», la costa ridente dell’Africa, si rivela a sorpresa uno dei principali paesi di provenienza dei minori non accompagnati: il 29% degli 11.000 segnalati in Italia nel 2014. APRILE 2015 MC 41 33-52 Dossier_Sicilia_gi_PM_LLste_MC dossier 09/03/15 12:24 Pagina 42 REGIONI D’ARRIVO 120.239 LE PRINCIPALI STRAGI DEL MARE DEGLI ULTIMI 20 ANNI CRONOLOGIA SICILIA 22.673 9.351 b c 6 APRILE 2011: 250 morti, canale di Sicilia. 17.146 d 16 GIUGNO 2013: i soccorritori salvano decine di naufraghi aggrappati alle gabbie per l’allevamento dei tonni nel canale di Sicilia: sette migranti muoiono annegati. 30 SETTEMBRE 2013: un barcone si arena a meno di cento metri dalla costa di Scicli, muoiono 13 migranti. 1.297 1 TUNISIA 141.484 LIBIA 15.283 3 10.321 1.480 3 OTTOBRE 2013: 366 migranti muoiono a poche miglia da Lampedusa. 11 OTTOBRE 2013: 260 vittime a 60 miglia a sud di Lampedusa. 5 11 FEBBRAIO 2015: più di 330 migranti morti a 100 miglia a sud di Lampedusa. Missione Mare Nostrum (Italiana): dal 18 ottobre 2013 al 31 ottobre 2014. Missione Triton (Europea): dal 1 novembre 2014 a dicembre 2015. Triton è oggetto di critiche per la sua evidente inefficacia. Mare Nostrum era stata definita da alcuni come un’operazione che in qualche modo «incoraggiava» le partenze, ma la sua chiusura non ha scoraggiato affatto gli attraversamenti del Mediterraneo. Se Nel gennaio 2014 erano state 2.171 le persone che avevano cercato di attraversare il Mediterraneo, sono 3.528 nel gennaio 2015. 2 EGITTO 4 TURCHIA GRECIA PAESI DI PROVENIENZA 8.691 A 26 AGOSTO 2014: 24 morti, Canale di Sicilia. 5 DICEMBRE 2014: 18 morti, Canale di Sicilia. PUGLIA PAESI DI IMBARCO 2 GIUGNO 2011: 270 dispersi, canale di Sicilia. 10 LUGLIO 2012: 54 morti, Canale di Sicilia. CALABRIA CAMPANIA NATALE 1996: 283 migranti, Portopalo di Capo Passero. 20 OTTOBRE 2003: 70 morti, Canale di Sicilia. a 4.993 B 9.908 D 42.425 MALI SENEGAL 4.993 NIGERIA ERITREA 34.329 6.017 SENEGAL C 9.000 5.756 GAMBIA F SOMALIA G PALESTINA SIRIA A B E GAMBIA 8.691 H FLUSSO MIGRATORIO 2014 170.081 CAMPANIA 9.351 d c CALABRIA 22.673 SICILIA 120.239 66.000 PUGLIA 17.146 Migranti sbarcati sulle coste italiane nel 2014 b a GRECIA 1.480 TURCHIA 10.321 4 5 Migranti ancora nelle strutture di accoglienza a fine 2014 H 1 SIRIA 42.425 G TUNISIA 1.297 3 2 MALI 9.908 LIBIA 141.484 PALESTINA 6.017 EGITTO 15.283 ERITREA 34.329 C E D SOMALIA 5.756 F NIGERIA 9.000 APRILE 2015 MC 43 STORIE DI «ORDINARIA» MIGRAZIONE LIBERTÀ A CARO PREZZO DI SILVIA ZACCARIA Nei centri di prima accoglienza le giornate passano tra la noia, la sfiducia accumulata in mesi di attesa e la tensione per l’incertezza sul proprio futuro. Mustaqim dal Bangladesh, Sheriff dal Gambia raccontano un pezzo delle loro storie. Bakari è «rinchiuso» nel centro di accoglienza di Mineo da più di un anno. Mammut vi è stato trasferito da appena due mesi, dalla tendopoli di Messina, e già pensa alla fuga. Ma c’è anche chi lì dentro attende da più di tre anni una risposta sul proprio destino. Rifugiati, perseguitati, migranti in cerca di una vita migliore, sopravvissuti all’indicibile, sono condannati a una vita sospesa. opo lo sbarco, i minori stranieri sono condotti nei centri di prima accoglienza: a Pozzallo, in un palazzetto dello sport messo a disposizione per la stagione estiva da un privato, dove una trentina di ragazzi egiziani dormono su materassi di gommapiuma e il loro unico svago è ballare al ritmo della musica rap araba trasmessa da due grandi amplificatori, e ad Augusta, in una scuola in disuso. Per le centinaia di ragazzi che arrivano nel porto della città a bordo delle navi della Marina militare, nel cortile della «Scuola Verde» sono state predisposte brandine di fortuna, mentre al piano superiore le aule sono state adibite a camerate, ciascuna occupata da otto ragazzi, divisi per nazionalità. Nella stanza dei bengalesi, considerata la più pulita e ordinata, ci riceve Mustaqim il «retto». Indossa una maglietta con la scritta United Colours of Benetton; non sa nulla del crollo del Rana D 44 MC APRILE 2015 Plaza, la fabbrica tessile alla periferia di Dacca che nell’aprile del 2013 era costato la vita a più di 1.000 suoi connazionali. Doveva essere già in viaggio. È pettinato come uno studente di un college inglese, forse per apparire più giovane. In effetti aspetta un permesso per minore età. Mostra la foto dei genitori: la mamma, avvolta in un sari viola, sembra piuttosto anziana. Comunque Mustaqim è il maggiore di nove fratelli e spetta a lui il compito di mantenerli. Dice che la sua famiglia ha chiesto un prestito in banca per pagare il costo del viaggio. Ma è più probabile che dietro ci sia una catena transnazionale di «imprenditori» del traffico di persone che chiede ai migranti e alle loro famiglie interessi esosi. È un universo «invisibile» quello dei migranti dal Bangladesh, da cui si registrano i primi arrivi in Italia già nel 1982. Non possono chiedere lo status di rifugiato politico - ciò creerebbe all’Italia ten- DOSSIER MC SICILIA MIGRANTI sioni con un governo democraticamente eletto né di profugo ambientale - categoria che non gode ancora di un riconoscimento giuridico -, definizione che calzerebbe perfettamente su coloro che fuggono dal paese asiatico, il cui territorio, notoriamente, è flagellato da pesanti inondazioni e ora sempre più soggetto a periodi di siccità. Le giornate passano tra la noia, la sfiducia accumulata in mesi di attesa e la tensione per l’incertezza sul proprio futuro. La «Scuola Verde» non è certamente il luogo più adatto a ospitare dei minori: era già stata dichiarata non agibile, e i ragazzi sono lasciati soli nelle ore notturne. Molti di loro però hanno costruito relazioni positive con il territorio: operatori, volontari, tutori che li hanno avuti in consegna per mesi. Il mattino del 21 ottobre arriva il trasferimento a sorpresa: saranno portati tutti in una nuova struttura, un altro centro di prima accoglienza a Melilli, nella frazione Città Giardino. Proprio come Kunta Kinte Sheriff arriva dal Gambia, dal villaggio di Badibù, lo stesso di Sarjo, ma lui è partito prima. Appartiene al gruppo etnico Mandinka, proprio come Kunta Kinte, il protagonista di Radici, fortunato film per la televisione tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore afroamericano Alex Haley. Erano gli anni ’70 e un’intera generazione di ragazzi italiani fece il tifo per quel nero forte e coraggioso che lottava per i suoi diritti. Per Sheriff, Kunta Kinte è esistito davvero: «È il nostro eroe nazionale», dice. Lui ha seguito il destino del suo illustre antenato imbarcandosi su una moderna nave negriera, verso un luogo in cui la libertà si conquista ancora a caro prezzo. Anche il suo è stato un viaggio lungo e difficile. Sheriff mostra un tesserino da giornalista e racconta che, grazie a una borsa di studio, aveva iniziato uno stage presso la radio privata «Kids with talents» (Kwt 107.6 fm) che si occupava di sport e giovani di talento. Sheriff aveva visitato alcune co- munità rurali per raccogliere le opinioni degli abitanti sulla decisione del presidente Jammeh Yahya1 di vietare il gioco del calcio durante la stagione delle piogge - giugno-ottobre - per indurre i giovani a lavorare nei campi di arachidi, principale prodotto di esportazione. Un intervistato aveva espresso delle critiche, e Sheriff poco tempo dopo aveva ricevuto una telefonata: la cosa era arrivata alle orecchie di Yahya, che non aveva gradito il contenuto dell’intervista. Avrebbe potuto mandare i suoi jungullers (una specie di milizia privata al soldo del dittatore) a ucciderlo. Sheriff allora non ha perso tempo ed è fuggito. Ha percorso 200 km a piedi per entrare in Senegal, di lì in Mauritania, e poi in Marocco da dove ha tentato più volte di raggiungere l’Europa. Per pagare il resto del viaggio, ha lavorato per un periodo come muratore a Tangeri, dove viveva in edifici abbandonati alla periferia della città. Ma una notte è stato costretto a scappare per una retata della polizia. Raggiunta Tetouàn, si è nascosto nella foresta di Cassiago, dove erano accampate centinaia di «fratelli» di altri paesi del West Africa. Per entrare a Ceuta, l’enclave spagnola, ci sono due modi: attraversare a nuoto quel lembo di mare che la separa dal Marocco, oppure scavalcare il muro fatto di recinzioni alte sei metri e sormontato da reticolati di filo spinato2. Sheriff era su quel muro quando è stato catturato. In prigione, i poliziotti marocchini gli gridavano sporco negro e lo hanno lasciato senza mangiare per due giorni. Al secondo tentativo è stato deportato alla frontiera con l’Algeria. Superato il confine, è stato nuovamente arrestato a Maghnia, dove è stato costretto a passare la notte dentro a una buca. Fuggito di là, ha capito che la sua ultima speranza era la Libia. Ora vive con Sekou «il Saggio», che ha incontrato a Tripoli ed era con lui sulla barca che lo ha portato in Sicilia, in un appartamento dello Sprar (il Sistema di Protezione per Migranti e Richiedenti Asilo) ad Aci APRILE 2015 MC 45 Sant’Antonio, proprio sotto al Vulcano. «La notte sembra che la casa si muova e abbiamo paura». Sekou, che ha una brutta ferita sul viso ed è orfano di entrambi i genitori, parla bene italiano, ma fa finta di non capire. Dice di essere in contatto diretto con Ousainou Darboe, un avvocato per i diritti umani, leader del principale partito dell’opposizione in Gambia. Sekou e Sheriff sarebbero potuti rientrare nel loro paese prima del previsto se il colpo di stato, tentato nella notte tra il 29 e il 30 dicembre scorso, non fosse fallito. C’è ancora qualcuno che nasce o muore nel centro di Mineo Sheriff e Sekou sanno di essere stati comunque più fortunati di tanti loro compagni di viaggio. Bakari è «rinchiuso» nel centro di accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo (Cara)3 di Mineo da più di un anno. Mammut vi è stato trasferito da appena due mesi, dalla tendopoli di Messina, e già pensa alla fuga. Ma c’è anche chi lì dentro attende da più di tre anni una risposta sul proprio destino. Malgrado il recente scandalo denominato dalla stampa «Mafia capitale» che ha riguardato l’intero «sistema italiano dell’accoglienza» e, in particolare, proprio la gestione del centro nato nel 2011 sull’onda dell’ennesima emergenza, c’è ancora qualcuno che a Mineo nasce o muore. Pochi chilometri separano il centro dalla base aeronavale Usa di Sigonella. Percorriamo la statale che da Catania porta a Caltagirone, e di lì a Gela. Alla nostra destra c’è la distesa di filo spinato che protegge la base, interrotta solo da qualche ce- 46 MC APRILE 2015 spuglio dove si nascondono le prostitute, tutte ragazze africane ospiti del Cara. Più avanti, sulla sinistra, vediamo sbucare all’improvviso un gruppo di villette tutte uguali, color pastello e, poco oltre, un agrumeto. Ha il nome bucolico di Residence degli aranci, ma per entrare ci vuole «un’autorizzazione speciale», dicono i funzionari all’ingresso. Anche per uscire, gli ospiti devono passare il badge e sono obbligati a rientrare entro 48 ore. Il primo centro abitato sulla strada, Mineo appunto, è arroccato sulla collina ed è difficilmente raggiungibile a piedi. Sulla striscia d’asfalto che separa il centro dai campi lasciati incolti, un pastore pascola le pecore, sorvegliate da un cane che zoppica. Mentre la foto, pubblicata sul web, che mostra i migranti appesi al «muro» di Ceuta e gli spagnoli, dall’altra parte, che giocano a golf, fa il giro del mondo, sulla strada del ritorno, anche noi abbiamo un flash: dietro la recinzione che cinge il perimetro di Sigonella, un militare in maniche corte passeggia con la figlia - i capelli biondi e lo stesso diafano pallore - su un prato all’inglese perfettamente curato e di un verde talmente intenso da sembrare finto. Ci giriamo un’ultima volta verso il «villaggio della solidarietà» (il Cara di Mineo è stato chiamato anche così) dove centinaia di uomini e donne nel fiore dell’età, dopo essere sopravvissuti all’indicibile, sono condannati a una vita sospesa, che ha più il sapore di una morte lenta che di una seconda nascita a un’esistenza nuova, dall’altro lato di questo mare nostro. © Lisa Boccaccio DOSSIER MC SICILIA MIGRANTI Note alle pagine 44-47: 1 Jammeh Yahya era balzato agli onori della cronaca nel 2013 per aver definito, nel corso di un’assemblea generale dell’Onu, i propri concittadini omossessuali una «sciagura», e l’omosessualità la «maggiore minaccia per l’esistenza umana». Per rimanere su questo tema, già nel 2008 aveva ammonito gay e lesbiche a lasciare il paese, se non volevano vedere le loro teste tagliate. Nel febbraio 2014, parlando alla televisione di stato dichiarava: «Combatteremo questi animali infestanti chiamati omosessuali nello stesso modo in cui stiamo combattendo le zanzare portatrici di malaria». Lo scorso agosto l’assemblea nazionale del Gambia ha approvato un disegno di legge che prevede l’ergastolo per il reato di «omosessualità aggravata», ovvero per coloro che ripetono il presunto crimine in forma recidiva, e per le persone che hanno contratto l’Hiv. 2 Ceuta e Melilla, enclave spagnole in territorio marocchino, hanno rappresentato per tutti gli anni Novanta due porte d’ingresso per l’Unione europea. Per questo sono state separate dal Marocco da una doppia rete metallica alta inizialmente tre metri, e poi raddoppiata a sei. Nell’estate e autunno del 2005 le due enclave sono state oggetto di veri e propri assalti di migranti che tentavano, in alcuni casi riuscendoci, di scavalcare il muro. All’inizio del 2014, l’uso di proiettili di gomma e il lancio di lacrimogeni da parte della Guardia Civil spagnola avrebbero causato la morte di 15 migranti. Il nuovo giro di vite spagnolo ha fatto storcere il naso all’Unione europea, che pure aveva finanziato, con 20 milioni di Euro, la recinzione. 3 Riprendendo alcune intuizioni di Hannah Arendt e di Giorgio Agamben, alcuni studiosi di scienze sociali hanno mostrato come ci sia una continuità di logica tra i campi di concentramento e i vari centri di identificazione, detenzione e accoglienza, in quanto spazi in cui viene normalizzata una condizione di eccezione al diritto, essendovi reclusi soggetti che non hanno commesso alcun reato. Decisamente rilevante, a questo riguardo, è la difficoltà, anche per parlamentari, giornalisti e avvocati, di essere ammessi in queste strutture. © Lisa Boccaccio Pagina precedente dal basso a sinistra in senso antiorario: un giovane migrante a Catania. | Foto di gruppo: il primo a sinistra è Sekou, mentre il primo a destra è Sheriff. | In alto: Mustaquim. In questa pagina: l’insegna che indica il Centro di accoglienza di Mineo. | Tre immagini della fotografa Lisa Boccaccio che, nell’ambito del progetto «Guardo Oltre», ha visitato il Centro di Priolo. © Lisa Boccaccio PADRE GLIOZZO: UN DIALOGO SU EMARGINATI E CHIESA GIÙ LE MANI DA SAN BERILLO DI SILVIA ZACCARIA Un quartiere di Catania oggetto di politiche di risanamento fin dagli anni Venti del Novecento. Un «porto di mare» che da decenni accoglie l’umanità più emarginata, dalle prostitute alle trans, dai tossicodipendenti ai migranti, raccontato da chi lo vive, e da chi, come padre Giuseppe Gliozzo, parroco del Crocifisso della Buona Morte dal ‘72, lì spende la sua vita per gli altri. ggetto di scellerati piani di sventramento e risanamento dal «degrado», lo storico quartiere di San Berillo, a Catania, è invece uno straordinario esempio di come la convivenza con l’altro non solo è possibile, ma è già una realtà. Come testimonia padre Giuseppe Gliozzo, parroco della chiesa del Crocifisso della Buona Morte. Una volta conosciuto l’esito della domanda di asilo, gli immigrati sono invitati a lasciare i centri d’accoglienza, perdendo i benefici che il sistema di protezione dovrebbe aver garantito loro almeno per tutto il periodo di attesa: vitto, alloggio e un pocket money giornaliero. Da quel momento entrano in un altro limbo, costretti ad aggirarsi come fantasmi nelle nostre città. A Catania c’è un luogo dove in tanti hanno trovato ospitalità, o almeno un rifugio temporaneo, prima di riprendere il viaggio verso Nord: il quartiere di San Berillo. Berillo, originario di Antiochia, città dell’allora provincia romana della Siria, avrebbe portato, secondo la tradizione, il Cristianesimo in Sicilia, divenendo il primo vescovo della città etnea. Mentre camminiamo per le vie del quartiere, veniamo fermati da un uomo distinto che ci O 48 MC APRILE 2015 avverte, con garbata gentilezza e affabilità tipicamente siciliane: «Qui ci sono le cocotte». Poi ci prende sotto braccio, con l’intento di allontanarci da quella zona «poco raccomandabile». Insiste per offrirci un caffè. Ci sediamo al bar di Piazza Bernini, davanti al Teatro Massimo che è in sciopero: «Un paese senza teatro è un paese morto», c’è scritto sugli striscioni appesi a un cornicione. Scopriamo così, di fronte a un caffè, la storia del quartiere più centrale e antico di Catania, oggetto di una serie di piani «sventramento» e «risanamento» sin dagli anni Venti del secolo scorso, quando la fiorente industria