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Autore
Toti Scialoja
Titolo
Versi del senso perso
Edizione
Einaudi, Torino, 2009, ET Pop 1554 ,
pag. 286, cop.fle., dim. 13,5x20,8x1,8
cm , Isbn 978-88-06-19395-9
Prefazione Paolo Mauri
Lettore
Sara Allodi, 2009
Classe
poesia italiana , bambini , umorismo ,
giochi
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Indice
V Il piú crudele dei musi
di Paolo Mauri
Versi del senso perso
3 Amato topino caro
33 Una vespa! Che spavento
35 I. La zanzara senza zeta
65 II. Tigri pigre
91 La stanza la stizza l'astuzia
93 I. I corvi di Orvieto
113 II. Pane coltello e piatto
129 Ghiro ghiro tonto
149 La mela di Amleto
151
171
183
201
I.
II.
III.
IV.
Il gatto bigotto
La mela di Amleto
La farfalla di Follonica
Paesaggi senza peso
237 Tre lievi levrieri
257 Scialoja, la fortuna critica di un «ippogrifante»
di Orietta Bonifazi
275 Nota all'edizione del 1989
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Pagina V
Il piú crudele dei musi
di Paolo Mauri
Come avvenne che Toti Scialoja, stimato pittore e maestro
di pittura, divenisse anche poeta? Si è creata, intorno a
questo, una leggenda e dunque, come conviene alle
leggende, prendiamola per vera. Toti cammina per la
strada, gli occhi a terra. Nella testa sente un suono, lo
«zzzz» della (di una) zanzara. Improvvisamente «vede» la
parola (non la zanzara) e subito comincia a smontarla:
dentro la zanzara c'è Zara, ma anche l'incipit di Zanzibar.
E dentro a Zanzibar? Non c'è un bar bello e pronto? È
stato lo stesso Scialoja ad assicurarci che è andata proprio
cosí: ma si può essere testimoni per se stessi? Su questo
punto interverremo tra un po'.
Nell'anno 1971, quando Scialoja pubblica da Bompiani
Amato topino mio, sa già che le poesie incontreranno i
bambini (o viceversa) ma sa anche che il paratesto verrà
accuratamente vagliato dai critici.
La struttura di queste poesie nasce da un metodo
puramente linguistico automatico, al modo dello
scioglilingua, della filastrocca e del non-sense. Gioco
fonemico che i bambini intendono d'istinto, che eccita la
loro curiosità, li muove alla scoperta della parola nuova
come incantevole meccanismo sonoro. Infatti l'ostacolo
che rappresenta il vocabolo inatteso, nell'assonanza con
gli altri, contribuisce a creare «quei paesaggi di parole»
che liberano il bambino dalla soggezione al linguaggio e
dentro i quali essi entrano ed escono con felicità e
naturalezza.
Antonio Porta riprese la presentazione (da attribuirsi senza
dubbio all'autore) nella prefazione a La stanza la stizza
l'astuzia, la plaquette uscita presso la Cooperativa Scrittori
nel 1976. È, questa raccolta, il passaggio alla poesia per
adulti o alla poesia tout court. Si apre con una quartina
divenuta, almeno tra i cultori di Scialoja, celebre: «Il
sogno segreto | dei corvi di Orvieto | è mettere a morte | i
corvi di Orte». Nell'aprile del '76, a Orvieto, la
Cooperativa Scrittori, per iniziativa di Luigi Malerba e di
altri soci come Nanni Balestrini, Porta stesso etc.,
organizzò un convegno su Scrittura e Lettura. Le sedute si
tenevano al teatro Mancinelli non ancora restaurato. Una
mattina, Porta, aprendo i lavori, volle recitare la poesia dei
corvi che Toti gli aveva a sua volta detto in albergo la sera
prima. Strepitosa. Non so se fosse nata proprio allora o
prima, ma certo in quel momento aveva tutte le
caratteristiche per diventare una poesia-manifesto.
