La giustizia tra l`ebraismo e il giudaismo

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La giustizia tra l`ebraismo e il giudaismo
VASTI
CHE COS’È UMANO?
Scuola di ricerca e critica delle antropologie
La giustizia tra l’ebraismo e il giudaismo
Seminario del prof. Paolo Sacchi
19 novembre 2005
ULTIME NOTIZIE
Il ripudio della Costituzione
Raniero La Valle - Prima di introdurre il tema della giornata che è la giustizia tra
l’ebraismo e il giudaismo, vale a dire nel passaggio che va grosso modo dal ritorno a Gerusalemme
della comunità esule a Babilonia, quindi dal V° secolo a.C., fino all’età di Gesù, parliamo delle
ultime notizie e in particolare del fatto che mercoledì scorso 16 novembre in Senato è stata
approvata la nuova Costituzione. È un po’ la nemesi di questa repubblica, di avere dei mercoledì
neri: nella precedente lettura la costituzione di Lorenzago fu approvata dal Senato addirittura il
mercoledì santo; ora di nuovo di mercoledì è avvenuta l’approvazione definitiva. Con questo atto il
Parlamento ha praticamente dichiarato decaduta la Costituzione del ’48; dal punto di vista formale
questo licenziamento riguarda solo la seconda parte della Costituzione, ma di fatto la liquidazione
investe anche la prima parte, per le ragioni che sono state più volte discusse e chiarite anche in
questo luogo. Di fatto al posto della Costituzione del ‘48 il Parlamento ha varato la Costituzione di
Calderoli, di Fini, di Berlusconi, di Casini, di Follini; questi ultimi anche se all’ultimo momento si
sono dichiarati contrari, di fatto hanno portato questo testo fino all’approvazione e al varo da parte
del Parlamento.
Quindi questa è stata una giornata di lutto, perché per la prima volta virtualmente la nostra
Repubblica si trova senza Costituzione. Almeno per quanto riguarda il Parlamento non c’è più
infatti la Costituzione del 48, ed essa è sostituita da una costituzione che costituzione non è: infatti
noi dobbiamo tenere molto fermo il principio che non ogni costituzione è una Costituzione; non
basta che una costituzione si presenti con le caratteristiche di legge fondamentale, di legge
sopraordinata alle altre leggi, perché si possa dire che è una Costituzione; perché una Costituzione
possa essere una Costituzione bisogna che sia informata ai principi del costituzionalismo; non esiste
Costituzione senza costituzionalismo; lo Statuto Albertino era uno statuto ma non era una
Costituzione; e i principi del costituzionalismo sappiamo quali sono, ne abbiamo tante volte
discusso soprattutto grazie agli apporti che ha dato alla nostra ricerca il prof. Ferrajoli.
Pertanto noi siamo sostanzialmente in una fa se di transizione e in una crisi globale della
Repubblica. Di fatto le è stata negata, da parte della sua rappresentanza che è il parlamento, una
Costituzione, mentre la nuova costituzione ancora non è entrata in vigore perché tra approvazione e
promulgazione c’è di mezzo per fortuna il grande evento della consultazione popolare, il
referendum, che sarà chiamato a confermarla o a rigettarla. Il referendum si celebrerà l’anno
prossimo quasi certamente dopo le elezioni politiche.
Allora io vorrei esprimere due preoccupazioni in ordine alle prossime vicende politiche
italiane. La prima riguarda il referendum. C’è un generale e credo abbastanza disinvolto ottimismo
sul fatto che questo referendum sarà vinto dal NO, perché tutto il centro sinistra si è dichiarato
contrario alla nuova costituzione e perché perfino nell’ambito della destra ci sono delle forze che si
sganciano, e già sappiamo che l’UDC non prenderà posizione, lascerà la cosiddetta libertà di
coscienza per cui ci potrebbero essere tanti voti per il NO anche nell’ambito dello schieramento
della destra che ha varato la riforma. Tuttavia io penso che noi non ci dobbiamo abbandonare a
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questi ottimismi e che sarebbe pericoloso pensare che il referendum sia già vinto. Il referendum è
un istituto prezioso, ma è un istituto anche assai difficilmente maneggiabile, perché dipende molto
anzitutto da chi ha in mano le leve dell’informazione, dipende dalla capacità che si ha di produrre
slogan, motivazioni, e anche di deviare l’attenzione dall’oggetto principale ve rso oggetti secondari.
Abbiamo l’esperienza del Brasile, dove c’è stato il mese scorso un referendum popolare consultivo
sulle armi, sostenuto dal Presidente della Repubblica Lula, in cui si chiedeva ai brasiliani se
volevano mettere fuori legge la vendita e il commercio delle armi. In Brasile il problema della
circolazione delle armi è drammatico; in quel Paese, come del resto negli Stati Uniti, le armi si
possono vendere anche nelle tabaccherie, c’è l’idea che la mascolinità comporta il diritto ad avere
armi, e ci sono 45.000 morti all’anno per armi da fuoco. Insomma c’erano tutti i motivi per vincere
il referendum, sostenuto del resto da una grande campagna di tutti i movimenti popolari, pacifisti, a
favore dell’interdizione del commercio delle armi; ebbene, il referendum che sembrava vinto invece
inopinatamente si è perso; hanno prevalso i fabbricanti e i commercianti di armi che hanno
manipolato la campagna referendaria in modo tale che i brasiliani hanno creduto di dover votare per
altre cose, come a favore o contro la libertà individuale, come pro o contro il governo che aveva
indetto il referendum, o su altri temi che non avevano nulla a che fare con la materia del contendere,
per cui alla fine si è stati sconfitti. Questo per dire che non possiamo ritenere di avere in tasca il
risultato.
E allora la preoccupazione qual è? È che in realtà l’opposizione alla costituzione di
Lorenzago da parte del centro sinistra sia una opposizione debole. C’è un indizio gravissimo,
costituito dal fatto che in tutto l’ iter della riforma costituzionale l’informazione di tutti i giornali,
compresi quelli democratici, e tutti i discorsi delle forze politiche e degli opinionisti si sono
concentrati sulla famosa devolution; cioè si è fatta passare nel Paese l’idea che quello che sta
accadendo non è il sovvertimento dell’intero ordine costituzionale, non è l’abolizione sostanziale
del Parlamento, del voto di fiducia, non è la liquidazione della libertà dei parlamentari, non è la
creazione di una specie di sovrano assoluto eletto dal popolo ogni cinque anni e così via, ma è
semplicemente una “devoluzione” alle regioni di tre poteri che attualmente sono detenuti dallo Stato
centrale; a questa mistificazione, a questa tattica dell’annebbiamento, dell’occultamento e della
dissimulazione ha partecipato largamente la sinistra e ancora oggi, anche dopo l’approvazione di
tutti e 57 gli articoli della nuova costituzione dove c’è di tutto e di più, nel dibattito politico si
continua a parlare solo della devolution. Mi pare che questo non possa essere un fatto casuale, non
può essere solamente il frutto di una disattenzione, di una inavvertenza. Ciò allude probabilmente
ad un'altra cosa e cioè che nella misura in cui in questa nuova costituzione, al di là del federalismo,
c’è la ricezione istituzionale, in forma gravissima, dell’ideologia della governabilità, che viene
privilegiata rispetto a tutti gli altri beni della vita democratica, anche se questa governabilità viene
tradotta in forme aberranti dal punto di vista dello Stato di diritto e della democrazia, tuttavia questa
dose massiccia di governabilità che c’è nella costituzione dei saggi di Lorenzago alla fine possa non
dispiacere alla sinistra. Essa infatti, in una sua larga parte, ha seguito la stessa ideologia, si è battuta
per lo stesso obiettivo del governo forte; lo ha fatto nella Bicamerale, ma lo fa continuamente anche
nelle dichiarazioni di questi giorni. La stessa critica alla nuova legge elettorale è stata una critica
riguardo al fatto che il premio di maggioranza era troppo basso, non era sufficiente a dare
abbastanza potere al governo. Dunque ci può essere questa debolezza nel contrasto alla nuova
costituzione, per una sorta di sottinteso che se fosse in buone mani, come sarebbero quelle di una
sinistra che vincesse le elezioni, questa costituzione in fondo sarebbe una cosa buona, positiva, o
perlomeno tollerabile. Quello che si è accettato, che è passato anche nella cultura del centro-sinistra,
è che esisterebbe una contrapposizione, una alternativa tra rappresentatività e governabilità: cioè si
può comprimere l’aspetto della rappresentanza popolare, del pluralismo dei partiti, quindi una
rappresentanza politica che sia lo specchio delle diversità che ci sono nel Paese, pur di avere un
governo che governi. Si è contrapposto il bene della rappresentatività a quello della governabilità.
L’altro giorno in una trasmissione di Omnibus (che sarebbe la trasmissione del mattino di La 7),
Gavino Angius capogruppo dei DS al Senato l’ha spiegato così: dopo la guerra, quando si stava
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uscendo dal fascismo era prevalente il problema della rappresentanza, della democrazia
rappresentativa, perché appunto si usciva da una fase in cui era uno solo a comandare, ma adesso
che è passato tanto tempo, i problemi sono diversi e ciò che prevale invece è il tema della
governabilità. In realtà non è vero che ci sia un contrasto tra rappresentanza e governabilità, perché
in una democrazia il governo o è rappresentativo o non è un governo democratico. Chi ha detto che
una effettiva rappresentatività del Parlamento renderebbe impossibile o difficile il governo? Ci sono
molti modi per evitarlo. In ogni caso il timore è questo, che sulla base di questo sottinteso noi
possiamo avere una debolezza dei partiti dell’Unione nella campagna referendaria, ciò che
renderebbe molto precaria la prospettiva della vittoria nel referendum. E ancora c’è il rischio che
questo tema della costituzione non entri nella campagna elettorale politica, benché dobbiamo
riconoscere che Prodi lo abbia assunto come prioritario. Ora è chiaro che la Costituzione diventa a
questo punto la vera posta in gioco; infatti io penso che se le future elezioni politiche dovessero
essere vinte dalla destra, la catastrofe sarebbe inarginabile e anche la Costituzione sarebbe travolta;
se invece le prossime elezioni politiche saranno vinte dal centro-sinistra, allora la Costituzione si
può salvare; però appunto il timore è che non ci sia sufficiente coscienza di questa partita, di questa
posta in gioco, nelle forze del centro-sinistra.