dello zolfo indirizzava i notabili catanesi verso l’ipotesi della demolizione radicale: il collegamento del quartiere popolare, caratterizzato da una urbanizzazione caotica e fittissima, con la stazione e il porto era troppo angusto per una città che aspirava a diventare la «Milano del Sud». La II Guerra Mondiale bloccò il progetto, ripreso nel 1957, quando lo sventramento venne effettivamente realizzato: i 30.000 abitanti furono deportati a San Leone, che da quel momento diventò San Berillo Nuovo, e del quartiere originario rimase solo un pezzetto. In questi vicoli stretti da cui non si vede il mare e nei quali non entra mai il sole, gli immigrati arrivati di recente, o quelli storici come i senegalesi e i tunisini, convivono pacificamente con un’altra uma- L’angelo dei rifugiati DOSSIER MC SICILIA MIGRANTI Incontriamo Abba Mussie Zerai, eritreo, arrivato in Italia nel 1992 come richiedente asilo, ora sacerdote in Svizzera, e candidato al Nobel per la pace 2015 per la sua opera di denuncia delle condizioni dei migranti africani. A bba Mussie Zerai, noto anche come «angelo dei rifugiati», è stato candidato al Nobel per la pace 2015. Eritreo di nascita, è arrivato in Italia come richiedente asilo nel 1992. Nel nostro paese ha frequentato l’università e, nel 2010, è stato ordinato sacerdote. Da anni denuncia le condizioni disumane che i richiedenti asilo affrontano sul loro cammino. In particolare dei profughi provenienti dal Corno d’Africa. È grazie alle sue denunce (e a quelle della suora comboniana Azezet Kidane) che l’azione dei trafficanti di uomini nel Sinai è divenuta di dominio pubblico e, in parte, è stata affrontata dall’Egitto. Più volte sentito dall’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati, nel 2012 è stato ricevuto dall’allora Segretario di Stato Usa, Hillary Clinton. Oggi vive in Svizzera dove segue le 14 comunità eritree sparse nei vari cantoni. Abba Mussie Zerai da dove provengono i migranti che dalla Libia cercano di partire verso l’Europa? «Arrivano dall’Africa orientale (Eritrea, Etiopia, Somalia, Sudan) e dall’Africa occidentale (Mali, Niger, Nigeria, Ghana, Costa d’Avorio). I primi passano dal Sudan, i secondi dal Niger». Una volta entrati in Libia dove si spostano? «Solitamente convergono verso Tripoli per poi tentare di imbarcarsi verso Lampedusa. Ma non è così scontato che arrivino a Tripoli. Alcuni gruppi finiscono in Cirenaica (la regione al confine con l’Egitto). Difficile dire come arrivino laggiù. Di solito però le guide, per evitare i posti di blocco organizzati dalle milizie, fanno fare giri molto lunghi ai gruppi di migranti. Alla fine però vengono presi lo stesso dai miliziani». Chi gestisce il traffico dell’immigrazione? «I trafficanti di uomini portano i migranti dal Sudan o dal Niger in Libia. Qui entrano in contatto con i libici. I libici, uomini legati alle milizie, prendono i migranti mettendoli in centri di detenzione e si fanno pagare un migliaio di dollari a persona per rilasciarli. Una volta rilasciati i migranti possono continuare il viaggio. Ma se sul loro cammino trovano altre milizie che li imprigionano, sono costretti a pagare di nuovo». Quanto costa un viaggio dall’Eritrea a Lampedusa? «Costa in media 6-7mila dollari. È una cifra consistente che si può permettere solo chi ha parenti all’estero disposti a pagare per lui. Chi non ha parenti all’estero si ferma in tappe intermedie (in Sudan e in Libia) per lavorare e raccogliere il denaro necessario ad affrontare la tappa successiva. Per chi ha i soldi, il viaggio può durare anche solo un mese. Chi non ne ha ci può impiegare cinque o sei anni». In quali condizioni vengono tenuti i migranti in Libia? «I migranti vengono stipati in capannoni industriali, senza luce, acqua corrente, servizi igienici e, soprattutto, senza la possibilità di uscire. Dopo pochi giorni le persone sono costrette a vivere tra i loro escrementi, con un caldo insopportabile e senza potersi lavare. I miliziani poi sono persone crudeli. Per spaventare i migranti sparano in aria, li percuotono. Le donne sono vittime di violenze sessuali». La situazione attuale è peggiore di quella dei tempi di Gheddafi... «In passato le violenze erano le stesse. L’unico vantaggio rispetto a oggi era il fatto che esisteva un’autorità costituita e centri di detenzione statali. Quindi era possibile, in casi particolari, inviare i commissari dell’Acnur (Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati) a fare ispezioni. Oggi invece le milizie sono moltissime e chi vuole aiutare i migranti non hai mai un punto di riferimento. Anche l’attraversata del mare è durissima. Ai tempi di Gheddafi, i profughi sceglievano di partire quando volevano e solitamente lo facevano nella stagione migliore. Adesso le milizie li costringono a partire quando vogliono loro: anche con il mare tempestoso e in condizioni climatiche terribili. Da qui gli affondamenti e i molti morti». Enrico Casale nità emarginata: nel 1958, anno della Legge Merlin, si riversarono infatti a San Berillo le prostitute di tutta Italia, trasformando la zona in uno dei quartieri a luci rosse più importanti del Mediterraneo. Solo nel 2000 fu affrontata la questione: un blitz della polizia «ripulì» la zona, e le case furono murate. Restarono solo le trans e le prostitute residenti. Da qualche tempo si parla di un ennesimo piano di «risanamento». Per seguire Abba Zerai: http://habeshia.blogspot.it/ voce della Agenzia Habeshia per la Cooperazione allo Sviluppo (Ahcs) da lui fondata. Abba Zerai era stato intervistato da MC per il dossier «2014: Fuga dall’Eritrea», marzo 2014. APRILE 2015 MC 49 Un emblema della diversità Entrando nel quartiere, incontriamo Franchina che vive a San Berillo dai primi anni ’80 - quando il «reato di travestimento» era ancora punito con il carcere -. È l’intellettuale della zona, forse la persona che più ha coscienza della vita e del futuro di San Berillo. «Risanare vuol dire inserire il quartiere alla città, farlo uguale, identico, dargli la stessa faccia… mentre questo quartiere è stato sempre diverso dagli altri e sarebbe giusto lasciarlo così com’è: San Berillo è come l’elefante in piazza Duomo, un emblema di Catania». In Piazza delle Belle c’è un’edicola dove il Cristo dipinto sul muro ha sembianze femminili. «Ci sentiamo rifiutati dalla gente, ma amati da Dio. La gente non immagina che anche noi possiamo pregare. Ogni mercoledì ci riuniamo a casa mia, per recitare il rosario», conclude Franchina. La messa della domenica alla parrocchia del Crocifisso della Buona Morte, celebrata da Don Giuseppe Gliozzo, è molto partecipata dalla comunità locale. Lungo 50 anni di storia Nel nostro incontro, padre Gliozzo ripercorre i suoi cinquant’anni di sacerdozio, di cui più di quaranta passati come parroco a San Berillo. I primi anni del suo lungo apostolato li trascorre a Bronte, suo paese natale, nel seminario minore, dove ricopre il ruolo di assistente spirituale dell’Azione cattolica. «Feci un’esperienza che non esisteva: far uscire i ragazzi dal seminario». Nel 1970, passa al seminario maggiore di Catania dove cerca di applicare quella stessa politica: vuole che i giovani seminaristi vadano a studiare nei licei, che abbiano la possibilità di conoscere la vita fuori dal seminario. L’azione di padre Gliozzo suscita però critiche da parte delle gerarchie ecclesiastiche locali e non solo. «Aizzarono i ragazzi contro di me; quando mi incontravano, cambiavano strada. Poi fecero una raccolta firme e fui costretto a lasciare. Di quel gruppo di 150 seminaristi pochi intrapresero la strada del sacerdozio, e di quelli che continuarono, molti l’abbandonarono qualche anno più tardi». Cosa è successo dopo? «Nel 1972 mi proposero di prendere in mano la parrocchia del Crocifisso della Buona Morte, così chiamata perché nella zona sorgeva il vecchio carcere borbonico, dove i condannati a morte, prima di essere giustiziati, ricevevano la visita di un cappellano che gli porgeva un crocifisso affinché, baciandolo, ricevessero l’ultima assoluzione. Lo sventramento del quartiere di San Berillo si era concluso alcuni anni prima del mio arrivo, e, quando vi fui mandato, trovai il vuoto, perché i vecchi abitanti erano stati deportati in altre zone. Corso Sicilia tagliava in due la città e i borghesi insediatisi nella nuova via signorile non interagivano con la parrocchia. C’erano solo contrabbandieri di sigarette e prostitute. La chiesa era in dis- 50 MC APRILE 2015 missione, trasformata in una specie di bisca dove gli uomini si riunivano a giocare a carte. Con loro misi su un gruppo di preghiera al sabato sera: sbadigliavano di continuo e mi chiedevano quanto tempo mancasse alla fine. Appena arrivato ridussi le messe da sei a tre, poi ne lasciai solo una, quella della domenica alle 10 del mattino. Nella cappella adiacente, dedicata a Sant’Agata martire, si celebra la liturgia con rito ortodosso: ho voluto fare un passo verso chi ha un altro credo. La numerosa comunità rumena presente a Catania non aveva ancora un luogo di culto. È venuto anche il patriarca da Bucarest, ed è rimasto sorpreso da questa accoglienza, visto che in Romania la chiesa cattolica ha fatto fatica a trovare spazi. Negli anni ’80 abbiamo iniziato a lavorare con i tossicodipendenti, e sono arrivato a pensare di aprire una comunità. Ne parlai anche con Don Ciotti, che mi disse: “O fai il parroco, o dirigi una comunità”. Ma io volevo restare aperto a tutti, non volevo limitarmi a una tematica specifica. Vedi, qui è sempre stato un porto di mare. Le prostitute, i trans più anziani del quartiere, venivano da me spontaneamente, e cominciai a lavorare anche con loro. Non conoscevo ancora la realtà della prostituzione. Dal 1990 la parrocchia diventa punto di riferimento di un gruppo di omosessuali credenti, i “fratelli d’Elpìs”. Adesso alla nostra messa partecipano anche tante persone di altri quartieri, che non trovano risposte nelle parrocchie di appartenenza». Cosa ispirava la vostra azione? «Lo spirito del Concilio. Quell’idea dell’Eucarestia per tutti. Prima le prostitute non si avvicinavano per rispetto: non si sentivano degne, in quanto peccatrici. Invece è proprio questo senso di indegnità che le avvicina a Dio. Abbiamo adottato una pastorale essenziale fondata sulla gratuità dei Sacramenti, sul- DOSSIER MC SICILIA MIGRANTI l’accoglienza e l’attenzione riguardo alle persone e alle situazioni più diverse». Ha conosciuto direttamente la realtà dell’immigrazione? «Tra il 1988 e il 1989, sono arrivati i primi senegalesi. Qui, nella nostra casa, ne abbiamo ospitati una trentina. Era una prima “emergenza”. Poi sensibilizzammo gli abitanti perché affittassero le loro case agli stranieri, in città o in campagna. Realizzammo la prima festa degli immigrati. Molti di loro sono andati via quasi subito, mentre quattro sono rimasti con noi per un po’. Poi abbiamo inserito anche loro al Nord: uno lavora in un caseificio in Emilia Romagna e mi manda sempre il parmigiano. Ogni tanto mi scrive: “Prego per te ogni giorno, per quello che hai fatto per me”. Sposato con un’italiana, è venuto a trovarmi con i figli. Una comunità musulmana del Senegal mi ha mandato una lettera in arabo, per ringraziarmi di aver accolto in quegli anni tanti suoi membri». Come vede questi nuovi arrivi, la situazione dei nuovi migranti? «È una questione delicata che deve essere gestita dalle istituzioni. Io sono stanco, non me la sento più di stare in prima linea. A noi spetta preparare agenti moltiplicatori, sensibilizzare la cittadinanza ad attivarsi, come facemmo quando arrivarono i senegalesi». Ha mai pensato di mettere per iscritto la sua esperienza, per farla conoscere di più? «No, Gesù non scriveva. Mi piace raccontare e ascoltare storie. Spesso mi invitano a parlare sul tema delle tossicodipendenze o dell’omosessualità Pagina precedente da sinistra: la chiesa del Crocifisso della Buona Morte. | Abba Mussie Zerai. Qui a destra: uno dei palazzi fatiscenti del quartiere di San Berillo a Catania. | Ritratto di padre Giuseppe Gliozzo. Pagina seguente: area di preghiera nel Centro di Priolo, improvvisata dagli stessi ospiti del Centro. Silvia Zaccaria, antropologa, ha condotto ricerche sul campo tra le popolazioni indigene e tradizionali dell’Amazzonia brasiliana, impegnandosi in attività di advocacy. Ha lavorato in progetti di cooperazione internazionale in America Latina, Africa Subsahariana e Balcani su salute e genere, sviluppo comunitario, comunicazione popolare, educazione differenziata e inclusiva. È stata responsabile dei rapporti internazionali della Rete Weec, World Environmental Education Congress, network mondiale di educatori ambientali. Negli ultimi anni si è occupata di immigrazione maghrebina a Torino e attualmente sta seguendo la situazione dei migranti approdati in Sicilia nel contesto della cosiddetta «Emergenza sbarchi». L’autrice del dossier: come esperto. Ma io non ho competenze specifiche. Tutto quello che so lo devo all’incontro, all’ascolto. Per me non c’è il “tossicodipendente”, l’“immigrato”, c’è Francesco e c’è Tarik». Come immagina la Chiesa del futuro? «Come una comunità dove la figura del sacerdote non sarà più necessaria. Una comunità auto-gestita, che si riunisce per leggere e ascoltare la parola, come accadeva prima della Chiesa-istituzione. Non siamo più una minoranza, ma occorre una “maggioranza qualificata”. C’è qualcuno che ancora resiste. I cambiamenti nella Chiesa oggi sono possibili grazie al lavoro che noi abbiamo iniziato. Siamo andati avanti come esploratori in perlustrazione, in avanscoperta, siamo stati un’avanguardia che ha aperto e illuminato il percorso che ora sta emergendo. Non a caso il Papa si è scagliato contro la politica dei seminari attuali che formano “piccoli mostri”1. Abbiamo lavorato in silenzio e poi ci siamo messi a guardare, in attesa di quello che sta succedendo oggi, perché doveva succedere». Accolti anche senza essere stati invitati Non ha fatto carriera, padre Gliozzo. Non gli piace apparire o fare proclami, e non ama le etichette. Anche quella di «prete di frontiera» lo lascia perplesso. Preferisce continuare a fare il suo lavoro nell’ombra, mischiandosi tra la gente, soprattutto tra i poveri, gli afflitti e i diseredati. Prima di salutarci, ci mostra le fotografie che tappezzano le pareti del parlatorio: sono le tappe più significative del suo lungo sacerdozio, è un viaggio nel tempo, uno scorcio di storia d’Italia, attraverso i suoi segmenti più emarginati. Fino a quelle più recenti, scattate nella sua casa di campagna a Bronte, dove c’è pure Franchina, e dove si è accolti anche senza essere stati invitati. Note alle pagine 48-51: 1 Cfr. La civiltà Cattolica, 3/1/2014. Svegliate il mondo. Colloquio di Papa Francesco con i Superiori generali. Si ringrazia per la collaborazione Save the Children Italia Onlus/Team Sicilia e Said El Alaoui, mediatore culturale maghrebino. Per le foto delle pagg. 46, 47 e 52 ringraziamo la fotografa Lisa Boccaccio. Quella di pag. 52 è un’immagine scattata nel centro di prima accoglienza di Priolo all’interno del progetto Guardo Oltre. Lisa Boccaccio terrà una mostra sui propri lavori a Torino: «Guardo Oltre», inaugurazione venerdì 10 aprile ore 18.00, sede Socialfare, in collaborazione con Global Shapers, via Maria Vittoria, 38. Ringraziamenti: Luca Lorusso, redazione MC. Coordinamento editoriale: APRILE 2015 MC 51 OSSIER FINE © Lisa Boccaccio INdIa Testo e foto di SILVIA C. TURRIN feste e rItI NeLL’INdIa INduIsta DIVINAMENTE ACQUA Nelle religioni l’acqua è uno degli elementi simbolici più forti. L’acqua è vita, è purificazione, è unione con il divino. In India è l’acqua del Gange, fiume sacro per antonomasia, ad attrarre milioni di persone. Proviamo a spiegare il significato di questo rapporto che è fisico e spirituale. P arlare e scrivere di India non è semplice, considerata la complessità culturale e filosofica del paese asiatico. Pur tra innumerevoli contrasti, esso rimane la più grande democrazia al mondo, intrisa ancora di una profonda dimensione spirituale, dove si percepisce un «intimo» rapporto tra l’uomo e le forze divine, tra il microcosmo e il macrocosmo. Un misticismo che sopravvive in maniera diffusa, sebbene l’influsso di alcune tendenze culturali, tipiche dell’Occidente, stia scompaginando antiche tradizioni e valori millenari, come a suo tempo rilevato dall’orientalista Giuseppe Tucci, quando scrisse che «l’India ha cambiato più in quindici anni che in quindici secoli». Un’affermazione che riguardava il periodo tra il 1925 e il 1940, epoca in cui si potevano già scorgere diversi episodi di mera imitazione di modelli stranieri. Tuttavia, andando oltre le mode di Bollywood e le avanguardie tecnologiche di Bangalore, l’India rimane una terra avvolta da una profonda devozione, al di là di avvenimenti caratterizzati da intolleranza religiosa, che in molti casi nascondono motivazioni politiche e questioni interne di potere. Nel subcontinente indiano, materia ed energia, uomo e infinito s’incontrano a un livello molto sottile, osservabile nella vita quotidiana di milioni di abitanti, da Nord a Sud. Infatti, l’induismo (Sanātana-Dharma, Legge eterna) si manifesta attraverso un’ortoprassi che consiste in una serie di norme che regolano ogni aspetto # Sotto: fedeli sui ghat del Gange, ad Haridwar, nello stato indiano di Uttarakhand. INDIA dell’esistenza di un devoto, a cominciare dalle abluzioni del mattino sino alle pūjā (offerte di fiori, frutta, foglie, riso, dolci e acqua) alle divinità. Soprattutto nei luoghi considerati sacri, come Varanasi (Benares) e Haridwar, si tocca con mano proprio questa profonda spiritualità, in particolare, se ci si avvicina al Gange. L’acqua metafora della vita Nell’antico testo induista Taittirīya-Saṃhitā si legge: «L’acqua è la più grande nutrice ed è quindi come una madre». I fiumi in India sono considerati le dimore degli dei. L’acqua è simbolo di vita, oltre che di purificazione e di guarigione per molti popoli (si pensi, per esempio, all’acqua benedetta della sorgente della Grotta di Lourdes che alimenta le fontane, il cammino dell’acqua e il bacino destinato alle piscine). Nel subcontinente indiano la centralità dell’elemento acqua assume risvolti singolari ed è oggetto di una devozione che probabilmente non ha eguali altrove. # Sotto: folla di fedeli (e venditori) lungo la riva del Gange, ad Haridwar. Pagina seguente: un manifesto elettorale del primo ministro Narendra Modi (Bjp). 