La memoria degli ebrei italiani che si salvarono

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La memoria degli ebrei italiani che si salvarono
La memoria degli ebrei italiani che si salvarono nella "Nuova
Terra Promessa"
di Stefano Vaccara
[27 Jan 2014 | 2 Comments | 1367 views]
Nel giorno dedicato al ricordo della Shoah, intervista con Gianna Pontecorboli, autrice del
libro che ricostruisce la vicenda dei duemila italiani di origine ebraica fuggiti dall'Italia
fascista per iniziare una nuova vita negli Stati Uniti. Una storia alla fine di successo ma
solo dopo grandi sacrifici e umilianti discriminazioni
Il 27 gennaio, da sette anni, chi scrive si reca insieme a tanti altri italiani davanti alla sede del Consolato
Generale di Park Avenue per leggere i nomi degli ebrei italiani trucidati nei campi di concentramento
nazisti. La giornata della memoria, qui a New York, diventa quindi una cerimonia particolare perché,
davanti ai microfoni schierati tra l'Istituto di Cultura e il Consolato, ci ritroviamo a leggere quei nomi
alternandoci con alcuni degli italiani
sopravvissuti alla Shoa e i loro figli, tutte
persone che si sono salvate solo perché le
loro famiglie erano riuscite a fuggire in
tempo in America.
Tra l'approvazione delle leggi razziali nel
novembre del 1938 e il rastrellamento
degli ebrei nelle città italiane nell'ottobre
del 1943, dei 40 mila ebrei italiani solo
circa cinquemila riuscirono a mettersi in
salvo espatriando. Tra questi, duemila
scelsero gli Stati Uniti come loro meta. A
New York, Boston, Chicago, California fino
al più sperduto degli Stati dell'Unione,
arrivarono dall'Italia professori
universitari, intellettuali, medici,
scienziati, musicisti, quasi tutti con le loro
famiglie. Questa prima "fuga di cervelli"
italiani verso l'America non scaturì di
certo dalla ricerca di migliori possibilità di
carriera, ma dall'istinto combinato alla
logica di saper leggere la realtà di coloro che capirono, prima
degli altri 35 mila (e che ebbero i mezzi per farlo), che anche
il fascismo di Mussolini ormai si sarebbe svelato nella sua
essenza di regime criminale come era stato subito evidente
per il nazismo di Hitler.
Se, almeno per i primi che partirono, il viaggio verso la
salvezza fu abbastanza agevole rispetto ai milioni di poveri
emigranti che negli anni precedenti avevano dall'Italia attraversato l'Atlantico, non lo fu altrettanto
l'impatto con il nuovo paese che li ospitava. Gli Stati Uniti sarebbero diventati in futuro la nuova patria
per molti di questi italiani di origine ebraica, ma agli inizi si dimostrarono un paese difficile, ostile ai
nuovi arrivati, dove l'antisemitismo era diffuso. Soltanto grazie all'aiuto degli ebrei italiani arrivati negli
anni precedenti, molti di questi nuovi ebrei italiani fuggiti da Mussolini, tra mille sacrifici e
rinunce, riuscirono a sopravvivere in America fino allo scoppio della guerra mondiale. Solo allora, molti
di questi "cervelli italiani" furono riconosciuti "utili" allo sforzo bellico contro l'Asse e quindi
automaticamente riuscirono ad assimilarsi meglio nella società americana. Molti di questi italiani-ebrei,
una volta inseriti anche dentro la struttura governativa di Washington, risultarono poi determinanti
nella pianificazione e agevolazione del processo di ricostruzione dell'Italia dopo la disfatta del fascismo.
Gianna Pontecorboli, firma storica del giornalismo italiano a New York, genovese e anch'essa di famiglia
di origini ebraiche, in parte toccata da questa fuga verso l'America, ha raccolto in un importante libro le
testimonianze di questa "diaspora" negli USA. Edito da Brioschi e arrivato già alla seconda edizione, il
libro si intitola America, Nuova Terra Promessa. Storie di ebrei italiani in fuga dal Fascismo.
