Attacco di Panico

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Attacco di Panico
Disturbo da Attacchi di Panico
Alberto Stilgenbauer
Panico dal latino “panicum”, ossia derivato da “panus” – gomitolo di filo che avvolge e paralizza,
da cui è difficile sbrogliare la matassa; per fare questo c’è bisogno di sospendere il soffocamento
emozionale, magari in un contesto disposto ad ascoltare e costruire senso diverso da quello che
può essere la conflittualità vissuta, ed allora il panico diviene una rappresentazione di una storia
non detta, non raccontata, sconosciuta, una non storia:
il sintomo esistenziale di quella specifica e personale storia.
Nel film War Horsei un cavallo nel panico si ficca nel bel mezzo dei reticolati di un campo di
battaglia restandone bloccato e avvolto in un gomitolo di filo spinato. Solo la sospensione della
conflittualità tra i nemici permetterà di costruire una relazione, una relazione che va al di là della
conflittualità tra la nemicalità; una sospensione dell'agire della guerra che porterà alla costruzione
della cosa terza, ossia la liberazione del cavallo da quella situazione di panico…, o meglio
dall’attacco di panico, ossia dall’attacco al confronto con il vissuto, con il vivere.
Anche nella lapidale titolazione “Disturbo da Attacchi di Panico” proposta e descritta sulla
manualistica psichiatrica, vive sottaciuta una lettura che va oltre semplici parole accostate tra loro.
Prendiamo “disturbare”, composto dalle particelle “dis” e “turbare”, dove la prima amplifica
esponenzialmente la forza a dismisura, senza un limite che la contenga, e a questa forza
potenzialmente immensa possiamo aggiungere turbare, ossia disordinare, scompigliare, confondere,
molestare pretendendo o provocando.
Prendiamo ora da “attacco”, il verbo, esecutivo dell’azione, attaccare viene dalla radice
celto-germanica “tac”, che ha il senso di agganciare, fermare, aderire, afferrare, prendere, chiodo,.
Ha la stessa radice nel latino tang-ere, toccare, ha a che fare con il tatto, appiccare, affliggere,
investire, andare addosso – ma da una lettura psicologica attaccare, ha a che fare anche con
“attaccamento”, pensiamo alle fasi di attaccamento proposte da John Bowlbyii e del successivo
sviluppo con la “strange situation” elaborata dalla sua collaboratrice Mary Ainsworthiii e della
definizione dei quattro stili di attaccamento: sicuro, insicuro-evitante, insicuro-ambivalente,
disorganizzato.
Sembra che la parola disorganizzato (specifica di uno stile d’attaccamento), abbia a che vedere con
disturbo, con la confusione di essere attaccato, preso, bloccato e perché no nel panico, ossia come
precedentemente osservato circondato e stretto in una matassa dove non vi è possibilità d’agire, di
pensare, una tela di ragno che stringe e immobilizza.
Il disturbo da attacchi di panico, non è un’immagine a sé, una rappresentazione di un momento, ma
è un vissuto, si potrebbe metaforizzare pensando al disturbo dell’attacco di panico come una
locandina di un film, ma la locandina non è il film, è l’immagine che impone attenzione, ma non è
la complessità delle cause che lo producono, ed in sé, contemporaneamente, lo specifico attacco di
panico di quella specifica persona, ma contemporaneamente ci dice qualcosa della sua storia, e della
sua esistenza. L’attacco di panico ha a che fare con un vissuto, con una storia, con una narrazione e
logicamente con relazioni nei contesti d’esistenza e di convivenza.
L’attacco di panico dura soltanto pochi minuti, ma in quel poco tempo provoca una enorme
angoscia, con sintomi fisiologici come vertigini, tremore, tachicardia, sudorazione, talmente
pregnanti da dare la sensazione di stare per morire. Il panico può provocare un senso di
soffocamento e di paura degli spazi aperti, di perdita di controllo e il bisogno immediato di fuggirne
a tal punto da creare situazioni sociali di invivibilità estremamente imbarazzanti. Spesso gli attacchi
di panico avviano una ciclicità da porre in uno stato di perenne sensazione d’ansia, l’arrivo di una
catastrofe che distruggerà. Vivere in questa condizione angosciante provoca una deformazione delle
relazioni e della convivenza sia nel contesto familiare che in quello sociale, dove la persona
direttamente interessata si sente incompresa e spesso vive forti sensi di colpa per il ruolo che non
riesce a svolgere, amplificando così lo stato di frustrazione.
Inoltre il disturbo da attacchi di panico ha un forte contenuto psichico della propria storia
relazionale ed evolutiva, esprime un vissuto di impotenza, e lo si può considerare come la
rappresentazione fisica sostitutiva della capacità di cogliere le emozioni, le relazioni e logicamente
impedisce la capacità di costruire un pensiero sulle emozioni travolgenti vissute.