54 MC APRILE 2015 Per i fedeli indù tutti i fiumi indiani sono avvolti da un alone di sacralità: la loro corrente, simbolo del flusso della vita, si rinnova dalla sorgente sino all’oceano, dove incontra le altre acque, perdendosi in esse. Una metafora ben descritta dal poeta e mistico indiano Tulsīdās con queste parole: «Quando confluisce nell’acqua dell’oceano, l’acqua del fiume s’acquieta, come l’anima quando trova il Signore». L’esistenza della corrente del fiume è transitoria, proprio come la vita degli esseri umani, ma è bagnandosi alla sorgente dei fiumi che l’essere umano trova la sua sorgente spirituale. L’importanza in India dei corsi d’acqua è anche testimoniata dal fatto che, spesso, un luogo di pellegrinaggio viene definito tīrtha, ovvero «guado» o ancora tīrtha-yātrā, «guado sacro». Il fiume più venerato è il Gange, che incarna l’energia divina ed è esso stesso divinità, onorato da milioni di indiani, in quanto fonte di vita, non soltanto punto di transito da una città a un’altra, ma anche canale di interconnessione fra la terra e i cieli. È così importante che gli indiani hanno composto un’ode, il Gangastothra-sata-namavali, dove vi sono ben 108 nomi attribuiti al fiume Gange (come viene raccontato dall’ecologista Vandana Shiva nel libro Le guerre dell’acqua). Nei luoghi sacri lambiti dal Gange si vedono, in particolari momenti della giornata, uomini e donne di ogni età intenti nelle abluzioni. In riva al fiume, sui larghi scalini (chiamati ghāṭ) di pietra, grazie ai quali si discende nelle acque, si osserva il fermento devozionale: sfilate di fedeli compiono il rito della pūjā, con offerte di coloratissimi fiori profumati e lumini accesi. Bagnarsi nelle acque del Gange, secondo gli induisti, permette di rimuovere tutte le impurità dell’anima, generate da azioni non virtuose. Immergersi in esso significa essere accolti dalla divinità. Un atto compiuto per rigenerarsi, eliminando dal proprio karma qualsiasi forma di negatività. Quando la realtà si confonde col mito La devozione che gli induisti nutrono verso i fiumi si percepisce soprattutto in occasione del Kumbha-melā. Si tratta di un evento che si svolge, secondo precisi cicli astronomici, in quattro diverse località indiane: Haridwar, Nashik, Ujjain e Allahabad (chiamata anche Prayag, parola che significa «confluenza dei due MC ARTICOLI fiumi», infatti qui confluiscono il Gange e lo Yamuna). Luoghi che si rifanno alla mitologia induista. Per comprendere ciò che avviene in occasione del Kumbhamelā è infatti necessario ritornare al mito: senza di esso ciò che accade sarebbe impenetrabile. Questo racconto mitologico - riportato nelle antichissime scritture vediche chiamate Purana e nel testo epico Mahābhārata - è strettamente collegato al mito induista della creazione dell’universo. Si narra che Viṣṇu, una delle tre divinità (Trimūrti) induiste più importanti insieme a Brahmā e a Śiva, riuscì a riconciliare dèi (Deva) e anti-dèi (Asura), dopo un’aspra lotta, in cambio della loro partecipazione alla creazione del mondo. Deva e Asura si unirono, e servendosi del monte Mandara appoggiato sul dorso della tartaruga Akūpara, presero il serpente Vāsuki come corda e iniziarono ad agitare l’oceano cosmico. Ne ricavarono l’ámṛta, il nettare dell’immortalità, racchiuso all’interno di una brocca (kumbh). Al momento della creazione dell’universo nacquero creature, esseri celesti, la luna e altro ancora. Ma il patto iniziale fra Deva e Asura si spezzò innescando un altro scontro per il possesso del nettare di lunga vita. Durante questa lotta, che durò per 12 giorni e 12 notti, alcune gocce di ámṛta caddero sulla Terra, in corrispondenza di alcuni fiumi e città. Secondo il mito l’ámṛta toccò le città, divenute sacre, di Nashik, Ujjain, Haridwar e Allahabad. Questi sono i quattro siti dove ogni 12 anni, a rotazione, ha luogo il grandioso raduno del Kumbha-melā. Questo intervallo ciclico si spiega con la credenza secondo cui 12 anni per l’uomo corrispondono a 12 giorni per le divinità. Da qui l’usanza di celebrare questo festival ogni 12 anni in ognuno dei quattro luoghi sacri, lungo le rive del fiume IndIa 2015 Un mosaIco tUrbolento I l subcontinente indiano è un mosaico etnico (hindi, puñjābī, gujarathi, rajastani, sindhi, bihari, solo per citare i gruppi più diffusi) e religioso. In una nazione con oltre un miliardo di abitanti - precisamente 1.271.702.542 abitanti a gennaio 2015 - le diversità etniche sono accompagnate da un’altrettanta varietà di fedi religiose. maggioritari sono gli induisti (circa l’82%). seguono poi musulmani (12% suddivisi in sunniti, maggioritari, e sciiti), sikh 2%, cattolici 1,1%, protestanti 1,1%, buddhisti 0,8%, giainisti 0,4%, e altre religioni minoritarie come l’animismo e il parsismo (meno dell’1%). In realtà, il panorama religioso è molto più complesso, poiché l’induismo a sua volta è composto da correnti come quella Śivaita e quella Visnuita. sul piano sociale, la predominanza dell’induismo ha risvolti nel mantenimento delle caste, che ancora regolano, in numerose città e zone dell’India, i rapporti socio-economici, sebbene la costituzione del 1950 le abbia abolite. Questa preminenza dell’induismo ha fatto emergere un fenomeno relativamente nuovo nella politica indiana: l’affermazione del Bharatiya Janata Party (bjp), partito nazionalista indù. la sua ascesa è stata rapidissima: nel 1984 aveva solo due seggi alla camera bassa del Parlamento indiano, ma già nel maggio 2014, narendra modi, leader del bjp, era diventato primo ministro dell’India. nato da una famiglia appartenente a uno dei ranghi più bassi del sistema delle caste, ex venditore di tè, modi era stato governatore dello stato del Gujarat dal 2001 al 2014. oggi tuttavia, dopo neanche un anno dall’elezione, qualcosa sta cambiando, come dimostrano le elezioni statali del febbraio 2015 a delhi, che hanno visto la sconfitta del bjp e la vittoria del partito anticorruzione Aam Aadmi Party (il Partito dell’Uomo comune), con il successo di arvind Kejriwal. Un esito salutato con grande entusiasmo anche dalle comunità cristiane dell’India, che tra dicembre scorso e i primi due mesi del 2015 hanno subìto varie aggressioni e vandalismi, come la profanazione della grotta mariana della chiesa nostra signora delle Grazie a new delhi. S.C.T. APRILE 2015 MC 55 INDIA # A lato: mappa del percorso del fiume Gange. Sotto a sinistra: verso le sorgenti del Gange, a circa 4.000 metri d’altezza, a Gaumukh, nello stato indiano di Uttarakhand al confine con Tibet e Nepal. Sotto: un fedele si tiene alle catene del ponte per non essere trascinato dalle acque del fiume. In basso: un «sadhu» al passo con i tempi, a Delhi. Godavari a Nashik, del fiume Kshipra a Ujjain, del Gange a Haridwar, e alla confluenza tra Gange, Yamuna, e il Saraswati a Allahabad. Tra la moltitudine dei fedeli Il Kumbha-melā è la festa più mistica di tutto il subcontinente indiano, a cui accorrono milioni di fedeli (si parla di 10 milioni). Le immersioni sacre vengono effettuate secondo un calendario specifico, le cui date sono scelte in base a precisi calcoli astrologici, stabiliti considerando sia la posizione del Sole, sia quella del pianeta Giove, che caricano l’acqua di energie positive. Grazie a queste «irradiazioni benefiche», l’immersione nel fiume permette al fedele di ritrovare salute, prosperità e il suo karma viene purificato da ogni contaminazione. Chi compie le abluzioni rituali durante il 56 MC APRILE 2015 Kumbha-melā può raggiungere inoltre la liberazione (mokṣa o anche mukti), interrompendo il ciclo delle morti e rinascite. Questa impressionante riunione di fedeli, è l’occasione migliore per capire l’essenza spirituale dell’India. Si vede una folla immensa di uomini e donne che inneggiano a Śiva e ad altre divinità indiane, pronte poi a immergersi a turno nella corrente tumultuosa. Ad Haridwar, si possono scorgere nitidamente le catene collegate lungo i ghāṭ o penzolanti dai ponti, a cui si appigliano i pellegrini per non venire travolti dalle acque del Gange, spesso impetuose. Durante i Kumbha-melā s’incontrano poi personaggi solitamente irraggiungibili e questo è uno degli elementi centrali che rendono questa festa un evento unico, eccezio- nale. Soltanto in questi giorni si possono vedere i misteriosi e talvolta inquietanti Naga, in genere nascosti negli anfratti impervi dei monti himalayani. Un rifugio che abbandonano soltanto in particolari circostanze. Sono uomini votati all’eremitaggio, che si mostrano di rado, completamente nudi, per testimoniare il loro distacco totale dal mondo e dagli attaccamenti terreni, coperti solo da una coltre di cenere, simbolo dello stadio ultimo dell’esistenza. Oltre a loro sono numerosi i sādhu, gli asceti, e i samnyāsin, monaci erranti che hanno abbandonato ogni bene materiale per vivere solo di pura spiritualità. MC ARTICOLI haridwar, la porta divina Haridwar rimane una delle città più sacre dell’India del Nord, protetta dalla trinità indù: Brahmā, Śiva e Viṣṇu. La città, sorta alle pendici dell’imponente catena montuosa dei Shivalik, è detta la «porta del Gange», poiché è il primo luogo dove il sacro fiume incontra la pianura, dopo essere sceso dalle vette dell’Himalaya. La vita ad Haridwar pullula attorno al Gange; non a caso, la struttura urbana si distende lungo le sue rive, dove si trovano i ghāṭ, che permettono di raggiungere le ac- sporta le ceneri nella corrente eterna scandita da un inizio e da una fine. la sacra confluenza In tempi antichi, era conosciuta con il nome di Prayag, che in sanscrito significa «luogo del sacrifico», ma è più comunemente chiamata Allahabad, anch’essa città santa per gli indù. La sua peculiarità è quella di essere situata alla confluenza dei fiumi Gange e Yamuna, oltre che, narra la mitologia, del Saraswati, improvvisamente scomparso, che tuttavia ancora scorrerebbe, invisibile, sotto il suolo e si unirebbe alle altre due correnti sacre. Questo importante centro spirituale è talmente rispettato che il 12 febbraio 1948 furono versate parte delle ceneri del Mahatma Gandhi proprio alla convergenza dei tre fiumi. «Coloro che si bagnano alla confluenza dei corsi d’acqua vanno in cielo; coloro il cui spirito è saldamente eretto e che muoiono qui, raggiungono l’immortalità», si legge nei Rig Veda, uno dei quattro libri che compongono i Veda, antichi testi rivelati dagli dèi ai Ṛṣi, gli uomini saggi. Ad Allahabad, proprio come a Haridwar, sembra che le differenze tra ricchi e indigenti si annullino, nell’istante in cui i devoti s’immergono nella sacralità delle acque. finita. Si narra anche che sia il luogo in cui nacque Ganesha (chiamato anche Ganapati), il famoso dio raffigurato come essere umano dalla testa di elefante: una rappresentazione dell’unità del piccolo essere (microcosmo) che è l’uomo e il grande essere (macrocosmo) simboleggiato dall’elefante. È proprio a Trimbakeshwar che si svolgono i rituali principali del Kumbha-melā 2015, in particolare presso Kushavarta. Secondo le credenze locali, bagnarsi in questo luogo significa annullare i propri peccati. Da qui le folle di devoti che si immergono nelle acque del Godavari. Una scena che si ripete lungo i ghāṭ di Ujjain, Haridwar e Allahabad. Le moltitudini di fedeli che accorrono ai Kumbha-melā e ad altre celebrazioni sacre indiane esprimono qualcosa che va oltre la dimensione religiosa. Sono eventi di importanza sociale i pellegrinaggi, poiché ad essi possono partecipare tutti, bambine, bambini, giovani, anziani, donne, uomini, senza alcuna distinzione di casta. Silvia C. Turrin Nell’archivio Mc: Piergiorgio Pescali, Donna, è colpa tua, agosto-settembre 2014. Kumbha-melā 2015 que. Il più importante è situato accanto al tempio dove, narra la leggenda, è custodita l’impronta del piede di Viṣṇu. Ad Haridwar, essendo una delle città più sacre dell’India, si radunano migliaia di devoti per i riti di abluzione, o per adempiere alle cerimonie di cremazione dei defunti. Qui si percepisce la forte sensazione di essere parte di un immenso flusso esistenziale. Lungo le rive del fiume il ciclo della vita e della morte si intreccia con la potenza dei quattro elementi della natura, in occasione dei riti funebri: il fuoco lentamente consuma il corpo, la terra sostiene il feretro, il vento alimenta le fiamme e l’acqua tra- Nel 2015 Giove e il Sole sono nel segno zodiacale del Leone e quindi il Kumbha-melā sarà celebrato a Nashik. Le celebrazioni più importanti si terranno dal 14 luglio sino al 25 settembre. Situata nel Maharashtra, nell'India centro-occidentale, a circa 200 km da Mumbai, la città è attraversata dal sacro fiume Godavari, lungo il quale vi sono templi e ghāṭ. Ma il luogo forse più santo per i fedeli è Trimbakeshwar, uno dei 12 Jyotirlingas dell’India, ovvero uno dei simulacri della manifestazione di Śiva nella sua forma di luce inAPRILE 2015 MC 57 bOsNIA eRzegOvINA di SABINA GARDOVIC «Il valore delle cose non sta nel tempo in cui esse durano ma nell’intensità con cui vengono vissute. Per questo esistono momenti indimenticabili, cose inspiegabili e persone incomparabili». M RACCONTO CUBETTI DI ZUCCHERO (Fernando Pessoa) ia nonna materna Nura e suor Vilma trascorrevano insieme ogni sabato mattina. Caffè, tante chiacchiere e un’infinità di sorrisi che, al ricordo, scaldano la mia anima ancora oggi. Erano ciascuna la migliore amica dell’altra ed è veramente difficile descrivere l’atmosfera che si creava quando quelle due grandi donne stavano insieme nella stessa stanza. Accadeva come se il senso di tutte le cose del mondo fosse concentrato proprio lì, nei 36 metri quadrati dell’amato appartamento. E noi quattro, i miei genitori, mio fratello e io, abitavamo lì in quegli anni, fino a quando l’azienda di mio padre non ci assegnò un appartamento tutto nostro. Quelle mattine di sabato, dunque, rappresentavano un vero e proprio rituale. Ancora prima dell’arrivo di suor Vilma, tutti, come per magia, scomparivano per qualche commissione, a parte me che, essendo la più piccola, rimanevo avvolta nel calore di quei momenti, quasi mi ritrovassi immersa nelle soffici nuvole bianche illuminate dal sole, un sole che altro non era che l’aria che in quel momento respiravo. Immancabilmente quell’aria si mescolava all’inconfondibile profumo del caffè fatto «alla turca» che ha tutto un suo modo per essere bevuto: prima si mette in bocca un cubetto di zucchero inzuppato nel caffè rigorosamente versato in una tazzina detta fildžan (si pronuncia «filgian») che non ha un 58 MC APRILE 2015 manico ma è tonda e si avvolge con la mano in modo da percepire il calore della bevanda. Subito dopo si prende un sorso di caffè che si mescola con il cubetto di zucchero sciolto in bocca, ma molto lentamente, tra una parola e l’altra, fino ad arrivare al fondo il quale, certamente, non è intelligente bere. Ci si ferma sempre al momento giusto, è nel sangue del popolo, non c’è che dire! E allora si riempie fildžan di nuovo e avanti così. Ogni sabato mattina, quindi, suor Vilma, suora croato-cattolica, veniva a trovare mia nonna, atea di origini musulmane. E di che cosa queste due donne, apparentemente così diverse nelle loro culture, potevano parlare ogni sabato? Del come avevano trascorso la settimana, della moda (mia nonna era sarta) che le ricche signore della città seguivano alla lettera, di catacombe (suor Vilma aveva visitato il Vaticano ben tre volte), della poesia di un poeta che entrambe amavano molto, del come si prepara un piatto tipico dell’Erzegovina… Sì, di questo e di tanto altro, ma spesso non erano le tematiche ad attirare la mia attenzione quanto l’armonia nella quale venivano trattate e la forma, di un rispetto dalla dinamica straordinaria. Era musica per le mie