Dove stanno i cristiani non democristiani
La seconda preoccupazione è la seguente. Mi sembra che sia in atto uno slittamento della
cultura politica di questo Paese, in gran parte dovuto alla forzatura della divisione del Paese in due
campi contrapposti, a causa della mitolo gia imperante del bipolarismo e del maggioritario. Anche a
causa di questo, sta avvenendo una polarizzazione per cui si tende sempre più a ritenere che da una
parte c’è il mondo democratico, il mondo laico, il mondo della sinistra e da un’altra parte c’è la
Chiesa, il mondo delle fedi, il mondo delle religioni; sempre di più, quando si fanno i dibattiti ormai
all’ordine del giorno sulla laicità, si assiste a questa specie di contrapposizione: da una parte ci
sarebbero quelli che sono laici e che quindi difendono lo Stato laico, difendono la aconfessionalità,
e da un'altra parte c’è necessariamente la Chiesa e perciò i cattolici; proprio ieri c’era una polemica
di Sansonetti con Bertinotti in cui il direttore di Liberazione sosteneva la tesi che esisterebbe una
competizione, una gara, tra sinistra e Chiesa e che in questa gara la sinistra è più debole; essa infatti
non avrebbe contenuti forti, contenuti alti, mentre invece la Chiesa, siccome si occupa di Dio e
dell’uomo, ha contenuti forti e quindi c’è il rischio che in questa gara a perdere sia la sinistra. Ora
questa rappresentazione di una necessaria conflittualità, di una necessaria alternativa tra il mondo
delle religioni e delle fedi, e il mondo della sinistra, che appunto è la conseguenza di questa
impostazione manichea che si è andata affermando nella vita politica del Paese, mi sembra
catastrofica; infatti in tal modo si viene a stabilire quasi in via di principio che i credenti non
possono stare nella sinistra, non possono stare nel mondo laico, non possono stare nell’ambito delle
forze del rinnovamento se non come transfughi o come esuli dal loro mondo. Ma questo contraddice
tutto lo sviluppo storico che noi abbiamo avuto ed è una cosa assai pericolosa perché questo
vorrebbe dire che di fatto i cattolici starebbero solo nello schieramento di destra, lì starebbe la
Chiesa, e alla fine gli uni sarebbero perdenti, gli altri vincenti. È molto allarmante vedere che di
fatto sempre più si va configurando una situazione in cui secondo il senso comune i cattolici e quasi
sempre i cattolici clericali insieme con gli altri devoti, dovrebbero far parte dello schieramento di
destra in cui quasi inevitabilmente sarebbe inghiottita la Chiesa, mentre nello schieramento di
sinistra verrebbero meno anche quelle compone nti cristiane che in esso sono state presenti in
passato in varie forme. Penso alla sinistra democristiana, penso alla Sinistra indipendente, penso ai
cattolici comunisti, penso a tante esperienze che ci sono state in Italia di “cristiani non
democristiani”, come allora li chiamava Ossicini, in ogni caso cristiani non clericali, cristiani non
subordinati alle ragioni temporalistiche della Chiesa che sono stati presenti nello schieramento della
sinistra o nello schieramento democratico. Mi sembra che queste presenze stiano diventando sempre
più evanescenti, invisibili, ed è grave che dentro questo schieramento non ci sia più l’apporto di
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questa cultura. Infatti non esiste più nessuna traccia di quella che era la sinistra democristiana (la
Margherita certamente con la leadership di Rutelli non può apparire come una continuazione di una
esperienza di cristianesimo democratico, di una politica critica ispirata ai valori cristiani); i
cristiano-sociali sono completamente scomparsi nell’ambito dei DS e non hanno una loro presenza
visibile, mentre nei partiti della sinistra più radicale come Rifondazione Comunista sta prendendo
piede questa specie di ideologia della laicità molto vicina al laicismo tradizionale; intanto arriva
dentro il centro sinistra la componente Bonino, Pannella, Capezzone, cioè la componente radicale
laica anticlericale. Dunque nel momento in cui dobbiamo affrontare una battaglia forse decisiva per
la Repubblica e per la democrazia, lo schieramento che dovrebbe essere garante di questa difesa
della democrazia, dei valori fondamentali, dei diritti etc, si trova indebolito e sguarnito di questa
componente che a mio giudizio non solo sarebbe feconda ma sarebbe indispensabile per il successo.
Queste sono le mie due preoccupazioni che volevo esprimere perché su queste ci sarà poi molto da
lavorare e da dibattere nei mesi futuri.
Adesso passiamo al tema del nostro seminario. Il prof. Sacchi è un’autorità
internazionalmente riconosciuta negli studi sul giudaismo, ed è stato fino al 1999 ordinario di
Filologia biblica all’Università di Torino. Io lo ringrazio per aver accettato il nostro invito che è
stato motivato soprattutto dagli ultimi due libri che egli ha scritto e che sono molto importanti per la
nostra ricerca: La storia del secondo tempio. Israele fra VI secolo a.C. e I° secolo d.C (SEI, Torino,
1994), nonché Gesù e la sua gente (San Paolo, 2003), libro quest’ultimo che è in qualche modo
analogo a quello di Giuseppe Barbaglio, “Gesù, un ebreo del suo tempo”.
Prof. Paolo Sacchi:
Quello di Barbaglio è un’opera scientificamente fondata, il mio libro su Gesù è un libro di
riflessioni; questo non vuol dire che io abbia scritto cose estemporanee, piuttosto sono il frutto della
ricerca di tutta la mia vita, in cui è implicata anche la mia fede persona le; queste riflessioni si
appoggiano certo su tutte le mie conoscenze ma sono su un piano diverso da quello che è lo
svolgersi di un discorso scientifico vero e proprio; in questo senso questo mio libro è nettamente
diverso da quella di Barbaglio.
Raniero La Valle:
Ciò che è importante è la rilettura della storia di Gesù nel quadro delle ideologie, delle
correnti, delle tendenze religiose della società da cui veniva.
Passando ora al nostro tema, avendo letto lo schema del suo intervento credo di poter dire
che quello che ci apprestiamo a sentire non è una descrizione di dottrine intorno alla giustizia, ma è
una storia, è la storia di come questa realtà di giustizia, questa ispirazione alla giustizia, è andata
prendendo forma nella esperienza storica dell’ebraismo prima e del giudaismo poi. Attraverso
questa storia si vede come non ci sia nulla di cui si possa dire che è il frutto di una compiutezza o di
rivelazione o di elaborazione dottrinale e dogmatica, ma si tratta sempre di un dialogo tra posizioni
diverse che via via si susseguono e anche si contraddicono o si superano l’una rispetto all’altra; e
questa mi sembra che sia, da un punto di vista metodologico, un indicazione preziosa perché ci
suggerisce ad esempio il modo in cui va letta la Bibbia: la Bibbia non si può leggere come se fosse
un libro scritto di getto, dove tutte le espressioni sono sullo stesso piano, tutte contemporanee, ma si
deve leggere come un “lavoro in progress”, spesso come un battibecco, come la traccia di una lunga
discussione, come una storia, e questa mi pare una cosa molto liberante e anche affascinante.
Paolo Sacchi
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Vi dovrei parlare della giustizia; non tanto della giustizia nella Bibbia perché come vedrete
tirerò fuori dei testi che non sono biblici, anche se sono sempre testi ebraici. Pertanto direi che
parlerò del senso e del concetto di giustizia all’interno del mondo ebraico.
La prima documentazione abbastanza sicura, per conto mio, di un problema della giustizia
nel mondo ebraico l’abbiamo con il profeta Amos circa alla fine dell’VIII secolo a.C.. Questo
significa che non considero il complesso della Legge come un testo a monte di tutto. Penso che il
complesso della Legge sia venuto dopo Amos, non prima, addirittura verso l’esilio e anche un po’
dopo, magari.
Ma prima ancora di vedere come Amos, affrontandolo per la prima volta, risolve il problema
della giustizia, bisogna chiarire un altro punto. Gli ebrei antichi, in quell’epoca dell’VIII a.C., che
schema mentale avevano, dove e come collocavano la giustizia nel cosmo? Noi abbiamo due
paradigmi, quello egiziano e quello mesopotamico, che sono molto diversi fra di loro; poi, leggendo
Amos si può capire da che parte doveva stare Amos, perché già per essersi posto il problema
bisogna che se lo sia posto sulla base di una certa precomprensione di che cosa è la giustizia .
Da un punto di vista egiziano la giustizia non è altro che la verità, è la struttura del cosmo.
La società umana non è un qualcosa che è stata creata dall’uomo, ma è un qualcosa che appartiene
al cosmo. Come c’è il sole, la luna, le stelle che girano in un certo modo, c’è una società umana che
gira con un faraone, con i suoi visir, con tutte le sue strutture; la struttura della società non è altro
che un’appendice della struttura del cosmo. Pertanto essere giusti vuol dire essere nell’ordine
cosmico, il malvagio è uno che è fuori dall’ordine cosmico; chi raggiunge la giustizia, cioè l’ordine
cosmico, sopravvive nell’aldilà perché ovviamente è già entrato nell’ordine assoluto, eterno. Qui
poi ci sarebbe tutto il problema del rapporto tra il divenire del mondo e l’eternità che circonda il
mondo, ma questo ora lo mettiamo da parte.
Da parte mesopotamica invece, la giustizia è una cosa un po’ diversa, la giustizia
essenzialmente (parlo per schemi ovviamente) è un eseguire la volontà della divinità. Pertanto si
ammette che il mondo non è un ordine ma è un ordine che si crea anno per anno, perché all’inizio di
ogni anno il concilio degli dei si riunisce e stabilisce il destino di quell’anno. Questa decisione è
sempre modificabile; se esisteva allora, come esisteva, una aruspicina, non aveva il valore che
poteva avere nel mondo greco e romano dove si trattava di indagare attraverso le viscere degli
animali il futuro; si trattava piuttosto attraverso le viscere degli animali - il procedimento più o
meno è lo stesso - di indagare per vedere qual era, in quel momento, la volontà degli dei, per poter
eventualmente agire sulla volontà degli dei, offrendo sacrifici, adeguandosi alla loro volontà. La
giustizia pertanto è un qualche cosa che si potrebbe definire (gli antichi non ci pensavano ma noi
siamo abituati a ragionare per concetti chiari) come un aderire alla volontà degli dei, inserirsi in
quel mondo lì.
Amos (VIII secolo): il male c’è perché Dio è arrabbiato
Ora guardiamo come ragiona Amos, inserendosi in questa problematica del mondo antico.
Prendo dal versetto due del primo capitolo: “Egli (Amos) disse: il Signore ruggisce da Sion, da
Gerusalemme fa udire la sua voce; sono desolate le steppe dei pastori, e inaridita la cima del
Carmelo”. Dunque il Signore (“il Signore” è il modo con cui la CEI traduce il nome ebraico di Dio)
sta ruggendo da Sion, cioè si fa vedere adirato, arrabbiato; e qual è il ruggito? Il ruggito sta nel fatto
che le steppe dei pastori sono desolate; traducendolo ancora meglio in termini nostri: dal momento
che si vede che c’è una carestia, dal momento che si vede che c’è una siccità, questo significa che la
divinità è arrabbiata. Allora a questo punto scatta un meccanismo che sembra tip icamente,
essenzialmente di tipo mesopotamico, per intenderci, per cui la gente si domanda: in che cosa
abbiamo sbagliato, tanto che il nostro Dio si è adirato? La risposta di Amos qui fonda veramente
l’ebraismo come è entrato nella storia e come in fondo è anche oggi (l’ebraismo, non l’ebraismocristianesimo). La risposta è: “Così dice il Signore: per tre misfatti di Damasco e per quattro non
revocherò il mio decreto” etc. etc.; e così si seguita per un paio di capitoli.
