1 IL PERSONAGGIO SCONOSCIUTO 1. L`archetipo: l`Edipo re di

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1 IL PERSONAGGIO SCONOSCIUTO 1. L`archetipo: l`Edipo re di
IL PERSONAGGIO SCONOSCIUTO
1. L’archetipo: l’Edipo re di Sofocle
L’Edipo Re non è una tragedia del destino, una Schiksaltragodie, come pure è stato ritenuto.
Edipo è libero nelle sue azioni. Alla connessa questione, se egli sia veramente innocente, si
può rispondere con le parole che Sofocle gli fa dire nell’altra tragedia, 1’Edipo a Colono, dove
Edipo si proclama innocente più di una volta: subito dopo la parodos, nei vv. 265-75; nel
commo, dopo l’arrivo di Ismene, nei vv. 510-49; nel contrasto con Creonte, nei vv. 960-1013.
Nei vv. 266-7 Edipo dice: “Questi atti io li ho subiti più che compiuti”; nei vv. 547-50: “Io ho
ucciso, ho tolto la vita senza sapere cosa facevo: sono innocente secondo la legge, giacché
senza saperlo sono giunto a questo punto”. Nei vv. 962-5 Edipo dice a Creonte: “Tu mi
rinfacciasti omicidi e nozze e sventure, che io sventurato soffersi contro la mia volontà,
giacché così volevano gli dei, forse adirati da tempo contro la mia stirpe”. E nei vv. 965 ss.
proclama la sua innocenza: “Dimmi, se a mio padre giunse la profezia dell’oracolo che egli
doveva soccombere per mano dei figli, come potresti giustamente rimproverare questo a me,
che non ero stato ancora generato da mio padre, né concepito da mia madre, anzi ancora non
esistevo nemmeno?” (969 ss.). Non si sente responsabile né dell’uccisione del padre (974-7),
né dell’incesto con la madre (978-87): in entrambi i casi egli ha agito senza sapere quel che
faceva. L’uccisione di Laio è stata per Edipo legittima difesa: “Se uno si facesse innanzi a
te, uomo giusto, per ucciderti, chiederesti forse se è tuo padre quello che ti vuole uccidere, o
ti vendicheresti subito? Io credo che, se tu ami la vita, puniresti l’aggressore, e non staresti
a cercare una giustificazione. Ebbene, tali sono i mali in cui sono caduto anch’io, spinto
dagli dei; sì che io credo che neppure mio padre, se tornasse a vivere, potrebbe
contraddirmi” (992-9). E allora il Coro può dire: “Il forestiero, o re, è un uomo dabbene”.
Ma Edipo si era tuttavia macchiato di quei delitti, anche se involontari; era quindi un impuro
che con la sua presenza contaminava tutta la poél iv. L’assassino era scomunicato: doveva
stare lontano dal vaso delle abluzioni, dai crateri, dalle cose sacre, dall’agorà; non poteva
comparire nell’assemblea o in un santuario; se lo faceva era consegnato ai magistrati, che
procedevano immediatamente contro di lui. L’impuro contaminava tutti coloro che venivano a
contatto con lui, anche senza saperlo. Edipo è dunque innocente e nello stesso tempo impuro.
E si sa che vi erano più specie di purificazioni, così come si faceva distinzione tra omicidio
volontario e omicidio involontario. In Edipo non vi è u| éb riv, né essa determina la tragedia.
Perciò l’Edipo Re non è una tragedia della maledizione e della stirpe, della colpa che si
eredita di generazione in generazione. Edipo non parla mai della colpa dei padri che i figli
devono scontare. Sono estranei quindi a questa tragedia i due comandamenti che informano la
tragedia eschilea, draésanta paqei% n, “chi agisce deve patire” e paéqei maé qov, “imparare
attraverso la sofferenza”, anche se l’agire di Edipo, che però è tensione verso la conoscenza,
porta alla sofferenza, ed anche se la sofferenza è per lui apprendimento. L’eroe sofocleo
conosce attraverso la sofferenza se stesso, cioè il limite umano. L’Edipo Re è la tragedia del
gnw%qi sautoén.
La tragedia di Edipo è tutta nel processo di riconoscimento dell’accaduto e dell’identità del
protagonista, che è assassino e detective di se stesso. E’ stato osservato che Sofocle
rappresenta nell’Edipo Re il tratto discendente della parabola della vita di Edipo: la
tragedia s’inizia con Edipo al colmo della potenza e della gloria, signore del proprio
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destino, e finisce nella desolazione. Ma dal punto di vista morale il mito è ascendente: la
scoperta della propria condizione è per Edipo la premessa per risalire la scala
dell’abiezione, e Sofocle ci mostra come Edipo crei le premesse per risalirla, sia pure
attaverso grandi sofferenze. Lo sviluppo di questa situazione è l’Edipo a Colono.