Con la collega e amica Gianna Pontecorboli, in occasione del giorno della memoria e nel 75°
anniversario delle leggi razziali, La VOCE di New York ha realizzato questa intervista.
Gianna, quando e perché hai sentito la necessità di raccontare la storia del gruppo di duemila
ebrei italiani che, a partire dal 1938, fuggì dall'Italia per trovare rifugio e salvezza negli Stati
Uniti?
La necessità, o almeno la curiosità di ricostruire quella storia l'ho sentita appena sono arrivata negli
Stati Uniti e mi sono imbattuta in molti dei personaggi di cui poi ho parlato nel libro. Era l'inizio degli
anni ottanta, questa era ancora una vicenda ancora del tutto sconosciuta e molti dei protagonisti non
erano pronti a raccontarla, ma io ho cominciato a poco a poco a intervistarli. Poi, facendo alcune
ricerche, mi sono imbattuta in personaggi straordinari come Emilio Segrè e Salvador Luria, che hanno
vinto il Premio Nobel, oppure Leo Castelli e Vittorio Rieti, che hanno lasciato un segno permanente nel
mondo dell’arte e della musica. Così, quando i tempi sono stati maturi, ho messo tutto insieme. Tra
l'altro c'erano anche dei motivi personali, perchè una parte della famiglia di mia mamma era venuta a
New York, ma mio padre, che aveva appena creato un'azienda di successo, aveva preferito rimanere in
Italia, e io mi chiedevo cosa sarebbe successo se anche i miei genitori si fossero imbarcati su una di
quelle navi....
Il tuo libro ha un titolo dal significato forte: "Nuova Terra Promessa". Ma gli Stati Uniti
della fine degli anni Trenta non accolsero proprio a braccia aperte gli ebrei italiani in fuga
dalle leggi razziali del Fascismo. Quanto era forte l'antisemitismo allora in America e quanto
ne soffrirono i protagonisti del tuo libro?
In effetti, quando arrivarono i primi ebrei italiani in fuga dalle leggi razziali, l'antisemitismo era ancora
molto forte e molto diffuso. Anche se per fortuna non esistevano leggi discriminatorie, era normale
escludere gli ebrei dalle università più prestigiose, dalle aziende e dagli studi professionali ''wasp''. Le
campagne antisemite di padre Coughlin e di Henry Ford avevano lasciato il segno e non era un mistero
che lo stesso Dipartimento di Stato vedesse gli ebrei con molto sospetto. In un certo senso, però, gli
ebrei italiani, come del resto quelli di origine francese o tedesca, ne soffrirono probabilmente meno
degli altri. Erano cosmopoliti, erano spesso colti, non erano molto religiosi e fecero in complesso meno
fatica dei loro predecessori russi o polacchi per farsi accettare dall'ambiente circostante.
Scienziati, medici, professori, economisti, avvocati, giornalisti, artisti… Gli ebrei italiani che
arrivano negli USA poco prima e allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, sono quasi tutti
dei professionisti o comunque hanno già avuto un discreto successo nelle loro attività. Ma in
Italia non c'erano forse anche cittadini di origine ebrea con uno status sociale più umile?
Perché loro non tentano la fuga?
Certamente, i numeri parlano da soli. Dei circa 40.000 ebrei residenti in Italia, solo poche migliaia
riuscirono a varcare l'Oceano Atlantico e a rifugiarsi in Nord e Sud America. La decisione di fare il
grande salto richiedeva coraggio, cultura e disponibilità finanziarie, mentre la grande maggioranza della
popolazione ebraica, soprattutto nelle città di Roma e di Livorno, apparteneva alla piccola borghesia.
Molti, tra i miei intervistati, non erano però ricchi, alcuni erano piccoli e medi professionisti, o
insegnanti a cui le leggi razziali avevano fatto mancare lo stipendio. Qualche giovane è arrivato,
letteralmente, senza un soldo in tasca.
