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RASSEGNA STAMPA
giovedì 14 gennaio 2016
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
DIRITTI CIVILI E LAICITA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Redattore Sociale del 13/01/16
Hotspot e respingimenti, associazioni in
strada per i diritti dei migranti
A Milano, Torino, Roma e Messina ogni giovedì, dalle 18 alle 20, presidio
in memoria dei migranti morti e per chiedere maggiori diritti per i
profughi. Scardamaglia: diritti continuamente violati e discriminati
PALERMO - Sotto i portici di via Ruggero Settimo, nel cuore del salotto cittadino,
Palermosenzafrontiere ritorna in strada ogni giovedì, dalle 18 alle 20 in memoria di tutti i
migranti morti ma anche per chiedere maggiori diritti nei confronti di tutti i profughi che
arrivano nelle nostre coste in cerca di una vita migliore. L'iniziativa si svolge
contemporaneamente nelle zone centrali di Milano, Torino, Roma, Messina. "Con la
creazione degli Hotspot ed i respingimenti differiti le persone vengono letteralmente
sbattute in mezzo alla strada senza mezzi né informazioni, a Pozzallo, Lampedusa,
Agrigento, Trapani - si legge in una nota degli organizzatori -. Costrette a identificazioni
forzate senza alcuna garanzia - in forza del Regolamento di Dublino III - di poter lasciare il
paese e proseguire il viaggio verso i paesi di destinazione, dove raggiungere familiari e
amici e ricostruirsi una vita. Trattati come pacchi, oggetti da classificare e gestire,
riallocare o espellere, indipendentemente dal fatto che siano uomini, donne o bambini/e,
dai motivi della migrazione, dalle storie personali, dai rischi e dalle violenze subite, dal
proprio progetto di vita, il più possibile dignitosa. Tutto ciò, oltre a violare le stesse
normative che vorrebbero garantire la sicurezza europea, produce e perpetua la
clandestinità, rende precarie le esistenze, le consegna alla criminalità locale e allo
sfruttamento lavorativo, dopo aver foraggiato i trafficanti internazionali di esseri umani".
Palermosenzafrontiere chiede, insieme alle altre reti delle città italiane aderenti: il rispetto
del diritto di asilo e la libertà di movimento sanciti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti
dell'Uomo (art. 13 e 14); l'istituzione di percorsi di arrivo sicuri e legali; la cessazione dei
respingimenti e delle espulsioni forzate; la chiusura di tutti i luoghi di concentramento e
detenzione (CIE e Hotspot); l'abolizione del Regolamento di Dublino e la creazione di un
sistema unico di asilo europeo, senza artificiose distinzioni tra "profughi" e "migranti
economici"; di porre fine a tutte le forme di abuso, violenza, discriminazione e istigazione
all'odio nei confronti delle persone migranti.
"Abbiamo deciso di continuare - spiega il laico comboniano Toni Scardamaglia - perché
riteniamo di estrema importanza proseguire la nostra azione di sensibilizzazione della
cittadinanza sul tema dell'immigrazione. L'intento è sostenere pienamente i migranti
nell'esercizio di tutti i diritti che vengono continuamente violati e discriminati dal nuovo
quadro organizzativo nazionale ed europeo. In particolare denunciamo fortemente quello
che succede negli Hotspot che risponde soltanto ad una politica di chiusura europea a cui
l'Italia si sta piegando. La conoscenza e la sensibilizzazione dei cittadini deve passare
anche da queste iniziative che mirano a sfatare pregiudizi e altre strumentalizzazioni
negative quando si parla di migranti".
"Dal 2000 ad oggi sono oltre 27.000 le vittime accertate dell'immigrazione in Europa - si
legge in una loro nota -. 3.771 vittime nel solo 2015 - il doppio del 2014 - di cui 700 i
bambini. Un genocidio in corso. Oltre a queste si calcola che circa 100.000 persone siano
scomparse nelle rotte migratorie da Asia e Africa. Morte in mare, nel deserto, nelle carceri
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dei regimi totalitari. I nuovi desaparecidos. E' di loro che vogliamo occuparci. Ricordare i
morti e i dispersi. Insieme a Milano, Torino, Roma, Messina vogliamo gridare a gran voce
che le frontiere uccidono. Non esiste oggi un modo legale per arrivare in Europa". "Chi
parte fugge da guerre, violenze, miseria. Se arriva trova spesso altra violenza e ostilità,
confini militarizzati, diffidenza e paura - scrivono gli attivisti -. Diffidenza e paura alimentate
da opinionisti e mass media, che additano migranti e rifugiati come il nemico da cui
proteggersi. Dei recenti attacchi terroristici e delle orribili molestie ci sono responsabilità
individuali da accertare. E' comodo però, per le nuove destre, criminalizzare i migranti in
blocco, per difendere una presunta supremazia e marcare il territorio, dopo aver
storicamente e sistematicamente depredato quello altrui".
Aderiscono alla rete Palermosenzafrontiere e sostengono i Giovedì in strada a Palermo
per i nuovi desaparecidos: Osservatorio Antidiscriminazioni Razziali Noureddine Adnane,
Forum Antirazzista Palermo, Arci Palermo, Laici comboniani Palermo, Emmaus Palermo;
Cgil medici, Mediterraneo di Pace, Borderline Sicilia Onlus, Associazione Santa ChiaraSalesiani Santa Chiara; Comitato Antirazzista Cobas, Ciss-Cooperazione Sud Sud,
Associazione Mediterraneo di Pace, Campagna Miseria Ladra di Libera e gruppo Abele,
Bibliofficina Booq, Acf Sicilia. Per info e adesioni: [email protected] (set)
Da Corriere del Mezzogiorno del 14/01/16
Assalto al centro di accoglienza,
il sindaco: «No sindrome Colonia»
Napoli incontra i residenti di Matierno: «Facciamo uno sforzo di
pacificazione»
di Sara Botte
Il sindaco Vincenzo Napoli ieri sera ha visitato Matierno, accompagnato dall’assessore alle
Politiche sociali Nino Savastano. Il pretesto è stato l’inaugurazione di un centro
polifunzionale per i ragazzi del quartiere collinare, ricavato da una ex scuola elementare
vandalizzata, e l’incontro con gli operatori del terzo settore della zona e le associazioni che
portano avanti corsi e laboratori che guardano al futuro del rione. Si è trattato però solo
dello spunto che Napoli ha colto per rompere il silenzio sulle violenze dei giorni scorsi che
hanno portato Matierno sulle cronache nazionali dopo la presunta aggressione, da parte di
un ragazzo pakistano, a una quattordicenne locale e il «raid punitivo» a opera dei residenti
che ne è conseguito. «Si devono tenere sotto controllo le reazioni di pancia che possono
turbare l’armonia del quartiere, che ovviamente vive contraddizioni e problematiche ma
senza raggiungere livelli di guardia particolari», ha dichiarato Napoli: «Come
amministrazione, ci siamo e condanniamo ogni tipo di violenza che va assolutamente
esorcizzata, dobbiamo condurre alla ragione le persone. Ma più che gli aspetti repressivi
preferirei far valere lo sforzo di pacificazione».
Il racconto
La vicenda, poi rivelatasi un banale fraintendimento, ha evocato le terribili violenze di
Colonia, come dimostrano i volantini di Forza Nuova che tappezzano Matierno. Anche per
questo il sindaco Napoli ha rimproverato chi si fa coinvolgere «dagli aspetti emulativi di
casi gravi di cronaca che purtroppo pervadono l’immaginario collettivo. C’è bisogno di una
sforzo di comprensione per fare in modo che si sappia quello che è veramente successo,
non vorrei che si creasse un circolo vizioso». Ci tiene a fare chiarezza sul caso, ormai
archiviato dai carabinieri, anche Claudio, il fratello della presunta vittima, che smentisce
con forza le molestie fisiche subite dalla sorella: «Domenica sera — ha precisato — mi ero
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recato davanti al portone degli otto immigrati per avere chiarimenti su quanto raccontatomi
da mia sorella. Poi si sono accodate altre persone. Ma io volevo solo sapere la verità. Non
è vero che il quartiere odia gli stranieri, a me dispiace per loro». La ragazza gli aveva
confidato che circa un mese fa un ragazzo pakistano, ospite della struttura Sprar gestita
dall’Arci, aveva tentato di avvicinarla. Da lì l’idea del chiarimento che è degenerato in una
sassaiola.
http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/salerno/cronaca/16_gennaio_14/assalto-centroaccoglienza-sindaco-no-sindrome-colonia-86f12138-ba9b-11e5-81dc-99563e1ebef8.shtml
Da la Città di Salerno del 14/01/16
Matierno non è Colonia ma è diventato un
caso politico
Salerno finisce alla ribalta dei media nazionali per le presunte violenze
alle donne della frazione e l'assalto al centro Sprar di via San Luca di
Fiorella Loffredo
SALERNO. Quanto male fa la cattiva informazione. Soprattutto quando la voglia di
sbattere il “mostro” in prima pagina diventa più forte dell’obbligo di verificare con esattezza
di quale turpe delitto si è macchiato il suddetto mostro. E, soprattutto, se realmente si
tratta di un mostro. O di un ragazzo di neanche vent’anni arrivato a Salerno solo alla
ricerca di una vita migliore, tanto fragile quanto gracile, com’è quello che domenica sera la
folla voleva linciare a Matierno. Le informazioni incomplete, sbagliate o volutamente
faziose, che sono state diramate a poche ore dall’assalto al centro Sprar di via San Luca
da parte di un gruppo di residenti capitanati da qualche “giustiziere” del quartiere hanno
creato un pantano in cui per alcuni organi di stampa – soprattutto quelli più lontani sia
fisicamente che idealmente da quel tentativo di integrazione pacifica che l’Arci sta
cercando di mettere in piedi in uno dei rioni più complicati della città – è stato un piacere
sguazzare.
Ecco, quindi, che Salerno diventa la Colonia italiana dove le donne devono avere paura di
uscire di casa perché in agguato c’è almeno un immigrato che vuole violentarle. La
“ghiotta” occasione di creare conflitto sociale in un territorio che di altri conflitti non ne ha
davvero il bisogno, è stata colta al balzo non soltanto da alcune forze politiche del territorio
– i manifesti di Forza Nuova con sopra scritto “Le nostre donne non si toccano” è
l’esempio più lampante – ma anche da alcuni organi di informazione che supportano il
pensiero respingente di chi vuole gli immigrati fuori dall’Italia. “Il Giornale”, quotidiano
diretto da Alessandro Sallusti, ha addirittura accostato i fatti di Matierno alle violenze del
Capodanno tedesco senza preoccuparsi (o volendo artatamente ignorare?) del piccolo
particolare che nel rione collinare della nostra città nessuna donna è stata molestata, men
che mai da un ospite del centro gestito dall’Arci.
Una volta fatta chiarezza, è stato il web il primo a sollevarsi contro la cattiva informazione
che nella giornata di lunedì l’ha fatta da padrone, anche e purtroppo in città. Ci sono stati
anche collegamenti televisivi con reti nazionali, l’ultimo solo ieri sera quando, poco dopo le
20.30, durante il programma “Dalla vostra parte” trasmesso su Rete 4 e condotto da Paolo
Del Debbio, con un sottopancia che recitava “Donne e immigrati, l’ora della paura”, si è
parlato del “caso Salerno”. Ad essere chiamato, ancora una volta, a restituire il senso di
realtà ai fatti accaduti domenica sera davanti alla palazzina di via San Luca è stato
Francesco Arcidiacono, presidente dell’Arci Salerno; a negare che ci sia stato un assalto
premeditato ai danni degli ospiti del centro, che niente hanno fatto alle loro donne, alcuni
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residenti del quartiere che hanno anche affermato di non volere gli immigrati nel loro rione
soprattutto perchè «mangiano e
bevono sulle spalle della nostra comunità». Ecco, questo è il clima di odio e intolleranza
che si fomenta quando, come ha sottolineato Arcidiacono, non si ha ben chiara, o si usa a
sproposito, «la responsabilità che proviene dal parlare a microfoni aperti».
http://lacittadisalerno.gelocal.it/salerno/cronaca/2016/01/13/news/matierno-non-e-coloniama-e-gia-un-caso-politico-1.12770524
del 14/01/16, pag. 1/15
Il processo costituente del soggetto unitario
Luciana Castellina
Domenica si riunirà il Comitato Nazionale dell’Altra Europa per Tsipras , l’organismo — un
centinaio di persone — eletto ormai parecchio tempo fa, quando si decise di rendere
stabile la rete dei comitati che aveva partecipato alla campagna elettorale europea del
maggio 2014. Sarà il primo incontro dopo la così detta rottura del famoso tavolo incaricato
di negoziare come far partire il processo di costituzione di un nuovo soggetto della sinistra,
un passaggio dunque importante per tutti quelli che ancora insistono nel puntare a questo
obiettivo.
Dico “così detta” rottura, perché una percezione così drammatica di quanto è accaduto
quel giorno io francamente non la condivido. Sebbene speri in una sua ulteriore
riflessione, ho compreso la posizione espressa con molta onestà da Paolo Ferrero quando
ha dichiarato l’indisponibilità del suo partito anche solo di ipotizzare il proprio scioglimento,
perché Rifondazione è un partito molto strutturato e identitariamente determinato. E ho
pensato che per ora occorresse prenderne atto, indicando subito, però, come stabilire
un’intesa per continuare a collaborare.
Il processo costituente del resto non è chiuso, è appena aperto, e se funzionerà gli innesti
potranno (e dovranno) essere ancora molti.
Ho capito meno le reazioni che ho visto espresse on line da molti dell’Altra Europa, perché
non vedo francamente in cosa consista il colpo di stato che sarebbe stato operato da chi
ha deciso di procedere con chi sia d’accordo nell’avviare un processo — che tutti
sappiamo lungo e per niente garantito — al termine del quale, e solo allora, nascerà —
forse — un soggetto unitario. Non un’alleanza elettorale, e dunque non fondata soltanto
sulla cessione di ciascuna componente della sovranità in questa peraltro quantomai
scivolosa materia: questa l’abbiamo già sperimentata e non è stata mai brillante.
Fino a quando non si rimescolano le carte — e cioè non ci si mischia anche umanamente
nelle stesse sedi; non si creano nuove amicizie e nuove solidarietà; non si discute
assieme senza la paura che un’ipotesi o l’altra privilegi questo o quello; non ci si senta
solidali anziché pronti all’accusa reciproca; non ci si impegni a capire le ragioni dell’altro,
che non vanno solo rispettate ma anche usate come risorsa critica per se stessi — non si
andrà da nessuna parte. Per questo la formula “arcobaleno” non va bene: significa
immobilizzare le diversità anziché farle vivere come positivo innesco.
Ho detto che quanto si discute importa a chi ancora insiste nel puntare all’obiettivo del
nuovo soggetto, perché mi rendo conto che siamo sempre meno a sperarci e io che sono
piuttosto attempata comincio a sentirmi persino un po’ ridicola. Gli amici e compagni —
tanti — che so che potrebbero esser coinvolti nell’avventura cominciano a guardarmi come
personaggio un po’ patetico. Il linguaggio del dibattito che si è sviluppato on line è di per
sé sufficiente a farsi passare la voglia: grondante di sospetti; a prendere qualsiasi
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perplessità — pur comprensibile — da parte di chi ha passato anni impegnato in questa o
quella amministrazione locale come mero desiderio di mantenere uno sgabello; qualsiasi
impazienza per intenzione di tagliar fuori questo o quello; un’intervista di Fassina per
indebito protagonismo (che qualcuno esca dal comodo Pd per unirsi alla nostra, per ora
almeno, armata brancaleone, non c’è tutti i giorni, non vi pare?); e così via. Ce l’ho anche
con chi, a una come me e a tanti compagni anche parecchio più giovani di me, dice che
siamo compromessi col ‘900: certo che lo siamo, perché lo abbiamo vissuto pienamente
senza tirarci indietro. Ogni generazione ha evidentemente il diritto di ricominciare daccapo:
ma lasciamo a Renzi (e a Berlusconi) giudicare quel secolo come fosse stato solo
immondizia, gli serve a cancellare tutte le cose che bene o male, e in mezzo a tanti errori,
si sono pur conquistate.
Io capisco i timori di molti compagni di comitati locali per la possibilità che le
organizzazioni nazionalmente strutturate e persino dotate di una rappresentanza
parlamentare possano prevaricare le altre. Ma, suvvia, avete paura della “corazzata” Sel?