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Dunque la divinità è adirata perché ci sono dei misfatti. Tradotto ancora in termini più
moderni e più schematici: l’unico motivo per cui la divinità si arrabbia, non andate, uomini, a
cercarlo in un sacrificio fatto male, in un ritardo di una processione o in altre cose di questo genere;
l’unica cosa che può fare adirare la divinità è il fatto che ci sia la malvagità. La malvagità è l’unica
cosa per cui si adira la divinità. Questo significa vedere la giustizia come via al favore divino, cioè
alla salvezza, intendendo per salvezza - questa è una cosa fondamentale - la salute del singolo e del
popolo in quel momento. Non pensate che in quest’epoca ci sia un discorso riferito all’aldilà: noi
quando sentiamo il prete che parla di salvezza intendiamo istintivamente e ci riportiamo al paradiso.
Nella Bibbia prima di parlare del paradiso ce ne vuole di tempo: in quest’epoca essa non parla
assolutamente del paradiso, parla della salvezza come situazione di felicità su questa terra. Pertanto
la giustizia diventa la via per raggiungere la salvezza. In effetti il problema fondamentale - si vede
continuando a scorrere i profeti - non è che cosa sia la giustizia, ma quale giustizia porta alla
salvezza. Il punto d’arrivo, il punto luce che illumina tutto il quadro non è la giustizia, è la salvezza.
A quest’epoca (per conto mio ne sono sicuro e credo che siano pochi quelli che oggi la pensano
diversamente) non esiste ancora la legislazione così detta mosaica, la Torah, e quindi quando Amos
dice alla gente: siate buoni e non cattivi, intende dire quello che potrebbe dire una mamma ad un
bambino: “sii buono”; il concetto di buono è quello della morale comune, il senso comune della
morale come diciamo oggi; e la riprova può essere data dal fatto che per esempio Michea (che è un
profeta contemporaneo di Amos, circa 700 a C.), dice: a un certo momento i sacrifici non servono,
possiamo forse pensare di placare il nostro Dio offrendo il tale sacrificio, addirittura offrendogli il
primogenito? Qui siamo in un’epoca in cui evidentemente esiste ancora in Israele l’uso di
sacrificare il primogenito; c’è un regime che dal punto di vista nostro è barbarico; quindi quando si
parla qui di salvezza non bisogna intendere una giustizia in senso assoluto, ma la giustizia come era
concepibile a quell’epoca, che quindi comprendeva anche dei riti che per noi sono inconcepibili.
Il profetismo come istituzione statale
Ma chi sono i profeti? Il profetismo nell’VIII secolo a.C. è un movimento che è
sopranazionale. Non pensate ai profeti ebrei: noi, certo, nel nostro canone abbiamo tre, quattro
profeti maggiori e dodici profeti minori, a cominciare da Amos, anche se Amos diceva di sé di non
essere un profeta: questo forse vi complica un po’ le cose ma chiarisce tanti aspetti storici. Il
profetismo è un movimento esistente già da almeno un millennio, che ricopriva tutta l’area siromesopotamica; era un’istituzione, in un certo senso, però un’istituzione molto libera. Era
un’istituzione dipendente dal re, quindi inserita nella struttura burocratica dello Stato (come del
resto gli àugur i a Roma). Tuttavia abbiamo una documentazione abbondante sull’esistenza più in
generale del fenomeno profetico, cioè dell’uomo che parla a nome di una divinità
indipendentemente dai gruppi profetici; e questi profeti indipendenti erano noti, erano riconosciuti;
generalmente essi mandano i loro messaggi al re (non solo a quello ebraico ma in tutta la zona siromesopotamica) attraverso quelle che noi oggi chiameremmo le vie burocratiche; cioè si rivolgono
al governatore della zona, il quale pensa a mandare il messaggio al palazzo, dove ci sarà un capo
cerimonia che lo porterà al re; e se noi oggi conosciamo queste lettere, è perché poi venivano
archiviate. Questo fa vedere come questa profezia sia inserita nello Stato; però questi profeti non
rispondono ad una domanda, ma agiscono motu proprio, partono di iniziativa loro, e sono ascoltati;
c’è una lettera di una profetessa di Mari che scrive al re - e la lettera viene inoltrata regolarmente
dal governatore - in cui si parla delle relazioni dello Stato di Mari con gli Stati vicini, si avverte il re
che ci sono certi pericoli; ma questo vuol dire entrare nella politica con tutti e due i piedi. Quello
che non sappiamo è come reagiva un re che si vedeva recapitare queste lettere; che faceva il re, ci
credeva, no n ci credeva, questo non lo so, però è chiaro che i profeti avevano un accesso veramente
enorme, incredibile al centro del potere.
Amos quando va a predicare al nord e predica davanti al tempio di Betel viene cacciato in
malo modo dal sacerdote di Betel il quale gli dice: guarda questo è un tempio di Stato; siccome tu
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non appartieni a questo Stato e non dici cose conformi alla struttura qui vigente per i profeti, per
favore levati di torno e vattene a casa tua. E lui risponde “ma io non sono un profeta”, cosa che la
CEI traduce “non ero” e così rovina ogni cosa, perché invece si tratta di un presente: “io non sono
un profeta”. Che vuol dire io non sono un profeta? Vuol dire io non parlo come i profeti, cioè come
i profeti istituzionali; io sono un uomo libero che parla perché così ispirato (da Dio); questo fa
vedere che tipo di rapporto hanno i profeti con il potere: lo possono criticare, ci si mettono contro.
Però quelli che noi chiamiamo profeti, i profeti biblici, sono al di fuori dei movimenti profetici.
Tuttavia essi in qualche modo sono creduti e stimati proprio perché esiste questo movimento
profetico.
E qui bisogna distinguere nettamente tra i profeti del nord e quelli del sud. Il profeta del
nord generalmente - vedi Osea - è avversario della monarchia. Osea, che appartiene anche lui a
quella fine dell’VIII secolo, dice che tutti i mali in Israele si risolvono nel fatto che Israele si è dato
un re; e Dio dice: “nella mia ira ti ho dato un re, o Israele, nel mio furore te lo toglierò”. Quindi la
monarchia è la maledizione di Israele: profeta del nord.
I profeti del sud, invece, parlano con i discendenti di David e sono in una tutt'altra sintonia
con la monarchia; però, essendo in sintonia con la monarchia e considerando l’istituto monarchico
come istituto fondamentale per la salvezza del popolo (salvezza del popolo nel senso che dicevo
prima, sempre come salvezza su questa terra, salvezza sociale e politica), questi profeti del sud
evidentemente non facevano dei ragionamenti sulla giustizia simili a quelli dei profeti del nord. Il
profeta del nord sostanzialmente che cosa dice? Dice: volete essere salvi, siate giusti, che poi è il
fondamento dell’ebraismo, l’idea che l’uomo redime se stesso, che la giustizia è quella che salva. Il
profeta del sud dice anche lui: siate bravi, invita alla bontà, alla generosità, invita ad evitare
l’idolatria, fa tutti questi inviti; però inserisce un discorso diverso sulla giustizia. Per il profeta del
nord la giustizia è lo strumento per arrivare alla salvezza, per il profeta del sud è invece la salvezza
che sarà caratterizzata dalla giustizia; quindi ci sarà un giorno un discendente di David, della
dinastia al potere, che sarà fornito di tali carismi, di tali capacità, che instaurerà lui la giustizia; e la
giustizia sarà la salvezza: però è un qualche cosa che deve venire e che non grava tutto sulle spalle
dell’uomo. Nel discorso del profeta del nord tocca all’uomo fare tutto, e se l’uomo non ci riesce la
cosa è chiusa. Nel discorso del profeta del sud c’è da un lato l’invito agli uomini a essere i migliori
che sia possibile; però si accompagna a questo invito il proclama che un giorno verrà un
discendente di David che avrà capacità tali da realizzare lui quello che gli uomini da soli non sono
in grado di realizzare. Quindi si tratta di due prospettive sulla giustizia piuttosto diverse, perché in
un caso abbiamo una giustizia che porta la salvezza esclusivamente sulla base di forze umane;
dall’altra parte invece abbiamo una giustizia che è lo stato stesso di salvezza, ma che non può
dipendere esclusivamente dall’uomo; ci vuole un intervento messianico.
Il Deuteronomio (fine del VII secolo): la giustizia sta nel Patto; le colpe dei padri
Passerei adesso rapidamente alla giustizia nel Deuteronomio e in Geremia, il che vuol dire
un secolo dopo, fine del VII secolo. Qui il discorso è un po’ diverso. Cominciamo con un
documento che sembra molto radicato nel discorso tipo nord, quello di Amos: il Deuteronomio. Il
Deuteronomio contiene una legge, si può dire, che deve avere avuto la sua prima formazione nel
VII secolo, dopo si è sviluppata, ma prendiamo adesso come data il VII secolo. Questa legge si
presenta con una caratteristica particolare: ogni legge, ogni norma del Deuteronomio deve essere
considerata come una clausola di un patto che lega Dio agli uomini. È quindi come se fosse stato
fatto un contratto fra Dio e l’ebreo, per cui la divinità accetta una regola di questo genere: se voi
ebrei osserverete queste leggi io vi proteggerò; avrete la salvezza se voi osserverete queste leggi.
Questo è il pensiero di Amos che diventa addirittura concezione dello Stato, perché il patto non è un
qualcosa che riguarda il singolo ebreo, ma riguarda tutti gli ebrei nel loro insieme. L’interessante di
questa concezione è il fatto che essa si pone al di sopra della volontà del re. Mentre prima il re, in
quanto messia, in quanto “unto”, in quanto rappresentante di Dio in terra si considerava libero di
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fare quello che credeva più opportuno, adesso il re ha come obbligo quello di studiare la legge,
l’obbligo di applicarla e di farla applicare al popolo. Quindi la legge diventa il patto fra Dio e
l’uomo.
Ma nel Deuteronomio c’è un elemento ulteriore che apre un grande problema a un profeta
contemporaneo, uno dei più grandi profeti di Israele, sul piano umano forse il più grande di tutti:
Geremia. Nel Deuteronomio c’è questa idea che se gli ebrei osserveranno il patto saranno salvi.
Però nel Deuteronomio c’è anche un codicillo antipatico per gli ebrei di allora che dice: le colpe dei
padri si ripercuotono sui figli. Cosa vuol dire? Vuol dire che il discorso del patto che salva se se ne
osservano le clausole può non funzionare, perché potrebbero ricadere sul capo della generazione
attuale le colpe dei padri precedenti.