Hai registrato tra gli ebrei italiani scampati
all'Olocausto grazie alla fuga verso la "terra promessa"
americana, un qualche "senso di colpa" nei confronti
di tutti gli altri rimasti in Italia e poi sterminati nei
lager nazisti? Ma questa loro loro fuga era stata
determinata dall'effettiva comprensione
dell'imminenza del pericolo o neanche le leggi del '38
avevano ancor fatto immaginar loro l'immenso crimine che sarebbe accaduto?
Credo che molti abbiano avuto un senso di colpa, o almeno la sensazione di essere stati dei privilegiati.
Qualcuno ha vissuto gli anni della guerra soprattutto con un grande senso di angoscia per chi era
rimasto indietro, come per esempio il padre di Peter Treves, che non aveva voluto partire per continuare
a occuparsi dei beni della famiglia e finì a Auschwitz. Per qualcuno c'è stato anche un senso di colpa per
non aver saputo far capire agli altri il dramma che si preparava. D'altra parte, nell'Italia di quegli anni,
era fin troppo facile sottovalutare il pericolo e continuare a adagiarsi nella comoda vita di sempre.
Una volta arrivati in America con le loro famiglie, alcuni di questi professionisti e intellettuali
italiani di origine ebraica si dovettero spesso arrangiare con lavori molto umili. Ad un certo
punto vediamo anche un dentista che vende pentole e tegami… Ma poi la maggior parte avrà
successo, qualcuno arriverà a vincere anche il Nobel. Tra tutte le storie raccontate nel libro,
quale consideri la più emblematica nel racconto di sofferenza, sacrifici, coraggio e alla fine
riscatto dell'avventura degli ebrei italiani arrivati in America prima e durante lo scoppio
della Seconda Guerra Mondiale?
Ce ne sono molte, da quella dei sei nipoti poco più che adolescenti e provenienti da tre famiglie diverse
che furono ospitati tutti da una zia poverissima e dovettero mettersi a fare i lavori più umili prima di
poter tornare a studiare e costruirsi una carriera. Uno di loro finirà anche per morire in guerra in Italia,
a pochi chilometri dalla casa in cui si erano rifugiati i suoi genitori. Oppure quella, appunto, del dentista
Leoni, che dopo aver venduto pentole si improvvisa, e con un certo successo, commerciante di gioielli a
Miami.
Una delle più commoventi, sicuramente, è quella di Massimo Calabresi, che passa da cardiologo del
Papa a assistente per un anno, senza garanzie e senza poteri, all'Università di Yale. Anche per lui, il
futuro sarà di successo, ma i primi mesi, per sopravvivere, ha bisogno dei piccoli prestiti degli amici.
Nel leggere la memoria che questi italiani di origine ebraica conservano dell'Italia, si denota
un profondo legame d'amore per il paese dove sono nati e che hanno dovuto lasciare. In
questo sentimento, ad un certo punto del libro fai notare che c'è una grande differenza
rispetto agli ebrei in fuga dalla Germania, dalla Francia, dall'est Europa e poi finiti negli USA.
Perché secondo te gli ebrei italiani fuggiti in America continuano a sentirsi ancora così
italiani nonostante quello che l'Italia ha fatto loro?
Basta dare un'occhiata alla storia. Gli ebrei risiedono a Roma,
continuativamente, da più di duemila anni. In due millenni di storia
italiana, ci sono state discriminazioni, ingiustizie, espulsioni e
qualche volta violenze, ma gli ebrei hanno sempre in qualche modo
fatto parte integrante del tessuto sociale, in tutto il Sud prima
dell'espulsione, durante il Rinascimento e poi soprattutto dopo
l'apertura dei ghetti e la riunificazione dell'Italia. Malgrado
l'ingiustizia subita con le leggi razziali, quasi nessuno ha rotto i ponti
con una cultura e una civiltà di cui si sentiva parte.
Personalmente, ho trovato commovente l’energia con cui alcuni dei
personaggi che descrivo, come Max Ascoli o Peter Treves, non hanno
mai smesso di dare una mano a favore dell’Italia, prima, durante e
dopo la Guerra. Sia nel mondo universitario che in quello degli affari,
gli italiani arrivati nel dopoguerra devono loro molto.