Proviamo a 'smontarla'. La parola «Orvieto», se la si
guarda da vicino, contiene già la parola «Orte», cui manca
poi solo la «m» iniziale per diventare «morte». Quanto al
corvo, anch'esso sta (a parte la «c» iniziale) in Orvieto. E
che il corvo incroci Orvieto è chiaro da quest'altro distico
«Ho visto un corvo sorvolare Orvieto. | Volava assorto, né
triste né lieto». Nelle due volte in cui Scialoja gioca con
Orvieto, illustrando egli stesso le rime, usa proprio la
parola «Orvieto» e non un profilo della cittàdina o del
celebre duomo. È dunque la parola in sé ad attrarre la sua
attenzione, come sempre del resto nei suoi versi geografici
e non. Anche se la poesia sul sogno segreto nasce
dall'automatismo dei giochi sillabici, essa produce altri
sensi. Geograficamente Orte e Orvieto sono molto vicine e
ambedue arroccate su una rupe. La guerra dei corvi è una
metafora? La quartina potrebbe anche insinuare che il
sogno segreto di un vicino è quello di farti scomparire, di
«mettere a morte». Ma «mettere a morte» non vale
semplicemente «uccidere». L'atto si fa cerimonia
pubblica, processo, istituto. Torniamo ai suoni. «I corvi di
Orv...» agglutinano la materia, mentre l'allitterazione in
«s» del verso iniziale sembra quasi zufolare il
pettegolezzo: in fondo si tratta di svelare un segreto, di
rendere chi ascolta partecipe di un 'piano'. Alla fine, non
c'è dubbio: la confidenza è certamente amicale, ma
presuppone persino una consorteria: che i corvi di Orvieto
fossero gli scrittori della neoavanguardia mentre quelli di
Orte, genericamente, i tradizionalisti? Illazione, è chiaro:
ma la messa in situazione, in quella situazione ormai
storica, la consentirebbe persino. Di più: alla fine si
avverte come un retrogusto di malinconia. Scialoja perde
il senso, lo riconquista in modo insperato creando
suggestioni assolutamente inedite e un poco si rattrista. La
macchina della messa a morte (la ghigliottina?),
manovrata da mano invisibile, riguarda tutti. E poi, i corvi,
seguitando la catena degli accostamenti inconsci, sono
neri e dunque funebri. Sono funebri e lo sanno, dunque
siamo di nuovo alla morte che sprigiona dalle loro penne.
Vale la pena di rammentare anche «Ricordo i corvi a
Nervi | torvi per la corvè...» (Un'ascissa letteraria qui ci
porterebbe al corvo di Poe, ben noto a Scialoja).
Ben diverso è il caso del merlo. «L'uccello nero | salta
leggero, | si chiama merlo | senza saperlo». Qui il nero, per
completare il breve discorso analogico, non è funereo: il
merlo, infatti, «salta leggero», leggero e inconsapevole.
Non conosce neppure il suo nome. E dunque salta leggero
sui destini di chiunque.
Un bestiario.