La tragedia si apre con una scena triste e maestosa: da una parte Edipo, il sovrano potente e
glorioso, l’uomo dotato d’intelletto e felice (v.8); dall’altra i rappresentanti del popolo di
Tebe, cioè tutti i Tebani. Il vecchio sacerdote ne loda l’intelligenza umana (31-4) e la pietà
religiosa (35-9). Non simile agli dei, ma l’uomo più valente che esista al mondo, bisognoso
dell’aiuto degli dei: quanto diverso da Aiace che invita Atena a confortare con la sua presenza altri guerrieri, perché egli sa vincere da solo! Edipo è il sovrano generoso e pio, che si
preoccupa dei suoi sudditi, che ha liberato Tebe dal flagello della Sfinge. Appena Edipo
conosce per bocca di Creonte la profezia dell’oracolo delfico, si dispone con ogni mezzo alla
ricerca di colui che Apollo indica come l’impuro. Ma Apollo indica proprio lui! Tiresia lo
accusa, ed egli risponde alle accuse con le minacce, e fa ricorso al suo intelletto. Sbaglia
Edipo quando, irato, accusa Tiresia di cecità della mente, sbaglia quando contrappone alla
potenza della divinita la forza del suo intelletto. Edipo ha la vista fisica, ma è cieco nella
mente; Tiresia ha la cecità fisica, ma ha la vista della mente. L’indovino è il portavoce del
dio, presso il quale è la verità. Per Edipo Tiresia non ha sbagliato, ha mentito; ed ha mentito
deliberatamente. E si spiega: una trama è stata ordita, egli crede, da Creonte, complice
Tiresia. Edipo è l’uomo che deve percorrere intera la via che conduce alla verità: conquisterà
la verità a brano a brano. Si spiegano così la scena cosiddetta delle « confidenze» tra Edipo e
Giocasta, le rivelazioni del nunzio e, dopo l’intuizione di Giocasta, il drammatico confronto
tra il vecchio pastore di Laio e il pastore corinzio. Allora finalmente tutto diventa chiaro. Un
grido di disperazione segna il momento culminante della vicenda tragica di Edipo; segna la
fine delle illusioni, dell’inganno e della speranza. Perché la realtà è così diversa, la verità di
una drammaticità tremenda: nel dolore si smarrisce e si dissolve definitivamente l’immagine
illusoria di quell’Edipo che appariva come la proiezione ultima dell’umana felicità e che ora
induce il lettore (o lo spettatore) a interrogazioni disperate.
L’uomo allo specchio: prima, quando la verità assoluta ed eterna offuscata dall’apparenza
dall’illusione, poi, diradate le tenebre dell’ignoranza, l’amaro apparir del vero. Nella
sconfinata tenebra fisica Edipo «vede » ora l’eterno dominio del dolore e della sofferenza e
il misterioso conforto che scende nel cuore degli uomini dai teneri affetti superstiti;
comprende che potenza, gloria e sapere sono solo un illusione, che l’unica realtà è il dolore
che veramente l’uomo si può annoverare al pari del nulla: ciò che resta a questa dolente
condizione umana, alla nostra tormentata esistenza, è la tensione dell’anima che mai non si
posa, come se tutti i misteri dell’universo, tutti i secreti della vita debbano squadernarsi al
suo anelito immenso, all’eterno desiderio di conoscere che balena in tutti i momenti del
cammino tragico di Edipo e tutti li illumina, radice del suo agire e del suo patire.
Il fondo di questa impressionante struttura tragica è, a ben riflettere, riflessivo e logico, il
lettore (e lo spettatore) sa bene che Edipo è un uomo sospeso nell’abisso e che sta per
precipitarvi da un momento all’altro. Il lettore (o lo spettatore) sa che nel contrasto tra
Edipo e Tiresia Edipo è in errore, che un’amara illusione è per lui il credersi figlio della
Fortuna, illusione ultima nata dal disperato desiderio di superare una ormai imminente,
inevitabile, tragica realtà. Sono tentativi dell’uomo che non si rassegna al dileguarsi
dell’apparenza, perché essa era tutto per lui, come lo è per l’uomo di ogni tempo, fino a che
non conquista a brano a brano la verità. Il tessuto di questa tragedia ha qualcosa di riflessivo,
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di ragionativo, perché la sua forza deriva anche dal pensiero, non solo dalla passione, da una
riflessione di fondo sulla natura umana. Vi si traccia il tragico cammino che conduce a una
nobiltà spirituale, che l’accettazione disperata ed eroica della dolente condizione umana.
Non rimpianto, né condanna della apparente felicità perduta, soltanto magnanima
accettazione della vita di dolore. La sofferenza e il dolore sono connaturati nella vita
dell’uomo, ne sono la sostanza: sono però anche la grandezza dell’uomo.
Lo sbocco della vicenda tragica di Edipo è la piena conoscenza del vero. V. Di
Benedetto’ vede nell’ Edipo Re la sovrapposizione di due linee: un procedimento di
smontaggio del potere, cui « si sovrappone però una linea che non è in opposizione ma è
concomitante e complementare, cioè quella di smontaggio delle strutture intellettuali in
cui il personaggio si organizzava ». «E lo smontaggio di tutta una serie di categorie di
tipo intellettualistico-razionalistico, di cui il personaggio si sostanziava, che adesso
entrano in crisi». Si tratterebbe « dello stesso smontaggio sistematico sia a livello di
potere, sia a livello di conoscenza. Ne sono spia termini come eu|riéskw, che nella prima parte
della tragedia esprime il concetto di ‘trovare’ a cui si aggancia un Edipo che ha ancora l’iniziativa
e che intende ricercare, trovare il colpevole, mentre nella parte finale (cfr. v.1421) Edipo si è
riconosciuto in una situazione di assoluta negatività. Cosi faiénw (e diafanhév), all’inizio della
tragedia, riguarda la ricerca dell’assassino (cfr. 132), e quindi la ricerca della verità, alla fine (v.
1184) Edipo appare come colui che subisce la conoscenza. Considerazioni analoghe si potrebbero
fare per a\lhqhév e a\lhéqeia: basti pensare allo scontro Edipo-Tiresia.