(Magari fosse una nave un po’ più solida!). Se si sentisse tanto autosufficiente non si
sarebbe resa disponibile a sciogliersi, tanto più che c’è — ancora, per fortuna —
aspettativa in una parte del popolo di sinistra per uno nuovo corso, un’area che non si
esaurisce con chi stava a quel famoso tavolo e cui Sel potrebbe guardare. Credo che se
Sel insiste nel rapporto in particolare con l’Altra Europa sia per il desiderio di non perdere
una esperienza e una cultura — quella che è stata chiamata “generazione di Genova” —
che è propria invece ai comitati o reti che a quel tavolo avevano fatto capo.
Sia pure quantitativamente non decisivi, quelle forze sono importanti per caratterizzare il
nuovo soggetto che intendiamo costruire; ed è perciò che l’apporto dell’ “Altra Europa” è
importante. Ma non si può neppure pensare che questa area rappresenti tutta la forza
potenzialmente aggregabile. Se tergiversa troppo, rischia di ignorare pericolosamente
l’importanza dei tempi politici: siamo alla vigilia di una battaglia referendaria decisiva, di
scadenze di lotta sui temi del lavoro e a urgenze di iniziativa internazionale che non
consentono tempi biblici.
Credo sia il momento di avere il coraggio di provare. Cosa sarà il nuovo soggetto della
sinistra dipenderà da chi nel corso del processo ne conquisterà l’egemonia (non il
controllo, fido che tutti abbiano letto Gramsci) . Perché di una egemonia c’è bisogno,
perché se non riusciamo ad esprimere una leadership, resteremo sempre paralizzati.
La costruzione di un gruppo dirigente è stata per qualsiasi forza che ambisca a cambiare il
mondo uno dei processi più delicati e importanti, non è una “bestemmia novecentesca”. E’
indispensabile se si vuole un soggetto deliberante e capace di un pensiero lungo, non solo
un aggregato che testimonia confuso malessere. (Il 99% contro l’1% può sembrare una
bella formula ma non è un caso che quel 99 non vinca mai: perché è facilissimo unirsi
sulla protesta, difficilissimo sulle proposte).
Non si evitano i rischi di prevaricazione, di autoreferenzialità, di arrogante pretesa di
essere il solo soggetto della politica (questo il difetto maggiore del vecchio Pci), di
separatezza, in cui sono caduti vittime anche i migliori partiti , evitando di porsi questo
problema. (Pensate al leaderismo estremo di tutte le formazioni che si sono volute
informali, dal Partito radiale, a Cinque stelle in poi). Si evitano se si riescono a costruire,
assieme al partito (io lo chiamo così, ma anche questo è un tema da discutere), forme
nuove, stabili e partecipate di democrazia organizzata, che investano il partito e lo
costringano a ridefinirsi in rapporto alle nuove soggettività che crescono nella società.
Ad impedire ogni separazione interna fra vertice e base serve poi ben più che un insieme
di regolette lo sforzo di ridurre al minimo la distanza fra dirigenti e diretti, che vuol dire
anche trovare i modi di una crescita collettiva che non separi chi sa (o pretende di sapere)
da chi davvero non sa. L’arbitrio ha sempre origine da qui.
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E allora: possiamo farcela? Potremmo se nessuno si ritrae con paura ma se tutti si
sentono abbastanza forti da contribuire a fare questa cosa che vogliamo fare. Come sarà
è esito ancora piuttosto aperto. Ed è naturale che sia così. Perché la difficoltà
dell’operazione non sta nella malafede di questo o di quello, ma negli stravolgimenti che
hanno colpito il mondo e che ci costringono a ripensare tutto. Uno spaesamento di fronte
al quale purtroppo nessuno è riuscito a trovare strategie vincenti.
Ci sono fasi della storia così, e noi siamo nel pieno di una di queste fasi. E’ una
constatazione che rischia di diventare paralizzante, e infatti è qui la radice di tanti
abbandoni. Credo sia necessario impegnarsi ugualmente perché c’è speranza di trovare
una via se ci parliamo, con la pazienza di ascoltarci reciprocamente, non se restiamo
ciascuno a casa propria.
Da Messaggero Veneto del 13/01/16
Premio giovani: riconoscimenti ai meriti
Sport, scuola e volontariato sono i settori in cui si sono distinti i diciotto
tra ragazzi e ragazze premiati dal Comune di Aurora Milan
UNIVERSITA DI TRIESTE. La meritocrazia è la protagonista che il comune di Udine ha
voluto celebrare attraverso il lancio dell’iniziativa "Premio Giovani - Giovani di Pre.Gio.”.
Questo premio, voluto dall’assessore Raffaella Basana, ha come obbiettivo la
corresponsione di un riconoscimento pubblico a giovani udinesi che si siano distinti nelle
tre categorie previste dall’iniziativa: scuola, sport e volontariato. Sabato 7 gennaio, in una
gremita Sala Ajace, sono stati consegnati i riconoscimenti del valore complessivo di
diecimila euro a diciotto tra ragazze e ragazzi dai percorsi sportivi, scolastici e umanitari
particolarmente brillanti.
«Il Comune è orgoglioso di questi giovani cittadini che promuovono il prestigio della città a
livello nazionale e internazionale. Dobbiamo essere molto orgogliosi dei nostri giovani e
dichiararlo senza mezzi termini.
Un riconoscimento che siamo orgogliosi di poter attribuire ai nostri giovani perché possa
aiutarli a coltivare le loro passioni»: con queste parole il sindaco Furio Honsell ha accolto i
diciotto premiati.
A fargli eco l’assessore Basana, che ha aggiunto: «È un modo per riconoscere l’operato di
questi ragazzi. É un’iniziativa che vuole rappresentare un’iniezione di fiducia in un
momento di crisi economica e valoriale».
Ecco i nomi delle giovani eccellenze: per il settore scolastico sono Fabio Zoratti (liceo
scientifico Marinelli),Yoo Yung Lee(Educandato Uccellis), Margherita Nimis (liceo classico
Stellini) e Giona Micossi(liceo) Marinelli, Alberto Peccol (Itis Malignani) e Massimo Gallini
(Ipsia Ceconi); menzione speciale per Giacomo Marcocig e Pietro Savonitto (entrambi
Conservatorio Tomadini).
Per il settore sportivo: Serena Nigris (Federazione Italiana Nuoto), il gruppo staffetta
4x100 (Riccardo Del Torre, Cristiano Giovanatto, Federico Rossi e Giovanni BasaliscoFederazione Italiana Atletica Leggera), Martina Molinaro (Fidal), Michele Comuzzi
(Federazione Italiana Judo), Pavlo Vasa (Federazione Italiana Pesistica) e Nicole
Stroppolo (Federazione Ginnastica Italia Fvg). Infine per il volontariato i premi sono stati
conferiti a: i giovani di “Get Up” (Arci Nuova Associazione), Angela Lovat (associazione
Ospiti in arrivo onlus e associazione
All4Children), Maria Grazia Bassi (associazione “Udineaiuta onlus”), Simone Spadarotto
(associazione “Maria Saveria Lenoci”), Otu Agyei Oduro (proposto dall' Unione delle
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Comunità ed Associazioni di Immigrati Friuli Venezia Giulia) e Nicola Petrucco (Comitato
Sport, Cultura, Solidarietà).
http://messaggeroveneto.gelocal.it/udine/cronaca/2016/01/13/news/premio-giovaniriconoscimenti-ai-meriti-1.12774222
Da Reggionline del 13/01/16
Destra in piazza Martiri, gli antifascisti
uniscono le forze in piazza Prampolini
Sabato mattina di tensione per le manifestazioni in programma in
centro. La posizione di Anpi, Anppia, Arci, Associazione reggiana per la
Costituzione, Cgil, Filef, Inziativa Laica, Istituto cervi, Istoreco, Partito
Comunista, Pd, Rifondazione e Sel
REGGIO EMILIA - Gli antifascisti uniscono le forze in vista di sabato e, sotto il cappello del
Coordinamento Antifascista di Reggio, danno appuntamento a tutti in piazza Prampolini
per rispondere dalle 10 alle 13 alla presenza in piazza Martiri delle destre reggiane. "Una
delle piazze simbolo dell'antifascismo reggiano, che continuano a chiamare “Piazza
Cavour” negando così simbolicamente l'eccidio del 1960 - si legge in una nota - Quella di
Piazza Prampolini vuole allora essere una contromanifestazione che nasce dalla
considerazione che i contenuti espressi da questa vecchia e nuova destra, che non teme
l'appellativo di “fascista” anzi se ne fa fregio, siano gravi e smaccatamente denigratori,
specie nei confronti della Resistenza e dei partigiani. Sono contenuti dal carattere
provocatorio di una destra che non ha nulla a che vedere con una destra democratica ed
istituzionale.
Saremo in piazza con la volontà di affermare l'inopportunità di concedere Piazza Martiri
del 7 Luglio per una simile messa in scena, perché i luoghi assumono un significato
collettivo e quella è la piazza dei lavoratori e dei partigiani uccisi nel 1960 in tempo di
pace. Quella piazza, in una città Medaglia d'Oro per la Resistenza come la nostra, ha una
memoria che parla ancora oggi al presente.
Il Coordinamento Antifascista composto da Anpi, Anppia, Arci, Associazione reggiana per
la Costituzione, Cgil, Filef, Inziativa Laica, Istituto cervi, Istoreco, Partito Comunista d'Italia,
Partito Democratico, Rifondazione Comunista e Sel, organizza per sabato 16 gennaio in
Piazza Prampolini, a partire dalle ore 10.00, una manifestazione antifascista di tutta la
città, per dire ancora una volta che a Reggio Emilia il fascismo non ha alcuna
legittimazione politica, sotto qualsiasi mentita spoglia lo si voglia spacciare".
http://www.reggionline.com/?q=content/destra-piazza-martiri-gli-antifascisti-uniscono-leforze-piazza-prampolini
Da Modena Today del 13/01/16
Via libera alla manifestazione di Forza Nuova,
ma sarà in piazza Redecocca
Il tavolo prefettizio ha accordato il diritto di manifestare a Forza Nuova,
che dalle 14.30 sarà in piazzale Redecocca, invece che in piazza XX
Settembre. Si teme per la presenza dei centri sociali
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E' deciso: sabato il presidio annunciato a Modena da Forza Nuova, a partire dalle 14.30, si
terrà in centro storico. La sede è quella di piazzale Redecocca. è questo l'esito della
riunione del comitato per l'ordine pubblico riunitosi stamattina in Prefettura dalle 10, in
presenza delle Forze dell'ordine e del sindaco Gian Carlo Muzzarelli tra gli altri.
Muzzarelli aveva auspicato una location più decentrata rispetto a piazzale Redecocca, ma
Prefettura e Questura hanno indicato quest'ultima. La ragione, hanno spiegato le Forze
dell'ordine a partire dalla Questura, è che il piazzale in questione conta quattro accessi
facilmente controllabili, senza interferire in uscita con la via Emilia: in questo senso, dopo il
comitato mattutino, stanno proseguendo gli aggiornamenti tecnici per definire la giusta
dotazione di uomini e mezzi, non ci sono al momento numeri precisi. Così come la
manifestazione di Forza Nuova, sabato si terranno anche il presidio degli anarchici,
previsto in largo Sant'Agostino, e quello di Anpi, sindacati e partiti (hanno appena
annunciato la propria presenza anche i Giovani democratici) al sacrario della Ghirlandina.
Precisa da parte sua il prefetto Michele Di Bari a margine del comitato odierno: "E' stata
portata avanti coi lavori di oggi un'ampia panoramica sulle dinamiche delle manifestazioni
attese sabato in città: per ogni occasione stiamo pianificando al meglio le attività di
controllo, affinchè le manifestazioni stesse, tutte, si tengano in sicurezza e nel rispetto
delle regole".
Già da qualche giorno era stata annunciata una contromanifestazione, un presidio che si
svolgerà proprio a partire dalle ore 14.30 presso il Sacrario ai caduti della Ghirlandina
(piazzetta Torre) per ribadire “l’adesione ai valori di libertà e convivenza pacifica tra tutti i
popoli, della democrazia, dell'antifascismo e dell'antirazzismo”. All'iniziativa organizzata da
Cgil, Uil, Anpi e Arci hanno finora aderito al presidio i partititi politici Pd e Sel, la Rete
Studenti Medi, LeftLab, Act! Emilia Romagna.
Ma la vera preoccupazione è la molto probabile presenza di gruppi dell'universo
antagonista, centri sociali e anarchici - che questa notte hanno già lasciato la proria firma
imbrattando il centro storico - che potrebbero tentare di disturbare il presidio forzanovista
deviando dalla propria zona di competenza. Proprio per questo la Prefettura ha preferito
concedere ai militanti di Roberto Fiore un luogo “chiuso” e defilato, nella speranza che il
controllo del territorio possa fornire tutte le garanzie di sicurezza.
http://www.modenatoday.it/politica/manifestazione-forza-nuova.piazza-redecocca.html
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
del 14/01/16, pag. 33
“Io massacrato al G8, dico no ai soldi del
governo”
MASSIMO CALANDRI
GENOVA/IL GIORNALISTA INGLESE MARK COVELL SCRIVE A RENZI:
“NO AI 40 MILA EURO PER FERMARE IL PROCESSO DELL’EUROPA”
GENOVA.
«Caro primo ministro Renzi, il mio nome è Mark Covell». Covell è il giornalista inglese
ridotto in fin di vita alla scuola Diaz durante il G8. Quella notte del luglio 2001 si era finto
morto, sperando di saziare le belve: quattro costole rotte, un polmone perforato, addio agli
incisivi e qualche altro dente. Una settimana in prognosi riservata. A novembre la Corte
dei Conti ha condannato 16 poliziotti coinvolti nel pestaggio a risarcirlo con 110 mila euro.
Oggi Covell scrive a Matteo Renzi. Una lettera aperta per avvertirlo di potenziali “disordini
sociali”, dopo che il governo – su cui pende una probabile sentenza di condanna della
Corte europea dei diritti dell’uomo - ha presentato una proposta di “conciliazione
amichevole” a 31 vittime della caserma-lager di Bolzaneto: «Quella sentenza getterà altra
benzina sul fuoco», dice. In Italia, «dove, la situazione è già incendiaria ». Soprattutto a
Genova, «che tra poco potrebbe subire la più grande dimostrazione fascista dall’anno
1960». Il giornalista, cittadino onorario del capoluogo ligure, ha scelto la formula della
missiva pubblica «perché quello dei media sembra l’unico mezzo per corrispondere con
lei, primo ministro: la sola comunicazione che abbiamo avuto dal suo Governo è quella in
cui propone di risarcire alcune vittime con 45 mila euro in cambio della “cancellazione”
della prossima sentenza di Strasburgo». La proposta, definita “indecente” dai manifestanti
cui è stata rivolta, non sarà accettata. Inevitabile la condanna dell’Italia, che non ha mai
voluto introdurre il reato di tortura nel suo codice – neppure dopo i drammatici fatti
genovesi – e che in 15 anni non ha sanzionato i poliziotti direttamente responsabili delle
violenze. «Agenti e funzionari che hanno torturato ma continuano a lavorare in qualche
parte del paese». Nei giorni di Natale Mark Covell è tornato nel capoluogo ligure a trovare
alcuni vecchi amici. «E ho sentito notizie allarmanti, alle quali tutti quelli che vennero a
Genova nel 2001 devono rispondere». Si riferisce all’iniziativa di Roberto Fiore, leader di
Forza Nuova, che all’ombra della Lanterna sta organizzando un incontro internazionale di
estrema destra. A cavallo tra febbraio e marzo. «Raduneremo l’intero movimento antifascista italiano per opporci a questa dimostrazione, se fosse autorizzata dal governo
Renzi».
Secondo Covell, Fiore sarebbe «solo interessato a causare disordini pubblici: ha vissuto a
lungo in Gran Bretagna, lavorando con estremisti italiani e britannici per preparare il suo
ritorno e rivitalizzare i fascisti italiani, mobilizzandoli in risposta a quanto accaduto a Parigi.
Voglio avvertire il governo italiano che dovrebbe prendere l’eventuale dimostrazione di
Genova molto seriamente».