orecchie. Come incantata, mi ritrovavo a guardare i cubetti di zucchero scomparire dalla ciotola piano piano, quasi il loro compito fosse quello di cadenzare il tempo. «Prendine uno e inzuppalo nella mia tazzina», mia nonna richiamava la mia presenza a tavola nella sua piccola cucina e io, seduta su una sedia con l’aiuto di un cuscino, iniziavo allora a gustarmi quella delizia proibita. Accadeva poi che a volte si unisse a loro teta Vida (teta equivale a «zia» ed è un modo tipico di rivolgersi a tutte le donne adulte conoscenti o amiche di famiglia). Teta Vida, dunque, laica per eccellenza, era una signora di origine serbo-ortodossa dall’ele- MC ARTICOLI Bjoertvedt ganza ineguagliabile. Gonne plissé, a scacchi neri e bianchi, giacchettine di velluto nero, guanti raffinati, berrettini francesi e l’immancabile ombrello, a meno che non fosse estate. Il tutto indossato con la grazia di una figura alta e snella illuminata da un sorriso ammaliante che nei suoi occhi chiarissimi rifletteva la pace. E non parliamo della sua vasca da bagno! Era più piccola di quella che aveva mia nonna ma a forma di poltrona e quindi di gran lunga più comoda. Io la adoravo ed era, infatti, teta Vida a fare sempre il bagno alla sua Nanà, come lei mi chiamava. In poche parole, ero la sua prediletta. Abitava proprio nell’appartamento di fronte, al primo piano di un palazzo dall’architettura socialista che sorgeva nel cuore di Sarajevo. A pochi passi, il mondo intero: la cattedrale cattolica, quella ortodossa, la moschea tra le più antiche della città e la sinagoga. Insomma, una Gerusalemme in miniatura! Attorniate poi da un’infinità di palazzi di tutte le epoche: turco-ottomana, austroungarica, socialista. Ma se questo mondo io lo vedevo all’esterno, è dentro casa nostra che lo percepivo nelle sue essenze. Sento ancora negli occhi i loro sorrisi, vedo ancora le parole scorrere sulle loro labbra quando vengo distratta dal forte picchiare sulla porta di un bastone. Eh sì, era teta Anita, una professoressa di geografia in pensione, profondamente devota alla # La «moschea dell’imperatore» a Serajevo. In collaborazione con l concorso letterario nazionale Lingua Madre, ideato da Daniela Finocchi, giornalista da sempre interessata ai temi inerenti il pensiero femminile, nasce nel 2005 e trova subito l’approvazione e il sostegno della Regione Piemonte e del Salone Internazionale del Libro di Torino. Il concorso è il primo a essere espressamente dedicato alle donne straniere - anche di seconda o terza generazione - residenti in Italia che, utilizzando la nuova lingua d’arrivo (cioè l’italiano), vogliono approfondire il rapporto fra identità, radici e mondo «altro». Una sezione speciale è riservata alle donne italiane che vogliano raccontare storie di donne straniere che hanno conosciuto, amato, incontrato e che hanno saputo trasmettere loro «altre» identità. Il concorso letterario vuole essere un’opportunità per dar voce a chi abitualmente non ce l’ha, cioè gli stranieri, in particolare le donne che nel dramma dell’emigrazione/immigrazione sono discriminate due volte. Un’opportunità di incontro e confronto, perché il bando non solo ammette ma incoraggia la collaborazione fra le donne straniere e italiane nel caso l’uso della lingua italiana scritta presenti delle difficoltà. (da www.concorsolinguamadre.it) I Per gentile concessione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre pubblichiamo il racconto di: SabIna GaRDovIC, CUBETTI DI ZUCCHERO, dal libro «Lingua Madre Duemilaquattordici - Racconti di donne straniere in Italia», Edizioni SEb27. Il racconto di Sabina Gardovic è stato selezionato al IX Concorso letterario nazionale Lingua Madre. propria tradizione ebraica e altrettanto incuriosita da tutte le altre. Un essere tanto ingombrante nella propria fisionomia quanto delicato nel modo di parlare: «Queste sono un dono raro, che non ti venga in mente di sfoltirle quando sarai grande!», mi diceva sempre, accarezzando delicatamente le mie folte sopracciglia. Scesa dal quarto piano dello stesso palazzo, questa alquanto insolita vicina di casa, a volte, in segno di un saluto, picchiava sulla porta e se ne andava via, fuori, a farsi la sua lenta passeggiata quotidiana. Ma se picchiava più di due volte, voleva dire che anche lei era lì per un caffè e due parole. Ed ecco che mi ritrovavo il mondo intero in casa nostra ogni sabato mattina. Quattro culture, o cinque o sei, tra origini, idee, convinzioni e BOSNIA ERZEGOVINA pensieri. Insomma, una vera macedonia. E quale raro gusto aveva questa macedonia, e tutta per me! Vita raccolta in quattro menti, anime e cuori nella purezza di quell’umanesimo che incoronava la loro umanità. Tanta semplicità vedo oggi in quei preziosi momenti, che è stata, in fondo, il vero filo conduttore della loro esistenza. L’amicizia che scorreva in tutti quegli anni tra i personaggi di questo racconto raffigura un’anima, l’unica anima di un mondo che non c’è più. Quale magnifico folclore colorava l’aria e quanta poeticità esprimevano quegli azzurri occhi di suor Vilma nel guardare mia nonna con tanta stima e ammirazione. Due donne così apparentemente diverse, una sarta e una suora. Ecco, mi fermerei a queste definizioni e null’altro conta. Si erano conosciute all’ospedale di Sarajevo; una cuciva le lenzuola e l’altra assisteva i malati, all’interno di un sistema guidato da un ideale politico che nessuna delle due aveva mai abbracciato ma con il quale entrambe avevano convissuto in pace e nel rispetto. Era come se viaggiassero su un binario parallelo, a un ritmo tutto loro e a una velocità misurata. Puro teatro erano questi due personaggi, e nasceva dal nulla. Immaginatevi la scena in cui mia Vuoi partecipare? Invia i tuoi racconti e/o le fotografie a: CONCORSO LETTERARIO NAZIONALE LINGUA MADRE CASELLA POSTALE 427 | Via Alfieri, 10 - 10121 Torino Centro Info su: www.concorsolinguamadre.it nonna prende le misure per il suo abito da religiosa mentre le dà notizie dei suoi generi, uno italiano e l’altro un comunista di origine serba, nonché mio padre. Le Nozze di Figaro nasce da un’idea simile: inizia con una scena in cui Figaro misura la stanza per vedere se dentro ci può stare un letto nuziale, capite? E quanto parlare di una figlia così lontana e di un’altra in casa ma così criptica, mentre nel frattempo suor Vilma cercava di capire il modo migliore per tenere su il suo copricapo ingombrante. Ma allora, dico io, ho vissuto su un palcoscenico per diciotto anni e mia nonna e suor Vilma ne sono testimoni? Quale strepitosa pièce teatrale è mai questa? È forse vero che quando il teatro diventa la nostra casa, esso diventa anche la nostra realtà? E se questa era la mia realtà, allora la mia vita non è stata che una commedia, un dramma, un dialogo oppure un monologo? Se ci penso, in ognuno di questi modi oggi potrebbe definirsi quello che è stata l’ormai dimenticata Jugoslavia. Quanto alla Bosnia Erzegovina, non è che una parte del puzzle di un racconto irraccontabile. Sarajevo ne è un pezzo. Nura e Vilma, invece, un prezioso dipinto all’interno di quel pezzo del puzzle mentre quei momenti, in cui mi immergevo come nelle più accoglienti delle acque, sono oggi per me il viaggio eterno. Mi giro e rivedo tutto, ascolto e sento tutto, annuso e percepisco ogni profumo, odore, l’aria di un mondo che si è sciolto come un cubetto di zucchero inzuppato nel caffè lasciandomi l’inestimabile ricordo del suo gusto. Custode di attimi, vado avanti nel silenzio che possiamo sentire soltanto camminando nella notte, lungo le strade coperte di neve di una città che accoglie ogni fiocco, gentile e discreta. Ah, che freddo generoso di vita sulle guance. E che pace la neve mentre cade armoniosa come il sipario che si chiude con grazia. Sabina Gardovic # Da sinistra: la cattedrale cattolica, la cattedrale ortodossa e la sinagoga, sempre a Serajevo. Cchinski Poupou l'quourouce Christian Bickel stati uniti Testo di RICCARDINA SILVESTRI Foto di JO MARIE WILLIAMS Molti italiani conoscono l’arizona, il Gila river e gli indiani pima più che altro attraverso le pagine di tex Willer, uno dei più longevi fumetti italiani. Quattro suore, inossidabili nella loro passione per il vangelo, da meno di un anno stanno scrivendo una nuova avventura missionaria proprio in quelle assolate terre. lE MissionariE dElla Consolata aprono in una risErva indiana SULLE SPONDE DEL d al primo agosto 2014, abbiamo iniziato la nostra missione in una riserva indiana, Gila River Indian Community, in Arizona, 60 chilometri a Sud Est di Phoenix, nel Sud Ovest degli Stati Uniti. La riserva si trova nella diocesi di Phoenix, che da alcuni anni assicura la celebrazione dell’eucarestia domenicale grazie al servizio volontario di alcuni preti in pensione che coadiuvano il direttore diocesano del Native American GILA RIVER Ministry, Fr. Gregory Rice, un missionario Mill Hill che è stato in Pakistan per diciassette anni. Nella riserva ci sono sei suore Franciscan Sisters of Charity di Manitowoc, Wisconsin, che gestiscono esclusivamente la scuola cattolica di St. Peter, dedicata all’educazione elementare e media dei bambini nativi. Questa comunità di religiose è ciò che rimane del gruppo missionario che si è speso al servizio pastorale ed educativo alla popolazione nativa dal 1896. Francescani/e, le suore di St. Joseph of Carondelet, di St. Joseph of Orange e i Fratelli delle Scuole Cristiane si sono susseguiti nel prestare il loro servizio religiosoeducativo fino al 1990. Il famoso collegio St. John’s High School, che ha educato migliaia di bambini e giovani, non esiste più. Rimasto inabitato, è stato più volte vandalizzato e anche dato alle fiamme. La popolazione, di circa ventimila persone, appartiene alle tribù A’kimel O‘odham (Pima) e PeePosh (Maricopa). Il territorio copre 1.512 km2 circa, diviso in sette distretti. Gli uffici dell’amministrazione tribale si trovano a Sacaton, dove la nostra comunità risiede. La comunità tribale gestisce la propria compagnia telefonica ed elettrica, ospedale, clinica, e pubblica mensilmente il proprio giornale. Sfortunatamente, la riserva ha uno dei più alti tassi di diabete, APRILE 2015 MC 61 STATI UNITI tipo 2, nel mondo, circa il 50%. Per questo motivo, la comunità ha contribuito a testare dati importanti per la ricerca in questo campo, partecipando anche a studi approfonditi su questa malattia. Il tasso così alto è dovuto anche all’alimentazione a base di molti grassi, carboidrati e cosiddetti fast food. Infatti, l’obesità è altissima e l’indice di mortalità tra giovani adulti è impressionante. La gente è molto affabile e ci ha accolto con tanto calore. Infatti, la prima domanda che ci hanno fatto è stata: «Siete qui per rimanere?». Per anni una o due religiose hanno prestato un servizio volontario, ma rimanevano uno o due anni e poi, per vari motivi, ritornavano alle loro comunità. I bambini sono quelli che rubano il cuore. Dopo alcune domeniche di presenza nelle loro piccole e povere cappelle sorridono al ve# Pagina precedente: festa indiana alla Holy Family mission. Qui sotto: mappa di Sacaton nella Gila River Indian Reserve con le quattro cappelle. Nel riquadro la più antica, St. Ann. Le quattro suore sono (da destra): Jo Marie Williams, Riccardina Silvestri, Maria Dina Puddu e Adelangela Paita. derci spuntare e se arrivano tardi a messa, cosa che succede tutte le domeniche, senti le loro braccia intorno alla vita con quel bel sorriso e con quegli occhietti birichini che sembrano dirti «Tardi, ma sono qui». Per ora partecipiamo all’Eucaristia domenicale in quattro missioni: St. Anthony, St. Ann, Holy Family e Our Lady of Victory (vedi mappa qui sotto). Collaboriamo all’educazione religiosa di bambini e adulti che si preparano ai sacramenti, visitiamo gli ammalati, e assistiamo a tutti gli eventi a cui la gente ci invita. Questo ci permette di entrare adagio e con semplicità nella loro vita e conoscere il loro costume. C onsideriamo il nostro servizio tra i membri di questa comunità nativa un onore e l’essere le prime missionarie della Consolata assegnate a lavorare nella Gila River Reservation un privilegio. Infatti, i nativi sono il gruppo etnico più dimenti- cato. La storia di oppressioni e umilianti leggi ha contribuito a rendere questa popolazione invisibile, per questo, generalmente, la gente ha una stima di sé bassissima. Si attribuisce a questo l’alta percentuale di suicidi giovanili, l’alcolismo, la droga, studenti rinunciatari (64%) e la partecipazione in gangs. Noi viviamo in questo spazio che è pur sempre sacro perché qui cammina la persona umana e Gesù. Egli ci invita a contemplare il suo volto nei giovani rinunciatari, nelle ragazze madri che lasciano i piccoli alla cura della nonna, nelle donne vittime di violenze e abusi, e nelle vittime della droga e alcolismo, e ad essere fra di loro una presenza rispettosa di consolazione. Vogliamo, come spesso esorta Papa Francesco, essere «pastore con lo stesso odore delle pecore», per comunicare loro quanto siano preziose e care. Riccardina Silvestri MoZaMBico di PAOLO DERIU ricorDanDo Giancarlo PeGoraro ADORABILE FACTOTUM Meccanico, idraulico, muratore, carpentiere, falegname, camionista, ma anche animatore: Giancarlo Pegoraro è stato un grande missionario laico. Un suo ricordo nelle parole di Paolo Deriu, amico e compagno di missione. G iancarlo arrivò a Milaico (Missionari laici della Consolata) di Nervesa della Battaglia, in provincia di Treviso, nell’aprile del 1998, per formarsi e prepararsi a partire per l’Africa o il Sudamerica, come missionario laico della Consolata. Uomo di opinioni forti e dalla voce potente, non passava inosservato. Con sé, portò una ventata di entusiasmo e voglia di impegnarsi. Aveva fatto tanti mestieri: camionista, elettricista, meccanico d’auto, muratore, operaio di calzificio. S’intendeva di motori aeronautici e gli piaceva fare il pasticciere, senza dimenticare che era anche boy scout e suonatore di «basso tuba» nella banda del suo paese. Un personaggio, insomma. A Milaico si impegnò senza risparmio come animatore missionario e si dedicò ai molti lavori di manutenzione che una casa grande come quella di Nervesa richiedeva, per esempio, riparare le imposte, sistemare l’impianto elettrico o quello idraulico. Soprattutto, divenne il nostro cuoco. Tra le sue specialità, quelli che chiamava i «piatti da meditazione», passati di verdura e altro ben spessi, che richiedevano un certo tempo di digestione, utili appunto per riflettere sulla propria vita interiore. Giancarlo PeGoraro • nato il 9 ottobre 1960 a castelgoffredo, Mantova, morto il 31 gennaio 2015 a Mambone, in Mozambico; • la famiglia: papà Bruno, mamma Pasqua, secondo di 6 fratelli (nazzareno, Maria rosaria, luigina, emanuela, Danila e Francesco); • dal 1998 missionario laico della consolata in italia (nervesa della Battaglia) e Mozambico (Maputo, Mecanhelas, Mambone). APRILE 2015 MC 63 MOZAMBICO Oltre a essere un grande lavoratore, aveva una inesauribile voglia di imparare. Non sapeva nulla di informatica, ma seguì con passione le nostre lezioni, poi continuò a formarsi da solo, così che «superò i maestri» e divenne un esperto. C ome destinazione, inizialmente, ci venne indicato il Kenya. Così il buon Giancarlo si diede di buona lena ad imparare l’inglese e in breve lo sentimmo pronunciare le prime frasi in questa lingua, rispondendo ad un registratore. Tuttavia, cambiò il paese di destinazione e nella primavera del 1999, finalmente si concretizzò la partenza per una missione in Mozambico, nell’Africa meridionale. Dopo qualche mesetto in Portogallo, per perfezionare la lingua portoghese, Giancarlo prese l’aereo per Maputo, la capitale, e - in attesa che arrivassi anch’io, una settimana dopo -, si fece conoscere come factotum nella Casa Regionale Imc di quella città. Arrivammo a Mecanhelas (nella regione del Niassa, Mozambico settentrionale), la nostra missione, la notte del 10 maggio. Trovammo padre Franco Gioda, padre Rogelio Alarcòn e le bam- 64 MC APRILE 2015 bine dell’«infantàrio» (centro nutrizionale), che ci accolsero con canti, danze e torte da loro preparati. Il giorno dopo ci fecero conoscere la parrocchia, i suoi animatori e i suoi operai. Tutta la missione contava circa 60 mila abitanti e 170 comunità cristiane. Giancarlo venne nominato responsabile tecnico: si sarebbe occupato dei mille lavori che una missione comporta e anche della formazione professionale di manovali e operai specializzati. Il suo campo d’azione divenne l’officina, che provvedeva alla manutenzione degli autoveicoli e dei mulini. La veneranda Land Rover dei missionari aveva le portiere che si chiudevano con le corde e i freni ad azione ritardata (a volte nulla). Il camion, invece, bisognava spingerlo, perché si mettesse in moto. Oltre ai veicoli, Giancarlo, o Genki # In alto: Giancarlo al lavoro sul trattore. Qui a lato: con padre Carlos Osorio nella fabbrica di sale di Mambone, ultima destinazione di Giancarlo (sulla destra - vedi MC 11/2014 p. 74). come amava essere chiamato, cominciò a preoccuparsi dei mulini a motore della parrocchia (frequentati da una numerosa clientela, poiché non sottraevano farina durante la macinatura dei cereali, a differenza di altri mulini di proprietà privata). Uno dei mulini perdeva circa un litro d’olio al giorno, che si spandeva sul pavimento. Gli sforzi di Giancarlo per insegnare al mugnaio a inserire una lamiera che raccogliesse le gocce di lubrificante prima che cadessero a terra furono leggendari. Solo dopo varie settimane, con le orecchie piene delle urla del nostro missionario laico, il mugnaio si convinse che non era il caso di raccattare con le mani l’olio disperso sul pavimento per rimetterlo nella macchina. Un discorso a parte furono i diversi progetti per costruire scuole, centri di catechesi, cappelle e ambulatori, sparsi un po’ per tutta la missione. Giancarlo era frequentemente richiesto per andare in giro a sovrintendere a tutti i cantieri edili. Un suo sogno era un bel camion-laboratorio, con tutti gli ultimi ritrovati della tecnologia, purtroppo era un po’ troppo caro per riuscire a renderlo realtà. N elle sue peregrinazioni, Giancarlo non passava inosservato. La gente lo vedeva transitare di buon mattino con il suo «passo da alpino» (era, in effetti, un appassionato di montagna) diretto alla fuoristrada o a un autobus, caricando un enorme zaino pieno di utensili e ricambi e commentava: «Che grinta, sembra un soldato, chissà come è forte». Un’altra meta dei suoi viaggi era il Malawi, dove si recava a caccia di parti di ricambio decenti. Approfittava di questi viaggi per dare uno strappo ai malati della parrocchia, che avevano bisogno di cure specialistiche per cataratta agli occhi, ernie, varie forme tumorali. Quando invece andava nella città di Nampula, in Mozambico, a oltre 400 Km dalla parrocchia, se poteva, caricava malati di mente, diretti al locale ospedale psichiatrico. Giancarlo infatti non si occupava solo di risolvere guasti tecnici o di dirigere lavori edili. Si preoccupava dei più deboli, tra cui appunto i malati, e gli stavano molto a cuore anche i bambini del Centro nutrizionale con cui trascorreva i momenti della sera o la domenica. I bambini erano MC ARTICOLI molto contenti di averlo con loro, avevano bisogno di un punto di riferimento maschile, essendo le educatrici tutte donne. Importante per Giancarlo era la formazione professionale dell’équipe di meccanici, falegnami, muratori e manovali (erano circa 70 lavoratori) con cui lavorava. Abituato a un approccio sincero con la gente e a parlare forte e chiaro, per Giancarlo fu difficile, all’inizio, comprendere un particolare tratto culturale del popolo Makua, che ci aveva accolti. Ai Makua, infatti, non piace dire di «no» a una domanda di un ospite straniero, perché non vogliono causargli un dispiacere. Quindi poteva capitare che i lavoratorialunni rispondessero sempre di «sì», durante la formazione, alle domande di Giancarlo, anche se magari non avevano capito un bel niente. Quando durante le esercitazioni pratiche veniva fuori la verità, il poveretto aveva un bel sgolarsi per ripetere i concetti. Comunque, con il tempo, l’équipe tecnica di Mecanhelas imparò a dialogare con Giancarlo (anche familiarizzando con espressioni del dialetto mantovano che il nostro tanto amava) e ad apprezzarne la professionalità. Rientrato da Mecanhelas nell’aprile 2002, Giancarlo rimase per un anno come animatore missionario e factotum a Milaico, poi rispose di nuovo al richiamo della missione e, nel 2003, rientrò in Mozambico dove riprese a lavorare come meccanico, idraulico, muratore, falegname, camionista nelle missioni del Nord e del Centro e ovunque lo chiamassero per riparare auto, installare generatori, scavare pozzi. La sua ultima missione è stata Nova Mambone, dove sovrintendeva alle saline, importante fonte di reddito della locale missione. M issionario senza secondi fini o ipocrisie, Giancarlo diceva chiaramente quello che pensava e dedicava ogni sua energia nel lavoro di manutenzione e direzione tecnica e in quello di evangelizzazione. Prendeva molto a cuore ogni suo impegno e soffriva quando temeva di non riuscire a risolvere qualche problema, ma la sua perseveranza faceva sì che questo succedesse di rado. Nella sua stanza, si poteva trovare la Bibbia, come anche utensili e parti di ricambio, sistemati anche sotto il suo letto, giacché la sera o il mattino presto, non erano per lui necessariamente tempi di riposo. Ci teneva a rimanere in contatto con le realtà dei missionari laici della Consolata, soprattutto in Portogallo e partecipava volentieri alle assemblee che venivano organizzate. La sua salute non era delle migliori. Al mattino, a colazione, ci comunicava il «bollettino medico» della notte trascorsa, tra spifferi, dolorini e altro. Ma non era uno che si lamentasse e ne parlava con allegria. Purtroppo, all’improvviso, il 31 gennaio scorso, la malattia ha vinto, ma solo sul suo corpo. Giancarlo continua a vivere nel ricordo della gente di Mecanhelas e delle altre missioni in cui ha servito, tra coloro che ha formato come specialisti e quelli con cui ha condiviso gioie e dolori della vita. Senza mai chiudere la porta in faccia a nessuno. Paolo Deriu APRILE 2015 MC 65 Cooperando... www.missioniconsolataonlus.it MCO Fondazione Missioni Consolata Onlus Testo e foto di Chiara Giovetti ROMA E I MIGRANTI / 1 Il ciclo di reportage su periferie delle grandi città, disagio e migranti, ci porta questa volta a Roma, ancora scossa per le rivelazioni dell’inchiesta «Mafia Capitale» e per i tumulti di Tor Sapienza. © Chiara Giovetti L ’ autobus 105 è fermo al capolinea di Piazzale dei Cinquecento, di fronte alla stazione di Roma Termini. Attraverso le sue quattro porte aperte, persone avvolte in sciarpe e giacconi guadagnano un sedile o più probabilmente un posto in piedi e aspettano che lo scatolone di plastica e metallo lungo diciotto metri cominci la sua corsa nell’aria fredda delle sere del febbraio romano. Qualcuno scenderà dalle parti del Pigneto, per raggiungere gli amici in qualche bar dell’isola pedonale e partecipare al rito importato dell’aperitivo. Molti altri, invece, proseguiranno verso Tor Pignattara, Centocelle e oltre, fino a quella Tor Bella Monaca che nel quotidiano capitolino è da anni sinonimo di luogo della marginalità e del degrado. L’umanità del 105 è un fedele spaccato della pancia di una città che cerca, o semplicemente non può evitare, di scoprirsi multietnica: signore dell’Est europeo con buste di plastica gonfie posate sulle ginocchia e i tratti stanchi di chi ha fatto pulizie in qualche appartamento del centro, bengalesi con in mano i bastoni per selfie che non sono riusciti a vendere ai turisti, ragazzi cinesi con un libro fra le mani e gli auricolari alle orecchie, giovani africani carichi di grossi sacchi che lasciano intravedere borse con le griffe dell’alta moda. Quelle stesse borse che poche ore prima erano disposte in bella mostra sui sampietrini a due passi dal Colonnato o dalla scalinata di Trinità dei Monti, poi agguantate per i manici e portate via di corsa, lontano dalla vista della polizia arrivata di soppiatto a scompigliare l’improvvisato mercato. Un bengalese parla al telefono, a voce alta. «Ma che urla quello? Certo che ’sti immigrati fanno proprio come je pare...» commenta spazientita una donna. «Che vuole, signo’, non siamo manco più padroni a casa nostra, ormai», le risponde un’altra, un sedile più avanti. Questa non è l’aria che tira a Roma, è solo una delle sue correnti. Ma è la corrente che fischia più forte, che fa svolazzare i giornali, che scoperchia i tetti e rompe i vetri nelle periferie. Tor Sapienza, con le immagini degli scontri e delle proteste anti-immigrati dello scorso novembre, è sempre lì, nello stesso spicchio di città che il 105 attraversa, in quella Roma Est che secondo la rivista online Vice era fino a pochi anni fa «poco meno che un mistero» per i giornali e per gli altri abitanti dell’Urbe. Ma Tor Sapienza è, nella recente memoria collettiva romana, dove rimarrà impressa per molto tempo, anche quella frase pronunciata in una intercettazione dal presidente della Cooperativa 29 Giugno, Salvatore Buzzi, oggi detenuto nel carcere nuorese di massima sicurezza di Badu ’e Carros dopo che l’operazione Mondo di Mezzo condotta dai Ros, ha portato alla luce nel dicembre scorso il suo ruolo chiave nella vasta rete criminale di stampo mafioso facente capo all’ex Nar Massimo Carminati: «Tu c’hai idea di quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende di meno». Spetterà a nuove indagini e ai successivi processi chiarire le responsabilità della vicenda di Mafia Capitale, comprese le ipotesi di manipolazione della protesta di novembre proprio da parte della cupola romana di Carminati e Buzzi. Ma che la mala gestione del fenomeno migratorio e, più in generale, del disagio, accenda le micce in quella che i media hanno chiamato la «polveriera delle periferie» è evidente, da tempo. A Corcolle - zona del VI Municipio a venti chilometri da Termini, estremo brandello orientale della città - basta un nubifragio perché le strade e le case siano sommerse dall’acqua. Il manto stradale è in condizioni pessime, l’Adsl non arriva, e solo lo scorso ottobre l’Asl ha approvato l’apertura di un servizio di pediatria, fi- 68 MC APRILE 2015 © Chiara Giovetti Cooperando… nora assente nonostante la presenza di un migliaio di bambini. Anche Corcolle, prima di Tor Sapienza, ha vissuto giorni di tensione fra residenti e migranti. Ma, se la presenza degli stranieri è stata la goccia, pronto a traboccare c’era tutto un vaso. Gli inizi dell’accoglienza Eppure, la città non si è certo accorta ieri del fenomeno migratorio: «Il centro di ascolto stranieri di via delle Zoccolette», racconta Lorenzo Chialastri, responsabile del Centro Ascolto Stranieri di Via delle Zoccolette dal 2003 e dell’Area Immigrazione della Caritas di Roma dal 2013, «ha aperto nel 1981, probabilmente fra i primi in Italia. All’epoca, i migranti in città erano eritrei, filippini e capoverdiani che andavano via via sostituendo gli italiani come lavoratori domestici. Probabilmente nella percezione nazionale lo spartiacque è stato il 1991, anno dell’arrivo in Puglia dei barconi con i ventisettemila migranti albanesi. L’anno successivo, il comune di Roma ha aperto l’Ufficio Speciale per l’Immigrazione». Dal 1981, il centro di ascolto della Caritas ha registrato oltre 250 mila schede personali, ogni anno conta seimila nuovi utenti che effettuano più di venticinquemila richieste di servizi allo sportello. Offre ascolto dei bisogni, orientamento nella ricerca di alloggio e di lavoro, corsi di italiano e assistenza legale, con particolare attenzione agli utenti più vulnerabili come i rifugiati e le vittime di tratta. Nove assistiti su dieci sono immigrati regolari; quanto alla presenza di immigrati irregolari in città, come per i dati nazionali, è difficile azzardare una stima. Lo scorso anno a fronte di 170 mila arrivi in Italia sono state avanzate solo sessantamila richieste d’asilo. Che fine hanno fatto gli altri? Quanti sono rimasti in Italia? Molti rifiutano di farsi prendere le impronte digitali perché vogliono potersi spostare in altri paesi europei senza rischiare di essere «dublinati», cioè rimandati in Italia sulla base del Regolamento di Dublino, il quale stabilisce che i migranti richiedenti asilo devono risiedere nel paese competente a esaminare la loro domanda, cioè quello di prima accoglienza, dove è avvenuta l’identificazione. è chiaro che al rifiuto dei migranti di farsi registrare si accompagna un equivalente lasciar correre delle • Migranti | Roma | Caritas • MC RUBRICHE © Caritas Roma area salute «Tor Sapienza è una realtà della città che ha alzato la voce; dal nostro punto di osservazione, però, ad emergere non sono solo le difficoltà di integrazione ma anche la grande vitalità delle comunità cristiane di migranti e il loro sforzo di creare legami con il territorio». A parlare è monsignor Pierpaolo Felicolo, direttore dell'Ufficio per la Pastorale delle Migrazioni (Upm) della Diocesi di Roma. «A Roma le comunità cattoliche di migranti possono contare su 150 luoghi di incontro e preghiera. Sono le comunità stesse che ci manifestano l'esigenza di aprire un nuovo centro e spesso sono loro che si danno da fare per individuare le strutture dove collocare i luoghi di aggregazione e culto». «Qui il flusso è continuo: a differenza di Milano o Torino, si arriva alle seconde generazioni mentre le terze sono ancora poco rappresentate», spiega don Felicolo. Le attività coordinate dall'Upm si basano sui bisogni riscontrati attraverso i numerosi centri d'ascolto e comprendono ad esempio la visita alle carceri e i corsi di italiano, realizzati in orari scelti dagli allievi. «La comunità cinese, ad esempio, preferisce la fascia oraria dalle otto alle dieci di sera, mentre i malgasci optano per il primo pomeriggio». Chi.Gio. autorità italiane, atteggiamento che gli altri paesi europei hanno bacchettato, accusando l’Italia di utilizzare questo metodo per «liberarsi» dei migranti. «Abbiamo visto questa dinamica all’opera ad esempio con l’arrivo di quindici migranti trasferiti da Augusta, in Sicilia, a Civitavecchia, e da lì al nostro centro d’accoglienza a Roma», spiega Chialastri. «Sono arrivati con in mano un numero scritto su un foglietto, non erano state prese loro le impronte digitali. Due sono spariti nel nulla nel giro di pochi giorni». La salute, tema su cui ci si incontra In via Marsala, la strada che costeggia la stazione Termini, la Caritas di Roma gestisce un poliambulatorio (attivo già dal 1983) del quale Salvatore Geraci, laureato in Medicina e Chirurgia alla Sapienza, è responsabile dal 1991. Geraci non si stanca di insistere sull’importanza dei quattro pilastri su cui si regge l’operato dell’ambulatorio: «I servizi sanitari sono ovviamente fondamentali», precisa il medico, «ma dobbiamo dedicarci con lo stesso impegno alla conoscenza dei fenomeni, alla formazione degli operatori sanitari e al nesso fra salute e diritti dei migranti. Altrimenti si fa solo assistenzialismo». Il poliambulatorio ha assistito in un trentennio più di centomila pazienti, specialmente migranti irregolari e persone senza fissa dimora; annualmente eroga fra le dodici e le ventimila prestazioni sanitarie a una media di seimila pazienti, e ha registrato nel 2014 un aumento di assistiti pari a 1.200 unità. Fra gli utenti sono in aumento gli italiani, che si rivolgono al poliambulatorio soprattutto per ottenere gratuitamente i farmaci di fascia C, quelli per cui © Caritas Roma area salute ROMA NON SOLO PANE non è possibile ottenere esenzioni. Le malattie più frequenti sono quelle che il responsabile indica come tipiche della povertà e cioè quelle dell’apparato respiratorio, del sistema osteomuscolare, dell’apparato digerente e della pelle. «Ma non dimentichiamo le ferite invisibili», precisa Salvatore Geraci, «quelle generate dai traumi psicologici subiti dalle persone vittime del conflitto, della tratta, della violenza intenzionale e delle torture» al centro di un progetto nel quale APRILE 2015 MC 69 Cooperando… I rifugiati A pochi passi dal poliambulatorio c’è la sede di Prime Italia, un’associazione di volontariato che si oc- ROMA E I MIGRANTI IN NUMERI STRANIERI RESIDENTI NELLA PRovINCIA DI RoMA: più di 380 mila STRANIERI RESIDENTI NEL CoMuNE DI RoMA: 250 mila (10% della popolazione residente totale). PRIME QuINDICI CITTADINANZE PER ISCRITTI IN ANAGRAFE: Romania: 85 mila Filippine: 40 mila Bangladesh: 23 mila Polonia: 15 mila Cina: 14 mila Perù: 14 mila SEGuoNo Ucraina, Egitto, India, Sri Lanka, Ecuador, Moldavia, Albania, Francia e Spagna. Età media: 37,2 anni (contro i 44,2 degli italiani) PERCENTuALE DoNNE: 52% 70 MC APRILE 2015 cupa di promuovere l’integrazione dei richiedenti asilo e dei titolari di protezione internazionale (www.prime-italia.org). Fra le sue attività ci sono i corsi di scuola guida gratuiti e a prezzo agevolato per rifugiati finanziati grazie ai fondi dell’otto per mille della Tavola valdese e dell’Automobile Club Roma. Da Termini, in venti minuti di metropolitana, si raggiunge Ponte Mammolo dove dal 2003, all’interno di un più vasto insediamento spontaneo abitato da famiglie rom, ne esiste uno più piccolo dove vivono rifugiati in prevalenza eritrei, un’ottantina in tutto, suddivisi in una cinquantina di piccole abitazioni di un vano. Alcune sono in muratura, altre in lamiera, cartone, plastica. Due generatori alimentano le aree comuni adibite a cucina e spazio ricreativo, ma le «case» mancano dei mezzi per scaldarsi e conservare il cibo. «A partire dal 2013» spiega Guglielmo Micucci, presidente di Prime, «dopo aver gradualmente cercato di creare un rapporto di fiducia con i rifugiati, abbiamo avviato una serie di attività nel campo»: fra queste, la distribuzione di sacchi a pelo e una collaborazione con Leroy Merlin Italia che ha permesso la riqualificazione dei servizi sanitari. Fabiola Zanetti, responsabile delle attività Prime a Ponte Mammolo, racconta soddisfatta un lieto risvolto inatteso del progetto con Leroy Merlin: «Augusto, uno