Alcuni di questi italiani di origine ebraica fuggiti nel '38, alla fine della guerra tornano a
vivere in Italia. Ma l'Italia non è certo più quella di cui avevano il ricordo. Un paese distrutto,
in ginocchio. Altri, la maggior parte, invece non tornano… Questo è dovuto più alle grandi
opportunità che l'America cominciava a offrir loro, alle condizioni dell'Italia del dopoguerra,
o al risentimento nei confronti di un popolo che aveva accettato supinamente, o peggio nel
pieno del consenso, la vergogna delle leggi razziali del '38?
Sicuramente la constatazione che tanti italiani ''brava gente'' avessero accettato la vergogna delle leggi
razziali senza protestare e spesso con interessata complicità ha avuto un ruolo nella decisione di
rimanere negli Stati Uniti. Come ha avuto un ruolo l'amarezza che tanti hanno provato dopo il primo
deludente viaggio nell'Italia del dopoguerra. E la constatazione che la sicurezza finanziaria di prima
della guerra non esisteva più. Per molti, però, alla base della scelta ci sono state soprattutto questioni
pratiche, una nuova carriera che cominciava a dare soddisfazioni, i figli ormai diventati ''americani''
dopo tanti anni di esilio. In molti casi, le famiglie si sono spezzate, i figli sono rimasti, mentre i genitori,
che erano arrivati già anziani e avevano fatto molta fatica a integrarsi, hanno preferito rifare le valige.
Credo che sia simbolico il caso di Tullia Zevi, che poi diventerà la rispettata presidente dell'Unione delle
Comunità Ebraiche Italiane. Suo padre, avvocato, è tornato perché a New York non poteva esercitare e
aveva un lavoro modesto, Tullia è tornata per contribuire alla ricostruzione di un'Italia diversa, ma il
fratello Eugenio è rimasto negli Stati Uniti perchè aveva cominciato una brillante carriera di professore
universitario.
Il rapporto degli ebrei italiani arrivati a New York e nelle altre metropoli del Nord America
con gli altri italiani e italoamericani, appare nel tuo libro o inesistente o molto difficile, teso.
Questo accadde più per le differenze di classe sociale, o per le tendenze ancora filo fasciste
della maggior parte degli americani di origine italiana?
Tutte e due le cose. Non credo che tra gli italoamericani l’antisemitismo fosse particolarmente sentito,
almeno a livello personale. Anzi i legami tra la comunità italoamericana e la vecchia comunità ebraica
americana sono stati in alcuni periodi molto stretti e i due gruppi hanno combattuto insieme diverse
battaglie a favore dei diritti civili e dell'integrazione. Certamente, però, la maggioranza in quegli anni
era anche affascinata dal fascismo e non era pronta ad accettare quegli strani italiani così ''diversi''
socialmente e culturalmente.
Una certa incomprensione tra i vecchi italoamericani e gli italiani arrivati prima o subito dopo la guerra
con una buona sicurezza finanziaria o una laurea in tasca, d'altra parte, non è stata un fenomeno che ha
riguardato soltanto gli ebrei italiani...
Il tuo libro sta avendo un meritato successo, è arrivato alla seconda edizione. Ecco, questa
ricostruzione storica degli ebrei italiani che si salvarono dal nazifascismo fuggendo negli
USA, che messaggio potrebbe trasmettere all'Italia di oggi per aiutare quegli italiani piuttosto
depressi non solo dalla crisi economica, ma anche da una crisi di identità e ideali? E
conoscere questa storia potrebbe servire anche agli americani?
Nel mio libro, come forse hai notato, ho cercato di raccontare soprattutto una storia di persone, di
individui normali di fronte a un problema più grande di loro. Potremmo essere in una situazione simile,
domani, io, tu o chiunque altro. Lo sono, in questo momento, infinite vittime della storia in Siria o in
Sud Sudan. Credo che questo sia un messaggio importante, per capire quanto sia fondamentale per tutti
impegnarsi a guardare quello che ci circonda con gli occhi aperti, senza illusioni, ma anche con la voglia
di reagire.
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