Quando si parla dell'originalità di Scialoja si allude
soprattutto alla freschezza assolutamente originale con cui
crea i suoi versi. Il suo ritmo è inimitabile, la grazia con
cui si fa poeta assoluta. Lo sanno gli amici che qualche
volta tentavano di mettersi in gara con lui: questa poesia
all'apparenza facile è in realtà, come abbiamo visto con i
«corvi di Orvieto», estremamente complessa: quella che
Toti ottiene è dunque una semplicità complessa, tipica
appunto della autentica poesia. Dove invece Scialoja
incrocia un'antica tradizione è nella scelta del mondo
animale: quello che nelle favole da sempre confina e si
intreccia con il mondo dell'infanzia. Fin dalla prima
raccolta Amato topino mio, il tradizionale topo salta fuori
dai versi, ma naturalmente non è solo. «Topo, topo, | senza
scopo, | dopo te cosa vien dopo?» Tra topo e dopo c'è solo
uno scambio di consonante. Parturient montes, nascetur
ridiculus mus, diceva il poeta latino. Mus: un monosillabo
molto attraente (per il significante, ovviamente), ma non
facile da maneggiare nella metrica classica. In italiano il
bisillabo consente numerose variazioni. Sono molti i topi
presenti nello zoo di Scialoja: c'è addirittura, tra il lusco e
il brusco un minuscolo topino etrusco. Ma ecco una poesia
(dove il topo degrada in sorcio) che mette a nudo certi
procedimenti creativi: «Era gruvi, gruvi era | il tuo cacio
con i fori | era brughi, brughi era | il tuo bosco con i fiori, |
era frutti, frutti era | la speranza del tuo viaggio, | era
preghi, preghi era | quel che avevi nello sguardo, | fu piú
rapida di un sorso | la tua anima di sorcio». La parola
spezzata consente di raddoppiare il senso e per analogia di
frattura l'operazione ribatte su altre parole creandone cosí
di nuove molto provvisorie: come «gruvi» o «brughi», che
durano un secondo e subito si riaccasano per ritrovare o
rinnovare il senso perso.
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Pagina XII
Geografia.
Oltre a creare, come si è visto, un bestiario, Scialoja gioca,
impareggiabile solfeggiatore di sillabe, con i nomi di
luogo. Abbiamo già detto che a lui interessa il suono della
parola, dal quale, come nel caso di Orvieto, ricava altri
sensi. Chi avesse la curiosità di sapere dove si trovavano i
tre levrieri, già segnalati a proposito dei molti cani cantati
da Toti, sappia che si trovavano a Treviri: «Ieri vidi tre
levrieri | lungo i viali di Treviri». Si potrebbe addirittura
stabilire la regola che i nomi di località geografiche
comportano un secondo termine che entra con i nomi di
animali in diretta collusione fonica: le ostriche stanno ad
Ostenda, la pioggia a Fiuggi, il nibbio a Gubbio, Ninive
evoca le nuvole, Acapulco il palco nella sublime,
perentoria, dichiarazione: «Nel teatro di Acapulco | ogni
pulce occupa un palco», a Taranto arde un cielo amaranto,
e nell'ultimo verso l'anima viene definita «moribonda
tarantola». (Arbasino aveva dichiarato a sua volta
«Ossigenarsi a Taranto | è stato il primo errore»).
Molto emblematica «Sono in Asia ed Asia sia | vedo un
sosia che mi spia | l'ansia è falsa compagnia | stapperò la
malvasia. || S'apre l'Arca ed Arca sia | sbarca all'alba
qualche arpia | suona l'arpa per la via | rischierò la
nostalgia». L'Asia è l'immediata intuizione geografica che
sta dietro all'Ansia: la proietta in un paesaggio «senza
peso» per dirla con lo stesso Scialoja: un paesaggio
dell'anima, però, dove lo scambio Asia-Ansia si conclude
con la nostalgia evocata dall'arpa partorita
semanticamente dall'Arpia.
Il linguaggio.