Geremia (627-587 a.C.): la giustizia da un nuovo patto che non si potrà trasgredire
Dunque non c’è nessuna certezza, e questo diventa un dramma per Geremia. All’inizio del
capitolo dodici c’è un discorso che sembra quello di Giobbe: Signore io non capisco come tu
faccia a gestire la storia. Perché i malvagi, tutto sommato, se la cavano bene? Tu sei troppo giusto
perché io possa parlare con te, però il discorso non torna. Geremia predica - capitolo VII - si trova
alle porte del tempio e dice agli ebrei che arrivano: guardate non crediate che la vostra salvezza
possa dipendere dal fatto che qui c’è un tempio, perché non è sulla base del tempio che voi vi
salverete, ma sulla base della giustizia: e questo sembra il discorso di Amos e del Deuteronomio.
Però dopo gli viene un dubbio - capitolo XIII, 23 - : non ho mai visto un leopardo a cui la pelle
cambi, se ha tutta una picchiettatura, quella gli resta. Può mai l’uomo che è abituato a compiere il
male, ad un certo momento smettere e fare il bene? E se non può, cosa significa la mia
predicazione: siate migliori e vi salverete? Significa: voi non diventerete migliori, ne sono
assolutamente certo perché chi è abituato a fare il male non riuscirà mai a fare il bene; di
conseguenza la mia predicazione diventa la rovina inevitabile. Il ragio namento di Geremia viene
fuori chiarissimo: la rovina è inevitabile perché chi è abituato a fare il male non potrà fare il bene.
Questo è il dramma, che appare nel capitolo 20 quando dice: io voglio smettere di fare il profeta
perché tanto non posso fare altro che profetizzare rovina. Cosa vuol dire profetizzare rovina? Si
accorge che il suo invito ad essere migliori, ad essere più giusti non si realizzerà mai e quindi non ci
sarà mai la salvezza, perché chi è abituato a fare il male non farà il bene e quindi allora devo
profetizzare rovina; questo, dice, non lo vorrei fare e allora ho deciso di non fare più il profeta, ma
c’è un fuoco dentro le mie ossa che mi divora e non riesco a stare zitto come vorrei. Quindi qual è la
salvezza per Geremia? La salvezza ci sarà quando Dio rifarà il patto con gli uomini. Però quando
sarà rifatto il patto ci ritroveremo al punto di partenza. Un patto era già stato fatto in antichità ma
questo patto gli uomini, gli ebrei, lo hanno tradito. Dio rifarà il patto ma saremo al punto di
partenza, corriamo il rischio di nuovo di avere un patto che può essere trasgredito; la salvezza ci
sarà quando avremo un patto che non può essere trasgredito. Questo patto che non può essere
trasgredito sarà il patto nuovo, che consisterà nel fatto che la legge sarà scritta nel cuore degli
uomini; tradotto in altri termini, quando gli uomini saranno buoni per natura tutto andrà bene. E la
cosa resta lì, come un discorso che dopo verrà sviluppato in maniera diversa dalla tradizione
soprattutto cristiana ma che inizialmente credo che per Geremia voleva dire questo: ci deve essere
un momento in cui Dio farà con gli uomini un patto diverso; ma perché sia diverso non si tratta
soltanto di fare clausole diverse, si tratta di far sì che l’uomo sia diverso. Non è un discorso
semplice: è “un altro mondo possibile” (Geremia 31, 30). Infatti, dice Geremia, bisognerà a
quell’epoca, con questo patto nuovo, che oltre a tutto Dio dimentichi tutte le colpe, bisogna che
cessi di essere valido il principio “le colpe dei padri ricadono sui figli”, questo bisogna che cessi:
finché questo principio sarà valido non si può avere questo mondo nuovo; ma nel tempo
escatologico, come si dice oggi, cioè alla fine dei tempi ci dovrà essere un momento in cui Dio
rifarà la natura umana e darà agli uomini un nuovo patto.
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Ezechiele (VI secolo): ognuno risponde delle sue azioni
E con ciò siamo al VI secolo e siamo ad Ezechiele, una figura grandiosa, forse da un punto
di vista intellettuale il più potente profeta di Israele. Egli vive la maggior parte della sua vita in
esilio a Babilonia e da un lato ci lascia una sua visione del cosmo completamente nuova; le radici
ideologiche, come si direbbe oggi, del monoteismo credo che siano da ricercarsi qua dentro, in
Ezechiele. Ezechiele vive in Mesopotamia, conosce certamente bene la cultura babilonese, e dalla
cultura babilonese, non quella letteraria religiosa, ma da quella scientifica, deduce il principio
fondamentale per lui che il cosmo è tutta una struttura, bene unitaria, una struttura che ha la sua
perfetta espressione nel rapporto tra tempo e spazio. Come Dio è il padrone dello spazio, e ne è
facile l’intuizione, così Dio è anche il padrone del tempo, perché il tempo è in qualche modo un
aspetto dello spazio. Come esiste il temp io, che è spazio sacro rispetto al territorio che circonda il
tempio, così esiste il giorno sacro, il sabato, che è uno spazio di tempo, il tempo sacro, distinto dal
resto del tempo; e questo si rivela attraverso la struttura di un calendario particolare, non di 364
giorni, ma di 360, che non sono altro che i 360 gradi dell’orizzonte. In altri termini sono problemi di
astronomia babilonese, dove i segni dello zodiaco si chiamano mesi, dove i gradi dell’orizzonte
sono i giorni: immaginatevi l’astrolabio (esistevano già da secoli gli astrolabi in Mesopotamia) che
è una descrizione del cielo; ma pensate che questa descrizione del cielo sono i giorni, sono i mesi:
cioè il tempo viene ad essere in qualche modo strutturato nello spazio e tutto dipende da Dio; per
conto mio la riprova di questa nuova concezione dello spazio-tempo si ha anzitutto dal fatto
piuttosto interessante che Ezechiele data le sue profezie, che per la maggior parte risultano tutte di
venerdì o di domenica, all’entrata del tempo sacro e all’uscita del tempo sacro, cioè quando il
profeta si trova in quel punto in cui sta per entrare o è uscito dal sacro ma non è più nel sacro e può
parlare al profano, si trova in questo punto di passaggio; e questo già per conto mio è piuttosto
interessante; ma poi l’altra cosa interessante di Ezechiele è la sua concezione messianica che fa
vedere una struttura ideologica nuova. Parlando di David non dice, come aveva detto Isaia, come
aveva ripetuto Geremia: un giorno nascerà il rampollo di David, ma dice: un gio rno nascerà David.
Quindi David non è più il rampollo della dinastia davidica, David diventa il segno che certamente ci
sarà David, il David storico è il segno che certamente ci sarà il David escatologico; in altri termini
ha inventato il tipo e l’antitipo; non c’è questa formulazione ovviamente in Ezechiele, ma il suo
modo di ragionare è evidente: il David storico è esclusivamente il tipo del vero David che deve
ancora arrivare.
Ma lasciamo andare questi problemi che fanno vedere la grandezza del pensiero e
soffermiamoci soprattutto sul problema della giustizia. Ezechiele si prende una grossa
responsabilità a nome di Dio. Dice: quel famoso proverbio che dice che i padri hanno mangiato
l’uva acerba ma si sono allegati i denti dei figli (che poi significa che le colpe dei padri ricadono sui
figli) non vale più; da questo momento ciascuno pagherà per la sua colpa. Viene fuori il capitolo 18
di Ezechiele, dove appunto si fanno tutti i casi possibili ma che poi si riducono a questo principio
generale: l’uomo che osserva la legge vive; addirittura si usa la formula “vive perché osserva la
legge”. Quindi la legge in questo caso diventa un fatto personale: questo non è il patto del
Deuteronomio dove la legge è fatto essenzialmente sociale per non dire politico o statuale; qui la
legge è un fatto personale e ciascuno vive in quanto osserva la legge; chi non osserva la legge
muore. I commentatori scrivono che probabilmente diceva queste cose perché voleva incoraggiare
gli ebrei che stavano per rientrare in patria, rassicurandoli che le colpe dei padri non ricadevano su
di loro: può darsi che questo sia stato il suo scopo, non lo so, quello che è certo è che egli mise in
moto un movimento tremendo; perché fino a quel momento la buona ventura e la sventura non
potevano da nessuno essere messe in relazione alla propria attività, alle proprie azioni, perché
ognuno poteva sempre pensare che la fortuna dipendesse dalla bontà dei padri e le sventure dalla
malvagità dei medesimi; una volta che uno ha stabilito con fermezza che da questo momento
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ciascuno paga per le sue colpe, il problema che angosciava Geremia diventa veramente grosso:
Signore, perché gli affari degli empi vanno bene? Finché lo si diceva in una società che aveva fra i
suoi punti di riferimento mentale l’idea che le colpe dei padri ricadono sui figli, il problema poteva
fare scandalo, uno poteva arrabbiarsi con il buon Dio, però tutto filava, non c’erano degli assurdi;
adesso la cosa può diventare assurda; e infatti dopo lo diventerà; e quindi il discorso è chiarissimo.
I libri della Bibbia scritti dallo storico di corte (VI secolo). Il patto è il re; poi sarà il popolo
Contemporaneo di Ezechiele – questa è una mia idea che altri non condividono ma che io
credo molto fondata - è un grande storico di corte, che però non è uno storico nel senso di una
persona; dato l’enorme lavoro che fece ci doveva essere almeno uno staff attorno a lui; del resto
dalle tavolette dell’amministrazione di Babilonia vediamo come erano trattati i re ebrei in esilio; il
re in esilio in questo caso è Yehoyakin. Al tempo di Ezechiele - siamo al VI secolo a.C. - la corte
ebraica esisteva, ma non si trovava a Gerusalemme, perché Gerusalemme era stata conquistata da
Nabucodonosor il quale nel 587 a.C. distrusse o almeno ridusse male il temp io e devastò la città. Il
re in esilio, Yehoyakin, è ricordato in quattro tavolette dell’amministrazione babilonese; da una,
probabilmente la più antica, è chiamato “figlio del re”, cioè principe ereditario; nelle altre tre è
chiamato senz’altro “re di Giuda”, col suo titolo. Qualcuno ha anche fatto il confronto fra quanti
denari, ovvero forniture in natura, erano attribuiti al re di Gerusalemme e quanti ne erano forniti ad
altri re della costa, o comunque della Siria Palestina, che erano prigionieri o che si trovavano a
Babilonia. Il re di Israele riceve delle sovvenzioni che sono molto più alte di quelle menzionate
subito dopo; questo significa che aveva una corte e si vede anche - perché c’è un elenco dei
destinatari delle forniture - che aveva una corte di otto ministri; vuol dire che non si trovava poi
troppo male a Babilonia.