dei ragazzi del campo, ha dato una mano nella ristrutturazione dei bagni. Notando il suo impegno, Leroy Merlin gli ha offerto un tirocinio: ha iniziato a metà gennaio 2015». Quello di Ponte Mammolo è il più piccolo dei principali insediamenti e occupazioni informali nei quali vivono richiedenti e titolari di protezione internazionale. Gli altri sono il Selam Palace (ex Enasarco) di Anagnina - Romanina, che ospita circa 700 persone prevalentemente di nazionalità etiope, eritrea, somala e sudanese, e l’edificio di via Collatina 385, sette piani per un numero di etiopi ed eritrei che varia da 400 a 600. Al centro Ararat in zona Testaccio vi- © PR ME talia un’équipe di operatori specializzati offre un servizio di ascolto e di psicoterapia transculturale. Il poliambulatorio, oltre che sul personale dedicato, si regge sul lavoro di 380 volontari. Qualcuno è un ex paziente. «Mi viene in mente il caso di una coppia di cinesi che avevamo curato qui al poliambulatorio», ricorda con un sorriso il dottor Geraci. «L’idea di prestare lavoro senza ricevere un compenso - cioè il volontariato è inconcepibile per i cinesi, non è nelle loro coordinate culturali. La gratitudine nei confronti di chi li ha aiutati però lo è. Per questo, quando i coniugi sono riusciti tramite il ricongiungimento familiare a far venire a Roma il figlio, lo hanno praticamente obbligato a venire a dare una mano». © PRIME Italia MC UNA MANO PER PROGETTO UN’AULA PER NAMPULA INVESTIRE SULLA SCUOLA (1 - continua) # Pagine 67 e 68: immigrati che cercano fortuna nelle strade e vicoli attorno a san Pietro. # Pagina 69: scene dal poliambulatorio di Via Marsala a Roma, gestito dalla Caritas fin dal 1983, che ha assistito in questi anni oltre cento mila pazienti e ora offre i suoi servizi anche a moltissimi italiani. # Sopra e a destra: l’angolo degli eritrei nell’insediamento di Ponte Mammolo, esterno e interno di una delle stanze. # Qui a destra: lavori di ristrutturazione di un’aula in quello che era il seminario della Consolata di Nampula, Mozambico, per aprire una scuola secondaria bilingue. Donazioni per il progetto «un’aula per Nampula» a mezzo ccp o bonifico bancario (vedi pag. 83). © Daci Vilarinho vono poi un’ottantina di curdi e, se l’insediamento di Stazione Ostiense è stato sgomberato nel 2012, l’anno successivo è stato occupato uno stabile di cinque piani in piazza Indipendenza, a due passi da Termini, dove abitano circa 500 rifugiati in maggioranza eritrei. Sono circa duemila persone in gran parte uomini, ma non mancano le donne e i bambini. Chiara Giovetti Mozambico settentrionale, Nampula è la città più importante, la terza del paese, con circa mezzo milione di abitanti. È in rapida crescita grazie alla ferrovia che la collega a Cuamba e che permette il trasporto di merci e persone lungo i quasi 350 chilometri percorsi dal treno. Di pari passo con l’esplosione demografica della città vanno però anche i fenomeni di marginalizzazione: «Molti, specialmente i giovani, lasciano i villaggi per venire a vivere in città nella speranza di trovare un lavoro», spiega padre Leonel Toledo, missionario della Consolata a Nampula. «Ma spesso si trovano a vivere di espedienti, a fare lavori occasionali e mal pagati e ad abitare in alloggi di fortuna. Qualcuno cede alla tentazione dei soldi facili attraverso le rapine, la microcriminalità, i piccoli furti». I missionari della Consolata sono presenti a Nampula da oltre trent’anni. Da quest’anno, in quello che era il seminario, stanno ristrutturando dei locali per aprire una scuola secondaria mista e bilingue dove gli studenti, ragazzi di età compresa fra i 12 e i 17 anni, potranno formarsi sia in portoghese che in inglese. L’offerta di una formazione di alta qualità è fondamentale perché spesso le scuole pubbliche possono contare su insegnanti che hanno una preparazione lacunosa e un grado di motivazione estremamente basso, con ripercussioni negative sulla formazione degli studenti che a volte, persino all’università, mostrano difficoltà a leggere e scrivere correttamente (vedi «Itinerari mozambicani» su MC di ottobre e di novembre 2014). Le rette pagate dagli studenti garantiranno le entrate necessarie per coprire i costi di mantenimento della scuola. Quanto agli studenti meno abbienti, è previsto un programma di borse di studio che consenta l’accesso all’istruzione anche a chi non ha i mezzi. La scuola sarà inizialmente in grado di formare fino a trecento alunni; la prospettiva di lungo periodo sarebbe poi quella di ampliare l’offerta formativa includendo anche la scuola primaria (fascia d’età fra i 6 e i 13 anni). I missionari chiedono aiuto per la ristrutturazione e l’arredamento di sette aule scolastiche necessarie per iniziare il primo anno di scuola. Il costo per un’aula è pari a 4.900 euro compreso il mobilio. Libertà Religiosa Janine/Flickr.com Testo di Paolo Bertezzolo Nonostante la legge sulla libertà religiosa in Italia sia ancora quella del ‘29, non siamo fermi lì. Le intese tra lo stato e le singole confessioni avvicinano il nostro paese alla propria Costituzione, ma il deputato del Pd, Roberto Zaccaria, sostiene la necessità di una nuova legge. Finché essa non ci sarà, non sarà realizzata in Italia la libertà di credo. Chiudiamo con questa intervista il piccolo ciclo di dialoghi sulla libertà religiosa con parlamentari italiani. 72 MC APRILE 2015 riflessioni e fAtti sUllA libertà religiosA nel Mondo - 27 MA LE INTESE U NON BASTANO na via pragmatica per arrivare in Italia alla realizzazione del diritto alla libertà religiosa è stata indicata dal prof. Stefano Ceccanti, ex senatore Pd, e dal senatore Fi Lucio Malan, nelle due puntate precedenti: quella delle intese tra stato italiano e singole confessioni religiose, uno strumento previsto dalla Costituzione. Oggi, infatti, ci si trova ancora con la vecchia legge del ’29 - anche se profondamente amputata delle sue parti incompatibili con la Costituzione -, e allo stesso tempo con l’oggettiva difficoltà a produrre una nuova legge generale, dimostrata dal fallimento di vari tentativi del Parlamento in diverse legislature. Piuttosto di insistere sulla strada impraticabile di una legge generale, si sostiene, è meglio procedere con le intese, e solo in un secondo momento, quando dovessero esserci le condizioni appropriate, arrivare a una legge generale. Roberto Zaccaria non è però dello stesso avviso. Professore ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico presso l’Università di Firenze, ha insegnato Diritto costituzionale, Diritto dell’informazione e Diritto regionale all’Università di Firenze, Macerata, Lumsa e Luiss di Roma. È stato membro della Camera dei deputati nelle legislature XIV (2001-2006, gruppo La Margherita-L’Ulivo), XV (2006-2008, gruppo L’Ulivo) e XVI (20082013, gruppo Pd). È stato consigliere di amministrazione della Rai dal 1977 al 1993 e suo presidente dal 1998 al 2002, vice Presidente dell’Uer (Unione delle televisioni pubbliche europee) dal 2000 al 2002. È giornalista pubblicista, iscritto all’Ordine dei giornalisti. A differenza dei suoi colleghi Ceccanti e Malan, lei sostiene la necessità di giungere il più presto possibile a una legge generale sulla libertà religiosa. Per quali motivi? «L’esigenza di intervenire per sostituire la legge del 1929 è essenziale e prioritaria. I principi contenuti nella nostra carta costitu- • Libertà religiosa | Costituzione | Laicità dello stato • MC RUBRICHE momento storico, come non lo rientrano del resto alcune leggi complementari come quella sulla cittadinanza e quella sull’immigrazione». Nella XV legislatura lei è stato promotore di una legge generale che caratterizzasse in modo molto preciso il diritto di libertà religiosa, specificando i diritti dei singoli e delle varie confessioni. «Nella XV legislatura sono stato più precisamente il relatore della legge sulla libertà religiosa riprendendo il lavoro che era stato avviato dall’on. Maselli nella XIII legislatura (1996-2001). Nella XIV legislatura il percorso parlamentare alla Camera aveva preso le mosse da un disegno di legge del governo Berlusconi (Ac - Atto della Camera - n. 2531) che riproduceva nella sostanza il testo del progetto di legge del governo Prodi della XIII legislatura. Nella XV abbiamo invece lavorato su due proposte di legge d’iniziativa parlamentare, rispettivamente dei deputati Boato (Ac n. 36) e Spini (Ac n. 134), intitolate «Norme sulla libertà religiosa e abrogazione della legislazione sui culti ammessi». Ci siamo mossi con grande rigore svolgendo addirittura due cicli di audizioni: la prima sulle proposte Boato e Spini e la seconda su un testo del relatore. L’atteggiamento intransigente della Cei, manifestato soprattutto nel secondo ciclo di audizioni, sull’inserimento nel testo di un riferimento al principio di laicità, ha prodotto un irrigidimento anche in alcuni dei partiti del centrodestra. Di fronte a un numero rilevantissimo di emendamenti, il provvedimento si è arenato. La conclusione dei lavori è avvenuta il 24 luglio 2007. La legislatura è finita alcuni mesi dopo». Ora ha promosso il «Gruppo Astrid» che lavora in vista della stesura di una nuova proposta di legge. «Poco dopo l’inizio della XVII legislatura, vedendo che il Parlamento non sembrava intenzionato ad affrontare l’argomento, con il sostegno di un nutrito gruppo di professori di diritto ecclesiastico, ho proposto alla Fondazione Astrid di avviare un gruppo di lavoro per definire una nuova legge sulla libertà religiosa. A motivare quest’iniziativa non c’era solo il fatto che in Parlamento il tema risultasse assente, ma anche la necessità di rimettere mano a una nuova impostazione della legge. I testi che avevano accompagnato il dibattito parlamentare nelle legislature che abbiamo ricordato erano decisamente datati e quindi si è deciso di impiegare utilmente le energie dell’accademia nella predisposizione di un testo che sarebbe potuto essere utile in una prossima stagione parlamentare. L’idea del gruppo di lavoro ha preso forma più concreta a Camaldoli, nel maggio del 2013 (cfr. L. Rolandi, L’Italia religiosa tra disinteresse e sospetto, in Mc agosto-settembre 2013), in un convegno organizzato dalla redazione del n. 1 dei «Quaderni di diritto e politica ecclesiastica» bea/Flickr.com Flavio Casadei Della Chiesa/Flickr.com zionale soffrono per una attuazione incompleta nonostante quello che è stato fatto dall’ordinamento internazionale ed europeo e dalla giurisprudenza a ogni livello. Le intese hanno in qualche modo accentuato la divaricazione tra i fedeli delle diverse religioni e il trattamento delle stesse confessioni e associazioni. La strada di trasformare in legge unilaterale il contenuto comune delle diverse intese è teorica: bisognerebbe comunque passare da un Parlamento che al momento sembra poco sensibile verso questi temi. Tanto vale, allora, fare una legge ad hoc, all’altezza dei tempi». Una normativa generale inevitabilmente cerca di dare delle «definizioni di sistema» su cui l’accordo tra le diverse anime del Parlamento è arduo. Qualcuno lo ritiene addirittura impossibile. Non pensa che sia difficile superare le diverse visioni quando si affrontano problemi generali, concettuali e teologici? «Non credo che il problema sia quello della difficoltà di dare definizioni di sistema condivise. Il problema è rappresentato piuttosto dalla difficoltà per il Parlamento di fare leggi di sistema in ogni campo. Basta guardare i dati sulla produzione normativa per convincersene. La riforma costituzionale e la legge elettorale sono due eccezioni accompagnate da una fortissima determinazione politica. Il resto è governo dell’economia. E questa è la seconda motivazione: una legge sulla libertà religiosa non rientra tra le priorità in questo # Da sopra: la cappella dell’eremo di Camaldoli. | Buddhista cinese durante i festeggiamenti del capodanno. | Preghiera musulmana in viale Jennner a Milano. APRILE 2015 MC 73 Libertà Religiosa Ferruccio Zanone/Flickr.com Jeanette/Flickr.com # Da sinistra in alto: Graglia, Biella (Piemonte), il monastero Mandala Samten Ling, sede di una comunità di monaci buddhisti tibetani. | Immagine simbolica di una donna che entra in un luogo di culto. | Monaci cattolici del monastero di Siloe, Grosseto. | Roberto Zaccaria sul palco del Cinema Teatro Masaccio di San Giovanni Valdarno, che ha ospitato il «Cantiere democratico» di sostenitori e candidati della lista «Con Rosy Bindi democratici, davvero». in collaborazione con il Fidr (Forum internazionale democrazia e religioni, www.fidr.it). Il convegno aveva per titolo La libertà religiosa in Italia: un capitolo chiuso?1». In quanto tempo pensa che il testo possa essere pronto? «I tempi di lavoro sono costanti in relazione al progetto. Esiste un gruppo redazionale più ristretto che presenta proposte per il gruppo più ampio2. Sono stati esaminati una sessantina di articoli. Il lavoro istruttorio si concluderà entro 6-8 mesi. A quel punto credo che verrà convocato un seminario per discutere coralmente il testo». Il testo di questa nuova proposta di legge si differenzia, e in che cosa, da quello da lei promosso nella XV legislatura? «Come dicevo, il nuovo testo, pur prendendo le mosse da quello vecchio, ne allarga considerevolmente l’orizzonte, e tiene conto degli stati di avanzamento sia della giurisprudenza che della dottrina. A partire dagli anni 2000 sta crescendo sensibilmente il profilo internazionale e comunitario della libertà religiosa; si affacciano i problemi identitari connessi ai flussi migratori; si prospettano problemi di bioetica; cresce il coinvolgi- mento di realtà confessionali estranee alla tradizione giudaicocristiana; aumentano i problemi di pluralismo religioso; si fa più complesso il rapporto tra profilo collettivo e profilo individuale del diritto di libertà religiosa; e tutto questo ha rilevanti conseguenze sul concetto stesso di libertà religiosa. Questo è un diritto che viene sempre più spesso associato a problematiche di natura etico-morale e di natura politico-culturale in riferimento al cambiamento della geografia religiosa dovuto ai fenomeni migratori. In più, come vediamo anche in questi giorni, aumentano le questioni di ordine pubblico e sicurezza». Su cosa basa la sua fiducia che questa volta una legge generale sulla libertà religiosa possa essere approvata dal Parlamento? In particolare, ritiene che tale risultato si possa conseguire nel corso della presente legislatura? «Non ho detto che cresce la fiducia sulle possibilità che il Parlamento arrivi ad approvare un testo in questa legislatura. È proprio questo il motivo per cui riteniamo utile lavorare al di fuori del Parlamento in una fonda- zione come Astrid che lavora al fianco delle istituzioni ma che consente di riunire esperienze e discipline diverse. Quando saremo pronti offriremo ben volentieri questo lavoro alle istituzioni e alla politica. Oggi lavoriamo tranquillamente anche al riparo dalle inevitabili tensioni che il dibattito politico genera». La sua proposta precedente si fermò anche perché non ci fu accordo sul fatto che essa si fondasse sul principio di laicità che, tuttavia, è alla base della Costituzione repubblicana. Perché dunque non ci si è trovati d’accordo? Oggi le cose sono cambiate o l’affermazione della laicità dello stato costituisce ancora un problema per qualcuno? «In quel momento quel riferimento nel testo al principio della laicità è risultato dirompente, ma non è detto che debba essere sempre così: le cose cambiano. Del resto ripeto che la nostra proposta avrà un respiro più ampio e, pur fondandosi ovviamente sul principio di laicità che è parte essenziale della nostra Costituzione, potrà declinarlo in modo altrettanto efficace. Non credo proprio che andando alla radice del problema vi possano essere dei contrasti. Magari vi saranno su altri aspetti». Ritiene che, anche quando fosse approvata la nuova legge generale sulla libertà religiosa, sarebbe utile proseguire con la stipula delle intese tra lo stato e le confessioni religiose? «Diciamo subito che non è lecito chiudere una porta, come quella delle intese, che la Costituzione prevede. D’altra parte ci sono delle intese che hanno fatto ampiamente il loro percorso, come quella con i Testimoni di Geova, che dovrebbero essere approvate. Certo, su un piano generale, diciamo di opportunità, credo che sarebbe meglio procedere con una legge unilaterale dello stato che regoli il diritto per tutti perché, paradossalmente, se procedessimo solo sul terreno della regolamentazione bilaterale attraverso le intese rischieremmo di allargare le disparità tra chi gode di regimi particolari e chi ancora è soggetto all’anacronistica legge 1159 del 1929». In attesa della legge generale, rimane aperta nel nostro paese la questione di un’intesa con l’Islam. Quali problemi crea questa situazione, nella prospettiva di una piena integrazione dei fedeli islamici nel sistema costituzionale e giuridico, oltre che nella società, del nostro paese? L’approvazione di una legge generale sulla libertà religiosa faciliterebbe la soluzione di questi problemi o la renderebbe invece più difficile? «È esattamente questo il problema. Proprio all’Islam mi riferivo quando parlavo di inaccettabili differenziazioni. Visto che fino a questo momento la strada dell’intesa si è rivelata impercorribile con l’Islam, è essenziale procedere sulla base della cosiddetta legge generale. Non ho alcun dubbio. Oggi questa legge è necessaria. Si potrebbe procedere anche con la creazione di un testo unico che riunisca le disposizioni sparse in una quantità enorme di testi normativi diversificati. In questa materia però la mera compilazione non è sufficiente: si tratta di riordinare e ammodernare. Io credo che la strada migliore sia invece quella di fare una legge di principi e anche di disposizioni innovative che mettano in soffitta la legge sui culti ammessi, che contenga una delega idonea e confezionare le disposizioni più specifiche, e anche la delega per la redazione di un testo unico innovativo». Paolo Bertezzolo Note: 1- Tra i relatori di quel convegno c’erano, tra gli altri, Roberto Mazzola, dell’Università del Piemonte Orientale A. Avogadro, Marco Ventura della Katholieke Universiteit Leuven, Romeo Astorri dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Alessandro Ferrari dell’Università degli Studi dell’Insubria. 