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Da Avvenire del 14/01/16, pag. 11
PERUGIA
Morte Ilaria Alpi, si riapre il processo
A quasi 22 anni dalla morte di Ilaria Alpi, la Corte d’appello di Perugia riapre il processo a
Hasci Omar Hassan, unico condannato per l’uccisione della giornalista del Tg3 e
dell’operatore Miran Hrovatin, avvenuta a Mogadisco il 20 marzo del 1994. I giudici hanno
infatti accolto l’istanza di revisione del processo presentata dagli avvocati Natale Caputo,
Antonio Moriconi e Duale Duglas, difensori del somalo ora affidato ai servizi sociali a
Padova dopo avere scontato 16 dei 26 anni della condanna.
11
ESTERI
del 14/01/16, pag. 13
Fronda anti Juncker il gruppo socialista vuole
la verifica
L’Italia spinge gli europarlamentari della coalizione a chiedere alla
Commissione interventi più incisivi
ALBERTO D’ARGENIO
ROMA.
Cambia il clima politico a Bruxelles, con la Commissione guidata da Jean-Claude Juncker
al centro di una partita tutta che coinvolge governi, istituzioni e parlamentari europei. L’ex
premier lussemburghese sta catalizzando su di sé le polemiche per uno stallo, di cui
certamente non ha tutte le colpe, che nelle ultime settimane ha segnato l’Unione. Dalla
gestione della crisi migranti - sulla quale Bruxelles non ha saputo imporre a tutti i leader la
linea della solidarietà condivisa con Germania, Francia e Italia - fino ai conti pubblici, con
la flessibilità faticosamente conquistata lo scorso anno da Roma e Parigi che ora torna in
discussione per mano dei rigoristi.
Un deciso cambio di passo è arrivato ieri, alla riunione del gruppo dei Socialisti e
Democratici a Bruxelles. Si tratta del Pse, che con i suoi 190 deputati è la seconda forza
del Parlamento europeo e che insieme a Ppe (i popolari, primo partito a Strasburgo) e
Alde (liberali) forma la Grande Coalizione che a fine 2014 ha accordato la fiducia a
Juncker. E nel Pse il primo partito è il Pd di Renzi, forte del 40,8% ottenuto alle europee.
Non a caso a guidare il gruppo è l’italiano Gianni Pittella. Che ieri ha riunito gli
europarlamentari per la prima volta nel 2016 e ha pronunciato un discorso che certo non
verrà sconfessato da Renzi, da dicembre protagonista di una campagna europea
sostanzialmente volta a influenzare la Merkel e Juncker nelle future scelte politiche
continentali.
Pittella ha concluso il suo discorso chiedendo a Juncker una «accelerazione» su alcuni
temi specifici avvertendo che «sulla base di quanto farà, noi faremo la nostra valutazione
di metà mandato». Tradotto in termini spiccioli: la fiducia al presidente della Commissione
non è più scontata. L’intervento di Pittella è stato applaudito dai presenti e il presidente del
Pse, Sergei Stanishev, colui che tiene i contatti con tutti i governi e le opposizioni del
centrosinistra europeo, ha sottolineato: «Condivido questa impostazione, ci vuole
un’iniziativa forte per far cambiare le politiche europee». Molti dei trenta deputati che
hanno preso la parola hanno parlato di «verifica» dell’operato della Commissione.
Nessuno lo ha detto apertamente, ma è chiaro che se Juncker non invertirà la rotta entro
l’estate il Pse quantomeno lo metterà in difficoltà sui singoli provvedimenti che Strasburgo
dovrà approvare, ma potrebbe anche arrivare a parlare di sfiducia. Anche se Pittella al
momento ha confermato «apprezzamento e sostegno per gli sforzi» del presidente della
Commissione.
L’ex premier lussemburghese - abilissimo politico cristiano-democratico espressione del
Ppe - nel primo anno di mandato ha stupito imponendo ai nordici la flessibilità,
proponendo un piano di investimenti da 315 miliardi e spingendo per una gestione
collettiva dei flussi migratori. Ma negli ultimi mesi - dalla crisi greca della scorsa estate sembra avere perso l’abbrivio positivo, con Bruxelles che non riesce più a incidere e i
governi sempre più spaccati in una perenne zuffa collettiva. In molti, tra Bruxelles e le
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capitali nazionali, sono poi preoccupati per quello che viene descritto come un
affaticamento che ha fatto perdere mordente all’uomo del Granducato.
Sono diversi i punti che Pittella ha sottolineato nel suo discorso a porte chiuse di fronte al
gruppo del Pse come determinanti per la futura valutazione dell’operato dell’esecutivo
comunitario. Primo, il piano di investimenti deve diventare una realtà ben più visibile.
Secondo, non è possibile fare marcia indietro sulla flessibilità. Terzo, serve un’agenda
sociale in grado di aiutare l’occupazione. Stessa ragione per cui non è possibile concedere
subito lo status di economica di mercato alla Cina che colpirebbe l’industria europea e per
cui una politica dogmatica sugli aiuti di Stato, vedi le recenti polemiche sulle banche, non
può continuare a danneggiare l’economia. E infine sull’immigrazione Bruxelles deve
essere capace di imporre ai governi la distribuzione dei rifugiati e l’espulsione di chi non
ha diritto all’asilo politico.
Un’agenda che coincide perfettamente con quella del governo italiano e su molti punti con
le priorità di Francia e Germania. «Ma il malessere - spiega l’europarlamentare
democratica Simona Bonafè - è palpabile e distribuito su tutte le nazionalità». Italiani,
francesi, spagnoli e greci iniziano ad essere insofferenti, così come i tedeschi, con il
governo di Berlino guidato dalla Merkel insieme alla Spd, partito centrale nel Pse, che
sull’immigrazione si sta giocando il futuro.
del 14/01/16, pag. 1/51
Se Bruxelles processa la Polonia
ANDREA BONANNI
IN EUROPA scoppia il caso Polonia. Ed è la prova generale della resa dei conti con
l’ondata populista che minaccia di travolgere le capitali dell’Unione. La Commissione
europea ha avviato una procedura contro il governo ultraconservatore di Varsavia, al
potere da fine ottobre.
UNA PROCEDURA per constatare se abbia messo in opera «violazioni sistemiche dello
stato di diritto». È una decisione senza precedenti, basata su una nuova procedura per la
tutela dello Stato di diritto varata nel 2014, quando la minaccia sembrava venire dal
governo ungherese di Viktor Orban, e finora mai applicata.
Nel mirino di Bruxelles ci sono gli attacchi del governo, guidato dal partito “Legge e
Giustizia” (PiS), contro la Corte costituzionale polacca, di cui non vengono eseguite le
sentenze, e contro la televisione pubblica, i cui dirigenti sono stati defenestrati in blocco e
sostituiti con esponenti politici della maggioranza nominati direttamente dal ministero del
Tesoro.
La procedura per la tutela dello stato di diritto prevede tre fasi. La prima, avviata ieri, è una
fase di indagine e di raccolta di informazioni, che la Polonia dovrà fornire alla
Commissione. Se, al termine dell’inchiesta, Bruxelles dovesse constatare una «minaccia
sistemica dello Stato di diritto », si apre la seconda fase, che è quella delle
raccomandazioni. In essa la Commissione avanza proposte per correggere le violazioni
del sistema democratico in accordo con il governo interessato. Se neppure questa
seconda fase dovesse dare risultati, si passerebbe alla terza fase, quella delle sanzioni,
con l’invocazione dell’articolo 7 dei Trattati che scatta in occasione di «una seria e
persistente violazione » delle norme democratiche. La Polonia potrebbe essere privata del
diritto di voto in Consiglio e si vedrebbe così di fatto congelare la sua appartenenza alla
Ue. Naturalmente si tratta di una ipotesi estrema e praticamente impossibile da mettere in
atto. Le sanzioni, infatti, devono essere decise all’unanimità dagli altri stati membri della
13
Ue. E il governo ungherese di Orban ha già fatto sapere che non accetterebbe mai di
votare contro i suoi alleati polacchi di estrema destra.
Ma proprio la natura estrema, e difficilmente applicabile, delle sanzioni previste dai Trattati
è stata la ragione per cui due anni fa la Ue si è dotata di questa nuova procedura. Essa dà
alla Commissione un ruolo di “guardiano politico” della ortodossia democratica di ogni
governo e consente di mettere lo stato membro interessato sotto una fortissima pressione
mediatica e diplomatica, senza dover necessariamente ricorrere all’arma atomica della
sospensione del diritto di voto.
Il solo fatto che un governo europeo venga chiamato a rispondere delle sue credenziali
democratiche di fronte a Commissione, Parlamento e Consiglio costituisce un formidabile
colpo alla sua legittimità politica. Alla prossima sessione plenaria del Parlamento europeo,
la premier polacca Beata Szydlo è stata convocata per fronteggiare in aula le accuse
rivolte al suo governo. Non si preannuncia una discussione pacata. Inoltre la procedura ha
il vantaggio che, essendo improntata, almeno per le prima due fasi, al «dialogo», consente
di esercitare una serie di pressioni per incidere indirettamente sulle scelte politiche,
passate e future, del governo in questione.
Infine, un Paese che si trovi sul banco degli imputati di un processo tanto scomodo e
clamoroso finisce inevitabilmente per essere penalizzato anche in altri modi meno diretti.
Da quando PiS è al potere, la moneta polacca si è svalutata sull’euro e la Borsa di
Varsavia ha perso il 16 per cento, classificandosi maglia nera in Europa. La cancelliera
Merkel, irritata per le posizioni ultra populiste di polacchi e ungheresi sulla questione dei
profughi, ha già ventilato l’ipotesi di sanzionare questi governi tagliando i fondi europei loro
destinati. Senza contare che, quando si è deciso la redistribuzione dei rifugiati, lo si è fatto
con una decisione a maggioranza, imponendo la volontà comune ai riottosi Paesi dell’Est.
Ma la decisione presa ieri dal collegio dei Commissari ha una portata politica che va ben al
di là del caso polacco. Essa segna la volontà delle autorità comunitarie di fissare una serie
di paletti contro il dilagare dell’ondata populista che sta investendo il continente. Il
messaggio sostanziale che arriva da Bruxelles è che, al di là delle disquisizioni giuridiche,
non si può stare in Europa senza condividerne i valori fondamentali di solidarietà,
tolleranza, libertà, rispetto delle minoranze e dei diritti di tutti. E, se non si rispettano i
valori fondamentali, necessariamente si finisce per intaccare il delicato sistema di «checks
and balances» che garantisce le nostre democrazie evolute. Lungi dall’essere un
organismo burocratico, come vorrebbero i suoi detrattori, la Commissione ha compiuto un
gesto altamente politico in alleanza con il Parlamento europeo che le ha votato la fiducia.
Ora tocca ai governi, e in primo luogo a quelli che esibiscono impeccabili credenziali
democratiche, raccogliere la sfida della guerra al populismo.
del 14/01/16, pag. 14
Libia, entro il 17 il governo poi l’appello
all’Onu per un intervento armato
I Servizi occidentali, Italia compresa, monitorano lo Stato islamico “In
due settimane 500 nuovi combattenti dal fronte Iraq-Siria”
ROMA.
Lo scenario è chiaro: se mai ce la farà, entro il 17 gennaio il premier libico incaricato
dall’Onu Fajaz Serraj dovrà presentare il suo governo. Poi ci vorranno altri 10/15 giorni
perché il nuovo esecutivo libico venga votato dalla Camera dei rappresentanti di Tobruk.
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Solo allora Consiglio di presidenza e Ministro della Difesa libici potranno chiedere, come
sembra inevitabile, aiuto militare all’Onu per operazioni militari contro i terroristi del Daesh.
Ma naturalmente l’Is non sta a guardare, sta chiamando rinforzi in Libia: «Nelle ultime
settimane hanno dimostrato una capacità militare notevole», dice una fonte della
Presidenza del Consiglio, «servizi segreti alleati ci hanno segnalato un dato preoccupante:
in 2 settimane dal fronte Iraq-Siria sono arrivati in Libia 500 nuovi combattenti, per non
parlare di quelli di Boko Haram che risalgono dal Sud».
Per questo se fino a pochi giorni fa il governo italiano era preoccupato da un eccesso di
reazione da parte di alleati europei (Francia e Gran Bretagna) che andassero a colpire
prima dell’insediamento del nuovo governo, da alcuni giorni a Roma il clima è cambiato.
Nella riunione a Palazzo Chigi fra Renzi e il gabinetto di crisi (Minniti, Gentiloni, Pinotti,
Alfano più i tecnici) è stato fatto un punto che sostanzialmente ha avuto un risultato
concreto: il governo italiano continua a credere che l’unica opzione militare in Libia si
debba costruire con un governo libico in sella, «ma dobbiamo prepararci ad affrontare
pericoli improvvisi». Ieri Palazzo Chigi ha smentito «ricostruzioni fantasiose» comparse sui
giornali sul vertice, che però essendo stato una riunione in cui non si è deciso di concreto
nessuna operazione militare può essere presentato anche solo come un cambio di
“umore”. Facilmente smentibile. «La percezione è che ormai l’Italia possa essere costretta
in poche ore a valutare un’azione per evitare nuove operazioni militari del Daesh», dice
una fonte di Palazzo Chigi. Ecco quindi la smentita: il governo non ha deciso nuove
operazioni militari, punta tutto sulla mediazione Onu di Martin Kobler. Ma si prepara al
peggio. Come stanno facendo d’altronde i principali alleati: Francia, Gran Bretagna e Stati
Uniti da settimane sorvegliano quotidianamente gli spostamenti delle truppe del Daesh. La
settimana scorsa la battaglia di Sidra, quella in cui i terroristi sono riusciti ad incendiare
alcuni depositi di carburante, è durata addirittura 18 ore. L’hanno seguita tutti i servizi
segreti della regione in diretta. E anche gli italiani.
( v. n.)
del 14/01/16, pag. 16
A Istanbul svuotata dalla paura Il kamikaze
aveva chiesto asilo “Ma il nostro nemico è
Putin”
Nelle strade un clima spettrale. Arrestate 69 persone, tra cui tre russi
L’attentatore era un siriano: aveva varcato il confine il 5 gennaio
MARCO ANSALDO
IL REPORTAGE
DAL NOSTRO INVIATO
ISTANBUL
VUOTA, spettrale. Ferita nella piazza simbolo dell’Impero Ottomano e, di colpo, sgombra
di turisti, nel freddo di gennaio la metropoli si riflette sulle acque di un Bosforo livido, sul
quale la distanza fra Asia e Europa appare oggi ancora più grande. Mai vista Istanbul così.
Colpita al cuore come nemmeno il terremoto del 1999 aveva potuto. Voli mezzi vuoti
dall’Europa, se non cancellati o dirottati altrove. L’aeroporto internazionale Ataturk sembra
un deserto. Dal volo della Turkish Airlines proveniente dall’Italia solo due passeggeri si
dirigono verso l’uscita, e uno di loro è un locale. Tutti gli altri sono viaggiatori in transito. La
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folla di questuanti, tassisti, procacciatori d’hotel che di solito sommerge il visitatore al
varco è ora ridotta a un piccolo muro di visi increduli per la penuria improvvisa. Le hall
degli alberghi sono lande desolate, dove gli affittacamere rispondono alla domanda sul
flusso quotidiano di stranieri in arrivo con due parole che alternano, e significano la stessa
cosa: «Cancellazioni» e «disdette». Cioè, turismo in ginocchio. A Piazza Sultanahmet, il
cuore del quadrilatero magico composto da Moschea blu, Topkapi, Museo di Santa Sofia e
Cisterna, circolano solo visitatori giapponesi, che alle tv turche ripetono quanto sia bella la
Turchia. Bella sì. E impaurita. E pericolosa anche, fino a quando il suo governo non si
deciderà a spazzare dai propri confini i troppi militanti del Califfato nero, e a spezzare le
proprie ambiguità su tutti i fronti aperti: diritti umani, libertà di stampa, rispetto delle altre
confessioni, tanto per cominciare. E poi rapporti chiari con Europa, Russia, Israele,
ognuno un nodo da risolvere.