Ci siamo permessi di rimandare a poeti dell'Ottocento, o
del primo Novecento, e alla lingua bambina di certe
poesiole infantili perché, spesso, anche la lingua di
Scialoja è fondata sull'ortodossia, la linearità narrativa, poi
scardinata, fatta esplodere dal nonsense. Si prenda questa
strofa: «Nei vapori del parco di Pavia | i pallidi pavoni si
allontanano | a passo di pavana e vanno via». Qui quasi lo
scarto del nonsense non si sente e il narrato ha un sapore
antico. «La marmotta e il vecchio ghiro | passeggiavano a
braccetto, | terminato un breve giro | con un rapido sospiro
| si rimisero nel letto». «Oh formica! | Quanto è antica | e
nemica | la fatica | nell'ortica. | Ma tu vuoi che non si
dica». Certo quando la mano di Scialoja accelera ecco che
subito il ritmo scarta e il lettore capisce d'essere in
trappola: «Cerco l'ago nel pagliaio | cerco l'ego nel
migliaio | cerco l'ergo nel bisbiglio | cerco l'agro
nell'intruglio | cerco il largo nel risveglio | cerco il drago
nel vermiglio». Però, va pur detto, la repetitio fa parte di
antiche ricette: non ci sarà anche Petrolini nei ricordi di
Scialoja? L'anafora rinforza il senso dell'indagine: «Che
fai malato Amleto con una mela in mano | che fai mela di
Amleto nella mano malata...», ma anche qui
l'interrogazione è diretta, la costruzione perfettamente
lineare, forse - lo si è già notato per un'altra poesia - nel
ricordo classico di «che fai tu luna in ciel» etc. Ma certo
per stabilire, con un poco di coerenza, il reale reticolo di
rimandi entro cui si inserisce la poesia di Scialoja occorre
un riesame non semplice. Manganelli, nella celebre
bandella di copertina della raccolta Versi del senso perso,
tirava in ballo anche un Foscolo ubriaco e ancora un
Petrarca che «abbia letto Stevenson», scivolando nelle
ucronie. Frabotta ricorda la passione di Scialoja per
Ungaretti, e penso, tra le tante suggestioni possibili, che
anche Penna, quel Penna che bussava alla sua porta per
lucrare un quadretto da vendere all'istante, abbia giocato la
sua parte e chissà, forse anche il vecchio Palazzeschi di
Rio Bo e dintorni.
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Pagina 6
L'uccello nero
salta leggero,
si chiama merlo
senza saperlo.
Pipistrello, ti par
bello
far pipi dentro
l'ombrello?
L'ippopota disse: «Mo
nella mota ho il mio popò!»
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Pagina 18
Uno due tre quattro
passa un gatto quatto quatto.
Quattro tre due uno
era un gatto di nessuno.
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Pagina 30
Chiede il bombo: «Perché ronzo?
Perché vado sempre a zonzo
come un gonzo, senza meta?
Perché peso come il piombo
sopra il fiore che si piega?»
A mezzanotte
la luna spicca
gobba a levante,
e il grillo inghiotte
la sua pasticca
di tranquillante.
Fuori Farfa le farfalle
vanno in folla a far follie:
le pulcelle sono gialle
quelle azzurre son le zie.
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Pagina 38
La zanzara dello Zambia
quando zompa su una zampa
da Kasempa alla Tanzania
mica danza, mica smania,
mica semina zizzania,
sente solo che uno zampi
rone brucia nella stanza.
La zanzara, per
decenza,
ha una tunica di
organza,
quando è sbronza vola
senza
a zig zag per la
Brianza.
Una volta spesi un gruzzolo
per andare a Veracruz
a veder sette zanzare
un po' vizze nella teca
ma di pura razza azteca.
Quando la talpa vuol
ballare il tango
il salone si svuota, ed
io rimango.
C'è una carpa
che ama l'arpa
ma la suona
con la suola
della scarpa.
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Pagina 40
L'albatro a cui tendevi
un piccolo caimano
volò cosí lontano
che non si vede piú.
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Pagina 41
Due oche di Ostenda
in guanti e mutande
pedalano in tandem
all'ombra dei dolmen
e in meno di un amen
imboccano un tunnel.
C'era una volta un topo
di professione proto,
prese una topica per un tropo
ma ormai ci vedeva poco.
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Pagina 50
Quando il tetro dromedario
giunse dietro al tetraedro
alzò gli occhi e disse: «Diamine!
Son davanti a una piramide!»
Un pollo su un pullman
in viaggio per Baden
avvolto in un loden
si sente nell'Eden;
sua moglie, col rimmel,
gli fuma le Camel.
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Pagina 59
C'è un micio
d'agosto
che dorme
di gusto
su un cencio
all'ombra
di un busto
del Pincio.
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Pagina 61
Dentro l'antro
sento un ranto
lo nell'ombra,
è la lontra
che si roto
la al mio fianco
e mi mormo
ra: «Dottore!