2- Il gruppo è formato, oltre che dai professori indicati nella nota 1, dall’intervistato Roberto Zaccaria, in veste di coordinatore, da Francesco Margiotta Broglio, Sara Domianello, Pierangela Floris, Valerio Tozzi, Paolo Naso, Paolo Cavana e Marco Croce. Ha partecipato ad alcune riunioni il Sen. Lucio Malan. Hanno anche aderito Paolo Corsini e Vannino Chiti. Partecipano stabilmente alle riunioni, in veste di osservatori, la dott.ssa Anna Nardini per l’Ufficio studi e rapporti istituzionali della Presidenza del Consiglio, e la dott.ssa Giovanna Maria Rita Iurato della Direzione centrale affari di culto del ministero dell’interno. Ci sono poi alcuni esponenti di confessioni religiose che ne hanno fatto richiesta: Yahya Pallavicini (Coreis, Comunità religiosa islamica italiana), Ezzedin Elzir (Ucoii, Unione delle comunità islamiche d’Italia), Abdellah Redouane (Moschea di Roma), Tiziano Rimoldi (Avventisti), un rappresentante della chiesa Ortodossa. Per l’Uaar (Unione atei agnostici razionalisti) partecipa anche Adele Orioli. Del gruppo redazionale più ristretto fanno parte Ferrari, Mazzola, Domianello e Floris. Foto di Louise Bonzoni da www.robertozaccaria.it aurelio candido/Flickr.com MC RUBRICHE Siti web: www.robertozaccaria.it www.astrid-online.it APRILE 2015 MC 75 4 chiacchiere con « i Perdenti» a cura di Mario Bandera 3. GIOVANNA D’ARCO Nacque a Domrémy, Francia, nel 1412 circa, da una famiglia contadina. Lasciò giovanissima la casa paterna per seguire il volere di Dio rivelatole da voci misteriose, secondo le quali avrebbe dovuto liberare la Francia dagli Inglesi. Presentatasi alla corte di Carlo VII, ottenne dal re di cavalcare alla testa di un’armata e, incoraggiando le truppe con la sua ispirata presenza, riuscì a liberare Orleans e a riportare la vittoria di Patay. Lasciata sola per la diffidenza della corte e del re, Giovanna non poté condurre a termine, secondo il suo progetto, la lotta contro gli Anglo-Borgognoni. Fu dapprima ferita alle porte di Parigi e nel 1430, mentre marciava verso Compiegne, fu fatta prigioniera dai Borgognoni, che la cedettero per denaro agli Inglesi. Tradotta a Rouen davanti a un tribunale di ecclesiastici, dopo estenuanti interrogatori fu condannata per eresia e arsa viva il 30 maggio 1431. Riabilitata nel 1456, nel 1920 Benedetto XV la proclamò Santa e Patrona della Francia. 76 MC APRILE 2015 • Giovanna D’Arco | Francia | Patriottismo • MC RUBRICHE Giovanna, tu sei una santa molto nota ma forse pochi conoscono bene la tua vita, per cominciare puoi parlarci della tua infanzia? Sono nata in una famiglia di contadini di umili condizioni, fin da bambina quindi ho dovuto aiutare i miei nel lavoro dei campi e nell’accudire gli animali. Quindi non hai frequentato la scuola? Ai miei tempi l’istruzione era solo per i figli dei ricchi che potevano permettersi insegnati privati e per coloro che entravano in un monastero o in un seminario. Non esistevano le scuole come le intendete voi. Però io frequentando le funzioni religiose amavo assorbire tutto quello che veniva insegnato dai sacerdoti del mio tempo. Sì, ma tu sei famosa perché fin da giovane ti sei fatta un nome prendendo le armi e difendendo la tua patria. Tutta la mia vita fu caratterizzata dalla Guerra dei cento anni, che anzi durò di più in quanto cominciò nel 1337 e si concluse nel 1453. Gli inglesi lungo tutto quel periodo occupavano gran parte della Francia e questo a noi francesi non andava proprio bene. Allora cosa hai fatto? Nel 1429, seguendo la voce di Dio che veniva dal profondo della mia coscienza e mi spingeva ad agire, riuscii a incontrare il Delfino (erede al trono) di Francia ovvero il futuro Carlo VII e gli dissi che l’Arcangelo Michele e le Sante Caterina di Alessandria e Margherita d’Antiochia, mi avevano parlato dicendomi che avrei scacciato gli inglesi e insediato lui sul trono. Lo convinsi ad affidarmi il compito di difendere il suolo francese mettendomi a disposizione dei cavalieri e delle truppe da battaglia. Del resto, un’antica profezia francese diceva che solo una ragazza coraggiosa avrebbe salvato il paese dai nemici. Si dice che per guidare dei soldati ti sia vestita come un uomo e abbia indossato un’armatura. Una cosa inaudita e scandalosa per i tuoi tempi. Certamente, ma solo così potevo guidarli in battaglia senza correre rischi inutili. Per questo mi feci fare una armatura modellata sulla mia persona. Riportai la prima vittoria liberando Orleans da un lungo assedio. Da quel giorno i soldati cominciarono a chiamarmi «la Pulzella d’Orleans». Qualche settimana dopo ci fu un’altra battaglia più dura e più cruenta a Patay, dove infliggemmo agli inglesi una dura sconfitta, riconquistando il territorio francese fino alla città di Reims, luogo in cui da sempre avvenivano le incoronazioni dei Re di Francia. Si può dire quindi che la tua missione si era conclusa positivamente? Sì, ma purtroppo una volta incoronato Re, Carlo VII fu preso dal tipico spirito di compromesso di molti politicanti. Decise quindi da solo, senza consultare nessuno, di trattare con gli inglesi. Ovviamente tu non eri d’accordo con le sue scelte. Ero convinta che la mia missione non fosse ancora compiuta, perché gli inglesi continuavano a occupare buona parte della Francia. Decisi così di continuare da sola con i soldati rimasti a me fedeli senza l’appoggio della Corona. Ma il 24 maggio 1430 caddi in un’imboscata dei Borgognoni, i quali pur essendo francesi erano alleati degli in- glesi. Gli uomini del duca di Borgogna mi vendettero agli anglosassoni in cambio di una forte somma di denaro (equivalente a circa sei milioni di euro attuali). Quindi fosti imprigionata e gettata in carcere? Mi rinchiusero nelle celle sotterranee del castello di Rouen per essere processata per eresia e stregoneria, naturalmente i miei nemici allestirono un falso tribunale dell’inquisizione con dei giudici simoniaci al soldo degli inglesi che dovevano trovare ragioni per condannarmi a morte. Su questo tuo processo si sono scritti molti libri e girati diversi film che hanno evidenziato la dignità con cui ti sei difesa… Fin dalle prime udienze trovai in me una grande forza d’animo per rispondere punto per punto alle accuse che mi erano mosse e, a essere sincera, mi sono anche divertita a punzecchiarli un po’. Nel rispondere ai giudici ho usato spesso non solo umorismo, ma anche sarcasmo. Vista la difficoltà che essi stessi avevano nel portare avanti un processo farsa, decretarono che le udienze si tenessero a porte chiuse. Secondo te i giudici cercavano davvero di conoscere la verità della tua missione? Per niente. Dovevano condannarmi sia per levarmi di torno che per infangare il mio nome. I giudici nel cercare appigli per condannarmi erano quasi patetici, per non dire ridicoli. Mi chiedevano che aspetto avevano gli angeli, perché indossavo abiti maschili, perché me ne ero andata da casa e altre tematiche che non avevano niente a che vedere con la fede. Riuscirono comunque a mettere insieme circa settanta capi d’accusa, molti dei quali palesemente falsi e non suffragati da nessuna testimonianza. Con questo castello di menzogne mi condannarono a morte! APRILE 2015 MC 77 I Perdenti Con che spirito accettasti questa sconfitta? Ti sentisti una fallita? Mi sono sempre sentita uno strumento nella mani di Dio. Non avevo iniziato quell’avventura di mia iniziativa. Avevo la consapevolezza di aver agito sempre per il bene della mia patria, la Francia e in questo di aver fatto sempre la volontà di Dio! Anche se prigioniera di uomini, sapevo di essere nelle sue mani. Accettai quindi la sentenza ma non le motivazioni che l’accompagnavano. Del resto il popolo francese era tutto dalla mia parte e la dice lunga il fatto che, mentre venivo condotta al luogo del supplizio il 30 maggio 1431, fossi accompagnata da ben duecento soldati incaricati di tener lontano la gente dal patibolo. Pur condannata per eresia ti fu concesso di ricevere i Sacramenti, un gesto col quale i tuoi stessi giudici si sconfessavano e riconoscevano la giustezza delle tue posizioni… Infatti, pur condannata per eresia - e allora quella era un capo d’accusa gravissimo - ho avuto il permesso, contro ogni regola ecclesiastica, di ricevere l’Eucarestia. Le mie ultime parole, appena investita dalle fiamme, furono semplicemente: «Gesù». Il rogo consumò oltre che la mia esistenza, tutta la mia carne. Per evitare che la gente costruisse un santuario in mio onore nel luogo in cui avvenne la mia esecuzione, i miei resti e le ceneri del rogo furono gettati nella Senna. # Pagine precedenti: santa Giovanna D’Arco in un affresco e nella statua dorata di Orleans. Qui sotto: Ingrid Bergman come Giovanna nel film «Giovanna D’Arco» di Victor Fleming del 1948. 78 MC APRILE 2015 Neanche vent’anni dopo Carlo VII riaprì il processo subito da Giovanna. Nel frattempo anche una nuova indagine ecclesiastica fu avviata su indicazione del Papa, e dopo aver ascoltato oltre un centinaio di testimoni il processo precedente venne dichiarato nullo e Giovanna D’Arco fu completamente riabilitata imponendosi come una delle figure più straordinarie della storia della Francia. Dalla vita di questa grande santa possiamo capire alcune cose. Che l’amor patrio è un valore cristiano, combattere con le armi deve essere sempre una «extrema ratio», bisogna lottare per la verità e non per il potere. Che come si ama la propria famiglia, così si deve amare anche la propria nazione. Difendere la propria patria significa anche potere e dovere in alcuni casi combattere per essa. Quando una nazione viene ingiustamente aggredita e non c’è altro mezzo diplomatico e incruento, come insegna la Dottrina sociale della Chiesa, per scongiurare l’aggressione, la nazione aggredita ha il dovere di difendere se stessa con ogni mezzo. Santa Giovanna D’Arco nella difesa libera e totale della sua terra, accettò anche il ricorso alle armi, ma questo la portò a essere tradita e sconfitta e a perdere tutto, anche la vita. Ma alla luce della storia e della santità, la sua azione verrà riconsiderata più tardi come un’azione utile e giusta, a servizio della Chiesa e del proprio paese. E Giovanna, umiliata da un ingiusto processo e «cancellata» dai suoi nemici, diventerà un esempio di santità e modello di vita per i francesi. Don Mario Bandera, Missio Novara Librarsi PRENDI IL LIBRO E MANGIA di Luca Lorusso Franco Cardini, Il cibo donato. Piccola storia della carità, Emi, Bologna 2015 IL CIBO DONATO Una piccola storia della carità non può che essere una piccola storia della Chiesa. Franco Cardini attraversa l’incredibile percorso di costante scelta degli ultimi che la cristianità ha sviluppato nell’arco dei suoi duemila anni, offrendo uno sguardo panoramico sull’enormità delle opere di santi, congregazioni, diocesi, compiute nelle forme più disparate e originali. C’ è un bel gioco di rimpallo tra la grande storia dell’umanità e la «piccola» storia dei due personaggi che alle prime e alle ultime pagine del libro racchiudono il racconto di Cardini come in una cornice: il buon samaritano e madre Teresa di Calcutta. Come in un alternarsi di colpi di zoom durante la ripresa di un paesaggio, la panoramica (la grande storia) mostra la bellezza della composizione complessiva nella quale i dettagli sembrano perdersi (o, meglio, immergersi, trovando ciascuno il suo posto), le scene ravvicinate (i due personaggi) mostrano invece il particolare, l’incarnazione singolare che, di quella bellezza complessiva, diventa l’emblema. Il cibo donato, nelle sue 64 pagine, non vuole essere un libro di storia che informa sugli intricati modi in cui la carità della Chiesa si è espressa lungo i secoli (lo è in parte, ma solo per piccole pennellate), ci sembra piuttosto un invito suggestivo a essere ottimisti, mostrando che il filo della carità non si è mai spezzato e che, anzi, nelle fasi storiche in cui più fortemente sembrava dominare la sofferenza e la morte, ancora più fortemente si esprimeva la carità, e a partecipare, ciascuno nel suo «piccolo», al grande mandato missionario affidato a tutti i figli di Dio. Non è un caso, quindi, che il libretto inizi con la parabola del samaritano che Gesù racconta nel Vangelo di Luca: la carità cristiana ha il suo fondamento proprio lì, nella Parola del Signore, e sarebbe un esercizio parziale raccontarne la storia senza indicarne la fonte. Gli sviluppi concreti delle opere di carità, le persone che le hanno realizzate non hanno fatto altro che attualizzare nelle diverse epoche e situazioni quell’unica ispirazione: mettersi al servizio del prossimo, così come Gesù stesso. Franco Cardini, uno dei più noti storici italiani, specialista di Medioevo, docente emerito di Storia medievale all’Istituto italiano di Scienze umane della Scuola normale superiore di Pisa, direttore della Scuola di ricerca e studi avanzati in Scienze sociali di Parigi e fellow della Harvard University negli Usa, contribuisce con il suo particolare approccio alla riflessione sul cibo avviata dalla Editrice missiona ria italiana in occasione dell’Expò di Milano che dal primo maggio al 31 ottobre sarà focalizzato sul tema «Nutrire il pianeta. Energia per la vita». PANE NOSTRO. PAGINE DA GUSTARE Piccoli libri, parole importanti, pensieri nutrienti. Ecco la «collana di testi brevi per approfondire i temi di Expò 2015», edita dall’Editrice missionaria italiana a partire dal settembre 2014, di cui riportiamo le quarte di copertina. Sessantaquattro pagine, in un formato ridotto (10,5x16,5), al costo di 5 Euro. Lievito e farina, ortaggi e agnello, pesce alla brace, il sale nella pasta... Gesù sapeva cucinare. Anche in questo era (il) Maestro. econdo il Vangelo, Gesù amava stare a tavola con la gente. Era anche capace di far da mangiare: infatti si presentava come il «buon pastore», colui che dà il «pasto buono». Cosa ci insegna questa caratteristica (quasi ignorata) del Figlio di Dio? Un fatto molto concreto: cucinare non significa soltanto dare del cibo, ma soprattutto prendersi cura di ciascuno secondo i suoi bisogni. Ecco una «chef-teologia» dal sapore delicato, che nutre in profondità quanti hanno fame di senso e di vita. S APRILE 2015 MC 79 Librarsi M Un Giardiniere, un giardino, due custodi. Dio crea, l’umanità è invitata a custodire. La terra porta frutto. E il creato diventa salvato. avvero la Bibbia predica il predominio incontrollato dell’uomo sulla natura? Se rileggiamo la Scrittura scopriamo che Dio affida il cosmo all’uomo e alla donna perché si fida di loro. Essi diventano responsabili dei doni ricevuti. Questo fidarsi reciproco diventa la base su cui fondare una ricomprensione intellettualmente onesta della relazione tra genere umano e ambiente. Nessun rapporto di forza e nessuna chiusura egocentrica: la vocazione di ogni persona è far fruttare i beni condivisi. D «Non di solo pane». La parola di Gesù risuona mentre l’Expo ci porta il mondo in casa. Lasciamoci provocare da quel Pane. erché un cristiano deve occuparsi di «Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita»? Se nulla di umano rimane estraneo a un credente, questo vale ancor di più per la questione cibo e la giustizia che ne deriva. Per l’uomo e la donna mangiare è narrazione e simbolo, cultura e affetti, richiamo alla costruzione di una terra abitabile per tutti, luogo in cui ciascuno possa saziare la propria fame di pane e di infinito. Il credente sa che, da quando il Figlio dell’uomo ha deciso di farsi mangiare, il cibo non è mero alimento bensì segno dell’essenza di Dio, compagno di ogni persona. L’Eucaristia come il pasto di famiglia. Senza vera comunione, mangiare insieme è cosa fasulla. Il Pane di Dio chiama una vera compagnia. ucaristia-carità-Chiesa. Questo trinomio è uno dei capisaldi del cristianesimo. Celebrare il dono di Cristo fa sorgere in ogni credente