I 10 turisti uccisi dal kamikaze che si è fatto saltare in aria l’altra mattina davanti
all’Obelisco di Teodosio erano tutti tedeschi, infine. Sembra che abbia colpito a caso, fa
capire il ministro dell’Interno tedesco, Thomas de Maziere, spiegando che non vi sono
indizi che li indichino come l’obiettivo specifico dell’attentato. Strano, però. E comunque il
dato non cambia: dieci turisti tedeschi saltati in aria nel cuore di Istanbul a opera del
Califfato nero.
L’attentatore, ha rivelato ieri il premier turco Ahmet Davutoglu, non solo era un jihadista, di
nome Nabil Fadli, cittadino siriano e nato in Arabia Saudita, ma aveva varcato la frontiera
come migrante. Dunque, il 5 gennaio ha chiesto asilo politico alla Turchia, e poi l’ha colpita
al cuore facendosi saltare in aria nella piazza dove, ricorda Serif, un accompagnatore,
«tutti i turisti stranieri chiedono di andare». Fadli, 28 anni, si era presentato a Istanbul in un
centro di accoglienza per profughi, accompagnato da altre quattro persone, e da
procedura gli erano state prese le impronte digitali. Non era tenuto sotto sorveglianza
come ricercato. Un «comune migrante», lo ha descritto il primo ministro.
Le autorità non parlano ovviamente dei lunghi anni in cui hanno dato corda ai militanti
della jihad, con lo scopo di usarli per abbattere il regime di Assad in Siria, e con la Turchia
ridotta ad «autostrada della guerra santa» per come era attraversata in largo e in lungo
pure dai fanatici partiti dall’Europa. Evocano però «mandanti» e «attori segreti ». Il
Califfato potrebbe essere solo «una pedina» nell’attentato a Sultanahmet, dice Davutoglu,
che parla di «attori segreti dietro l’attacco» i quali avrebbero usato il cosiddetto Stato
Islamico come “subappaltatore”. Più esplicito il quotidiano filogovernativo Star, con
l’apertura della sua prima pagina a caratteri cubitali e una foto: «Il sospettato è Putin». Il
presidente russo, accusato di tramare con organizzazioni terroristiche attive nella regione
assieme al presidente siriano Bashar Assad e all’Iran. Amicizie che secondo il giornale
legherebbero Mosca anche ai curdi del Pkk.
I curdi del Partito dei lavoratori del Kurdistan vengono ritenuti sempre la minaccia primaria,
rispetto al Califfato nero. E difatti i bombardamenti delle loro basi sulle montagne nel nord
dell’Iraq sono ripresi ieri. Altri quattro arresti sull’attentato suicida di Sultanahmet sono stati
fatti nella giornata. «Si tratta di persone legate allo Stato Islamico ». In tutto sono così 69
le persone in carcere considerate come affiliate allo Stato jihadista. Fra loro pure tre russi,
fermati ad Antalya e accusati di aver fornito sostegno logistico all’organizzazione. Di questi
69 arrestati, però, solo uno è sospettato di essere coinvolto nella strage di Istanbul.
A guardare le tv turche, nonostante il silenzio stampa imposto dal tribunale sulla vicenda,
tutte quante affrontano dibattiti sull’accaduto. Non si ricevono però Cnn e
Bbc, da anni aspramente criticate dal governo conservatore di ispirazione religiosa.
D’improvviso, sembrano saltati anche i canali informativi tedeschi. In compenso, le reti
arabe si prendono benissimo.
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del 14/01/16, pag. 3
Offensiva ’schiacciasassi’ di Ankara contro i
kurdi
Turchia. Sono 162 i civili uccisi da agosto a sud est. L'ideologia della
repressione di Erdogan detta le politiche regionali, dall'Anatolia alla
siriana Rojava. Nel silenzio assordante della Nato e dell'Occidente
Chiara Cruciati
Nella bolgia mediorientale che ingurgita vittime ogni giorno, sulle macerie del Kurdistan la
Turchia avanza come uno schiacciasassi. L’attentato di lunedì a Istanbul supera i confini di
Sultanahmet e rimbomba a sud est, oltrepassa la frontiera siriana e risuona a Rojava.
Quando l’Isis colpisce il cuore della Turchia, colpisce anche il nemico comune di “califfato”
e Ankara: il movimento di liberazione kurdo.
Sono i kurdi, insieme ai civili siriani, a pagare le politiche della Turchia in Medio Oriente:
schierato dal 2011 contro la Siria di Assad a cui sperava di sfilare il ruolo di leader in
Medio Oriente, il presidente Erdogan ha incendiato i conflitti per costruire sulle rovine
regionali una grande Turchia. Per farlo ha sostenuto gruppi islamisti e rilanciato in pompa
magna la guerra contro i kurdi turchi, minaccia all’unità nazionale.
Oggi reprime la comunità kurda sventolando il feticcio della lotta globale allo Stato
Islamico, nell’assordante silenzio degli alleati occidentali. A partire da Nato e Usa che
usano la base aerea di Incirlik da settembre per raid contro l’Isis in Siria. Così, mentre
impongono ad Ankara il pugno di ferro contro gli islamisti, mantengono il Pkk nella lista
delle organizzazioni terroristiche (al pari del “califfato”) e chiudono gli occhi sulle violenze
contro i civili.
Sono 162 quelli uccisi nel Kurdistan turco dalla fine di luglio quando la strage di Suruc fu
usata per giustificare la ripresa del conflitto con il Pkk. Oltre 160 morti significano una
persona uccisa ogni giorno: tra loro 29 donne, 32 bambini, un disabile, 24 anziani che si
aggiungono ai 465 combattenti kurdi ammazzati. La presenza militare turca è capillare:
10mila soldati, centinaia di carri armati che da due mesi sparano missili nei centri abitati di
Batman, Mardin, Cizre, Silopi. Impongono coprifuoco brutali (58 da metà agosto) lunghi
per settimane e che hanno costretto 100mila persone a lasciare le proprie case. Costrette
alla fuga dalla scarsità di cibo, dalle chiusure, dal malfunzionamento degli ospedali e dalla
guerriglia urbana, dai proiettili della polizia che entrano nelle case e uccidono tra le pareti
domestiche.
Si dovrebbe ricordarli tutti, vittime spesso senza nome. Le ultime in ordine di tempo:
Abdulselam Yilmaz ucciso ieri di fronte alla sua casa a Cizre (sotto coprifuoco da 31
giorni); Veysi Elçi morto martedì sotto il fuoco della polizia a Cizre, mentre altri due civili
subivano identica sorte a Kiziltepe.
Allo stesso modo si dovrebbe procedere all’elenco degli atti politici a corollario di quelli
militari, specchio dell’ideologia della repressione. Il Dipartimento dell’Educazione ha
annunciato ieri un’azione legale contro i professori universari turchi che insieme a colleghi
internazionali hanno firmato una petizione la scorsa settimana per chiedere la fine
dell’operazione militare contro il Kurdistan. Contro i 1.128 accademici provenienti da 89
università del mondo (tra loro Noam Chomsky), aveva già sbraitato Erdogan: «Ehi voi,
cosiddetti intellettuali. Non siete persone illuminate, siete il buio».
Nel mirino del cecchino Erdogan torna anche la stampa, dopo l’eclatante caso dei
giornalisti di Cumhuriyet, il direttore Dündar e il capo redattore Gül. Incarcerati dal 26
17
novembre con l’accusa di sostegno al terrorismo, rischiano la vita per aver pubblicato le
prove della consegna di armi dai servizi segreti all’Isis. Ora tocca al programma tv Beyaz
Show sul canale Kanal D, contro il quale la procura di Istanbul ha aperto un’indagine per
“propaganda terroristica” per aver trattato le uccisioni di civili kurdi a sud est.
La strategia politica di Erdogan è lapalissiana, eppur invisibile agli occhi degli alleati
occidentali. La Turchia ha intensificato le operazioni in Iraq, dove colpisce dal cielo le
postazioni del Pkk, e in Siria dove il target non è lo Stato Islamico ma le Ypg, le unità di
difesa kurde. Rojava, la regione kurdo-siriana che ha messo in piedi un progetto
confederale e democratico, fa tremare i polsi al sultanotto Erdogan che teme il contagio.
Kobane fa più paura di al-Baghdadi. Il contagio, però, già c’è stato. Ma più che “contagio”
è condivisione di obiettivi politici: l’autonomia dai governi centrali di Ankara e Damasco e
la concretizzazione dell’ideologia democratica del Pkk di Ocalan.
Pochi giorni fa la Turchia si era lamentata per le conquiste territoriali delle Ypg con gli Stati
uniti, oggi sostenitori delle Forze Democratiche Siriane, di cui fanno parte anche i kurdi.
Un corridoio di territorio lungo tutto il confine che impedirebbe ad Ankara di mantenere il
controllo desiderato sulla frontiera e darebbe vita – nella pratica – ad una confederazione
kurda tra Turchia e Siria.
del 14/01/16, pag. 17
LETTERA DAL CARCERE “NON SVENDETE
LA LIBERTÀ IN NOME DELLA LOTTA ALL’IS”
CAN DÜNDAR
Rispettabile Presidente del Consiglio Matteo Renzi, Le scrissi una lettera quando venni
incarcerato a fine novembre per un articolo che avevo pubblicato come direttore del
quotidiano Cumhuriyet.
In quei giorni era in programma un suo incontro con il primo ministro turco sulla situazione
dei rifugiati siriani. Era in corso la trattativa perché la Turchia non inviasse i rifugiati in
Europa e li ospitasse sul suo territorio in cambio di un aiuto di tre miliardi di euro. Nella mia
lettera la pregavo di non dimenticare i valori fondativi dell’Europa in nome dell’accordo.
Quei valori, che anche noi da anni difendiamo con determinazione, erano libertà, diritti
umani e democrazia. Ideali da lungo tempo calpestati dal regime del Presidente turco
Recep Tayyip Erdogan. Ci auguravamo che l’avvicinamento tra l’Unione Europea e la
Turchia legato alla crisi dei migranti facesse da freno a questo comportamento, ci
auguravamo che avrebbe avvicinato la Turchia alla democrazia.
Lo scorso novembre, ai giornalisti presenti a Bruxelles al vertice Ue-Turchia, lei disse:
«Come gli altri miei colleghi, anche io ho con me la lettera di due giornalisti turchi arrestati
». E sottolineò: «Nel dialogo con la Turchia, per l’Italia hanno grande importanza i diritti
umani, la democrazia e il primato della legge». Può immaginare quanto paradossale suoni
questa dichiarazione dalla cella dove siamo stati gettati.
Se i cittadini turchi sostengono il processo di avvicinamento alla Ue è perché considerano i
valori europei un’àncora per una Repubblica laica, democratica e moderna le cui
fondamenta vennero gettate da Mustafa Kemal Atatürk. Siamo consapevoli che questi
ideali sono così preziosi da non poter essere sacrificati in nome di un negoziato. Se oggi
siamo tenuti in isolamento da oltre 40 giorni in Turchia, considerata dai media
internazionali “la più grande prigione al mondo per i giornalisti”, è perché, con quella
consapevolezza, ci siamo schierati contro la deriva del Paese verso un regime autoritario.
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Siamo in carcere perché abbiamo provato che tir dell’intelligence turca portavano armi ai
gruppi jihadisti in Siria.
All’origine della crisi dei rifugiati c’è anche la guerra civile in Siria alimentata pure con
l’appoggio dell’Occidente. Ora seguiamo con interesse il tentativo di placare l’incendio da
parte di coloro che si sono travestiti da pompieri dopo averlo appiccato. Purtroppo, dato
che Erdogan ha assunto il controllo di gran parte dei media, è sempre più difficile darne
notizia. Chi ha il coraggio di farlo è vittima di attacchi, aggressioni, minacce, processi e
carcere.
Anche se gli interessi attuali dell’Europa rendono necessario ignorare temporaneamente le
violazioni dei diritti umani, noi continueremo a chiedere il loro rispetto a qualsiasi prezzo.
Se rinunciamo all’umanità davanti alla scelta “rifugiati o libertà”, perderemo infatti tutti e tre
quei valori. Con rispetto, Can Dündar direttore del quotidiano
Cumhuriyet, detenuto nella prigione di Silivri
del 14/01/16, pag. 6
I templi distrutti dall’Isis
La moschea di Nabi Jirjis ora è un parcheggio Così i luoghi santi sciiti
dell’antica Ninive sono stati rasi al suolo e coperti di cemento
«Queste immagini provano, nella loro cruda chiarezza, la distruzione sistematica dei beni
culturali e religiosi legati al credo sciita che l’Isis sta compiendo nel governatorato di
Ninawa, l’area dell’antica Ninive, che ha come capitale Mosul. Non si limitano a
distruggere, la fase successiva è cancellare col cemento. Al posto di sepolcri e mausolei,
parcheggi per auto». L’archeologo Alessandro Bianchi è appena tornato da Bagdad. È il
capoprogetto, designato dalla segreteria generale del ministero per i Beni e le attività
culturali, di un gruppo di cinque archeologi impegnati in un accordo bilaterale italoiracheno tra ministero Beni culturali e State Board of Antiquities and Heritage iracheno per
lo studio delle devastazioni realizzate dall’Isis nelle aree occupate. Un piano tutto italiano,
ideato da Bianchi. Distruzioni, certo, ma non solo: il sospetto è che gli uomini dell’Isis
possano proseguire alcuni scavi archeologici non per studi scientifici ma per immettere sul
mercato clandestino pezzi antichissimi e preziosi e finanziare così il terrorismo.
Le aree sono state scelte dai tecnici iracheni. La squadra italiana ha individuato negli
archivi satellitari immagini scattate prima dell’occupazione dell’Isis nel giugno 2014. Poi ha
commissionato nuove foto delle stesse località scattate nell’agosto 2015 dalla Satellite
Imaging Corporation, titolare di alcuni satelliti specializzati (DigitalGlobe’s WorldView-2,
WorldView-3, GeoEye-1).
Il confronto è agghiacciante. Il complesso della moschea dedicata nel 1300 al profeta Nabi
Jirjis è stato sostituito da una spianata di cemento per un parcheggio. Nell’area del
santuario del XIII secolo dell’imam Yahya Abu al-Qasim, costruito dal governatore Badr alDin Lu’lu’, appare ora un cantiere, probabilmente per abitazioni civili.
Altro parcheggio al posto della moschea di al-Nabi Sheet, elevata nel 1647. Nuova
spianata di cemento al posto del santuario dedicato allo Shayk Fathi, del 1760. La ex
chiesa assira trasformata in moschea dedicata al profeta Nebi Yunus è stata rasa al suolo
e i suoi detriti portati via. Nelle foto di Ninive nel tell (terrapieno) di Kuyunjik, nel Palazzo
Settentrionale, si scorgono tracce di nuovi scavi. Il timore è che l’Isis abbia voglia estrarre
pezzi e venderli per finanziarsi.
La metodologia italiana, concordata con l’Unesco (verrà presto usata in Libia per l’area
costiera occupata dall’Isis), ha prodotto una relazione consegnata martedì 12 gennaio alle
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autorità irachene: servirà come tragica guida quando il governo di Bagdad riuscirà a
riprendere il controllo di Mosul. L’accordo italo-iracheno ha quattro anni di vita ed è stato
finanziato al segretariato generale dei Beni culturali dalla Direzione generale per la
cooperazione allo sviluppo del ministero Esteri, sostituita dal 1° gennaio dall’Agenzia
italiana per la cooperazione internazionale, diretta da Laura Frigenti. Ora partirà un
ulteriore finanziamento di un milione di euro.
L’intesa prevede la nascita di un gruppo di lavoro misto, cicli di insegnamento da parte
degli italiani sull’uso delle riprese satellitari e per la composizione di squadre formate da
tecnici locali per intervenire sui siti attualmente occupati dall’Isis, la presenza di un
restauratore nei laboratori di restauro del Museo Iracheno di Bagdad.
L’Italia si conferma insomma una vera e propria potenza mondiale in campo culturale,
come ha spesso sottolineato il ministro Dario Franceschini che ha raggiunto con l’Unesco
(riprendendo l’idea lanciata a suo tempo da Francesco Rutelli) l’accordo per la creazione
dei Caschi Blu della cultura, proposta dal presidente Matteo Renzi all’assemblea dell’Onu.
Dice Antonia Pasqua Recchia, segretario generale del ministero per i Beni culturali: «Il
dossier sul disastro iracheno è la dimostrazione della nostra capacità di operare nel
campo culturale, che ci viene riconosciuta in tutti i contesti internazionali. Ed è anche la
prova che una piena collaborazione tra ministeri può produrre risultati molto lusinghieri per
il sistema Paese».