Ed è qui, per conto mio, che nacque quell’opera storica che è quella che più o meno va dal
II° capitolo della Genesi (la creazione del mondo secondo lo yahvista) fino all’ultimo versetto del
libro dei Re, cioè tutti i libri storici. Dall’opera di questo autore che io chiamo R1, bisogna togliere
ovviamente tutta l’opera del sacerdotale, cioè tutta la legislazione che è proveniente da tutta la
tradizione del tempio. Questo storico che senso ha della giustizia? Se voi leggete la storia dei re,
soprattutto quella dei re, diciamo così, più vicini all’autore, resterete stupiti. Abbiamo uno storico di
corte, sovvenzionato pertanto da chi gli dà da mangiare che è il re, il quale parlando della dinastia,
compreso il re Yehoyakin, che è quello che gli dava materialmente da mangiare, ne parla male. Voi
leggetevi la Bibbia, i re sono tutti cattivi, si salvano David, Ezechia e Giosia, tutti gli altri sono
malvagi. Pensate ad un’epopea, perché generalmente si usa questo termine: che cos’è il racconto
storico? Non è una vera storia di Israele, ma è l’epopea di Israele. Ebbene, è un’epopea così
particolare che si parla male di tutti i suoi personaggi. Curioso! In realtà è la politica, per conto mio,
questo è proprio un caso di dottrina politica della monarchia in esilio. La monarchia in esilio ci tiene
a sottolineare che la salvezza di Israele dipende non dalla sua giustizia, prova ne sia che tutti i re
erano cattivi, non ha nessuna importanza, non dipende nemmeno dal tempio, ma dipende
esclusivamente dal fatto che Dio promise a David un regno eterno. Quindi traduciamolo in termini
moderni: se volete la salvezza, ebrei, votate per il re. Lo Stato ha un senso finché c’è un discendente
di David. Il discendente di David è la garanzia di salvezza: questa, non la giustizia. Pertanto lo
stesso storico può dire: Yehoyakin fu malvagio, e poi alla fine del testo dire: ma quando morì
Nabucodonosor il nuovo re, Awil Marduk, ha sollevato dalla sua condizione il nostro re; e le ultime
parole del libro dei re finiscono con una visione di speranza; speranza che non dipende dalla
volontà del re, ma dipende semplicemente dal fatto che lui è il discendente di David.
E questa idea che il discendente di David è il centro della salvezza, al di là del problema
della giustizia, l’abbiamo con Isaia II che è profeta di corte e vive in Babilonia. Isaia II arriva a dire
che il servo, cioè il re, è il patto con Dio. In altri termini il patto con Dio non può essere quello del
Deuteronomio, perché quello del Deuteronomio è patto umano, dove è fondamentale che tutti siano
bravi e giusti, se no crolla tutto. Il vero patto con Dio, quello indissolubile, quello che certamente
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non può crollare, è quello in cui il patto è costituito dal re che ovviamente deve essere il re
legittimo, cioè discendente di David. Qui siamo a un punto in cui mi pare che da un lato la visione
delle cose può esser detta politica, però diventa anche religiosa, è qualche cosa di più forse che
semplicemente un interesse immediato. Certo dire che il re è il patto con Dio, è una bella
affermazione, è forte. Poi Isaia II, che certamente arrivò a vivere fino al 500, ridefinì la dinastia;
l’ultimo sovrano, sovrano non indipendente ovviamente, è Zorobabele, che scompare dalla scena
tra il 521 e il 515; nel 521 ne è documentata ancora l’esistenza, nel 515 non c’è più. Con la
scomparsa di Zorobabele finisce la monarchia. Mettetevi nei panni di Isaia II: aveva detto che il re
era il patto, e lui scompare. Deve aver passato dei giorni veramente neri, credo. La sua soluzione,
che poi diventa fondamentale per l’ebraismo, forse per il cristianesimo, è quella del capitolo 55
versetto 3: i privilegi di David sono passati a tutto Israele, Dio fa con Israele un patto eterno. I
privilegi di David sono passati a tutto Israele: quindi finché c’è Israele il patto sussiste, anzi Israele
diventa lui stesso il patto con Dio. Israele: non si dice Israele buono o Israele cattivo, ma Israele.
Quindi siamo in una visione in cui la salvezza comincia ad essere sganciata dalla giustizia e il
discorso si farà sempre più pesante circa il problema della giustizia che porta salvezza, con il libro
di Giobbe.
Giobbe (IV secolo): la retribuzione individuale
Giobbe, schematizzando rapidamente,. dice sostanzialmente questo. All’inizio abbiamo la
scena del Satana, il pubblico ministero - non il diavolo, il pubblico ministero - che si incontra con
Dio e fanno insieme un discorso sulla giustizia. Prima Satana lamenta che tra gli uomini c’è molta
malvagità; Dio gli dice: ma hai visto come è bravo Giobbe? Perché tu non pensi anche ai buoni,
invece di pensare sempre ai cattivi? E Satana dice: sì è vero, Giobbe è bravo, molto bravo, però in
realtà non è altro che un abilissimo manager, è uno che sa fare gli affari suoi, perché in quanto tu lo
ricompensi di beni per la sua bontà, in realtà la sua non è bontà, sono affari. Prova, dice a Dio, a
stuzzicarlo veramente, a metterlo nei guai e vedrai come ti maledirà. E Dio dice: fa pure; e così
cominciano i guai di Giobbe. Però mi interessa quell’inizio, dove si mette avanti il problema se la
giustizia porta a qualcosa, o se è semplicemente ricompensa del giusto; siamo in un’epoca in cui sta
per nascere lo stoicismo. Voi sapete qual è la conclusione del libro di Giobbe, che la giustizia di Dio
non si può misurare e il suo agire è incomprensibile per l’uomo; quindi finisce con un atto di fede
nella giustizia di Dio, che però non è dimostrabile.
L’immortalità dell’anima, la nascita del paradiso e dell’inferno
In quest’epoca nasce un’idea nuova in Israele, V-IV secolo a.C., quindi più o meno
contemporaneamente a Giobbe. Quest’idea nuova è l’immortalità dell’anima. Non che gli ebrei non
credessero anche prima nell’immortalità, però la cosa fondamentale è che mentre in epoca antica
quello che sopravviveva dell’uomo andava agli inferi senza essere giudicato da Dio, ed aveva un
nome che viene tradotto in genere con “larva” o qualcosa del genere, invece a partire da
quest’epoca si comincia ad affermare l’idea che nell’uomo ci sia qualcosa di immortale ma non
destinato a scomparire, buono o cattivo che sia, sotterra, dove vive coi vermi una vita senza vita, ma
un qualcosa che è destinato ad essere giudicato da Dio e, se giudicato buono, a vivere poi sempre
con Dio oppure in inferno. Questa idea di inferno e paradiso si forma più o meno in quest’epoca. La
documentazione più antica che abbiamo di questa concezione nuova dell’anima, che non è più
quella della larva, ma è proprio quella dell’anima come la chiameremmo noi, l’abbiamo in un libro
apocrifo, però considerato Scrittura da parte della Chiesa copta, quella di Addis Abeba, ed è il
Libro dei Vigilanti. I Vigilanti sono gli angeli. Quindi c’è un libro degli angeli, che è diversame nte
datato dagli studiosi, ma è certamente anteriore all’anno 200, il che significa almeno terzo secolo;
secondo me è del IV. Adesso abbiamo l’idea dell’anima immortale. Chi si salva? Cosa vuol dire
salvezza, ora? Cambia il concetto di salvezza. Non è più come nel libro di Giobbe – e Dio
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ricompensò Giobbe dandogli tanti montoni e tanti bovi –; salvezza adesso è salvare l’anima. Il
discorso cambia. La giustizia pertanto non è più in funzione di un bene terreno, ma in funzione
dell’eterno; non solo: se noi prendiamo il libro di Ezechiele, capitolo 18, quello in cui si dice che
l’uomo vive in quanto osserva la legge, si vede che il problema è sempre con Dio che deve
ricompensare la singola azione; ed è ovvio che deve ricompensare la singola azione, perché non c’è
un punto globale in cui c’è l’uomo intero; l’uomo intero c’è quando esiste l’anima immortale; e a
questo punto il principio di Ezechiele come lo formulò Ezechiele non è più applicabile, perché Dio
non può un po’ punire e un po’ ricompensare qualcuno; qui siamo di fronte a una scelta radicale
totale: o il Paradiso o l’Inferno. Tutta la costruzione che c’era stata fino a quell’epoca comincia ad
essere in qualche modo superata, e si pone quindi il problema: chi è che si salva? Chi è il giusto che
si salva? Perché l’idea di fondo che la salvezza spetta al giusto, e quindi l’importanza della
giustizia, resta; però ci si pone il problema: ma chi è il giusto che può salvarsi?
Qohelet (III secolo): non esiste giusto senza peccato; il purgatorio
Qohelet per esempio, che scrive più o meno nel III secolo - e questo è un libro canonico dice che non esiste giusto senza peccato. C’è anche un salmo. Cosa vuol dire: non esiste giusto
senza peccato, perché si dice questo? Perché Qohelet sta difendendo la tradizione; questi che
credono nell’immortalità dell’anima gli raccontano che il giusto si salva; infatti nel libro dei
Vigilanti c’è scritto che il giusto si salva, ma cosa sia il giusto non si sa: “il giusto”. Ma cosa vuol
dire giusto, dice Qohelet; se non c’è giusto senza peccato; come fa il buon Dio? Evidentemente si
mette davanti ad un Dio che sia uno scriba e che deve far dei conti: non è possibile. E qui a questo
punto, ci sono varie posizioni. C’è una posizione che è quella farisaica, che ragiona in maniera direi
molto equilibrata e molto comprensibile sul piano umano: è vero, Dio deve fare un giudizio e il
giudizio non può che farlo sulle singole azioni che l’uomo ha compiuto; però Dio per sua volontà
può permettere all’uomo di addurre a proprio discarico gli atti di bontà che ha fatto, di fronte a
quelli cattivi. In altri termini il giudizio viene visto come una sorta di partita del dare e dell’avere,
dove vengono segnati in nero tutti gli atti di bontà e in rosso tutti gli atti di trasgressione; alla fine si
salva colui che ha almeno un atto di bontà in più rispetto a quelli cattivi. Ci sarebbe un terzo caso,
che fu anch’esso discusso più o meno al tempo di Gesù: e se siamo alla pari? Se le azioni cattive
sono tante quante le azioni buone? Allora ci sono due soluzioni, quella di Hillel e quella di
Shammai. Quella di Hillel è che Dio per sua misericordia sfila dalla bilancia del male una delle
opere cattive, quindi automaticamente l’uomo si salva; la soluzione di Shammai invece introduce il
concetto di purgatorio; l’uomo che si trova alla pari, in equilibrio tra bene e male, andrà in
purgatorio. Questo è piuttosto interessante perché il concetto di purgatorio viene da qua; non esiste
la parola purgatorio ovviamente nel testo mishnico (mishnico: aggettivo da Mishnah, che sono
scritti non biblici) ma esiste l’espressione: dovrà essere purificato, mi pare che dica col fuoco;
quindi è quello che noi chiamiamo purgatorio. Questa dottrina è del II secolo d.C., però ci sono
buoni motivi per ritenere che non sia nata allora, ma allora fu semplicemente verbalizzata.