L’Edipo Re è tragedia estremamente complessa. Ogni lettore, ogni spettatore conosce il
suo Edipo. E’ stato rilevato da Fernandez-Galiano che Edipo può apparire, ed è apparso,
sotto quattro possibili volti: a) l’uomo adamitico, l’uomo che costruisce da sé il suo
destino, il figlio della Fortuna; b) Edipo di fronte alla Sfinge della vita e della scienza,
l’investigatore del vero; c) Edipo come tiranno; d) l’uomo alle prese col proprio
subconscio (la sfera freudiana).
E’ la tragedia dell’ansia e del dubbio, della paura e dell’angoscia. Il lettore (o lo spettatore)
che conosce i lineamenti del mito, comprende subito che Edipo è a un passo dal precipizio.
Ogni nuovo evento sembra apportare sollievo e finisce per accrescere l’angoscia.
L’immagine di potenza, gloria, felicità del protagonista si staglia su uno sfondo immenso di
angoscia, di lamento, di dolore, ed è immagine illusoria, parvenza ingannevole in un contesto
concreto di desolazione e di morte, proiezione di una mente avvolta dalle tenebre dell’
a\égnoia, dell’ignoranza. E la tenebra è attraversata da bagliori di luce, cioè dal dubbio e
dall’ansia della ricerca, dal desiderio di conoscere, folgorazione che si fa sempre più intensa
fino a vincere la tenebra. E l’uomo più felice diventa il più infelice. Tutto questo in un
tessuto drammatico dominato dai contrasti; perché l’Edipo Re, come s’è detto sopra, la
tragedia dei contrasti. Sempre a una situazione rasserenatrice subentra il dubbio e la radiosa
speranza viene come turbata da una sottile angoscia che poi si dilegua al sopraggiungere di
un motivo di sollievo, che però apre la strada a un nuovo e più tormentoso dubbio: è la via
che percorre l’uomo sofocleo tutto teso alla conquista del vero, che Edipo deve conquistare a
brano a brano, fino alla tremenda verità: «Ahi ahi! tutto è chiaro ormai. O luce, ch’io ti veda
ora per l’ultima volta, io che è evidente sono nato da chi non dovevo, mi sono congiunto con
chi non dovevo, ho ucciso chi non dovevo » (1183-5). E corre precipitosamente nella reggia
per accecarsi. E il Coro leva il suo canto sulle sventure di Edipo, che sono anche le sventure
dell’uomo di ogni tempo.
Edipo dunque, l’impuro senza colpa, acquista il suo significato nel rapporto con la divinità.
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Di questo personaggio ciò che importa è prima la volontà di conoscere, poi, conosciuta la
verità, il modo di affrontarla e la sua capacità di soffrire, che fanno di Edipo una delle più
grandi figure tragiche del teatro di tutti i tempi. Il servo trema al momento dell’ultima
terribile rivelazione: «Me infelice, eccomi sul punto di dire l’orrenda cosa». Edipo risponde:
«Ed io di ascoltarla, ma devo ascoltarla!» (1170-71). In questa frase c’e tanto il suo destino
quanto la sua magnanimità, come dice Lesky, che osserva: «Anche in questo dramma il
personaggio magnanimo, dalla volontà integra, è affiancato da un altro, prudentemente
disposto ad evitare il rischio e a patteggiare. Il principio proclamato da Giocasta, «vivere a caso è la
cosa migliore » (979), è quanto di più opposto si possa pensare rispetto all’atteggiamento di Edipo
».
Qual è, dunque, il significato ultimo dell’Edipo Re? È nel quarto stasimo, il canto della
nullità umana, un lamento doloroso sulla infelice condizione dei mortali: «Ahi generazioni
dei mortali, come io vi annovero nella vita al pari del nulla! Quale infatti, quale uomo ottiene
di felicità più di tanto quanto per parere felice e dopo essere parso subito declinare? La tua,
come esempio tenendo presente, la tua sorte, la tua, o infelice Edipo, cosa nessuna dei
mortali io considero felice » (1187-95). Il significato ultimo dell’Edipo Re è nel contrasto tra
l’infinita debolezza dell’uomo e l’infinita potenza del dio. Eterno risuona per l’uomo il
comandamento delfico: gnw%qi sautoé n, «Uomo, conosci te stesso!», che, come notava
Wilamowitz, vale: « conosci l’infinita tua debolezza».
2. A. Manzoni: la monaca di Monza
Si suole ritenere che alcuni episodi dei Promessi sposi siano ipertrofici. Eventi e personaggi, che
pure entrano di diritto nella trama del romanzo, vi si propaginano, si pensa, con soverchio sviluppo,
fino ad accamparsi con una loro particolare vegetazione, compromettendo la stessa economia
narrativa. Anche il Goethe, che fu il primo ammiratore del romanzo (« l'impressione che si riceve
alla lettura è tale che si passa continuamente dalla commozione alla meraviglia »), era di questo
parere: « Si dovrebbe abbreviare per una buona parte la descrizione della guerra e della carestia, e di
due terzi quella della peste, così che resti soltanto quello che è necessario ad intendere l'azione dei
personaggi ».
Le censure di questo tipo e le rispettive rettifiche dipendono da opposte premesse critiche, ché,
una volta, si obbedisce al gusto per il racconto rapido compatto unitario, fondato su un impianto
essenziale e lirico, per cui ogni digressione o dilatazione diventa sospetta, e una volta, viceversa, si
accetta il concetto del romanzo ciclico, in cui conta l'ampia scenografia storico-sociale e la
proliferante vitalità delle psicologie e dei casi di coscienza. In effetti, Alessandro Manzoni possiede
l'una e l'altra qualità: e se, per un verso, tende al controllo e alla misura concisa, nel contempo
aspira a comporre un grande affresco per rappresentare una civiltà intera. Si potrebbe pensare, tanto
per anticipare l'imminente situazione narrativa dell'Europa, al rigore stilistico di un Flaubert e alla
visione epica di un Tolstoi.