Paolo Conti
Da Avvenire del 14/01/16, pag. 18
Pakistan, altro sangue sulle vaccinazioni
Attacco dei taleban: quindici vittime E il Daesh colpisce in Afghanistan
STEFANO VECCHIA
Due episodi sanguinosi hanno segnato ieri la già difficile condizione delle aree confinarie
tra Afghanistan e Pakistan. Se nel primo i militanti della provincia fedeli al Daesh hanno
firmato l’assalto suicida a una rappresentanza diplomatica pachistana, nel secondo i
taleban hanno rivendicato l’ennesimo, sanguinoso attacco contro gli operatori della
campagna anti-poliomielite avviata da tempo dal governo di Islamabad.
L’attacco di militanti a un centro per la programmazione e attuazione delle iniziative di
contrasto alla diffusione della malattia che colpisce in particolar modo i bambini, ha
causato 15 morti, tra cui 13 poliziotti. Uccisi anche un paramilitare e un passante. Almeno
cinque i feriti, anch’essi quasi tutti uomini del servizio di sicurezza che si trovavano su un
automezzo davanti al centro. Il ministro dell’Interno del Baluchistan, Mir Sarfaraz Bugti, ha
parlato della probabile azione di un attentatore suicida.
La rivendicazione dell’attentato, che ha avuto come teatro un sobborgo della città di
Quetta, capoluogo della provincia del Baluchistan che segna il confine con l’Iran, è
arrivata, come in altre occasioni, via Twitter. Nel messaggio il portavoce del gruppo Tehrik
e Taliban Pakistan, Muhammad Khurassani, ha segnalato che una «unità speciale del Ttp
ha messo a segno con successo la sua azione», causando «numerosi morti e feriti».
L’atto terroristico è stato messo in atto mentre è in corso la periodica campagna di
vaccinazioni, che è stata immediatamente sospesa da parte delle autorità sanitari
pachistane. Da anni le iniziative per debellare la poliomielite sono segnate da intimidazioni
e violenze che hanno provocato decine dei vittime. A motivare l’azione dei militanti armati,
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in particolare di appartenenza taleban, sono la credenza diffusa e incentivata dagli
estremisti religiosi e dalle forze antigovernative locali che la vaccinazione renda «sterili i
bambini» che vi si sottopongono e che le campagne di vac- cinazione capillare coprano
attività spionistiche. La propaganda dei fondamentalisti arriva anche ad affermare che alle
campagne di vaccinazione partecipa anche il medico, Shakeel Afridi», che viene
considerato attivamente coinvolto nell’individuazione di Osama Benladen e nella sua
uccisione nel maggio 2011 da parte degli statunitensi. Ed è questa solo una delle
“distorsioni” che accompagnano le violenze. Il Pakistan è accomunato al vicino
all’Afghanistan dall’impegno a debellare una malattia particolarmente invalidante che per
l’Organizzazione mondiale della Sanità resta endemica solo in questi due Paesi, seppure
con un numero di casi limitato e concentrato soprattutto proprio nelle aree tribali a ridosso
della frontiera, dove più difficile è l’azione di contrasto e maggiori sono i rischi per operatori
sanitari e volontari.
Proprio nel Paese confinante, un attacco contro il consolato pachistano nella città di
Jalalabad, strategica sulla maggiore via di comunicazione tra il confine pachistano e
Kabul, ha segnato l’ennesima giornata di violenza. Sette i morti per un’azione rivendicata
dall’auto-proclamato Califfato islamico che ha parlato di «decine di apostati» uccisi dalla
detonazione di una cintura esplosiva lanciata contro gli uomini di guardia al consolato per
aprire la strada a una irruzione dei militanti. Fonti ufficiali hanno riferito che sette militari
sono stati uccisi, mentre tre kamikaze sono morti. Per il comunicato di Daesh, dei tre
militanti coinvolti, uno sarebbe rientrato alla base.
del 14/01/16, pag. 2
Esplosione in una moschea. Per le autorità è
Boko Haram
Camerun. Almeno 13 le vittime tra i fedeli in preghiera
Rita Plantera
Un kamikaze si è fatto esplodere ieri nella piccola moschea di Kouyape, un villaggio del
distretto di Kolofata nel nord del Camerun al confine con la Nigeria. Mentre scriviamo,
secondo quanto riferito dalle autorità locali sarebbero almeno 13 i morti tra i fedeli riuniti in
preghiera, tra cui probabilmente anche l’imam.
L’attacco è avvenuto in un’area afflitta da continui attentati del gruppo Boko Haram. Ed è
su Boko Haram che le forze di sicurezza regionali fanno ricadere ogni responsabilità
nonostante non ci sia stata ancora alcuna rivendicazione. Nei giorni scorsi infatti miliziani
provenienti dalla Nigeria avrebbero attraversato il confine con il Paese. Il Camerun dal
2015 è impegnato insieme a Ciad, Niger, Nigeria e Benin nella Multi-National Joint Task
Force (Mnjtf) regionale formata da 8700 soldati e istituita sotto l’egida dell’Unione Africana
per far fronte alle offensive e alle azioni di sconfinamento dell’Islamic State’s West Africa
Province (Iswap), altro alias adottato da Boko Haram da quando a marzo 2015 ha lasciato
la galassia di Al-Qaeda per giurare fedeltà a Daesh.
La task force, che ha il suo quartier generale a N’Djamena – la capitale del Ciad – e che
doveva essere pienamente funzionale nel mese di luglio ha completato i piani organizzativi
lo scorso agosto per diventare operativa ad ottobre. Quando l’Unione africana e la Lake
Chad Basin Commission hanno firmato un memorandum d’intesa con le linee guida finali
di attuazione. Come ha spiegato in quell’occasione Mohamed Ibn Chambas,
rappresentante speciale dell’Onu per l’Africa occidentale, i raid congiunti hanno l’obiettivo
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di adattarsi alle nuove tattiche offensive dei miliziani di Boko Haram, una volta soliti ad
attaccare in centinaia a bordo di decine di veicoli e ora anche in bande isolate. A sostegno
della Mnjtf a ottobre scorso il presidente Obama ha inviato 300 soldati oltre a droni di
sorveglianza atti a fornire supporto nelle operazioni di intelligence, sorveglianza e
ricognizione.
Gli attacchi nella regione di Kolofata si sono regolarmente intensificati nei mesi recenti. A
dimostrazione del fatto che se prima Boko Haram attaccava i villaggi nel raggio di pochi
chilometri dal confine con la Nigeria, ora non esita più ad andare in profondità in Camerun.
A dicembre scorso sono state sette le vittime e 30 i feriti mentre in precedenza — a
settembre — il bilancio di un attentato kamikaze è stato di 9 morti e 18 feriti.
Senza dimenticare gli attentati di luglio scorso a Maroua e Fotokol, a seguito dei quali le
autorità camerunensi hanno adottato nuove misure di sicurezza nel nord del Paese tra cui
il divieto di raggruppamento nei luoghi pubblici e nelle moschee e la chiusura dei locali
dopo le 18; l’intensificazione dei controlli e delle perquisizioni alla frontiera e per strada,
l’invio di ulteriori 2000 soldati nelle regioni dell’estremo nord (che ha portato a 8.500 il
numero di quelli già di stanza in quelle aree); controlli sui bambini e sorveglianza delle
moschee.
del 14/01/16, pag. 19
Israele-Svezia, scontro sul ministro
Il governo di Netanyahu chiude le porte alla titolare degli Esteri di
Stoccolma, Margot Wallstrom che in Parlamento aveva chiesto
un’indagine approfondita sulle “esecuzioni extragiudiziali” di
palestinesi
FABIO SCUTO
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
GERUSALEMME.
Non è più la benvenuta in Israele la signora Margot Wallström, il ministro degli Esteri
svedese. E l’ambasciatore di Stoccolma in Israele Carl Magnus si è visto convocato ieri
sera d’urgenza al ministero degli Esteri israeliano per una dura protesta a nome del
governo di Benjamin Netanyahu, che fra i sette interim che ha nelle sue mani ha anche
quello degli Esteri. Il motivo di questo scontro diplomatico sono le affermazioni di martedì
della signora Wallström: la Svezia auspica una inchiesta «approfondita » sui palestinesi
uccisi in questi ultimi mesi dall’esercito o dalle forze dell’ordine israeliani. In diversi casi,
secondo il capo della diplomazia svedese, «si è trattato di esecuzioni extragiudiziali». Le
affermazioni del ministro sono finite ieri mattina sulla stampa svedese e da qui sono
rimbalzate in Israele.
Circa 149 palestinesi sono stati uccisi in questi ultimi tre mesi, la maggior parte – circa due
terzi - mentre accoltellava o cercava di accoltellare soldati o civili israeliani in Cisgiordania,
a Gerusalemme e in Israele. Gli ultimi due sono stati uccisi martedì in simili circostanze.
Gli altri sono morti negli scontri con l’esercito. In questa nuova ondata di violenza,
ribattezzata l’intifada dei coltelli, scoppiata il primo ottobre sono morti anche 23 israeliani.
«È fondamentale che vi siano delle inchieste approfondite e credibili su questi morti per
fare piena luce e mettere ciascuno davanti alle proprie responsabilità», ha dichiarato
martedì la ministra al parlamento svedese. Da quando ha assunto l’incarico nell’ottobre
2014, e l’annuncio quasi immediato che la Svezia riconosceva lo Stato palestinese, la
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Wallström ha più volte usato espressioni molto critiche nei confronti della diplomazia
israeliana.
Ma la protesta di Israele non è soltanto per le parole usate dalla Wallström martedì. Il
portavoce degli Esteri Emmanuel Nahshon ha espresso «la furia del governo e del popolo
di Israele, su una visione distorta della realtà», definendo il ministro svedese «prevenuta
ed ostile verso Israele, le manca la comprensione della regione ». «Data la posizione
dannosa e senza fondamento del ministro svedese - spiegano al ministero degli Esteri
israeliano - la Svezia si è esclusa, nel prossimo futuro, da qualsiasi ruolo per quanto
riguarda le relazioni israelo-palestinesi». Se non è una rottura diplomatica poco ci manca.
del 14/1/16, pag. 3
«Margot Wallstrom è una antisemita, non è
gradita in Israele»
Tel Aviv/Stoccolma. Sono pesanti le accuse che i rappresentanti del
governo Netanyahu hanno rivolto ieri alla ministra degli esteri svedese
"colpevole" di aver chiesto un'inchiesta sulle uccisioni sul posto dei
palestinesi che compiono o tentano attacchi con i coltelli, a suo giudizio
vere e proprie "esecuzioni extragiudiziali"
Michele Giorgio
GERUSALEMME
Margot Wallstrom è una «antisemita, consapevolmente o no». Non ha usato mezze parole
il ministro israeliano delle infrastrutture Yuval Steinitz quando ieri ha commentato la
richiesta fatta dalla ministra degli esteri svedese di un’indagine sulle «esecuzioni
extragiudiziali» di palestinesi che Israele starebbe attuando. Richiesta sorta di fronte al
numero elevato di uccisioni sul posto, immediate, di palestinesi, spesso appena
adolescenti, che aggrediscono cittadini israeliani, o tentano di farlo, con coltelli e
automobili lanciate a tutta velocità. Secondo la responsabile della diplomazia svedese —
ai ferri corti con Israele da quando nel 2014 il suo governo ha riconosciuto lo Stato di
Palestina (altri riconoscimenti sono giunti dai parlamenti di vari Paesi dell’Ue) – militari e
coloni israeliani farebbero fuoco per uccidere e non per ferire. Lo indicherebbere anche il
basso numero di aggressori sopravvissuti ai loro tentativi di attacco (negli ultimi quattro
mesi sono rimasti uccisi circa 150 palestinesi e oltre 20 israeliani). Da qui l’accusa di
«esecuzioni extragiudiziali». Per Steinitz la collega svedese è soltanto una «antisemita».
Si tratta di un attacco senza precedenti alla Svezia, aggravato dall’annuncio fatto dalla
viceministra degli esteri Tizpi Hotovely che Wallstrom «non è la benvenuta» in Israele e
così anche per altri rappresentanti ufficiali di Stoccolma. L’ufficio del premier Netanyahu,
che ha anche l’interim degli esteri, ha un po’ ridimensionato il passo precisando che il
governo non ha cambiato linea nei confronti della Svezia. Poco dopo però il portavoce del
ministero degli esteri, Emmanuel Nahshon, ha confermato che «data la natura aggressiva
e incendiaria» dei commenti di Margot Wallstrom «abbiamo messo in chiaro che (la
ministra svedese) non è gradita in Israele». Tel Aviv non ha mai digerito la decisione del
governo svedese di riconoscere lo Stato di Palestina in Cisgiordania e Gaza, territori
palestinesi che assieme a Gerusalemme Est sono stati occupati militarmente da Israele
quasi 50 anni fa. Si tratta di una posizione ben più concreta rispetto ai riconoscimenti
numerosi ma solo simbolici votati dai parlamenti di vari Paesi europei. I rapporti tra i due
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governi si sono fatti molto tesi e i rappresentanti del governo Netanyahu non hanno esitato
ad attaccare frontalmente Wallstrom, incuranti della presenza in Israele di una
delegazione svedese ad altro livello incaricata di «studiare» le misure di sicurezza
sviluppate e applicate nello Stato ebraico.
Sullo sfondo di questa crisi diplomatica ci sono l’Intifada palestinese e le misure repressive
adottare da Israele. Sono stati arrestati i due palestinesi – il giornalista Samer Abu Eisheh
e il manovale Hijazi Sbu Sbeih — che avevano respinto l’ordine di espulsione
(rispettivamente per cinque e sei mesi) dalla loro città, Gerusalemme, emesso dagli
israeliani per non meglio precisate “ragioni di sicurezza”. I due per giorni sono rimasti nella
sede della Croce Rossa Internazionale a Gerusalemme, spiegando a giornalisti e
delegazioni palestinesi e straniere che in passato non sono mai stati condannati per
violenze politiche o per qualsiasi altro crimine grave. Abu Eisheh l’anno scorso era stato
posto agli arresti domiciliari per due mesi per aver preso parte a forum arabi in Libano. «Mi
offrono la libertà su cauzione ma (le autorità israeliane) pretendono ancora che lasci
Gerusalemme – ha detto Abu Eisheh – io continuerò a dire di no all’esilio, al razzismo e
all’occupazione».
Ieri l’aviazione israeliana ha bombardato Gaza, uccidendo un palestinese e ferendone altri
tre che, secondo il portavoce militare, stavano sistemando un ordigno esplosivo sulle linee
di confine.
del 14/01/16, pag. 19
L’appello in Francia a rinunciare al copricapo è segno
dell’antisemitismo crescente in Europa
Perché è scandaloso che un ebreo nasconda
la kippah
SIEGMUND GINZBERG
KIPPAH o non kippah? La diatriba tra gli esponenti dell’ebraismo francese che invitano a
non indossare per strada la kippah «per non essere riconosciuti come ebrei», e quelli che
lo bollano come incitamento alla viltà e al «disfattismo », è il segno allarmante degli effetti
dell’antisemitismo che cresce in Europa. Solo immaginare di dover rinunciare a un simbolo
religioso per non essere aggrediti è terribile. Ma è anche qualcosa di surreale. Se non altro
perché tutta la storia dell’intolleranza in Europa è sempre passata attraverso l’obbligo per
gli ebrei di distinguersi dagli altri, non la loro libertà di indossare o non indossare quel che
gli pare: che si tratti di un particolare copricapo o di altro segno distintivo come l’infame
stella gialla imposta dai nazisti.
La kippah, dalla parola ebraica che significa calotta (e che forse ha la stessa etimologia
del nostro “cappello”), chapeo nel castigliano antico dei sefarditi,
yarmulke in yiddish, che si potrebbe dire “papalina” in italiano (perché identico al copricapo
indossato dal Papa e dai cardinali), non è affatto un obbligo religioso prescritto dalla
Bibbia. Neanche gli ultraortodossi sostengono che lo sia. Quando a metà Anni ’80 Ronald
Reagan ricevette alla Casa bianca i lubavich (quelli che girano per New York con riccioli,
palandrana e cappellone nero) gli chiese quale fosse il significato religioso della kippah.