il desiderio di imitare la compassione del Figlio di Dio; coloro che sono attratti da tale misericordia costituiscono la Chiesa. Il Samaritano della parabola è emblema del discepolo di Cristo, che si commuove di fronte al sofferente. Riflettendo sui freni che la carità può incontrare (la fretta, la paura, gli alibi), il cardinale Martini ha tracciato un cammino esigente, l’unico possibile per rendere eloquente il rito e concreta la testimonianza. Il pane non si compra, si condivide. Alla mensa dell’umanità, come una famiglia, dove anche il creato è mio prossimo. Perché ha un’anima anche il cibo. ividere per moltiplicare» è realtà vera anche nella quotidianità. Dividere non separare ma con-dividere crea l’occasione per moltiplicare le risorse a vantaggio di tutti. E dividere le risorse moltiplica le energie. Come in una riunione di lavoro, con la messa in comune delle informazioni; come con una piattaforma digitale di servizi collaborativi... È questo il tema che la Caritas porta a Expo. «La parabola della moltiplicazione dei pani e dei pesci - ricorda papa Francesco - ci insegna proprio questo: se c’è volontà, quello che abbiamo non finisce, anzi ne avanza e non va perso». Il fenomeno dei cash crops e del land grabbing. I common pool goods e la finanziarizzazione dei beni agricoli. Realtà lontane da noi? Tutt’altro. Ecco perché. i terra ce n’è per tutti; di cibo, pure. Perché allora tanta ingiustizia, 1,2 miliardi di poveri «estremi» e 800 milioni di sottonutriti, quando il diritto all’alimentazione è ormai riconosciuto a livello universale? Il nodo è come si accede alla terra, fonte di vita e nutrizione. E pure lo scandalo della speculazione sulle risorse: c’è chi gioca in Borsa sul pane degli esclusi. Il sostegno ai piccoli produttori, il contenimento delle produzioni agricole a scopi industriali, lo spazio alle donne... Così l’economia del cibo non sarà più omicida ma a servizio di una giustizia più grande. PROSSIMAMENTE: J.M. Bergoglio, Il Dio che ci nutre Gianfranco Ravasi, Siamo quel che mangiamo? Chiara Giaccardi, Questo piatto parla di noi Angelo Scola, Abitare il mondo O.A.R. Maradiaga, Lo scandalo della fame Una tavola, pane e companatico. La compagnia di casa e dei figli. (Ri)scopriamo il gusto del pasto. Che non è mai solamente cibo… angiare non è solo ingurgitare alimenti. È anche preparazione, compagnia e racconto. Nelle nostre case, però, la Tv e l’improvvisazione restano spesso gli unici ingredienti della cena, ridotta a evento alimentare quando invece è l’unico momento «insieme» della famiglia. Esiste un altro modo di cenare: preparare un risotto con cura, apparecchiare la tavola in modo simpatico, conversare tra figli e genitori narrando di noi. Così il cibo diventa ciò che è: emblema di una relazione e simbolo di un «tu» che arricchisce il nostro vivere. E 80 MC APRILE 2015 «D P D Francocielo Rubrica di filatelia religiosa a cura di Angelo Siro LA SACRA SINDONE L Dal 19 aprile al 24 giugno 2015 si svolgerà nella cattedrale torinese una nuova Ostensione della Sindone, in concomitanza con i festeggiamenti per il bicentenario della nascita di san Giovanni Bosco, eventi che hanno convinto Papa Francesco a venire in pellegrinaggio a Torino. a Sindone è il sacro lino in cui, secondo la tradizione evangelica, Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo avvolsero il Corpo di Cristo morto, cosparso di una mistura di mirra e aloe. è una tela di lino spigato (tessuta cioè a spina di pesce) di m 4,36 di lunghezza ed 1,10 di larghezza. Il colore, originariamente bianco, risulta ingiallito dal tempo e dall’incendio subito nel 1532 a Chambery, che provocò 12 buchi nella tela, in parte rattoppati dalle suore Clarisse di quella città. Le bruciature di Chambery formano due linee parallele che «inquadrano» per così dire la doppia impronta di un corpo umano di circa 1,80 m su cui si scorgono segni che corrispondo in modo impressionante a quelli che avrebbe avuto il corpo di Gesù come conseguenza della sua passione e morte descritta dai Vangeli. La Sindone è stata finora conservata arrotolata in una cassa d’argento cesellata lunga un metro e mezzo, larga e alta circa 38 cm. Su questa cassa argentea sono raffigurati, fra l’altro, gli strumenti della passione. La storia della Sindone risulta documentata in Occidente solo a partire dal XIV secolo. Le notizie precedenti non sono molte, ma servono a testimoniare il passaggio del Sacro Lenzuolo da Oriente a Occidente, ponendo come punti di riferimento forse la città di Edessa (dal VI al X se- Francocielo la capitale sabauda. La Sindone rimase a Torino prima nella chiesa di San Francesco, poi a Palazzo Reale ed infine in Duomo. In seguito al rogo della cappella del Guarini dell’11 aprile 1997 fu trasferita al sicuro, forse in un monastero della collina torinese, per tornare in Duomo in occasione dell’Ostensione del 1998. Prima fotografia della Santa Sindone colo) e quella di Costantinopoli almeno fino al XIII secolo (da cui sarebbe stata trafugata dai crociati). La storia della reliquia subisce poi un oblio di circa 150 anni, che per ora non si è riusciti a colmare essenzialmente per mancanza di documenti. Comunque nel 1353 la troviamo presso i canonici di Lirey, a cui fu consegnata da Goffredo I di Charny. Costui probabilmente ne era entrato in possesso per successione ereditaria. Nel 1453 il Lenzuolo sacro venne ceduto a Ludovico di Savoia, cadetto di Amedeo VIII da parte di Margherita di Charny, vedova di Umberto di Villersexel nella città di Ginevra. Da quel momento appartenne ai Savoia fino al 1983, quando fu donata dall’ex re d’Italia, per volontà testamentaria, alla Santa Sede, e lasciata a Torino per volontà papale. La Sindone rimase nella cappella di Chambery fino al 1578, tranne nei brevi periodi in cui fu al seguito dei Savoia in Francia, in Piemonte e in Lombardia. Emanuele Filiberto in quell’anno trasportò la reliquia a Torino allo scopo dichiarato di abbreviare il pellegrinaggio al sacro lino da parte di san Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano (pellegrinaggio che l’arcivescovo rinnovò altre tre volte negli anni 1581, 1582 e 1584), ma in realtà in un ben più vasto quadro di riforme che videro Torino divenire 82 MC APRILE 2015 L’interesse per la Sindone si accentuò quando fu scattata la prima fotografia in occasione dell’Esposizione Generale d’Arte Sacra del 1898 da Secondo Pia. Già molto prima di questa data si sapeva che l’immagine sindonica non era dipinta, a divverenza delle numerose copie circolanti in Europa a partire dal Medio Evo, utilizzate nelle chiese per la rappresentazione dei misteri pasquali. La riproduzione fotografica, con sorpresa di tutti, dimostrò come l’impronta del lenzuolo fosse un negativo. Da quel momento in poi gli studi sulla Sindone divennero sempre più frequenti fino a portare negli anni cinquanta a una vera e propria branca della scienza: la sindonologia. Le analisi più recenti, eseguite dopo l’Ostensione del 1978, hanno rimesso in discussione la datazione della reliquia, ma non sono tuttavia riuscite a dare delle risposte pienamente convincenti al problema. In ogni caso rimane fatto indubitabile che i segni presenti sulla Sindone coincidono con la descrizione della passione dei Vangeli. Il Beato Giuseppe Allamano come canonico della cattedrale ebbe il privilegio di portare sulle spalle la cassa in occasione della Ostensione iniziata il 25 maggio 1898, celebrata per ricordare parecchi centenari, tra cui il XV centenario del Concilio di Torino (San Massimo 398), e durante la quale fu scattata la celebre foto da parte dell’avvocato Secondo Pia, che rivoluzionò la sindonologia. Nel 1901 inviò in omaggio al vicario apostolico dei Galla in Etiopia, un «artistico vetro della SS. Sindone»; stesso dono inviò al superiore dei Lazzaristi a Roma; ripetutamente parlava della Sindone ai Missionarie e alle Missionarie della Consolata. Angelo Siro Gruppo Filatelia Religiosa «Don Pietro Ceresa», Torino-Valdocco www.filateliareligiosa.it MENSILE DEI MISSIONARI DELLA CONSOLATA FONDATO NEL 1899 PER SOSTENERE I MISSIONARI DELLA CONSOLATA già «La Consolata» (1899-1928) Tramite «Missioni Consolata Onlus» a FONDAZIONE MISSIONI CONSOLATA ONLUS (Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Socia le) opera nei campi dello sviluppo e della promozione umana in molti paesi del Sud del mondo e in Italia. Ogni mese la pubblicazione edita dalla ONLUS, MISSIONI CONSOLATA, offre reportages di prima mano, inchieste, dossier, interviste esclusive, documenti fotografici originali, rubriche, inserti speciali e molto altro ancora. Tutti coloro che, con contributi in denaro, collaborano ai nostri progetti RICEVONO LA RIVISTA MENSILMENTE PIÙ IL CALENDARIO e godono anche di qualche vantaggio fiscale. L NON , . Sono graditi però contributi liberali per le spese di produzione, stampa e spedizione. Per chi desidera solo L ricevere la rivista, si suggerisce un contributo annuo di Euro 30. A RIVISTA È INVIATA IN ABBONAMENTO MA IN OMAGGIO Il 5 per MILLE a Missioni Consolata Onlus ATTENZIONE DATI VARIATI PER BANCA UBI Semplice, diretto, efficace. Non richiede esborsi in denaro! Basta indicare sulla vostra dichiarazione dei redditi, modello 730 o modello unico, il nostro codice fiscale: 97615590011 MiSSioni ConSolata onlUS COME CONTRIBUIRE Intestare sempre e solo a CONTO CORRENTE POSTALE (CCP) numero 33.40.51.35 Codice IBAN IT35 T 07601 01000 000033405135 Codice BIC/SWIFT BPPIITRRXXX UBI – BANCA REGIONALE EUROPEA Corso Vittorio Emanuele II, 107 Torino CC bancario n. 7367 Codice IBAN IT24 M 06906 01000 000000007367 Codice BIC/SWIFT BREUITM1 Per donazioni online vedi: www.rivistamissioniconsolata.it www.missioniconsolataonlus.it Il CC Postale è sempre allegato alle riviste. UNICREDIT BANCA S.p.A. Piazza Adriano 15 – Torino CC bancario n. 102327731 Codice IBAN IT04 N 02008 01074 000102327731 Codice BIC/SWIFT UNCRITM1AE4 Corso Ferrucci 14 - 10138 torino ATTENZIONE: MC non usa più i servizi di INTESA SANPAOLO S.p.A. I VANTAGGI FISCALI Ai sensi dell’art. 14 del D.L. n. 35 del 14/3/2005, convertito in Legge con L.. n. 80 del 14/5/2005: Le liberalità in denaro o in natura erogate da persone fisiche o da enti soggetti all’imposta sul reddito delle società, in favore di organizzazioni non lucrative di utilità sociale di cui all’articolo 10, commi 1, 8 e 9 del decreto legislativo 4 dicembre 1997, n. 460, sono deducibili dal reddito complessivo del soggetto erogatore nel limite del dieci per cento del reddito complessivo dichiarato, e comunque nella misura massima di 70.000 euro annui. Ai fini fiscali, per godere dei benefici, occorre conservare per 5 anni la ricevuta del CCP o del bonifico bancario, che dimostri il versamento effettuato. PER INFORMAZIONI: Tel. 011/4.400.400 - Fax: 011/4.400.411 E-mail: [email protected] EREDITÀ E LEGATI PER INFORMAZIONI L’ISTITUTO MISSIONARI DI MARIA SS. CONSOLATA, con sede a Torino in C.so Ferrucci 14, può ricevere eredità e/o legati. Istituto Missionari di Maria SS.Consolata Ufficio Legale Corso Ferrucci, 14 - 10138 TORINO Tel. 011/4.400.400 Corso Ferrucci, n.14 10138 Torino tel. 011.4.400.400 fax 011.4.400.459 E mail: [email protected] Sito internet: www.rivistamissioniconsolata.it Proprietario: Collegio Internazionale della Consolata per le Missioni Estere, C.so Ferrucci 14 10138 Torino Editore: Fondazione MISSIONI CONSOLATA O.n.l.u.s. Iscrizione presso il Tribunale di Torino al n. 79 del 21/06/1948 Iscrizione R.O.C. n. 22050 Direzione: Luigi Anataloni (direttore) Francesco Bernardi (direttore resp.) Redazione: Luigi Anataloni [email protected] (.494) Luca Lorusso [email protected] (.408) Marco Bello [email protected] (.436) Paolo Moiola [email protected] (.458) Collaboratori: B. Balestra, M. Bandera, D. Biella, China Files, G. P. Casiraghi, C. Caramanti, D. Casali, P. Farinella, S. Frassetto, A. Lano, G. Mancini, R. Novara, M. Pagliassotti, P. Pescali, U. Pozzoli, R. Remigio, S. Siniscalchi Sito Web: team redazionale Archivio fotografico: Franca Fanton Progetto grafico: Kreativezone, Torino Grafici: Stefano Labate e Angelo Campo Spedizioni arretrati, correzioni e cancellazioni: Miriam e Filomena [email protected] Stampa: Gruppo Grafico Editoriale G. Canale e C. S.p.a. Borgaro T.se Torino MISSIONI CONSOLATA ONLUS Amministratore: Aldo Zanni, tel. 011.4.400.400 Ufficio segreteria: Antonella V. e Dina A. tel. 011.4.400.400, fax 011.4.400.411 [email protected] Conto corrente postale n. 33.40.51.35: si ringraziano vivamente i lettori che sostengono l’impegno di formazione ed informazione di «MISSIONI CONSOLATA ONLUS». Tutti i contributi o offerte sono deducibili dalla dichiarazione dei redditi. Contribuzione 5 per mille: CF 97615590011 Direzione, redazione e amministrazione: Associata alla MESSE Per la celebrazione di sante Messe: si usi il conto corrente postale numero 18377101, intestato a «Istituto Missioni Consolata» e NON quello allegato intestato a «Missioni Consolata Onlus». Le offerte per sante Messe non sono deducibili. Per dimostrare l’impegno alla cura del Cliente e per ridurre gli impatti ambientali associati alle proprie attività, la G. CANALE & C. s.p.a. ha conseguito e mantiene le certificazioni UNI EN ISO 9001:2008 e UNI EN ISO 14001:2004, applicando quindi un sistema di gestione qualità ed ambiente conforme a queste norme internazionali. (www.canale.it) FEDERAZIONE STAMPA MISSIONARIA ITALIANA Associata all’USPI APRILE 2015 MC 83 Vivere EXPO da cristiani Piccoli testi per la riflessione personale e in comunità Giovanni Cesare Pagazzi Luigi Ballerini Pierangelo Sequeri Luca Bressan La cucina I bravi Custode, Dio ci invita Mangiare in famiglia Per un nuovo rapporto Idee e domande di fede fa bene a tutti fra persona e creato intorno a Expo 2015 manager del Risorto non tiranno cenano a casa Gesù cuoco per l’umanità affamata alla sua tavola Jorge Mario Bergoglio Gianfranco Ravasi Il Dio che Siamo quel che ci nutre mangiamo? L’Eucaristia, Un lessico del cibo tra Scrittura e cultura energia per l’umanità Formato tascabile - 64 pagine SCONTI SPECIALI ORDINA E PRENOTA 5,00 € 4,50 € PER ORDINI DI PARROCCHIE E GRUPPI tel. 051.326027 / fax 051.327552 - [email protected] PREZZO SPECIALE TAGLIANDO DI RICHIESTA Compila e spedisci in busta chiusa, affrancando come lettera, a: CON1-2015 SERMIS-EMI Editrice Missionaria Italiana - Via di Corticella 179/4 - 40128 Bologna SÌ DESIDERO RICEVERE i volumi sotto elencati con lo SCONTO 10% nelle seguenti quantità (in cifre) - escluse le spese di spedizione: La cucina del Risorto € 5,00 €4,50 I bravi manager cenano a casa € 5,00 €4,50 Custode non tiranno € 5,00 €4,50 Dio ci invita alla sua tavola € 5,00 €4,50 Il Dio che ci nutre € 5,00 €4,50 Contro la fame € 5,00 €4,50 Il pane del cammino € 5,00 €4,50 Siamo quel che mangiamo? € 5,00 €4,50 Bollettino Postale che mi invierete Bonifico bancario (dati IBAN nella ricevuta all’interno del pacco) Non invio denaro ora ma pagherò con: Firma ___________________________________ Quanto ordinato verrà inviato all’indirizzo indicato qui sotto. Compila con i tuoi dati lo spazio sottostante (SCRIVERE IN STAMPATELLO) Cognome Nome Località Via Prov. E-mail _________________________________________ N. Tel.* CAMPO OBBLIGATORIO CAP Cod. Fisc. L’offerta è valida solo in Italia fino al 30/10/2015. Ai sensi del D.lgs 196/2003 si acconsente al trattamento dei dati per le finalità descritte nell’informativa sulla PRIVACY qui a lato. SI NO PUOI INVIARE IL TAGLIANDO ANCHE VIA FAX al n. 051/327552 o telefonare al n. 051/326027 PRIVACY: Ai sensi dell’art. 13 del d.lgs 196/2003 in materia di protezione dei dati personali la informiamo che i dati raccolti vengono trattati nel rispetto della legge. Il trattamento dei dati sarà correlato all’adempimento di finalità gestionali, amministrative, statistiche, di recupero crediti, ricerche di mercato, commerciali e promozionali su iniziative offerte da EMI della Coop. Sermis ed avverrà nel pieno rispetto dei principi di riservatezza, correttezza, liceità e trasparenza, anche mediante l’ausilio di mezzi elettronici e/o automatizzati. I dati personali conferiti saranno trattati anche con modalità elettroniche e telematiche da EMI per gestire la registrazione al sito ed erogare i servizi riservati agli utenti registrati, ivi compresa la partecipazione ai nostri blog e, ove selezionato, per inviare la newsletter del sito. I dati raccolti potranno essere comunicati a Partners commerciali della EMI, il cui elenco è disponibile presso il Responsabile Dati. Il conferimento dei dati è facoltativo. Tuttavia il mancato conferimento degli stessi non permette di esaudire la richiesta di registrazione e comporterà la mancata elargizione dei servizi previsti. In ogni momento si potranno esercitare i diritti di cui all’art. 7 del d.lgs 196/2003, fra cui cancellare i dati od opporsi al loro uti izzo per finalità commerciali, rivolgendosi al Responsabile Dati della EMI, Via di Corticella 179/4 - 40128 Bologna o anche via e-mail a: [email protected] Editrice Missionaria Italiana tel. 051.326027 / fax 051.327552 [email protected] / www.emi.it