Tuttavia è vero che l'episodio della Monaca di Monza è di sorprendente ampiezza, e, quel che
più conta, risulta perfettamente conchiuso, come un piccolo romanzo autonomo nel vasto corpo
della narrazione. La sua storia, per quanto s'innesti organicamente nel tessuto del romanzo e ne
confermi la genesi etico-sociale, ha nondimeno un trattamento psicologico assai distinto, che si
potrebbe definire atipico. Anzitutto appare sostanzialmente mutato il rapporto fra l'autore e il suo
personaggio.
Rispetto a tutti gli altri il Manzoni si suole porre in una condizione dialettica. Di solito egli
avverte di collaborare con la realtà, con il destino, con i segreti disegni della Provvidenza. Ciascuno
dei suoi attori è gradualmente riguadagnato alla sfera della ragione dal fondo della biografia
psicologica. E' questo il processo intrinseco della coscienza che consente alla scrittura manzoniana
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di accogliere una sensibilità passionale e romantica per catalizzarla nell'ordine razionale.
All'incontro, nel dipanare il groviglio morale di Gertrude, lo scrittore si sente interdetto e allarmato.
Non dispone più della collaborazione provvidenziale, né questa volta lo soccorre la costante
parabola del suo ingegno, che di solito gli fa acquistare alla responsabilità etica le zone inconsulte o
ignare dell'esperienza. Con la Monaca di Monza il margine recondito della psicologia si allarga
sempre di più, e tutte le volte che lo scrittore cerca di portarla sul piano dell'analisi e della
consapevolezza, scopre le inesplicabili ombre del suo sottofondo patologico. In tutto il romanzo
soltanto il personaggio di Gertrude ha questa dimensione d'indefinito scandaglio. E quel geniale
contemperamento della coscienza manzoniana, così felicemente confermato dal Croce, che lo
attribuiva alla prima formazione enciclopedica e illuminista sopravvissuta nella successiva
esperienza cattolico-giansenista (« sicché in un certo senso può dirsi che egli raccolse nel suo
singolare temperamento quella doppia eredità storica »), sembra ora come sorpreso dalla inesausta e
inconciliabile irrazionalità che dilaga nell'anima e nella condotta di Gertrude.
La sua è una psicologia proibita, che ispira alla coscienza dello scrittore un atteggiamento di
attrazione e insieme di ripulsa. La dimora morale in cui si aggira Gertrude gli appare come una
immensa insidia, che viene a menomare la consueta confidenza dello artista nel padroneggiare i
propri personaggi. Il narratore non riesce a superare la perplessità dell'uomo sano che si arrischia di
sondare le regioni malate della vita. Più che una esitazione egli avverte la oscura minaccia del
contagio morale. Perché anche il male, non appena si anatomizza, comincia ad ottenere un margine
di giustificazione, o per lo meno beneficia delle attenuanti che la vita e la società finiscono sempre
per concedergli. L'analisi stessa porta al realismo, vale a dire ad una disposizione comprensiva
verso la realtà e l'esperienza. Nei riguardi, ad esempio, di don Rodrigo il Manzoni è reciso, il suo
giudizio è netto; ma rispetto a Gertrude egli diventa cauto, si direbbe circospetto. Sente di
maneggiare sostanze venefiche. Ne deriva un'elaborazione stilistica d'impareggiabile delicatezza.
Neanche la conversione dell'Innominato, che è il tratto più difficoltoso di tutto il romanzo, gli è
costata tanta attenzione e scrupolo. Il tratteggio ch'egli fa della Monaca di Monza è di una
consapevolezza così tesa che pare debba spezzarsi ad ogni istante. Da un rigo all'altro il Manzoni
guadagna alla luce dell'espressione un lembo di vita maledetta. Per questo la Monaca di Monza è il
personaggio più moderno dei Promessi sposi. I protagonisti che la narrativa dell'Otto e Novecento è
venuta allineando nella nostra letteratura, non hanno, tutti insieme, la profondità ermetica che
possiede la creatura manzoniana. O per lo meno, nessuno di loro lascia lo sgomento che comunica
Gertrude. Il Manzoni è riuscito a renderla patentissima pur lasciandola avvolta in una insondabile
segretezza. Questa duplice qualità stilistica — l'evidenza e il mistero — costituisce il pregio
inimitabile della scrittura manzoniana. Ogni particolare che lo scrittore sollecita per chiarire la
condizione morale di Gertrude, finisce col darle un più esteso alone d'ombra. Le pagine del ritratto,
relativamente poche, sono come un'essenza, che in seguito lo scrittore penserà di sciogliere nelle
più vistose fonti storiche e sociali.
3. G. Flaubert: Madame Bovary
Emma è il personaggio che ha dato il nome al bovarismo, cioè a quel vago e ingenuo desiderio di
evasione dalla banalità e grettezza dell’esistenza borghese. Essa vive di autoinganni, incapace di
un’obiettiva coscienza di sé e degli altri. L’autore cerca di penetrare in una personalità insondabile
e imprevedibile, ma alla fine si evince che Emma resta per Flaubert un personaggio sconosciuto,
come sconosciuto a se stesso è l’autore, il quale, quando gli chiesero pubblicamente chi fosse
davvero Madame Bovary, rispose “Madame Bovary c’est moi”.