«Signor Presidente, per noi è un segno di rispetto », gli rispose rabbi Shemtov. Il Talmud
si limita a prescrivere: «Copriti la testa per mostrare che hai timore del Cielo». Le
leggende di Rabbi Nachman raccontano che a iniziare la pratica di fargli coprire la testa fu
sua mamma, convinta che solo il timor di Dio potesse salvarlo dalla perdizione. Nella
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forma attuale risale al Settecento. Fino a qualche secolo fa non era obbligatorio nemmeno
durante i riti religiosi. Nell’Europa dell’Est erano più in voga i larghi cappelli orlati di
pelliccia, che ancora vengono sfoggiati dagli ortodossi per i giorni di festa. È segno di
rispetto verso gli ebrei indossare un cappello — qualsiasi cappello, a rigore anche un
fazzoletto — durante le loro cerimonie, così come per i cristiani lo è togliersi il cappello in
chiesa. In Sinagoga o a una Sèder di Pèsach è normale prestare la kippah a un ospite non
ebreo.
Solo più di recente si sono moltiplicate le simbologie identitarie. In Israele, ad esempio,
indossare una kippah a uncinetto identifica come sionisti o conservatori, in pelle come
ortodossi moderni, nera come apprendisti rabbini o chassidim, bianca identifica i seguaci
di Rabbi Nachman, in seta i riformatori, quella ricamata i sefarditi e i riformisti.
Una funzione completamente diversa da quella religiosa o politica è l’uso identitario, quello
per cui chi indossa la kippah si identifica come ebreo, sia che lo faccia in sinagoga, sia lo
che lo faccia per strada. Niente di male, ci sono situazioni in cui è sacrosanto rivendicare
la propria identità, specie per i perseguitati (io sono nato poco dopo l’Olocausto e questa è
la ragione per cui mio padre volle assolutamente che fossi circonciso, anche se lui non era
né credente né praticante). Ma altrettanto lecito e fondato in molti secoli di cultura ebraica
e di persecuzioni è il non ostentare eccessivamente la propria ebraicità, il non gridarla
inutilmente di fronte a chi vuole male agli ebrei. Nella Bibbia gli ebrei si fanno massacrare
pur di non rinnegare il proprio Dio, non inchinarsi agli dei degli altri. I fratelli Maccabei si
fanno ammazzare l’uno in modo più atroce dell’altro pur di non consumare la carne di
maiale che gli viene imposta dal satrapo ellenistico Antioco. Ma nulla impone, o al
contrario proibisce, di esibire in pubblico una certa foggia di vestire o di coprirsi il capo.
Dovrebbe essere una questione di libertà, condizionabile solo da esigenze di sicurezza.
Per quanto riguarda la Francia bisogna ricordare anche che la discussa legge del 2004
proibisce di indossare pubblicamente nelle scuole il velo islamico, i kippot (plurale di
kippah) o altri vistosi simboli religiosi. Non è dunque uno scandalo religioso suggerire di
non indossarli nemmeno per strada. Ma è scandaloso che nel cuore dell’Europa gli ebrei
debbano pensare di nascondere la propria identità per paura.
Gli ebrei erano stati obbligati per tutto il Medioevo a indossare determinati copricapi (il
famoso cappello a cono che poi divenne uniforme dei condannati dell’Inquisizione) o
determinati segni che li distinguessero dagli altri. Il Rinascimento imponeva il cerchio giallo
da indossare sopra le vesti: ne porta testimonianza anche uno dei profeti del Vecchio
Testamento dipinti da Michelangelo nella Cappella Sistina. Pare che lo avessero inventato
in Spagna per distinguere e separare ebrei e musulmani, le minoranze dal “sangue
sporco”. In Francia e in Germania gli ebrei venivano costretti persino a comprare le pezze
gialle dal governo, una forma di tassa. I nazisti che imponevano la Stella di Davide gialla
non avevano inventato nulla di nuovo.
del 14/01/16, pag. 20
La sfida di Obama all’America “Accogliamo i
cambiamenti siamo la nazione più forte”
Nell’ultimo discorso sullo Stato dell’Unione, il presidente rivendica la
ripresa e cita il Papa contro l’islamofobia
FEDERICO RAMPINI
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
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NEW YORK.
«Ci sfidano dei cambiamenti straordinari e li raccoglieremo, perché così siamo fatti noi». È
l’idea forte che segna l’ultimo discorso di Barack Obama sullo Stato dell’Unione. Fiducia
nel futuro. Ottimismo sulla leadership Usa. Orgogliosa rivendicazione della ripresa
economica. Duro attacco alla xenofobia e all’islamofobia, citando papa Francesco. Sette
anni di presidenza consegnano all’America l’immagine di un presidente dai capelli sempre
più bianchi, con rughe ben visibili, tanto diverso dal giovanotto che s’insediò alla Casa
Bianca nel gennaio 2009. C’è un’evoluzione nello stile del discorso, l’Obama 2016 non
cerca il messaggio a effetto, l’inventore delle campagne elettorali segnate da “Yes We
Can”, dall’audacia della speranza, oggi martella sul tema del “cambiamento” declinandolo
in tutte le versioni: economia, ambiente, tecnologia, politica. Sul finale ritrova il carisma e
l’energia di un predicatore alla Martin Luther King: «Vincerà l’amore incondizionato, la
forza della verità».
Il bilancio di due mandati presidenziali è all’insegna dell’Yes I Did (sì ce l’ho fatta), come i
commentatori della diretta televisiva sintetizzano ironicamente la fiera constatazione del
presidente: «L’America resta di gran lunga la nazione più forte, l’economia più solida». Il
primo presidente afroamericano già guarda alla propria eredità storica. Descrive l’epoca in
cui viviamo come «un tempo di straordinari cambiamenti, ricca di opportunità ma anche di
traumi». Di fronte a quest’era di turbolenze ricorda lo spirito di Abraham Lincoln che
esortava i suoi connazionali a «non appiattirsi sui dogmi di un passato tranquillo ». Ciò che
ha reso grande l’America è «l’aver visto opportunità dove altri avevano paura». È uno
spirito che ancora di recente ha consentito di «risollevarci dalla più grave crisi economica
dei tempi recenti».
La prima sfida riguarda dunque l’economia: come far sì che «la New Economy offra a
ciascuno eque opportunità». Quattordici milioni di posti di lavoro creati durante il suo
mandato, un tasso di disoccupazione dimezzato, un deficit pubblico che la ripresa
economica ha ridotto di tre quarti, sono risultati importanti ma non bastano. «Il disagio nel
paese deriva da cambiamenti strutturali, ogni posto di lavoro può essere minacciato
dall’automazione o delocalizzato all’estero, è diventato più difficile uscire dalla povertà,
trovare lavoro per i giovani, andare in pensione quando si vuole». Tra i colpevoli indica le
grandi banche e gli hedge fund, le mega-imprese che «disegnano le regole in proprio
favore e a scapito della middle class», sfruttano l’elusione fiscale nei paradisi offshore.
Arriva il primo affondo contro i repubblicani Donald Trump e Ted Cruz: «Non è per colpa
degli immigrati se le retribuzioni non sono cresciute». Obama si rivolge idealmente ai
candidati democratici, chiamandoli a concludere il lavoro che lui lascia incompiuto, cioè a
prolungare la crescita ma su basi meno diseguali.
Seconda sfida: come rendere l’America “più sicura e più forte”, senza inseguire la chimera
di “andare a costruire nazioni in giro per il mondo”, un’allusione alla dottrina del nation
building professata dai neoconservatori di George W. Bush. Qui Obama rintuzza le accuse
di chi lo descrive come un presidente debole di fronte alle crisi internazionali e alle
minacce degli avversari. L’America resta militarmente «di gran lunga la più forte, più delle
otto nazioni che la seguono messe insieme». E se c’è una crisi da qualche parte del
mondo si viene a bussare alle porte dell’America, «non si chiede una leadership a Pechino
o a Mosca».
L’instabilità del Medio Oriente è il prezzo di sconvolgimenti che «dureranno una
generazione», la Cina «è in una difficile transizione», la Russia «ha un’economia a pezzi».
Tocca all’America ricostruire un nuovo sistema di relazioni internazionali. Una priorità è la
sconfitta dello Stato Islamico, «e chi ha dei dubbi sulla mia determinazione, vada a
chiedere a Osama Bin Laden». Ma è un folle errore quello di «regalare ai terroristi degli
alleati, sposando la loro pretesa di rappresentare una delle più grandi religioni mondiali».
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No a nuove invasioni militari, «abbiamo appreso le lezioni del Vietnam e dell’Iraq». Rigetta
«ogni politica che prenda di mira le persone sulla base della loro fede religiosa», citando
anche papa Francesco. «Il mondo ci rispetta per la nostra diversità e tolleranza, quando
dei politici insultano i musulmani non ci rendono più sicuri, tradiscono quello che noi siamo
».
L’ultima sfida è quella su cui Obama confessa la propria delusione. «Il futuro migliore si
realizzerà solo se lavoriamo insieme, risanando il nostro sistema politico, la democrazia
non funziona se pensiamo che chi non è d’accordo con noi sia sempre in malafede, la
democrazia è guasta se il cittadino medio pensa che la sua voce non viene ascoltata».
Lascia un mondo politico più litigioso e paralizzato che mai, inquinato dai grossi
finanziatori. Dentro questo finale au- tocritico c’è il paradosso di un presidente che ha
governato con pieni poteri solo per due anni: dalle legislative del novembre 2010 in poi, la
destra ha controllato almeno uno dei rami del Congresso, o tutti e due. E le convergenze
bipartisan sono state rare.
Colpa anche sua, Obama è disposto ad ammettere. Di certo è anche l’effetto di una
radicalizzazione della destra. È un problema che resterebbe aperto in futuro, ereditato dal
successore, ammesso che sia democratico. Se invece a novembre i repubblicani
dovessero centrare un successo pieno, conquistando Casa Bianca e Congresso, Obama
sa che inizierebbe la demolizione di tanta parte del suo lascito.
del 14/01/16, pag. 12
L’incredibile cavalcata di Sanders
il socialista che fa tremare Hillary
Sorpresa nelle primarie democratiche. Testa a testa in Iowa, il senatore
avanti nel New Hampshire
Paolo Mastrolilli
Quando Hillary manda in campo anche la figlia Chelsea, incinta del secondo figlio, vuol
dire proprio che qualcosa non sta andando per il verso giusto nella sua campagna. È
successo l’altro giorno in Iowa, dove l’ex bambina cresciuta alla Casa Bianca si è scagliata
contro Bernie Sanders, accusandolo di voler distruggere l’assistenza sanitaria negli Stati
Uniti.
Come mai questo attacco frontale della giovane Clinton? Semplice: il senatore del
Vermont sta rimontando nei sondaggi, e oltre ad essere avanti nel vicino New Hampshire,
ormai ha quasi raggiunto Hillary anche in Iowa. La campagna è lunga e ci saranno altri 48
Stati dove recuperare. Se però la grande favorita del Partito democratico cominciasse la
sua corsa perdendo tanto in Iowa il primo febbraio, quanto in New Hampshire il 9,
l’inevitabilità della sua incoronazione diventerebbe assai meno inevitabile.
Contro l’establishment
Sondaggi a parte, la vera domanda da porsi è un’altra: come mai l’unico senatore
americano che si professa socialista, anatema negli Stati Uniti anche prima della caccia
alle streghe di McCarthy, sta insidiando una ex first lady, ex senatrice di New York, ed ex
segretaria di Stato? Per rispondere forse bisogna guardare al successo sorprendente di
Donald Trump fra i repubblicani, e metterlo allo specchio. Così si scopre che lo stesso
sentimento anti establishment che sta spingendo il costruttore, ha gonfiato anche le vele
del super liberal del Vermont. Se a destra le sirene della retorica anti immigrazione, anti
islam, e anti tasse, stanno trascinando gli elettori della classe media e bassa verso un
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miliardario, a sinistra quelle della diseguaglianza economica, la prepotenza dei ricchi, e
l’uso eccessivo della forza militare stanno lanciando verso la Casa Bianca un socialista.
Chi è Bernie l’outsider
La storia di Sanders era perfetta per non contare mai nulla, almeno nella corsa
presidenziale. Troppo lontano dal «centro vitale», che secondo lo storico Arthur
Schlesinger bisogna sempre occupare per conquistare la Casa Bianca. Nato a Brooklyn
75 anni fa da una famiglia di ebrei, il padre era sfuggito all’Olocausto in Polonia. «Un tizio
di nome Adolf Hitler - ricorda ora lui - vinse un’elezione nel 1932, e come risultato
morirono 50 milioni di persone. Così ho capito che la politica è molto importante».
Già quando era all’università, Chicago all’inizio degli anni Sessanta, Bernie si era iscritto
alla Young People’s Socialist League, e in pratica non ha mai più rinnegato quella scelta.
La sua vita, e la sua carriera politica, hanno così seguito il corso prevedibile di un
alternativo. Si è trasferito nelle campagne del Vermont, e come indipendente è diventato
prima sindaco di Burlington, poi deputato, e infine senatore. Sempre alzando la voce per le
cause liberal, dal socialismo all’opposizione contro la guerra in Iraq. Preparato, ma troppo
estremista. Tranne sulle armi, dove in onore alle tradizioni rurali del Vermont è prudente
sulla limitazione delle vendite.
La sua candidatura alla Casa Bianca doveva essere una provocazione, lanciata
soprattutto per punire i miliardari colpevoli della crisi economica del 2008. Poi però la
senatrice Elizabeth Warren ha rinunciato a incarnare l’ala liberal del Partito democratico, e
lui è diventato l’unica alternativa possibile a Hillary, la candidata dell’establishment e di
Wall Street. Così popolare da trasformarsi in una macchietta televisiva interpretata da
Larry David, il creatore di «Seinfeld»: «Ho solo due paia di mutande, uno addosso e uno
sul termosifone ad asciugare!». Nessuno crede che possa arrivare alla Casa Bianca, ma
nessuno finora è riuscito a fermarlo.
del 14/01/16, pag. 2
Gli Usa a Mattarella: grazia agli agenti Cia
Sul tavolo della visita del Presidente alla Casa Bianca, prevista per
febbraio, ci saranno le questioni ancora aperte sulla vicenda Abu Omar.
Sullo sfondo anche il caso dei marò
Paolo Mastrolilli
Ci sono anche le grazie per il caso Abu Omar, sul tavolo della visita che il presidente della
Repubblica Sergio Mattarella farà alla Casa Bianca nella prima metà di febbraio. Un tema
che viene posto approfittando dell’incontro, sullo sfondo delle altre questioni bilaterali e
internazionali di comune interesse come la Libia e la Siria, nella speranza di risolvere in
maniera concordata i casi rimasti pendenti, come quello della ex agente della Cia Sabrina
De Sousa.
Il 17 febbraio del 2003 avvenne a Milano l’arresto dell’imam Abu Omar, e la sua
«extraordinary rendition» da Aviano all’Egitto. Quella operazione portò poi
all’incriminazione e alla condanna di una ventina di agenti americani coinvolti. Il presidente
Napolitano aveva concesso la prima grazia al militare Joseph Romano, e nelle settimane
scorse sono arrivati i nuovi perdoni firmati da Mattarella, fra cui quello per Bob Lady, capo
della Cia a Milano che aveva gestito l’operazione. Altri casi però restano aperti, come
quello di Sabrina De Sousa. L’incontro col presidente Obama previsto orientativamente
per l’8 febbraio, che nei giorni scorsi è stato preparato da alcuni emissari di Roma venuti a
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Washington, può diventare l’occasione per avviare il processo della grazia anche per lei,
tenendo comunque presente che l’iter prevede dei passaggi attraverso i ministeri della
Giustizia e degli Esteri, prima di arrivare al Quirinale.
La vicenda della De Sousa è diventata più complicata delle altre già risolte, per diversi
motivi. Lei stessa ha ammesso che era un agente della Cia, impiegata a Milano sotto
copertura diplomatica. Non aveva partecipato fisicamente alla «rendition», perché quando
era avvenuta stava in vacanza con la figlia in montagna, ma aveva collaborato ad
organizzarla. In un’intervista con «La Stampa» del 2013, aveva rovesciato la
responsabilità dell’errore sull’ex capo della Central Intelligency Agency a Roma, Jeff
Castelli, dicendo che lui aveva preso l’iniziativa senza il via libera ufficiale dell’Italia,
facendo invece credere a Langley che il governo Berlusconi era d’accordo. Quindi Sabrina
aveva chiesto al Quirinale di estendere la clemenza anche a lei, perché a suo avviso non
era giusto diversificare il trattamento per persone legate alla stessa questione.