Bell'incontro!»
Un camello, lungo il Corso,
camminava lemme lemme
e pensava: «Avrà rimorso
chi mi scrive con due emme?»
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Pagina 69
Quando un orso passeggia lungo il Corso
la gente corre al bar per bere un sorso.
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Pagina 119
Il
il
il
il
il
il
mattino ha l'oro in bocca
gobbino ha l'ovo in groppa
mastino ha l'osso in bocca
triestino ha il porto in secca
santino ha l'ostia in bocca
bambino ha il lecca lecca.
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Pagina 123
Un
un
un
un
un
un
un
cane bastardo che abbaia alla luna
nano balordo che scaglia la piuma
capo codardo che piega la schiena
sarto vegliardo che infila la cruna
santo testardo che imbocca la iena
calvo bugiardo che annoia la bruna
cardo beffardo che impiglia la lana.
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Pagina 218
Sere, ma quali sere,
quali deserte attese,
quali rose severe
in azzurro paese.
Chi detesta l'estate
sente pungere l'erbe
e confonde le date
in fondo al verde debole.
Mi farò per l'autunno
una cuccia di cane
fino alla fin dell'anno
sotto le tue sottane.
Ci sorbiremo un uovo
il primo di gennaio
poi tornerò di nuovo
dove fa caldo e buio.
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Pagina 231
D'inverno venne a Vienna
e senza alcun perché
rovesciò gli occhi e svenne
s'una tazza di tè.
Noi le facemmo vento
con ventagli di penne:
rinvenire è uno stento
quando si sviene a Vienna.
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Pagina 257
Scialoja, la fortuna critica di un «ippogrifante»
di Orietta Bonifazi
Rue de la Tombe Issoire, 1961. Chissà se sia nato prima il
topo (senza scopo) o la zanzara (di Zanzibàr) o il gatto
(quatto quatto). È comunque iniziato tutto da lí, per caso e
per gioco. O forse lí, quell'anno a Parigi, qualcosa si è
compiuto: la risposta, non casuale, a un richiamo creativo
sonnecchiante per anni, che avrebbe avviato Toti Scialoja
per un'avventura poetica unica e rivoluzionaria nella storia
della letteratura del Novecento italiano, rendendolo poeta
a sessant'anni e suo malgrado, quando già era un maestro
dell'arte astratta, celebre sulle due sponde dell'Atlantico.
Una storia che sorprende, per come si è svolta (con la
naturalezza d'una quasi predestinazione e una
costellazione di leggende), e per la bizzarra accoglienza
che ai suoi delicatissimi congegni di illusionismo verbale
ha riservato la critica, subito divisa nelle due schiere dei
«sospettosi» e degli entusiasti. Se la divulgazione ne
risultò penalizzata, lo si deve ai primi, mossi entro la
domanda (retorica) se quel pittore, divenuto giocoliere di
puri suoni, fosse un poeta «serio» o soltanto giocoso,
appunto, se fosse anche per adulti o solo per bambini e,
anzi, se fosse davvero un poeta, con tutti i crismi.
Pregiudizi, che bene ha chiarito Giovanni Raboni nella
Prefazione al volume in cui ha raccolto le poesie della
cosiddetta linea «seria», verso la quale esortava l'autore: il
pregiudizio che i suoi versi, tutti e non solo quelli
dichiaratamente per l'infanzia, appartenessero alla
«ghettizzante categoria della produzione "scherzosa" o
"giocosa". Categoria che la seriosità accademica [...] tende
a considerare quasi fatalmente "minore" »; e il sospetto
d'una sua «violinità d'Ingres», avendo Toti esordito
editorialmente quando era «uno dei piú importanti pittori
della sua generazione». Il timore insomma d'una poesia
scritta solo per divertimento, tenace anche dopo la
«svolta» provocata da quella sensuale musa ironico-lirica
che, dagli anni Ottanta, ispirò a Scialoja versi piú intimisti
e tragici.