“Soprattutto all'ora dei pasti sentiva di non poterne più: in quella stanzetta al pianterreno, dove la
stufa faceva fumo, la porta cigolava, i muri trasudavano e i pavimenti erano sempre umidi, le
sembrava che tutta l'amarezza della sua esistenza le venisse servita nel piatto e, come il fumo del
bollito, salivano dal fondo dell'anima sua altrettante zaffate di tedio insulso. Charles mangiava con
lentezza, Emma sgranocchiava qualche nocciolina o si divertiva, appoggiata a un gomito, a
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disegnare linee con la punta del coltello, sulla tela cerata. Adesso trascurava del tutto l'andamento
della casa e la suocera, quando andò a Tostes a trascorrere una parte della quaresima, si stupì molto
di questo cambiamento. Infatti, la nuora, un tempo tanto diligente e scrupolosa,trascorreva ora
intere giornate senza vestirsi, portava calze di cotone grigio e si faceva lume con la candela.
Ripeteva che bisognava fare economia, perché non erano ricchi, dichiarava di essere del tutto
soddisfatta e felicissima, diceva che Tostes le piaceva molto e continuava con nuovi argomenti che
tappavano la bocca alla suocera. Inoltre Emma non sembrava più disposta a seguire i suoi consigli.
Una volta, essendosi la vecchia Bovary azzardata a dire che i padroni devono sorvegliare la
religiosità dei domestici, Emma le aveva rivolto uno sguardo così irato e un sorriso tanto gelido, che
la buona donna non aveva più fiatato.
Emma divenne capricciosa e difficile. Ordinava per sé pietanze che poi non toccava nemmeno, un
giorno beveva soltanto latte e il giorno dopo dozzine di tazze di tè. Spesso si ostinava a non voler
uscire di casa e subito dopo si sentiva soffocare, apriva le finestre e indossava abiti leggeri. Dopo
aver strapazzato duramente la domestica, le faceva dei regali o la mandava a passeggio dalle vicine,
e talvolta perfino gettava ai poveri tutte le monete d'argento che aveva nel borsellino, benché non
fosse di animo tenero né si lasciasse commuovere facilmente dalle pene altrui, come del resto la
maggior parte di coloro che discendono da una stirpe contadina e conservano nell'anima qualcosa
che ricorda la callosità delle mani dei padri”.
4) I. Svevo: Zeno o dell'ambiguità
Zeno è un'originale invenzione di personaggio. Nella narrativa tradizionale i personaggi erano ideati
come figure dalla fisionomia definita e univoca. In essi i narratori rappresentavano la loro precisa
interpretazione filosofica e morale dell'esperienza umana. Nel romanzo ottocentesco lo sguardo
perennemente presente del narratore eterodiegetico non lasciava dubbi sui significati dei personaggi
e delle situazioni. Per contro, Svevo ha una sua filosofia che non ammette la possibilità di una
conoscenza definita e assoluta della realtà : all'uomo non è consentito andare oltre il terreno delle
ipotesi, dal momento che gli è precluso di attraversare tutti gli strati della vita coscienziale e
interpretare con razionale certezza un universo che è irrazionale nella sua essenza profonda. A
questo punto la scelta di un narrare autodiegetico è conseguenziaria per Svevo. Visto che l'autore si
sente inabile a enunciare giudizi certi e assoluti, conviene lasciar parlare unicamente 1'actor
fabulae: Zeno sarà il raccontatore in prima persona. I lettori, quindi, dovranno accontentarsi della
verità di Zeno, cioè di un groviglio di verità, mezze verità, menzogne, reticenze, deformazioni
interpretative, che ciascuno potrà eventualmente percepire o supporre, ma senza presumere di
fissare delle verità univoche sull'esperienza reale di Zeno. L'unica percezione certa è questa: che
l'esperienza di Zeno - l'esperienza umana, in definitiva - è un groviglio di ambiguità, un fondo
vischioso nel quale si trovano inestricabilmente impastati frammenti di verità, menzogne,
autoinganni. Il livello dell'io cosciente e censurato non è che la vetrina di mostra; dietro c'è il fondo
delle pulsioni inconsce, segreto e autentico motore del comportamento umano.
Da questi presupposti nasce, quindi, la singolare figura di Zeno, un personaggio dai tratti fluttuanti,
una specie di provvisorio "abbozzo" (è il termine adoperato da Svevo in un frammento di saggio, a
definire la natura di siffatti personaggi) tutto aperto e disponibile a successive evoluzioni; una
figura, insomma, opposta a quella canonica del personaggio-verità conclusa. Nell’incipit del quinto
capitolo Zeno si dichiara consapevole di tale sua natura, definendosi uomo-onda: «La vita più
intensa è raccontata in sintesi dal suono più rudimentale, quello dell'onda del mare, che, dacché si
forma, muta ad ogni istante finché non muore! Mi aspettavo perciò anch'io di divenire e disfarmi...
come l'onda».
Zeno dunque è ideato come un personaggio trascolorante e ambiguo. A tratti egli riesce a intuire
l'ambiguità dei suoi comportamenti e gesti; ma più frequentemente si avvolge inconsapevolmente in
una spirale di autoinganni con i quali presume di tacitare la sua cattiva coscienza, ponendo un velo
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su quelle pulsioni inconsce e negative che si sommuovono nel profondo dell'anima.