La De Sousa, di origini indiane, aveva aggiunto che la grazia in questo caso poteva
lanciare un segnale anche riguardo alla vicenda dei marò italiani, indicando una via
analoga per la soluzione del loro caso. Naturalmente qui si tratta di una situazione diversa
e di un contenzioso bilaterale che riguarda Roma e New Delhi, ma Washington in passato
aveva espresso preoccupazione per questa crisi, perché rischiava di compromettere le
operazioni internazionali in corso contro la pirateria. Sulla base di questo interesse globale
condiviso, potrebbe avere un discreto ruolo di mediazione. Proprio ieri il vice consigliere
per la sicurezza nazionale Ben Rhodes, illustrando le priorità di politica esteri degli Usa
per l’anno appena iniziato, ha detto che «in Asia una questione centrale sarà quella della
sicurezza marittima».
La vicenda di Sabrina, non inclusa nella discussione bilaterale sulle grazie concesse di
recente da Mattarella, è complicata anche da altri fattori. Lei in passato aveva fatto causa
al dipartimento di Stato, perché non l’aveva protetta con l’immunità diplomatica, e
nell’ottobre scorso è stata fermata in Portogallo, durante un transito che ha aperto un
contenzioso legale anche con questo paese.
Tutto ciò crea dei problemi oggettivi al Quirinale, anche se fosse disposto a considerare la
richiesta, per la quale al momento non esistono le condizioni. Ma avviare l’iter della grazia,
per lei e gli altri colleghi ancora esclusi, servirebbe a rimuovere un problema per entrambi i
Paesi.
del 14/01/15, pag. 14
Messico, il villaggio che fa sparire i giovani
“scomodi”
Venti amici svaniti nel nulla mentre andavano a una festa L’ombra dei
narcos. Due anni fa scomparvero 43 studenti
Filippo Fiorini
Il cadavere di José Eutimio Tinoco detto «il Re della Tortilla» e abbandonato sul sentiero
per San Miguelito è la traccia più consistente di cui al momento disponga la procura
messicana, perché indicherebbe la direzione presa dai suoi rapitori. Sabato pomeriggio, lui
e altri 20 amici erano partiti da Arcelia per andare a un matrimonio nella località di Las
Palmas. Qualcuno, però, li ha intercettati per strada, ha ucciso quattro di loro e ha
sequestrato tutti gli altri.
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Se questo non fosse lo stato di Guerrero, nel cuore del Messico contemporaneo, il fatto
potrebbe anche risultare sorprendente. La realtà della quarta economia del continente
americano, invece, lo rende un episodio abituale: dal 2007 a oggi, infatti, nel Paese sono
state rapite almeno 30 mila persone e nella maggior parte dei casi non se ne è più saputo
niente. Il fenomeno viene detto delle «sparizioni forzate» e negli ultimi anni è aumentato in
modo consistente. All’inizio, i gruppi venivano catturati quasi solo per ragioni politiche,
mentre casi come quello appena accaduto dimostrano che ora le colpe vanno cercate
soprattutto tra gli interessi del narcotraffico e nei suoi legami con le istituzioni.
Siamo in una zona montagnosa detta Tierras Calientes. Qui si coltivano grandi quantità di
marijuana ed eroina, ma passano anche grossi carichi di cocaina prodotta a sud e diretta a
nord insieme alle altre droghe. Sul luogo in cui è stato attaccato questo gruppo di
«contadini, meccanici, commercianti e fabbri», secondo la definizione che ne ha dato un
conoscente, sono stati lasciati i corpi di tre di loro e due pick-up bruciati. Tre giorni dopo,
Ramon Tinoco ha riconosciuto suo padre Eutimio a 700 metri da lì. I suoi aggressori lo
hanno ammazzato di botte e si sono dileguati portando con sé gli altri 16 uomini.
Si tratta dello scenario tipico di un agguato dei contrabbandieri della droga. Il movente,
tuttora sconosciuto, può essere il tentativo di impossessarsi dei terreni delle vittime per
farci un campo di oppio, oppure, quello di sbarazzarsi di chi si oppone al potere narco o,
ancora, quello di reclutare forze fresche per la manodopera armata.
I 43 studenti scomparsi
Arcelia dista 172 km da Iguala. Sabato 27 settembre 2014, questa località a due ore di
macchina da Città del Messico saltò all’attenzione delle cronache internazionali perché,
nel corso della notte precedente, un gruppo di poliziotti e sicari narco aveva ucciso sei
studenti medi e ne aveva sequestrati 43. In questi sedici mesi, le ricerche sulla scomparsa
dei ragazzi delle magistrali di Ayotzinapa hanno portato al ritrovamento di frammenti ossei
di due di loro, alla scoperta di decine di fosse comuni in un raggio inferiore ai 200 km, ma
anche a nessuna notizia certa su quanto gli possa essere realmente accaduto e per quale
motivo.
Lo scambio d’accuse tra i responsabili in arresto contraddice l’evidenza scientifica delle
perizie indipendenti. D’altra parte, la prematura chiusura e poi riattivazione del caso, ha
portato molti commentatori e parenti delle vittime a dubitare della versione ufficiale, per cui
i giovani sarebbero stati uccisi e cremati in una discarica presso Cocula.
I 43 studenti di Ayotzinapa sono diventati il simbolo delle migliaia di sparizioni che si
consumano quotidianamente in Messico. In febbraio dell’anno scorso, l’Onu ha criticato
duramente il governo di Enrique Peña Nieto, denunciando la mancanza di statistiche
affidabili. «Sono strumenti indispensabili per comprendere le dimensioni del flagello e
adottare politiche per combatterlo», ha detto l’organismo. Il presidente ha reagito
mandando in Senato una proposta di legge che non è ancora stata approvata.
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INTERNI
del 14/01/16, pag. 4
Giachetti: a Roma in campo per le primarie Pd
TOMMASO CIRIACO
ROMA.
Nel week end arriverà l’annuncio: «Sabato, al massimo domenica pubblicherò un
messaggio per candidarmi alle primarie di Roma». Ormai è stabilito, confida Roberto
Giachetti a un collega che lo incrocia in Transatlantico: «Direi che a questo punto è
inevitabile». Spiegherà cosa ha in mente per ricostruire un partito sfasciato, ma soprattutto
come intende far dimenticare il fallimento della giunta Marino. Di certo non basterà la fede
giallorossa, evocata da Renzi nell’intervista a
Repubblica tv.
«Matteo è Matteo... Sai che ho già pronta la battuta? In passato i romanisti hanno votato
un sindaco laziale come Rutelli e poi uno juventino come Veltroni, voglio
spera’
che a maggior ragione voteranno uno della Roma…».
Ogni parola fuori posto complica una scalata più difficile che mai, e infatti Giachetti si tiene
alla larga in queste ore da ogni intervento pubblico. «Conosco la difficoltà della sfida –
ammette però con l’interlocutore -Non mi spavento, sono uno che ha fatto cento giorni di
sciopero della fame, dove ho rischiato per davvero. Voglio solo costruire io la partita, per
avere la serenità interiore e la determinazione di affrontare una roba che è chiaramente un
percorso a ostacoli». Cosa intende? «La situazione politica è quella che è. C’è il partito,
con tutto quello che ha passato. Né mi sfugge che sul mio nome non c’è stato un
particolare calore da parte di alcuni…».
Si riferisce ad alcune fazioni del Pd capitolino. A quella sinistra dem che non ama il
renziano più eterodosso ed è pronta a fargli la guerra. «L’ipotesi Giachetti – attacca ad
esempio il deputato Marco Miccoli, vicino alla Cgil - rischia di inserirsi in una spaccatura
già esistente». Gli oppositori del premier preparano candidature alternative, vogliono
mandare un segnale interno con la conta dei gazebo. E lavorano a formule quantomeno
innovative, come quella sposata da Gianni Cuperlo: «Trovo interessante un’alleanza civica
che metta il Pd al servizio della città, magari rinunciando anche al simbolo del partito».
Non se ne parla, lo stronca Lorenzo Guerini.
Come se non bastasse, pesa pure la spaccatura nel fronte classico del centrosinistra. In
pista per il Campidoglio c’è anche Stefano Fassina, ed è in gara proprio contro Giachetti.
«Se lui decide di non partecipare alle primarie – confida ancora, faccia a faccia col collega
- sceglie di fare una battaglia solitaria, accompagnata da un po’ di veleni e qualche
rancore». Gli stessi che a dire il vero già circolano dentro Sinistra italiana: «In Sel c’è chi
prova a ragionare, penso a Smeriglio - ricorda Giachetti - Ma poi arrivano gli altri e
smontano tutto. Sai qual è la cosa divertente? Che potrei proporre qualsiasi cosa, ma loro
hanno già detto di no. A favore di uno schema che si traduce così: ammazziamo Renzi».
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del 14/01/16, pag. 6
Pd, Giachetti c’è. Ma il vero busillis delle
primarie è il nome di sinistra
Daniela Preziosi
ROMA
Roberto Giachetti c’è, ma i problemi del Pd romano non sono affatto risolti. Dopo
l’endorsement di Matteo Renzi a Repubblica tv («È uno di quelli che conosce Roma
meglio di chiunque altro, è romano e romanista», ha detto) il vicepresidente della Camera
si è preso qualche giorno per preparare il lancio della sua corsa alle primarie del 6 marzo.
Giorni che servono anche a far digerire il rospo ai molti, pure renziani, rimasti freddi alla
notizia della sua nomination. Non sono entusiasti gli ex consiglieri comunali Pd per i quali
un renziano come lui non è una garanzia di essere ricandidati: troppo autonomo, a sua
maniera anche lui un marziano rispetto alle intricate logiche del partito locale. Non arrivano
grida di giubilo da parte degli ex assessori. Resta incerto persino Riccardo Magi, radicale
come Giachetti, che ammette di averci parlato ma anche di «voler riflettere»: peraltro sta
raccogliendo le firme sul referendum sulla candidatura di Roma alle Olimpiadi 2024, che
invece il Pd fortissimamente vuole.
Ma il vero busillis delle primarie è il nome della minoranza che dovrà sfidare Giachetti:
senza alcuna speranza di vincere ma con l’obiettivo di riportare all’ovile tutta quella sinistra
— Sel e dintorni — non sintonizzata sulla campagna «autonoma» di Stefano Fassina. È
questa la vera operazione in ballo nel Pd romano. A cui, con grande discrezione, lavora da
giorni il commissario Matteo Orfini che infatti all’inizio dell’anno ha lanciato un appello alla
’reunion’ della coalizione sulle pagine del manifesto. Marco Miccoli, ex segretario della
federazione romana che di Orfini è avversario, lavora allo stesso obiettivo: ieri ha
annunciato che la sinistra avrà un suo nome perché «dentro e fuori dal Pd quella parte che
ha contestato le modalità con cui stato allontanato Marino potrebbe non riconoscersi
nell’eventuale candidatura di Giachetti».
Ma di nomi in grado di attirare «quella parte dentro e fuori il Pd» ancora non se ne vedono:
potrebbe essere lo stesso Miccoli; o l’invocatissimo senatore dissenziente ed ex
assessore veltroniano Walter Tocci, che continua a stendere ponti in giro per la città ma a
escludere un suo impegno diretto; oppure l’ex assessore Paolo Masini, allontanato dalla
giunta di Marino. O lo stesso Ignazio Marino: potrebbe tentare una nuova —
spericolatissima per la verità — corsa: ed è vero che con lui una parte di Sel non ha mai
chiuso il dialogo. Oppure potrebbe spuntare un altro nome fin qui coperto, dell’area di
sinistra ma fuori dai ’soliti giri’.
Si vedrà nei prossimi giorni. Intanto ieri sono scesi in campo i big della minoranza Pd.
«Tappeti rossi» all’«amico Giachetti» da parte di Gianni Cuperlo, ma sarebbe meglio
«un’alleanza civica che metta il Pd al servizio della città, anche rinunciando anche al
simbolo del partito». Ma sull’ipotesi si abbatte il niet del vicesegretario Lorenzo Guerini: «A
Roma faremo le primarie per candidato sindaco. E una volta scelto, correrà con il simbolo
Pd di cui siamo orgogliosi». «Bisogna rimettere assieme il nostro popolo» spiega Bersani
invitando la coalizione «a chiudersi in una stanza, scazzottarsi e piangere» fino a trovare
una soluzione. Come fra due che hanno litigato ma ancora si amano. Ma il punto è questo:
i due, Pd e Sel, ancora si amano?
Ieri Paolo Cento, il coordinatore romano di Sel, lo ha escluso: Giachetti è una «persona
stimabile», ha detto, ma «tutta interna al renzismo» quindi con lui l’ipotesi di alleanza «è
ancora più lontana di ieri: le primarie di coalizione presuppongono un programma comune
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per la città che non c’è». Stessa chiusura da parte di Fassina, il candidato sindaco ufficiale
di Sel-Sinistra italiana, che ieri ha scritto una lettera agli amministratori municipali che il 23
gennaio al teatro Brancaccio si riuniranno per lanciare un appello unitario.
Il gesto di Fassina è distensivo nelle intenzioni ma duro e rigoroso nei contenuti: «Si
insiste sull’alleanza con il Pd nella completa assenza di indicazioni programmatiche» da
parte del partito di Renzi. Per questo Fassina lancia dieci proposte, di cui discuterà nella
«domenica del programma» il 17 gennaio: dal referendum sulle Olimpiadi al no alla
speculazione edilizia intorno al nuovo stadio, al no alla privatizzazione degli asili nido.
Tutte cose caldeggiate dal Pd di prima e di ora. Su cui trovare un’intesa a occhio, è
impossibile.
del 14/01/16, pag. 7
Torino-Milano, ecco l’asse del Partito della
Nazione
Pd pigliatutto, Nel centrodestra è corsa per appoggiare Fassino contro il
M5S. Il sindaco nervoso: “È un’invenzione giornalistica”
Le vie al Partito della Nazione sono infinite. E così dopo la Campania di De Luca alle
ultime regionali, laboratorio del Pd alleato con verdiniani e cosentiniani, adesso alle
prossime amministrative è il turno della Torino di Piero Fassino, il sindaco uscente
spaventato da un eventuale ballottaggio con la candidata grillina, Chiara Appendino. Il
sostegno pubblico dato a Fassino da Enzo Ghigo, ex governatore azzurro, e dal centrista
Michele Vietti, ex vicepresidente del Csm, sta facendo tornare d’attualità il progetto del
partito pigliatutto, il Partito della Nazione, appunto, da contrapporre al Movimento 5 Stelle.
Ieri, in due interviste, Ghigo (al Fatto) e Vietti (alla Stampa) hanno confermato
l’endorsement a Fassino proprio sotto lo scudo largo e ampio del Pdn. A sua volta, il
sindaco torinese, innervosito dalle domande dei cronisti, ha ridimensionato l’appoggio
degli ex centrodestra: “Il Partito della Nazione è un’invenzione giornalistica”. In pratica la
stessa linea negazionista portata avanti da Giacomo Portas, deputato eletto nel Pd e
soprattutto leader dei Moderati, che in Piemonte hanno un consistente bacino di voti. Dice
Portas: “Vietti ha detto che lui con me non c’entra nulla e ne sono contento. La coalizione
di Fassino ha due liste: il Pd e la mia. E se qualcuno dovesse scavalcarmi a centro o a
destra io me ne andrei e presenterei un mio candidato sindaco”. Portas smentisce anche
di voler candidare nella sua lista Silvio Magliano, ex Ncd e vicepresidente del consiglio
comunale di Torino.