Il Libro delle Parabole (30 a. C.): tutti i pentiti saranno perdonati
Un'altra soluzione che viene da una corrente particolare del giudaismo, l’enochismo
(termine che deriva da Enoc), e che si trova nel Libro delle parabole, poco prima del
cristianesimo, è più semplice: quando si arriverà al momento del giudizio finale, il figlio dell’uomo,
che sarà il giudice, perdonerà tutti coloro che umilmente riconosceranno i loro peccati. A questo
punto ci si domanda se l’inferno può ancora sussistere. Infatti qualcuno interpreta il Libro delle
parabole dicendo che esso ha eliminato l’inferno, perché tutti si pentiranno. Io credo di no, perché
ci sono due categorie di persone che non si salvano, e sono i politici e i ricchi, cioè tutti coloro che
hanno un potere; quelli che hanno un potere non possono presentarsi al tribunale del figlio
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dell’uomo e dire mi pento, perché sono degli orgogliosi, è gente che si è sovrapposta a Dio, quindi
per loro non c’è niente da fare.
Qumran: la comunità è la salvezza
Un'altra soluzione ancora, che è quella che poi avrà più fortuna forse con il cristianesimo, è
quella che sembra la più difficile di tutte e che invece sul piano storico è quella che sembra la più
antica. Intorno all’anno 100 a.C. si può dire che nasce una comunità particolare, che è quella
qumranica, quella che noi conosciamo dai testi di Qumran. Questa comunità si pone proprio come
comunità destinata alla salvezza, ma la salvezza non dipende dalle opere, per quanto le opere siano
imposte e fondamentali, per cui se uno legge il codice di questa comunità si accorge che si può
essere puniti per un nonnulla, si può essere cacciati; ed essere cacciati dalla comunità vuol dire
essere condannati all’inferno perché non c’è salvezza fuori dalla comunità; ma quello che conta è
che chi entra in questa comunità viene purificato da tutti i suoi peccati; e qui forse può essere
difficile intendersi, perché ho usato il termine purificato, non perdonato. Con l’enochismo era
facile: Dio perdona i peccati, questo si capisce. Qui è diverso: dal peccato ci si purifica, non c’è un
vero e proprio perdono, c’è un’espiazione, che dipende dall’entrare nella comunità; quindi chi entra
nella comunità è un peccatore, ed è sempre peccatore; è sempre tale perché supposto anche che non
abbia mai ammazzato nessuno o fatto cose anche meno gravi, tuttavia è peccatore per il fatto stesso
di essere uomo; l’uomo nasce già peccatore nell’utero. Cosa vuol dire l’uomo peccatore nell’utero?
Vuol dire che l’uo mo nelle sue strutture umane è già un crogiolo di peccato; l’uomo nasce così, è un
peccato, questo peccato viene ad essere equiparato a impurità, pertanto l’uomo che entra nel
gruppo, nella setta, si vede contemporaneamente perdonati i peccati ma soprattutto purificato nel
suo essere; la giustizia che ottiene non è una giustizia, come si dice in termini teologici moderni,
“forense”, ma è una giustizia esistenziale; non è una giustizia come direbbe Lutero per cui c’è un
lenzuolo bianco messo intorno a un cadavere marcio; è che il cadavere non è più un cadavere,
diventa vitale, diventa vivo, e lo diventa in quanto il suo peccato è espiato e purificato. E
l’espiazione - ecco un punto per me interessantissimo - è fatta dallo spirito stesso di Dio; è Dio che
espia il peccato, perché solo Dio può espiarlo; espiarlo non è perdonarlo, vuol dire toglierlo, vuol
dire metterci quel tanto per cui il peccato non c’è più; e l’uomo dopo di questo è puro. E poi ci
sono vari modi per spiegare questa purificazione. Uno che voglio ricordare per la sua arditezza (che
però generalmente nei commenti si perde) è quello del mistico che ad un certo momento nella sua
ascesi, nella sua preghiera arriva a dire a Dio: tu sei la mia giustizia. Questo viene interpretato come
la “giustificazione”; per me qui siamo al di là della giustificazione, è un altro discorso, è dire che la
giustizia che può portarmi alla salvezza non è la giustizia di Dio, è Dio, Dio mi investe in maniera
tale per cui se mi giudicasse giudicherebbe se stesso; a questo punto è ovvio che il qumranico è
salvo; egli è passato dalla morte alla vita, per usare un’espressione di Giovanni. Qui c’è qualcosa
del genere, tanto è vero che non si parla mai dell’immortalità dell’anima: ciò ha fatto difficoltà e
anche io in passato non me n’ero accorto. Ma non si parla mai di immortalità dell’anima per il
semplice motivo che in un certo senso il qumranico non muore, ma è nato quando è entrato nella
setta; è nato allora e non muore più; a meno che non venga cacciato dalla setta stessa; se lo butti
fuori allora ritorna nella morte.
Enochismo, essenismo e Qumran
Raniero La Valle:
Qumran ed esseni sono sinonimi?
Paolo Sacchi:
L’essenismo è un fenomeno molto vasto, i qumranici sono un gruppo essenico,
particolarmente radicale, che si distingue dal gruppo enochico. L’enochismo è più antico
dell’essenismo. Se devo dargli una data direi il IV secolo, se volete abbassare un po’ abbassate
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pure. Quello che accade è che ad un certo momento, che io pongo attorno alla metà del II secolo
a.C., l’enochismo che era stato senza legge e senza tempio, per motivi di opportunità probabilmente politica - ma anche per una certa evoluzione del gruppo, accetta la legislazione
mosaica. E questo si riscontra nel Libro dei Giubilei. Questo secondo me è il più antico libro
essenico, nel senso che è scritto da un enochico, ma da un enochico particolare che ha accettato
tutto dell’altra parte cioè della parte sadocita, della parte mosaica (cioè del giudaismo ufficiale),
solo che fa sì che la legislazione mosaica (l’enochismo non aveva Legge) sia vista come legge
storica che ha un valore storico e quindi momentaneo, fintanto che non sarà sostituita dalla legge
eterna che è la legge scritta nelle tavole del cielo, che sono le vere tavole dove c’è scritta la vera
legge.
Quindi abbiamo prima l’enochismo, che è un particolare ebraismo: una delle ipotesi di come
è nato è che si tratti dei sacerdoti che si trovavano al tempio di Gerusalemme al tempo di Neemia,
vale a dire alla fine del V secolo, e che furono buttati fuori dal tempio perché non erano discendenti
di quelli che erano stati esuli a Babilonia. E Neemia fece un’operazione drastica: venendo dalla
Babilonia in patria, a Gerusalemme, dove c’era un disastro sociale e politico, ristrutturò la società;
per ristrutturarla mise fuori dalla cittadinanza tutti quegli ebrei che erano discendenti degli ebrei
restati in patria, per cui da quel momento si poté dire che tutti gli ebrei erano andati in esilio. Lui
accettò come ebrei tutti quelli che discendevano dagli esuli a Babilonia. Da quel momento pertanto
si poté dire, come scrive il libro delle Cronache, che tutti gli ebrei erano andati a Babilonia, ed è
logico, perché quelli che non c’erano andati furono buttati fuori. Quindi un’ipotesi è che
l’enochismo derivi proprio da questi sacerdoti che furono buttati fuori: perché si tratta certamente di
una classe colta; ci sono delle opere che oggi fanno sorridere, come sono quelle di astronomia
dell’epoca; però per scrivere un’opera di quel tipo in quell’epoca ci voleva una certa conoscenza;
non si tratta di fiabe popolari. Quindi deve essere una classe colta ed è una classe che non vuol
sentire parlare né di legge né di tempio; viene proprio in mente che gli enochici siano quelli buttati
fuori dal tempio. Poi piano piano cominciano a riavvicinarsi; all’inizio del II secolo c’è il Libro dei
Sogni, che fa vedere che cominciano a leggere la Bibbia come l’hanno quelli di Gerusalemme, però
con certe modifiche: per esempio non hanno il peccato di Adamo; Adamo fu un giusto, i guai, il
peccato lo portarono sulla terra gli angeli ribelli, cosa che poi è restata nella nostra tradizione anche
cristiana. Adamo non c’entra nulla, Adamo fu un giusto, morì da giusto ed è sempre stato giusto; e
poi ci sono altre cose: per esempio quando Mosè salì sul monte, al Sinai (che intanto qui non si
chiama Sinai, si dice monte e basta), non ricevette le tavole della legge, perché quando tornò giù
praticamente si trovò in mano il modellino del tempio. Quindi voi vedete che a questo punto
cominciano a pensare che un tempio ci vuole; siamo al 180 - 160 a.C. Un tempio ci vuole. Quello di
Gerusalemme? No, quello è destinato alla distruzione, sarà distrutto, non se ne parlerà più, però Dio
ricostruirà un tempio nuovo a Gerusalemme con le sue stesse mani, e allora lì si comincerà a
ragionare. Quindi c’è un riavvicinamento. Con il Libro dei Giubilei addirittura si accetta tutta la
legislazione mosaica, però con una clausola, che la legge mosaica è una legge pro tempore, non è la
legge assoluta, dovrà essere cambiata; in questo modo era accettabile come legge anche da parte
loro e infatti ci sono trenta leggi (trentadue mi pare), che vengono citate e alcune sono identiche a
quelle di Mosè, altre sono diverse, perché evidentemente avevano in mente una legislazione diversa.
Al di là della giustizia (retributiva)
Allora l’essenismo nasce da questa fusione tra enochismo e sadocitismo, cioè il giudaismo
ufficiale. Dà molta importanza al legislatore, come dice Giuseppe Flavio, cioè a Mosè, però al
tempio non ci va. Quindi siamo ad una via di mezzo. Qumran è una forma di essenismo; è una
forma di essenismo particolare, di un radicalismo anche particolare, con uno sviluppo che a me
sembra in senso gnostico: perché quell’idea che l’uomo raggiunge Dio, mi ricorda molto i problemi
della gnosi, che viene dopo Cristo. Questa idea di Qumran non è quella della giustificazione, è
qualcosa di più; intanto è per pura grazia, mentre quella di San Paolo per esempio è per fede, questa
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è una differenza che si nota; ma quello che più mi pare importante notare è che giustificazione
significa dire: Dio ti giustifica; qui non è un Dio che ti giustifica, come fa a giustificarti, è dentro di
te; giudicherebbe se stesso se ti giudicasse; quindi a questo punto è ovvio che sei salvo.