Conseguentemente tutti i nuclei di esperienze, recensite da Zeno nella sua autoanalisi, appaiono
interpretabili in termini diversi da come le rappresenta lui. Nell'episodio della morte del padre Zeno
protesta il suo amore per lui, il rimorso per la propria condotta abulica e inerte (rinfacciatagli
costantemente dal padre), il dolore di vederlo morire. Ma nelle ostentate dichiarazioni di Zeno
balena il sospetto che egli desideri inconsciamente la scomparsa del padre, presenza castrante e
alimentatrice di sensi di colpa. Inoltre nell'intervento di Zeno, che impedisce al padre di levarsi dal
letto (come aveva ordinato il medico), non è lecito intuire un estremo suo atto di rivalsa, di essere
cioè una volta lui il dominatore sul padre? E’ da quella nebulosa consapevolezza che nasce in Zeno
il sospetto che un gesto del padre morente possa essere stato un estremo "schiaffo" al figlio e alla
sua inettitudine. Insomma un conflitto segreto sembra continuare a svolgersi dietro le apparenze di
una normale ritualità di rapporti.
E ancora, un groviglio di ambiguità segna gli episodi del casuale fidanzamento con Augusta e
dell'avventura con Carla, esperienze vissute da Zeno in condizione di dissociazione psichica, sul filo
di continui autoinganni, escogitati con compiacenza per convincersi che quelle fossero le scelte
convenienti, laddove in realtà le motivazioni vere di quelle scelte provenivano da spinte sfuggenti
alla coscienza cosciente di Zeno. Inoltre, anche nel rapporto fra Zeno e il cognato Guido balugina
un fondo di falsità, del quale lo stesso Zeno intuisce alla fine qualche segno. Infatti la smisurata
generosità e affettuosità ostentata da Zeno verso il cognato non è piuttosto una sorta di schermo per
celare a se stesso e agli altri il suo rancore profondo per Guido, l'uomo brillante e di successo che
aveva conquistato Ada Malfenti, la donna che veramente Zeno credeva di amare? E il lapsus del
funerale non era un inconscio segno di quel suo rancore? Infine anche la proclamata guarigione
finale appare un palese autoinganno: Zeno baratta per guarigione la rimozione mentale della sua
malattia nevrotica. Insomma Zeno è un personaggio dai tratti ondeggianti, una coscienza per ampia
parte incosciente.
5. I personaggi di L. Pirandello
Già dai primi romanzi e racconti si nota la tendenza a mettere i protagonisti delle vicende in
situazioni paradossali, davanti a una crisi della vita «normale» che li costringe a rivelare la loro vera
natura, a gettare la maschera. Si può affermare che tutta la vasta opera pirandelliana ruota attorno a
queste idee, anche se via via l'autore le arricchisce di nuovi pensieri e di nuove problematiche. Per
esempio con Il fu Mattia Pascal, il romanzo pubblicato nel 1904, che lo consacrò autore di
successo, il concetto del vedersi vivere viene reso evidente attraverso l'invenzione di un
personaggio che, creduto morto da tutti, inizia una nuova vita, per rendersi ben presto conto di avere
soltanto preso un'altra maschera. Nel 1915 Pirandello pubblicò il suo romanzo più complesso, dal
titolo Si gira... (poi rielaborato e riedito nel 1925 come Quaderni di Serafino Gubbio operatore),
nel quale le consuete tematiche si arricchiscono di riflessioni sul ruolo che hanno le macchine nel
contribuire al senso di alienazione dalla vita che colpisce gli uomini della nostra società, sul destino
dell'arte e della natura in un mondo meccanizzato e automatizzato. L'opera mostra anche l'interesse
vivissimo di Pirandello per la nascente cinematografia (il protagonista è un operatore
cinematografico: gira la manovella che a quei tempi faceva scorrere la pellicola nella cinepresa);
non solo l'azione del romanzo si svolge in gran parte sul set di un film, ma l'autore individua nel
cinema quasi il simbolo di una vita che una persona vede svolgersi sotto i propri occhi, una finzione
che diventa realtà.
I romanzi di Pirandello si collocano nell' ambito della grande stagione sperimentale della narrativa
europea non solo per le novità tematiche; in un processo che si concluderà con l'ultimo grande
romanzo, Uno, nessuno e centomila (1925), l'autore perseguirà un progetto nel quale la formaromanzo viene scomposta; infatti, è la forma stessa che deve trasmettere l'idea della disgregazione
della personalità degli individui, dell'impossibilità di descrivere in modo unitario e coerente la vita.
Sotto questo aspetto Pirandello va collocato accanto a Joyce, a Svevo, a Proust, a Musil, cioè fra
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quegli scrittori che ritengono superata e inadeguata la «forma chiusa» del romanzo e ormai inutile la
narrazione secondo i canoni realistici e veristi dell'Ottocento. Come egli stesso spiega
nell'Umorismo, l'arte moderna non può che essere diversa dal passato. Non c'è più la possibilità di
tendere a un'arte che sia «armonia», forma perfetta e piacevole, perché l'arte non può nascere dalla
coscienza di un fallimento umano, dal sentimento doloroso del vedersi vivere, dal rimpianto per una
vita autentica.
È questo ciò che Pirandello chiama “arte umoristica”, che nasce da un sentimento ma ha come
carattere distintivo quello di unire sentimento e riflessione razionale. Egli utilizza per spiegare il
concetto un'immagine, quella della vecchia signora che appare con i capelli tinti, truccata, vestita
come una giovane: di fronte a essa noi cogliamo immediatamente una frattura, fra ciò che essa è e
ciò che vorrebbe apparire e, per usare le parole dell'autore, abbiamo l'avvertimento del contrario che
dà origine alla risata, all'arte comica. Ma se da questo avvertimento prende l'avvio la riflessione,
allora nasce in noi il sentimento del contrario: «sentiamo» cioè che quella vecchia signora è
probabilmente «costretta» a conciarsi in quel modo, a recitare una parte che non è sua, per mille
motivi, forse per tentare di tenere legato a sé il marito, o forse perché ha paura di sentirsi vecchia e
teme la morte, o per chissà quali altre ragioni. Ecco dunque che dal sentimento del contrario nasce
l'arte umoristica, in cui la scoperta della verità non si traduce in riso, né in condanne moralistiche,
ma fa sorgere un senso di solidarietà umana, perché noi stessi siamo partecipi di quella dolorosa
condizione di esseri destinati a vestire una maschera.