A togliere l'ombra lunga dell'arte minore dagli
«incantesimi sonori» di Scialoja si fece largo l'altra
«cerchia», di illuminati (fra cui Calvino, Porta, Raboni e
Manganelli), dapprima ristretta e poi via via piú folta fino
a formare un gruppo di epigoni, o nel caso migliore di
«compagni di strada - osservava Barilli - costituito da tanti
giovani poeti che insistono, chi piú chi meno, in un simile
"viaggio al termine della parola"».
Sembra aver trovato cosí un lieto fine l'avventura di
Scialoja poeta, misconosciuto in gioventú, quand'era
appassionato e adolescente lettore di Ungaretti, e
riconosciuto in tarda età, anche con alcuni premi letterari.
Piú che a una fine, tuttavia, viene quasi da pensare al
ritorno di un inizio, un tratto inciso nel Dna di Scialoja,
pittore che sulla tela stesa a terra era volto a far durare,
ripetere, rinnovare l'attimo originario del gesto, e poeta
che continua a conquistarsi caparbio lo spazio e il ruolo
che merita nella poesia contemporanea, entrando nelle
antologie, nei manuali (come gli augurava Raboni), nello
stratificarsi e complicarsi delle letture e delle riletture. E
ora questi Versi del senso perso riattualizzano la godibilità
delle sue felici orchestrazioni sonore, e tornano finalmente
a liberare dalla soggezione al linguaggio bambini e adulti.
Un artista «fuori strada».
C'è un altro tratto «genetico» di Scialoja che ha giocato la
sua parte nel rapporto con la critica. Oltre i pregiudizi. E'
la sua estraneità, anzi la sua insofferenza alle mode.
Essere sempre fuori dai cori significava per Toti essere
libero di esprimere tutto se stesso, la sua intera umanità.
Una finalità profondamente etica dell'arte, di cui ha difeso
l'autonomia con fierezza anceschiana, che ha procurato al
pittore grandi soddisfazioni a fronte di amare battaglie e
solitudini. Anche il suo mito americano degli anni
Cinquanta era un mito di libertà, crollato già nel 1960,
durante il secondo viaggio a New York, quando si avvide
che tutto, persino l' action painting, era diventato una
moda. «Sono sempre stato in fondo fuori tempo - disse in
un'intervista - perché quando tutti diventavano astratti, io
ero ancora figurativo, quando poi divenni astratto io, le
cose erano già cambiate». E infatti stava tornando il
figurativo, con la pop art, la sua «bestia nera». Dunque,
come il pittore inseguiva un «suo» sogno di pittura
ispirato all'espressionismo europeo di Van Gogh, Ensor e
Soutine, ma poi rielaborava ogni fermento come specchio
di se stesso, anche quel poeta di squisita leggerezza che è
stato attingeva da un orizzonte europeo e da modelli che
negli anni Sessanta non facevano granché furore in Italia:
si pensi all'uso della metrica, e per giunta della rima, e alla
stessa poesia per l'infanzia. Scialoja ripescava gli echi di
antiche letture di bambino, fra cui Il ciuco di Melasecche
del Fucini, gli ottonari del «Corriere dei Piccoli» con le
rime di Fortunello e le immagini di Capitan Cocoricò, i
«versetti astratti, assurdi, gelidi e allegri», come li definí,
delle poesie inglesi: Lewis Carroll e Edward Lear letti sull'
Enciclopedia dei Ragazzi. Eppure i suoi nonsense sono
diversi da quelli di Lear: la loro anima non è la
demenzialità tipica dello humour inglese che svapora nella
freddura del nonsenso. Nei piú mediterranei versetti
scialojani la perdita di senso, o del «peso specifico» delle
parole, dura quanto lo choc provocato da un raptus di
sillabe impazzite. Poi, dal vuoto si ricompone
d'improvviso un senso ritrovato, anzi moltiplicato, che
sboccia dallo stupore silenzioso e fa scattare il riso,
liberatorio. <>
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