Forse a questo punto verrebbe da trarre una conclusione, ma forse bisognerebbe chiamare
anche uno che conosce il Nuovo Testamento meglio di me, per fare un aggancio con il problema
cristiano: perché è chiaro che nel cristianesimo esiste una forma di giustificazione e non solo, per
conto mio, con Paolo, c’è già anche nei sinottici: quello che non può l’uomo è possibile a Dio; mi
pare che sia una forma di giustificazione, di perdono, si va al dà della giustizia, dell’uomo che si
salva per la sua giustizia come è nel fariseismo; siamo su un altro binario.
Giustizia e misericordia
Giovanni Franzoni:
Vi pregherei di approfondire accanto al concetto di giustizia, quello di rehamin,
misericordia. Io mi riferisco anche a testi rabbinici e quindi un pochino più tardi, ma le radici di
rehamin sono in Osea, ampiamente. Non si tratta, penso io, di un’azione di giustizia di Dio perché il
termine ebraico sedaqa (che si usa per giustizia) mi sembra che non sia mai applicato a Dio; Dio
non è giusto e la giustizia è una struttura del popolo o una struttura umana; mentre invece diciamo
che l’essenza del Signore è rehamin, che è creatrice, sono le viscere di misericordia di Dio; questa è
la sua identità, se così si può parlare. In fondo lo stesso Maimonide (anche se in epoca molto più
tarda) aveva perfino dimenticato la questione della remunerazione, poi di fronte alle proteste degli
altri ha inserito tra gli articoli fondamentali dell’ebraismo anche il concetto di remunerazione:
perché di per sé tutto dipende dalla misericordia di Dio, non perché perdona o non perdona, ma
perché crea, è sempre creatore. È vero che siede sul trono della giustizia, sul trono del rigore e per
così dire vede che tutto è storto, tutto è peccato; ma al momento in cui sta per emettere la sentenza
scende dal trono del rigore e sale sul trono della misericordia; e da quel momento seguita a creare.
A me sembra bene che si approfondisca quest’altro aspetto, quest’altra colonna della shekiná, della
presenza di Dio, che è il suo essere creatore, quindi il suo essere il principio della vita (non voglio la
morte del peccatore ma che si penta).
A questo proposito, in diversi autori che ho letto sull’ebraismo in quanto tale, anche sul
cosiddetto giudaismo pre-cristiano, mi pare che c’è perennemente un principio fondamentale, che la
remissione del peccato è una cosa seconda, che presuppone un momento primo, che è il
ravvedimento. Col ravvedimento resta tuttavia il peccato, che si espia con i sacrifici, o in altri modi
secondo le diverse correnti di pensiero, come è stato detto; ma c’è un peccato che non è remissibile;
anche Gesù dice c’è un peccato che non può essere rimesso; però nell’ebraismo questo peccato è la
profanazione del nome di Dio; si dice “non sarà rimesso”, ma poi tutti peccati sono rimessi con la
morte del sommo sacerdote, che porta addosso tutti i peccati del popolo. Gesù di Nazareth risponde
a quanti dicono che le sue opere vengono da Belzebù e non solo da Dio: se io col dito di Dio caccio
i demoni, indubbiamente tra voi c’è il regno, chi nega questo (e lui probabilmente include anche i
suoi fratelli in quel momento, e sua madre) commette un peccato che non sarà rimesso; ma sempre
con questa riserva che poi la morte rimette tutto. Dio con la sua misericordia non può sopportare la
morte e in questo senso - su questo poi si orientarono alcuni padri come Origene e anche alcuni
islamici come Rumi - in ogni caso la morte sarà vinta. E quando la morte sarà vinta vorrà dire che
la creazione vincerà sulla increazione; ma a me sembra che l’agente fondamentale sia questo grande
fiume della misericordia che io in una mia immagine fantasiosa individuo nel fiume Pison, il primo
dei fiumi che sgorga dal giardino di Eden (Gen. 2, 8-14). Dei quattro fiumi di cui parla la Genesi tre
sono individuabili, il Tigre, l’Eufrate e probabilmente l’alto Nilo; il Pison scorre nella terra dove c’è
l’oro e il suo nome evoca secondo i rabbini il lino dei vestiment i dei sacerdoti, che sono vestiti
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sempre immacolati perché il lino non li fa sudare; questo fiume misterioso segue gli ebrei nell’esilio
perché esce dal paradiso, di cui si scrive appunto in quell’epoca, come diceva Sacchi. L’esilio sta a
monte di tutto, come esperienza profondissima e dolorosissima fra gli ebrei; anche il fiume della
salvezza è uscito da Eden, e io aggiungerei che anche Dio è uscito da Eden e ha seguito nell’esilio i
suoi figli per ricondurli. E loro fanno questo esempio: quando Dio impasta con l’argilla il corpo di
Adamo, prende la terra dappertutto e la riporta; ma questo non una sola volta; tutti i giorni noi
usciamo da Eden e tutti i giorni ci ritorniamo quando Dio ci fa di nuovo dare la vita perché non
sopporta la morte.
Gloria Gazzeri (amici di Tolstoj):
Tre domande. La prima è se gli Esseni erano o meno vegetariani. L’altra più pertinente è
questa: nel Deuteronomio quelle prescrizioni, secondo me orribili, di uccidere gli animali e bagnare
l’altare di sangue, da dove vengono? Diceva Simone Weil che c’è una confusione tra Dio e il
diavolo; quando si bagna l’altare di sangue, cioè si cerca energia dal sangue, è sempre per onorare
degli spiriti, non il Dio di luce che non ha bisogno di energia, ma degli spiriti un poco ambigui che
possono essere angeli e possono essere demoni. Come mai si continua a dire che quella è legge di
Mosè? Dal punto di vista esoterico nella Bibbia ci sono varie divinità, non una sola, c’è appunto il
Dio creatore, o il Dio di luce e poi vengono anche onorate altre divinità che sono per noi più vicine
ai demoni; anche per questo Simone Weil parla di questa confusione. Vorrei capire, noi animalisti
siamo scandalizzati quando per purificare – come avviene nel tempio - bisogna sgozzare degli
animali. E la terza doma nda è sulla Cabbala. La Cabbala aveva il concetto di reincarnazione e di
Karma, ma siccome è una scienza misteriosa chi sta al di fuori non la conosce, abbiamo solo delle
ipotesi.
Raniero La Valle:
Vorrei chiedere due cose. Tu hai parlato del Deuteronomio con Geremia, quindi siamo alla
fine del VII secolo a.C.; però poi ci hai detto che il redattore R1 finisce la sua opera nel VI secolo
con il libro dei Re: allora quando appare il Deuteronomio come scrittura? Seconda: si può dire che
dal libro di Giobbe si possa accreditare al Satana, a questa sorta di giudice, questa idea della
retribuzione, cioè che la giustizia di Dio è una giustizia retributiva, che si risponde al male col male,
al bene col bene? È da lì che viene questa idea?
Paolo Sacchi:
La dice il Satana.
Rispondo. Tutta la serie di osservazione che ha fatto Franzoni sono osservazioni che
valgono di per sé, non avrei niente da aggiungere. Eventualmente potrei dire qualche cosa su sedeq
e sedaqa. Dunque - e questa purtroppo credo sia una limitazione - anche nell’ultima concordanza
ebraica, che è uscita ora, mi mettono sedeq e sedaqa come sinonimi, con lo stesso significato, ed è
un’idea che si ritrova molte volte. In realtà, per conto mio, non dico che tra sedeq e sedaqa non ci
sia nulla in comune, ma sono due concetti nettamente diversi; per cui sedeq vuol dire giustizia, più
o meno quello che vuol dire in italiano; invece, quanto a sedaqa, vediamo come lo traducevano due
secoli prima di Cristo gli ebrei. Il nipote del Siracide, dell’Ecclesiastico, quando tradusse in greco
l’opera del nonno, per tradurre sedaqa usò sempre la parola “eleemosúne”; ora o lui non sapeva
l’ebraico, o non sapeva il greco, o siamo noi che non abbiamo capito nulla. Questo per conto mio è
fondamentale. Anche per i Settanta già nelle prime traduzioni della Torah del III secolo,
normalmente sedaqa è “eleemosúne”, è la cosa più comune. Traducendola con giustizia facciamo
dei veri e propri pasticci, per conto mio. Sedaqa, vuol dire generosità, e quindi quando si trova per
esempio quella formula che tradotta da qualcuno alla lettera - cosa che mi fa saltare i capelli in testa
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– suona come “le giustizie di Dio”, essa vuol dire la generosità di Dio, quindi è qualcosa che
avviene per la generosità di Dio. Anche quel termine, a Qumran, che normalmente viene tradotto da
tanti, e in passato anche dal sottoscritto, con giustificazione, è generalmente sedaqa, dove il senso è
che Dio per sua generosità dà; non è quella la giustificazione, la giustificazione emerge, per conto
mio, a Qumran, o da questo momento supremo dell’uomo che addirittura mette la sua testa dentro
la divinità, oppure attraverso un fenomeno più possibile, più aperto a tutti i comuni mortali, anche
se abbastanza in alto, attraverso l’illuminazione: l’uomo, con la sua ascesi, arriva ad un certo
momento per sedaqa divina, per generosità divina, a immergere, a aprire il suo occhio in maniera
tale che il raggio della luce divina arriva al suo occhio, così che l’uomo, ripercorrendo la luce che
gli arriva dall’alto alla rovescia, può vedere il mondo intero, il passato, il presente e il futuro,
attraverso questo raggio di luce; dunque c’è anche questa forma di gnosi, di conoscenza che salva.
Sono le varie forme di salvezza nel qumranesimo. Dico dunque semplicemente che sono contrario a
molte traduzioni della Bibbia, quando si trova la parola sedaqa che viene tradotta con giustizia.
Qualche volta effettivamente è un sinonimo di sedeq ma solo qualche volta; addirittura in un
manoscritto dell’Ecclesiastico, scoperto al Cairo, abbiamo un caso dove la parola sedeq è cancellata
e sostituita con sedaqa, perché evidentemente non sono sinonimi; gli ebrei le sentivano come due
parole che non potevano essere commutate l’una con l’altra, dovevano essere due parole nettamente
diverse.