6. La letteratura come indagine
Quando parliamo di disagio, di disadattamento, di alienazione non dobbiamo pensare sempre e
comunque a forme «patologiche», a comportamenti strani, tali da far pensare a una «malattia
mentale». Molti di questi vengono giustamente interpretati come conseguenze del continuo conflitto
fra generazioni o catalogati come segni di un carattere individuale chiuso o scontroso. Il fatto è che
il conflitto fra l'individuo e il mondo si svolge in massima parte all'interno della coscienza: è dentro
di sé che la persona soffre, cerca le ragioni del suo malessere, tenta di trovare la via d'uscita.
Se la coscienza della propria individualità è sempre stata un campo d'indagine privilegiato dalla
letteratura, sia in poesia sia in prosa, è indubbio che la narrativa, a partire dall'Ottocento, si è
occupata sempre più di questi conflitti inferiori, ha cercato di scandagliare la coscienza per dare una
spiegazione, non scientifica (a quella tendono i medici, gli psicanalisti, i sociologi, ecc.) ma
«umana», emotiva, psicologica di quello che il nostro grande poeta Montale chiamò il male di
vivere.
In molte opere narrative dell'Otto e del Novecento, infatti, il soggetto scelto dall'autore è un inetto,
cioè un individuo che, secondo un metro comune di «normalità» (ma chi deve stabilire che cosa è
normale?), viene giudicato disadattato, incapace di agire, di provare i sentimenti che tutti gli altri
manifestano. Si tratta spesso di un personaggio che possiede una sensibilità eccezionale, un essere
delicato, il quale risente in maniera anch'essa eccezionale delle violenze della vita, delle sue
assurdità, che risulta inadatto alla «lotta per la sopravvivenza».
L'inettitudine diventa un tema proprio della cultura e della letteratura (soprattutto del Novecento), in
quanto è lo strumento che permette di analizzare la condizione umana; proprio assumendo un punto
di vista «fuori dalla normalità», gli scrittori riescono a esprimere e a trasmettere un giudizio sulla
vita «normale», svelandone meccanismi e meschinità. Colui il quale, con un termine assai in voga
in questa fine del XX secolo, si definisce un «perdente» può essere la coscienza critica del gioco in
cui prevalgono i «vincenti»; è lui il punto debole della catena sociale che può farci vedere come per
vincere occorra spesso rinunciare a essere se stessi, ai propri istinti, alla propria indole.
È del tutto normale che nell'ambito della narrativa compaiano tematiche che assumono un grande
rilievo in relazione ai problemi culturali, esistenziali, ideologici emergenti in un determinato
periodo storico all'interno di una civiltà: il romanzo è sicuramente il genere che, a partire dal
Settecento, ha sempre messo in mostra la maggiore capacità di adattamento, di flessibilità e di
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velocità nel recepire le sollecitazioni provenienti dalla società in cui vivono gli autori e di cui fa
parte il pubblico dei lettori. Non può così costituire motivo di sorpresa che la narrativa occidentale,
cioè europea e nordamericana, a partire dall'Ottocento, abbia colto e fatto oggetto della propria
ricerca la crisi dell'individuo nella società moderna e abbia spesso creato dei personaggi che,
proprio per la loro «incapacità di vivere», sono divenuti simboli del disagio e dell'alienazione. Ma
se fino all'Ottocento ciò ha costituito un tema che ciascun autore ha trattato con l'impostazione
stilistica a lui propria - restando però sostanzialmente all'interno della tendenza prevalente nel
romanzo e nel racconto ottocentesco (costruzione di una trama, realismo nella descrizione degli
ambienti, delle azioni, dei dialoghi, ecc.) - a partire dalla fine del XIX secolo e nel corso del
Novecento la presenza di queste tematiche si è spesso legata allo sforzo di profondo rinnovamento
del linguaggio narrativo che in quel periodo coinvolse in particolare il romanzo europeo e
nordamericano. In altre parole si può dire che la «rivoluzione narrativa», che ebbe come
rappresentanti maggiori Proust, Joyce, Kafka, Musil, Svevo, Pirandello, si collegò quasi
naturalmente alla narrativa che prendeva come oggetto di rappresentazione la difficoltà di
mantenere una visione unitaria e sicura del mondo da parte di un individuo che soffre per
l'impossibilità e l'incapacità di adeguarsi alle situazioni materiali, spirituali e culturali in cui «è
costretto» a vivere. Questo portò la tecnica del narrare, o, in altri termini, lo stile della narrazione, a
subire notevoli mutamenti e i romanzi e i racconti acquistarono caratteri piuttosto distanti da quelli
ottocenteschi. Riassumiamo per punti alcuni di questi cambiamenti strutturali e stilistici.