L’attacco di panico è invasivo, quasi tutto agito sulla dimensione fisico-biologica impedisce
soprattutto nella sua parte up la presa di consapevolezza di quello che al livello psico-relazionalestorico dell’interessato sta avvenendo.
La drammaticità dell’attacco di panico, trova spesso attivazione in particolare condizioni stressanti
quali:
-
Aspettative elevate richieste dal contesto produttivo dove si svolge la propria professione,
lavoro, funzione;
-
I rilevanti cambiamenti d’equilibrio imposti durante il ciclo di vita delle persone
(separazioni, passaggi di stato evolutivo come l’adolescenza, il passaggio a livelli scolastici
superiori, nascite, ecc);
-
lutti di figure affettive importanti.
L’attacco di panico non va letto solamente e unicamente come “malattia”, come descrizione da
manuale psichiatrico; l’attacco di panico, o meglio è la condizione d’esistenza di questa modalità
d’essere nei contesti di vita, come dicevo, è essenzialmente un vissuto, fa parte della costruzione di
sé, delle proprie modalità di essere in relazione con gli altri e dalle personali e altrui aspettative.
Spesso l’esplosione di quello che viene definito “attacco di panico” ha a che vedere con le difficoltà
relazionali nella personale storia in famiglia, durante l’infanzia, dove la rabbia e l’aggressività
hanno avuto scarse modalità d’espressione e d’elaborazione
Per la prospettiva gruppoanalitica, fondamentale è il rapporto di costruzione di relazioni, i bambini
non nascono isolati, esenti da un contesto familiare, le modalità relazionali che acquisiscono
affettivamente organizzano reti relazionali e reti neuronali, ed inoltre è da tener presente ciò che è
stato ereditato dalle generazioni precedenti, elementi anch’essi determinanti per la costruzione
temperamentale del carattere. Prendiamo ad esempio lo stile di attaccamento disorganizzato, dove
di fronte a situazioni di stress d’allontanamento dei genitori vengono provati elevati gradi di
spavento per tutto ciò che è estraneo, questa tensione emozionale, non solo impedisce la capacità di
stare da soli con se stessi, ma produce una forte sensazione di rabbia, talmente insopportabile che
spesso viene scaricata sui genitori, e così amplificando il disagio non pensato, si costituisce un
circolo perverso che minaccia il legame con il genitore, incrementandone la dipendenza;
l’evoluzione di questa modalità relazionale, è molto probabile che porti ad una generalizzazione
nelle relazioni con gli altri dl tipo ipercontrollante.
Nella relazione psicoterapeutica la persona con attacchi di panico può costruire un pensiero su
quello che le sta avvenendo, ha la possibilità di rileggere la propria storia, passando da
un’espressione agita fisico-biologica somatizzata ed espressa con sintomi fisici, ad una
consapevolezza delle proprie emozioni, delle sensazioni che vive, dandone parola e logicamente
pensiero su ciò che avviene.
Spesso il lavoro sul sintomo, si trasforma su un lavoro e sviluppo esistenziale su se stessi sulla
capacità di decidere e di scegliere che cosa fare della propria vita, mettendosi nella condizione di
sviluppo nelle relazioni con se stessi, con gli altri e nei contesti d’esistenza.
Una trasformazione che va dalla condizione dell’essere passivo della propria storia, al divenire
protagonista e costruttore di nuove storie con gli altri.
i
War Horse, regia di Steven Spielberg USA 2011.
ii
Secondo Bowlby, l'attaccamento si svolge in 5 fasi:
0-3 mesi, pre-attaccamento: il bambino riconosce la figura umana, ma ancora non definisce bene la specifica persona
che gli si presenta nel campo visivo;
3-6 mesi, attaccamento in formazione: il bambino inizia a discriminare le figure e riconosce e costruisce relazioni con
una particolare persona che si prende cura di lui, da qui, nella maggior parte dei bambini inizia la paura dell’estraneo;
7-8 mesi, angoscia: il bambino scopre la paura di essere abbandonato, cioè che la figura principale che si prende cura
di lui non ritorni;
8-24 mesi, e il periodo di costruzione del vero legame d’attaccamento;
dai 3 anni in poi, aumenta la consapevolezza dei propri sentimenti, e delle proprie emozioni nei confronti delle
persone che si prendono cura, il legame d’attaccamento acquista maggiore specificità.
In base alle risposte che i genitori daranno al bambino, si produrranno in seguito diverse tipologie attaccamento, la loro
specificità e qualità sarà strettamente correlata al tipo di relazione che si andrà costruendo con i genitori.
iii
Mary Ainsworth, una collaboratrice di Bowlby, elaborò una situazione sperimentale per determinare il tipo di
attaccamento tra madre e figlio. La situazione, denominata "strange situation".
Nella strange situation i principali stili di comportamento attivati sono:
il comportamento esploratorio;
il comportamento prudente o timoroso;
il comportamento di attaccamento;
il comportamento socievole;
il comportamento arrabbiato/resistente.
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