Espiazione e purificazione
Degli Esseni vegetariani non so cosa dire, ne ho sentito parlare però da sentirne parlare a
trovare un testo c’è una certa differenza; per mia ignoranza non ne ho mai trovati. Quanto alle
prescrizioni del Deuteronomio: questo pone una serie di problemi. Per quello che riguarda il
sangue: il fatto è che il sangue espia. Il problema è: che cosa espia e perché espia? Il sangue espia
(uso parole del Levitico, in maniera da restare al tema ed essere sicuro del contenuto dal punto di
vista ebraico antico) perché nel sangue c’è la vita; in parole nostre vuol dire questo: il peccatore che
offre un sacrificio di sangue, in quanto peccatore avrebbe dovuto essere lui la vittima, perché Dio
avrebbe dovuto punirlo, però egli ha un suo sostituto a disposizione; invece della propria vita offre
un'altra vita; questa è la radice; quindi il sangue purifica. Problema: tutti i peccati per l’ebreo
antico o solo alcuni? Qui le opinioni possono essere divergenti; una delle più accreditate, ma
abbastanza solidamente anche se discutibile, è che sono espiabili, attraverso il sangue, solo i
peccati involontari. E qui si entra nel concetto di involontario, fino a che punto un comportamento
può essere involontario; non è facile da trovare il punto esatto: ho visto che alcuni autori fanno
vedere che in certi casi probabilmente, ma non saprei fare un esempio, si può avere il peccato
volontario che attraverso certe formule viene ridotto a involontario in modo tale che possa essere
espiato. Quanto alla purificazione mediante il sangue, ciò dipende dal fatto che il peccato di Israele,
un qualunque peccato di Israele, anche quello involontario, contamina sempre il tempio. Il tempio
ha bisogno, una volta all’anno, di essere per così dire “ripulito”, e ciò che pulisce è il sangue; invece
dalle impurità rituali (aver toccato un cadavere o simili) ci si libera attraverso l’acqua; dall’impurità
del peccato ci si libera attraverso il sangue. Questa è la dottrina biblica (qui c’è anche il valore
pasquale del sangue). Quanto alla reincarnazione, io non so niente. Nell’ ebraismo che io sappia
non c’è. Se c’è qualcosa nella Cabbala che parla di reincarnazione, non so, mi sembra strano, in
ogni caso bisognerebbe informarsi da qualcuno che ne sappia più di me sulla Cabbala
Legge scritta e tradizione orale
Riguardo alla datazione del Deuteronomio: anche questo ha una sua storia. Si può dire,
penso che sia abbastanza accettabile, che il Deuteronomio ha una sua prima struttura al tempo di
Giosia, cioè fine del VII secolo a.C..
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Perché dico prima struttura? Perché certamente come principio di Le gge, come idea di aver
fatto un “Corpus legale” che aveva valore al di sopra del re, come principio, doveva già valere alla
fine del VII secolo a.C. Diverso è il caso se uno mi domanda :”Ma era già la forma definitiva o
dopo ha avuto rimaneggiamenti?”. Dei rimaneggiamenti penso ci siano stati, e soprattutto ce ne
deve essere stato uno abbastanza robusto alla fine dell’esilio quando il Deuteronomio diventa il
manifesto della repubblica. Questo non può essere stato al tempo di Giosia che era un re. Ora è vero
che il e era tenuto a leggersi la legge e ad applicarla, come sta scritto nel Deuteronomio, ma altro è
avere un re che è tenuto a leggersi la legge, altro è tenersi un re che abdica. Questo mi pare
impossibile. Nel Deuteronomio sta scritto: se volete un re lo potete avere, basta che sia un ebreo,
non importa che sia della stirpe di David, però se ne può fare benissimo a meno. Un discorso di
questo genere difficilmente mi pare possa essere fatto in un epoca in cui c’era un re. Il corpus
iniziale dovrebbe essere della fine del VII secolo.
Raniero La Valle : Però già scritto, non solo orale?
Paolo Sacchi:
Già scritto, si si. La tradizione orale è un problema che ho avuto più volte. Generalmente i
nostri filologi-teologi parlano sempre della tradizione orale. Ora la tradizione orale, essendo
“orale”, per definizione non è studiabile. Io posso studiare solo ciò che è stato scritto e che ho
trovato. Se non lo trovo, e se non è stato scritto difficilmente lo trovo, io non posso parlare di nulla.
Perché al nulla devo dare il nome di tradizione orale? Ecco questo non l’ho mai capito bene.
Però la mia impressione è che sia una sorta di deus ex machina. Quando il discorso non
torna bene, quando si cerca di accomodare tre idee che non stanno insieme, si dice: ma è la
tradizione orale; e con quello si giustifica tutto. Anche quando si parla del Nuovo Testamento, si
dice: Marco aveva una tradizione orale e scritta. Ma come fai a distinguere quella orale da quella
scritta? Che Marco abbia scritto qualcosa informandosi sono d’accordo, questo è ovvio, chiunque
scriva qualcosa prima si informa, però questa ovvietà viene ad un certo momento per così dire
formalizzata, teologizzata. Aveva delle fonti, è molto probabile, si può cercare anche di ricostruirle,
ma quando le ricostruisco, ricostruisco quello che ho in mano; non posso parlare di una tradizione
orale senza documentazione. Di ciò che non è documentato non si può discutere.
Raniero La Valle:
Tu hai messo in relazione il problema della giustizia con quello della salvezza. Ora
all’inizio la salvezza veniva intesa come la salvezza del singolo e del popolo nella situazione data;
poi c’è il problema della retribuzione che si trasmette dai padri ai figli; infine arriva questa scoperta
dell’immortalità dell’anima e quindi il problema della giustizia si risolve con il passaggio all’al di
là. Cioè noi potremmo dire, in termini moderni, nasce quello che sarà poi tacciato come il problema
dell’alienazione: tu sei giusto, però della salvezza se ne parla un’altra volta. Allo ra queste due
salvezze, questa salvezza nel presente, nella storia, e questa salvezza del futuro, nell’al di là, nello
sviluppo di queste tradizioni restano ancora congiunte, oppure bisogna dire che ormai il problema
della salvezza assorbe il problema della giustizia sul piano storico?
Paolo Sacchi:
No, no, il problema della salvezza storica - chiamiamola così - su questa terra sussiste, è
fortissimo. E rinasce, almeno stando ai documenti, perché dove non ci sono documenti appunto si
può dire che non c’è nulla. È difficile parlare dei tempi in cui qualcosa non è documentato. Per
avere un’idea della forza con cui poteva essere sentito il problema al tempo di Gesù pensate alla
predicazione di Giovanni Battista. Che cosa dice, in fondo? Siamo in una situazione gravissima, ci
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sono i Romani, c’è la corruzione, ci sono gli Erodiani, c’è di tutto. Vale a dire che la situazione è
veramente nera. Ma perché è nera? Perché – dice - siamo immersi nel peccato. L’unica via di
salvezza è la giustizia. Si ritorna in un certo senso al discorso di Amos che resta sempre
nell’ebraismo, e ritorna sempre fuori. L’unica via di salvezza è la giustizia. “Pentitevi perché la
scure è posta alla radice”. “Attenzione, verrà uno che vi battezzerà col fuoco”. La dizione “con
spirito” verosimilmente è un adattamento cristiano, lo Spirito Santo che viene sotto forma di fuoco.
Lui diceva certamente: “dopo di me deve venire uno più forte di me che, se non vi pentite, vi
battezzerà con il fuoco”; che vuol dire la distruzione, qualcosa di questo genere. Gesù si stacca da
Giovanni perché ha idee diverse evidentemente, perché la sua missione lo porta da un’altra parte;
però il discorso di Giovanni è proprio radicato in quest’idea, che l’unico modo per realizzare una
salvezza sulla terra è quello della giustizia: pentitevi e battezzatevi. Poi c’è il problema: perché non
basta pentirsi, come direbbe un fariseo, ma ci vuole anche il battesimo. Perché evidentemente
Giovanni accetta in pieno l’idea che la trasgressione produce un’impurità. Quindi: ora vi siete
pentiti, benissimo, però il peccato resta, sotto la forma di impurità; che è lo stesso concetto poi che
c’era a Qumran dove si può dire che l’uomo è già peccatore dentro l’utero. E’ un’impurità che si
trasmette di padre in figlio. Giovanni non dice questo ma ha quest’idea che dalla trasgressione
deriva un qualcosa. Credo che questo sia restato anche dopo, quando il prete dice: purificatevi dai
vostri peccati. Cosa vuol dire purificatevi? Non è “pentitevi”, è diverso. E’ “levatevi un qualcosa
che è attaccato dentro”. Credo che qualcosa del genere ci sia anche in S. Agostino, ma ora non
saprei citarvelo.
Raniero La Valle:
E poi il problema della salvezza storica, con la via che prende Gesù, come si pone?
Paolo Sacchi:
I Vangeli tendono molto a dire: “il mio regno non è di questo mondo”. Tendono molto a
questo. Io sono convinto che la predicazione di Gesù non riguardasse esclusivamente l’al di là, la
salvezza dell’anima, ma riguardasse anche l’al di qua, anche la salvezza storica in questo mondo.
Di questo sono convinto, e mi pare risulti dalla lettura un po’ di tutto il Nuovo Testamento.
Soprattutto in Luca mi pare abbastanza evidente. Anche se gli esempi sono sempre personalizzati,
come nell’episodio del buon Samaritano. Come è possibile stabilire una giustizia sulla Terra? Per
esempio il discorso di Gesù sul perdono è un superamento nettissimo del concetto di giustizia. Il
perdono, una volta che è attuato, per Gesù crea una nuova giustizia. Questo è veramente nuovo. Da
un punto di vista rigidamente ebraico (non soltanto dei farisei, per i quali la cosa è particolarmente
chiara, ma di tutti gli Ebrei antichi) il perdono è un ordine, un comandamento biblico, che deve
essere realizzato nei limiti in cui lo indica il comandamento biblico. Il soggetto del perdono deve
sempre essere l’offeso. Cosa che esclude per principio, per necessità, che possa essere perdonato
l’assassino, e in ogni caso tutte quelle forme di male che non ricadono sotto la responsabilità precisa
di uno. Queste non si possono perdonare. Il discorso di Gesù è: perdona sette volte sette,
interpretato poi dalla Chiesa, e credo giustamente, nel senso che il perdono è l’unico modo per
stroncare quella catena di male che va di generazione in generazione. Quindi non serve la legge,
quello che serve è il superamento appunto della legge, perché la legge si supera attraverso il
perdono. La punizione non è la soluzione. Questo superamento è per questo mondo e certamente è
un’apertura su un mondo diverso, che ancora non esiste nemmeno, per conto mio, nei principi.
Perché fintanto che si seguita a credere che la salvezza della nostra società dipende dal far meglio
una legge, puoi farla meglio quanto vuoi, sarà sempre regolarmente vanificata. Questa è la mia
esperienza. Quindi il Cristianesimo, nella predicazione di Cristo, va oltre a questo punto. D’altra
parte sono appena duemila anni che è passato Cristo. Per me questa è la portata del suo discorso
proprio per questo mondo. Però questo comporta in qualche modo il discorso di Geremia. Non basta
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rifare una legge. È la nuova umanità. Diciamo che ci vuole un’educazione nuova, un educare gli
uomini a capire un certo insegnamento che per ora resta lì.
Raniero La Valle:
Quindi possiamo dire provvisoriamente che il punto di arrivo di tutto questo discorso è che
la giustizia arriva alla fine al perdono?
Paolo Sacchi:
Si.
Raniero La Valle:
Il perdono è il nuovo nome della giustizia
Sacchi: Non è, sarà: per lo meno per Gesù la strada è questa.
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