La «focalizzazione» si orienta su quanto accade all'interno della coscienza personaggio (o dei
personaggi). Ciò significa una perdita di rilievo della trama, intesa come intreccio di avvenimenti
più o meno interessanti che abbiano un inizio, uno svolgimento e una fine. Molto spesso nella
narrativa novecentesca, in particolare quella che assume come tema l'inettitudine, il lettore si trova
di fronte a opere in cui «non succede niente» o quasi: i fatti non risultano decisivi, le situazioni non
hanno caratteri di eccezionalità, i personaggi non compiono azioni che siano al di fuori di una piatta
«normalità». La vera trama è costituita dal dramma interiore, dalla lotta che si sviluppa all'interno
del personaggio, il quale è continuamente combattuto fra l'ansia di essere e di comportarsi come gli
altri e la coscienza di non poterlo fare per la propria «diversità» e inadeguatezza.
I tempi della narrazione non seguono più l'ordine logico-cronologico dei fatti, ma i «movimenti»
della coscienza del personaggio. Ciò significa che l'attenzione e lo spazio dedicati a un'azione, a un
pensiero, a una descrizione non sono in relazione all'importanza che hanno per lo svolgimento della
trama, bensì alla mente e alla coscienza del personaggio, all'importanza che possono avere come
«indizi» di uno stato d'animo, di una memoria. Si tratta di quel carattere narrativo che è stato
definito tempo interiorizzato, per cui ciò che viene raccontato subisce grandi dilatazioni o estreme
sintesi a seconda della situazione mentale, sentimentale o psicologica di colui che «vive» tali
momenti.
Le tecniche del «discorso indiretto libero», del «monologo interiore» e del «flusso di coscienza»
acquistano grande spazio. Il ruolo del narratore, in questo tipo di narrativa, è spesso quello di
rinunciare ad avere una sua voce autonoma, di raccontare secondo un ordine stabilito, di
«ricostruire» la vicenda. Molto spesso il narratore si limita a «trascrivere» il pensiero e le sensazioni
del personaggio così come liberamente si sviluppano all'interno della sua coscienza, usando le
tecniche più appropriate. Fra queste le più importanti sono:
a)il discorso indiretto libero: consiste nel procedimento grazie al quale il narratore comincia un
normale discorso indiretto, poi, senza particolari mutamenti di punteggiatura o altri segnali,
riporta parole e pensieri del personaggio adattandoli ai tempi e ai modi della «sua»
narrazione. Il discorso indiretto libero è un modo per «raccontare dal di dentro», facendo
quasi scomparire la voce del narratore;
b)il monologo interiore: si presenta come la trascrizione del pensiero che viene riprodotto nel
momento stesso in cui si forma nella testa del personaggio; non ha un destinatario preciso (il
personaggio pensa fra sé e sé) ed esclude, naturalmente, ogni minimo intervento da parte del
narratore; il lettore è direttamente introdotto nel pensiero, nei sentimenti e nelle emozioni
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del personaggio e deve autonomamente cogliere i nessi, le associazioni di idee, capire le
allusioni, ecc. E’ cosa diversa dal soliloquio, il discorso che un personaggio rivolge a se
stesso per convincersi, dimostrare, argomentare. Il monologo interiore si presenta quindi,
tecnicamente, come un discorso indiretto libero prolungato, che si svolge sempre al presente
e in prima persona;
c)il flusso di coscienza: il procedimento del monologo interiore può essere portato a una forma
estrema nel così detto flusso di coscienza, vale a dire nella «registrazione» (quasi in presa
diretta con la mente) di ciò che avviene nella coscienza del personaggio, riproducendo i
meccanismi alogici (cioè non-logici), casuali, nei quali si manifesta il pensiero inconscio,
quando si sviluppa senza seguire un filo preciso. Nel flusso di coscienza vengono pertanto
alterate più o meno profondamente anche le regolari strutture sintattiche e grammaticali per
rendere con maggiore immediatezza il fluire confuso dei pensieri, l'improvviso affiorare di
immagini, le associazioni più inattese. L'intento espressivo è quello di rendere il pensiero
nella sua forma più immediata e profonda, prima ancora che esso assuma una veste
strutturata.
6) Domenico Modugno: Vecchio frac
E' giunta mezzanotte
si spengono i rumori
si spegne anche l'insegna di quell'ultimo caffè
le strade son deserte
deserte e silenziose
un'ultima carrozza cigolando se ne va.
Il fiume scorre lento
frusciando sotto i ponti
la luna splende in cielo
dorme tutta la città,
solo va un uomo in frak.
Ha il cilindro per cappello
due diamanti per gemelli
un bastone di cristallo
la gardenia nell'occhiello
e sul candido gilè
un papillon, un papillon di seta blu
S'avvicina lentamente
con incedere elegante
ha l'aspetto trasognato
malinconico ed assente
non si sa da dove vien
né dove va,
chi mai sarà
quell'uomo in frac?
Bonne nuit, bonne nuit, bonne nuit
buona notte
va dicendo ad ogni cosa
ai fanali illuminati
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ad un gatto innamorato
che randagio se ne va.
E' giunta ormai l'aurora
si spengono i fanali
si sveglia a poco a poco tutta quanta la città,
la luna si è incantata
sorpresa e impallidita
pian piano scolorandosi nel cielo sparirà.
Sbadiglia una finestra
sul fiume silenzioso
e nella luce bianca galleggiando se ne van
un cilindro, un fiore e un frac.
Galleggiando dolcemente
lasciandosi cullare
se ne scende lentamente
sotto i ponti verso il mare
verso il mare se va,
chi mai sarà
chi mai sarà quell'uomo in frac?
A dieu, a dieu, a dieu, a dieu, addio
ai ricordi del passato
ad un sogno mai sognato
ad un attimo d'amore
che mai più ritornerà.
Lalallà, lalallà
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