Il nome di Magliano è particolarmente significativo in questo frangente. Nel maggio scorso,
infatti, Magliano è stata una sentinella in piedi, ossia uno di quei cattolici integralisti che
protestano silenziosamente contro le unioni civili in nome della loro dottrina. Fassino
arriverà mai a includerlo nella sua coalizione? Il dubbio resiste nonostante le smentite
ufficiale. La pista di Magliano porta infatti proprio alle schermaglie centriste di Ghigo e
Vietti attorno al Partito della Nazione e che contemplano anche gli ambienti ciellini. Ecco il
punto: a nome di chi parlano i due, Ghigo e Vietti? In realtà a Torino quel che resta di Ncd
e Udc in mano al famigerato Vito Bonsignore ha già messo in campo Roberto Rosso, altro
ex forzista, come candidato sindaco. Si racconta che l’impegno sia quello di appoggiare
Fassino al secondo turno ma il sindaco in questa fase sta lavorando per evitare il
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ballottaggio. Un’ipotesi possibile, secondo i suoi fedelissimi, e che si basa su una bassa
percentuale di votanti, non superiore al 55 per cento. In caso contrario, le chance di non
andare al duello decisivo con Appendino diminuirebbero.
Per tornare al Partito della Nazione che tanto fa imbufalire Fassino. Come notato da Gad
Lerner sul suo blog – Lerner è un aperto sostenitore di Francesca Balzani a Milano – di
fatto esiste un nuovo asse Mi-To nel Pd proprio nei termini del partito pigliatutto anti-Grillo.
Dinamiche di origine diverse che però puntano allo stesso obiettivo: prendere voti tra gli
elettori moderati rimasti orfani del berlusconismo vincente. Sul fronte milanese, è
Giuseppe Sala che proviene dalla giunta Moratti e oggi viene idenficato come il campione
del pseudocentrosinistra renziano. Viceversa, a Torino, è Fassino che va incontro ai
transfughi del centrodestra, con la speranza di intercettare i voti del vecchio Pdl. Stavolta,
a differenza della Campania, il laboratorio del Pdn nasce laddove, soprattutto in
Lombardia, l’antica “Ditta” ex Pds ed ex Ds ha sempre perso il confronto con la pancia
degli elettori di centro. In vent’anni nessuna ricetta è servita a scalfire il predominio del
centrodestra, con effetti disastrosi nelle urne (si pensi all’importanza di Piemonte e
Lombardia in termini di seggi decisivi per il Senato eletto su base regionale). Adesso, con
un paesaggio politico radicalmente nuovo, lo spauracchio grillino di fatto conduce al Partito
della Nazione con gli ex berlusconiani.
del 14/01/16, pag. 13
La riforma accelera, lite sulle date al Senato
Il voto sul ddl Boschi prima di quello sulle commissioni, ira delle
opposizioni. Alla Camera va in calendario l’eutanasia
ROMA Il braccio di ferro sul calendario del Senato è andato a finire come previsto dai più
avveduti colonnelli renziani. Il premier Renzi, infatti, vuole prima incassare la maggioranza
assoluta obbligatoria (almeno 161 voti) sulla riforma costituzionale e poi discutere con
minoranze del Pd e centristi di poltrone nelle commissioni e nel governo. E solo dopo tutto
questo si affronterà il tema spinoso delle di unioni civili.
La legge Cirinnà sulle unioni civili per le coppie omosessuali e su tutte le unioni di fatto, il
testo che sta dilaniando la maggioranza e lo stesso Pd, slitta ancora e diventa il fanalino di
coda dell’ordine del giorno di gennaio. Le opposizioni — da Loredana De Petris di Sel a
Vito Crimi del M5S a Paolo Romani di FI — denunciano il governo per «l’evidente
proposta di voto di scambio» finalizzata a «garantirsi i 161 voti e a mettere in sicurezza il
ddl Boschi e barattarlo con qualche posto nelle commissioni».
Così il calendario del Senato è stato «aggiustato» tra le polemiche ma ora un nuovo
scoglio potrebbe disturbare la navigazione della maggioranza. Infatti, per marzo, la
Camera ha già calendarizzato in commissione la discussione su una proposta di legge che
introdurrebbe la legalizzazione dell’eutanasia anche in Italia. Il testo preso in carico dal
capogruppo di Sel, Arturo Scotto, ha il copyright radicale di Marco Cappato, Filomena
Gallo, Mina Welby e dell’associazione Luca Coscioni: «Grazie a Scotto che ha compiuto
un atto importante perché ora la Camera potrà affrontare anche la nostra proposta di
legge di iniziativa popolare, depositata nel settembre del 2013, e già sottoscritta da 105
mila cittadini e da 225 parlamentari».
Intanto al Senato è stata «prudentemente» disinnescata la mina della stepchild adoption
(l’adozione del figliastro per le unioni civili delle coppie omosessuali indigeribile per Ncd,
30-40 senatori Dem, Berlusconi, Fratelli d’Italia e Lega) che rischiava di far saltare la
«partita della vita» della riforma costituzionale sulla quale Renzi si gioca tutto.
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Per il capogruppo dem Luigi Zanda è valsa la pena, allora, innescare il braccio di ferro:
«Le opposizioni perdono tempo. Ho chiesto la calendarizzazione della riforma perché i
passaggi in commissione e in aula non prevedono discussione di emendamenti in
seconda lettura...». Ma non è stato facile votare il calendario proposto dal Pd e appoggiato
con entusiasmo dai centristi che fiutano l’insabbiamento per le unioni civili. Ha detto
Maurizio Sacconi (Ncd), tenace demolitore della legge Cirinnà: «Dopo la conferma
referendaria della riforma passeremo il Rubicone e abbandoneremo il territorio della
lentocrazia».
Priorità per la riforma del bicameralismo, allora, che andrà in aula (l’ultima volta al Senato)
il 19 e il 20. Poi il 21 si voteranno i nuovi presidenti in due commissioni (papabili Nico
D’Ascola del Ncd alla Giustizia, un altro centrista o Raffaele Ranucci del Pd ai Lavori
Pubblici), il 26 la mozione di sfiducia sulle banche e il 28, infine, le unioni civili. Ma i
centristi, in cambio dei toni trionfali sulla riforma, già pensano a una «proposta indecente»:
ritorno in commissione della legge Cirinnà.
Dino Martirano
del 14/01/16, pag. 13
Il governo e quei sei nomi di Renzi per
saldare l’asse con Ncd (e i suoi)
Tutto in ventiquattro ore. Prima il voto finale del Senato sulle riforme, poi il Consiglio dei
ministri in cui verrà annunciata la «ristrutturazione» dell’esecutivo. La definizione serve al
premier per sfuggire all’uso del termine «rimpasto», parola mediaticamente infausta e
politicamente impropria, visto che in effetti si tratta solo di posti vacanti da riempire. Il
completamento della squadra di governo — le scelte che verranno compiute — non sarà
una mera formalità, ma consentirà anche di capire come il premier avrà chiuso le vertenze
con gli alleati di Ncd e con la minoranza del Pd, e come si appresta ad affrontare un
stagione per lui decisiva, che culminerà con il referendum costituzionale.
Non è un caso che la «ristrutturazione» — prevista per il 21 gennaio — sia stata
calendarizzata per il giorno seguente al responso di Palazzo Madama sulle riforme. Lo si
intuisce dal modo in cui l’altra notte il sottosegretario Lotti, in un vorticoso giro di
telefonate, spiegava ai suoi interlocutori che «è il momento di definire gli incarichi di
governo e di chiudere questa storia. Perché poi dovremo impegnarci nella campagna
referendaria».
È chiaro che tutto ruota attorno al verdetto del Senato, dove serviranno 161 voti per il visto
definitivo alle riforme. E il passaggio porterà alle scelte successive, nel governo come nel
Pd, se è vero che Renzi — tenendo fermo il tandem dei suoi vice Guerini e Serracchiani
— vuole procedere anche al «rimpasto» della segreteria democrat. La decisione era già
stata assunta durante alcune riunioni di partito, dove era emersa la necessità di
intervenire. E non solo per colmare dei vuoti.
Non è ancora chiaro chi entrerà in Consiglio dei ministri per Ncd: i più accreditati sono
l’attuale vice di Orlando alla Giustizia, Costa, e l’ex sindaco di Milano Albertini, che dopo le
dimissioni di Lupi garantirebbero a quel partito la «visibilità» persa al Nord. Si vedrà. Ma
già il fatto che — undici mesi dopo l’addio dell’allora titolare alle Infrastrutture — Renzi
abbia deciso di colmare quel vuoto, smentisce la tesi di un veto verso gli alleati.
Con la «ristrutturazione» il premier toglie di mezzo ogni inciampo, consolidando il rapporto
con Alfano. E il risarcimento nella squadra verrà completato dal ritorno del sottosegretario
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Gentile, che aveva lasciato l’incarico dopo il caso del giornale Calabria Ora nel quale era
rimasto coinvolto il figlio, poi scagionato dalle accuse. Stabilizzare i gruppi di Area
popolare era e resta un obiettivo del capo del governo per evitare fibrillazioni parlamentari
al Senato.
Quanto al Pd, la lista delle nomination si è ristretta e nella griglia di appunti che Lotti
provvede ad aggiornare con la matita risalta ora il nome di Nannicini, che da consigliere
economico del premier si prepara ad essere «promosso» sottosegretario. Se così fosse,
resterebbero ancora almeno quattro caselle vuote, una delle quali di peso: quella del vice
ministro agli Esteri, lasciata vacante da Pistelli, e per la quale è in predicato un giovane
della sinistra dem, Amendola. Resta da capire se sarà davvero così.
Perché le scelte di Renzi daranno l’idea del rapporto che il leader democratico intende
avere con la minoranza, specie con le componenti più dialoganti, saranno una traccia per
seguire i cambiamenti della geografia interna, consentiranno di verificare fino a che punto
si spingerà il coinvolgimento (anche) dell’area bersaniana. In questo senso aveva preso
corpo l’ipotesi di un ingresso al governo di Errani, sebbene l’opzione in questi ultimi tempi
sia caduta, a testimonianza di una frattura che si evidenzierà al congresso.
Tutto in ventiquattro ore: prima il test del Senato sulle riforme, poi la «ristrutturazione»
dell’esecutivo. Ma qualche ora dopo un altro passaggio sarà politicamente interessante e
avverrà a Palazzo Madama, con l’elezione dei presidenti di commissione: il voto — a
scrutinio segreto — stabilirà se Verdini dall’«appoggio esterno» al governo passerà
all’«appoggio interno», se cioè un rappresentante del gruppo Ala conquisterà uno di quegli
scranni. Nelle «trattative» — raccontano autorevoli dirigenti democrat — Palazzo Chigi è
stato al crocevia. Il nodo sono gli effetti che provocherebbe la scelta, in un senso o
nell’altro, nel Pd e nel gruppo di Verdini. Renzi punta alla riduzione del danno.
Francesco Verderami
del 14/01/16, pag. 5
Renzi controllerà le società pubbliche
Le partecipazioni in Cdp, Eni, Poste e Rai dovrebbero passare dal
Tesoro a Palazzo Chigi Cantone: a fine mese il provvedimento sui
rimborsi agli obbligazionisti delle banche fallite
Alessandro Barbera
Il pacchetto di riforma della pubblica amministrazione è un testo monstre di ben dieci
decreti. Il ministero di Marianna Madia ci lavora da mesi, ma non è ancora pronto in ogni
dettaglio. Uno però sarebbe definito e promette di far rumore: il passaggio dal ministero
del Tesoro a Palazzo Chigi del controllo sulle società pubbliche.
Finora la vigilanza sui pacchetti di Enel, Eni, Finmeccanica, Rai e su ciò che resta dello
Stato imprenditore è stato svolto a Via XX settembre, dove un apposito ufficio si occupa
della vigilanza sulle partecipazioni. Se il testo definitivo confermerà l’indiscrezione, d’ora in
poi quelle funzioni verranno svolte direttamente alla presidenza del Consiglio.
Il Tesoro non conferma né smentisce, altre fonti di governo ammettono che «l’ipotesi è in
campo da tempo». Nella sostanza non è da ieri che Matteo Renzi gestisce in prima
persona la partita delle nomine nelle prime linee delle aziende pubbliche, né avveniva
molto diversamente prima di lui. Il passaggio formale alla guida di Palazzo Chigi è in ogni
caso una novità rivoluzionaria, perché sottrae al ministro più importante del governo il
potere formale di nomina e indirizzo. Discorso in parte diverso va fatto per le aziende
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regionali, provinciali e comunali, il cui controllo formale è degli enti locali. Nel caso delle
società regionali esiste addirittura un’autonomia superabile solo con l’attuazione della
riforma del Titolo quinto della Costituzione. Palazzo Chigi può però indirizzare le scelte di
gestione: le bozze del provvedimento prevedono l’istituzione di un «organo di vigilanza
sulle società a partecipazione pubblica» che «tiene un elenco» delle società stesse, può
effettuare ispezioni e chiedere «l’esibizione di atti e documenti che ritenga necessario
esaminare». Il dibattito tecnico è stato finora se attribuire questi poteri al Tesoro o alla
Funzione pubblica. Ma quest’ultimo, formalmente, altro non è che un dipartimento sotto il
controllo della presidenza del Consiglio, ed è dunque possibile che i poteri vengano
attribuiti al ministero della Madia.
Nel frattempo procede la definizione dei decreti per concedere gli indennizzi agli
obbligazionisti delle quattro banche fallite: Etruria, Cassa Marche, Carichieti, Carife.
«Contiamo di avere il decreto entro fine mese, poi si vedrà. Il Tesoro sta lavorando sulla
parte dei criteri dei rimborsi, noi ci concentriamo su come organizzare gli arbitrati», dice il
presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone. Ci saranno probabilmente due
provvedimenti distinti. Il primo farà una sorta di lista dei fortunati: anzitutto chi ha perso
tutto o quasi, ovvero i circa mille obbligazionisti che hanno bruciato più della metà dei
propri risparmi, poi chi ha firmato prospetti con profili di rischio basso al momento della
sottoscrizione, infine chi ha acquistato obbligazioni come condizione per avere altro, ad
esempio un mutuo.
del 14/01/16, pag. 10
Quarto, la sindaca torna dai pm: ora rischia
La ricostruzione di Rosa Capuozzo non ha convinto gli investigatori,
oggi nuovo interrogatorio Non si esclude l’ipotesi di favoreggiamento.
Verrà ascoltata anche dalla commissione Antimafia
DALLA NOSTRA INVIATA
NAPOLI Rosa Capuozzo tornerà oggi in procura. La sindaca di Quarto travolta
dall’indagine sulle infiltrazioni della camorra nel Comune, espulsa dal Movimento 5 Stelle
proprio per non aver denunciato le minacce ricevute dal collega di partito Giovanni De
Robbio, non ha convinto i magistrati. E adesso la sua posizione potrebbe cambiare, il
rischio è che possa finire anche lei sotto inchiesta. Gli appuntamenti si moltiplicano. Ieri,
con un voto all’unanimità che dunque comprende anche i parlamentari pentastellati, si è
deciso di convocarla per martedì per un’ audizione di fronte alla commissione Antimafia. E
questo fa ben comprendere come il caso non sia affatto chiuso, anche tenendo conto che
l’indagine riguarda proprio i legami tra gli esponenti politici locali e il clan guidato da
Afonso Cesarano il boss che ha interessi soprattutto nell’organizzazione delle cerimonie
funebri.
Le intercettazioni e le verifiche svolte dal procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli e dal
pubblico ministero Henry John Woodcock dimostrano che nel novembre scorso, quando
era già sotto il ricatto di De Robbio, Capuozzo fu convocata con il pretesto di sentirla su
un’eventuale faida tra clan nel suo Comune e quando le fu chiesto se c’erano problemi
con il consigliere del suo partito minimizzò quanto stava accadendo. Non poteva
immaginare che le conversazioni durante le quali si sfogava con gli altri colleghi del
Movimento fossero ascoltate dai carabinieri. Lo stesso atteggiamento sembra averlo
tenuto durante l’interrogatorio di due giorni fa. Di fronte ai pm ha spiegato di non aver
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denunciato le minacce perché «non volevo mettere in difficoltà il consiglio comunale» e ha
negato anche di aver avvisato i «capi» nonostante i colloqui registrati dimostrino che
aveva sollecitato un intervento di Luigi Di Maio e di Roberto Fico. Ma non è apparsa
credibile, dunque si è deciso di richiamarla. Se dovesse mantenere questo atteggiamento
non è escluso che venga iscritta nel registro degli indagati. Al momento le ipotesi di reato
possibili sono la falsa testimonianza o addirittura il favoreggiamento. Lei ieri ha deciso di
parlare attraverso i social network, con l’obiettivo evidente di ricompattare i consiglieri
dopo le fratture evidenti emerse con la pubblicazione delle loro conversazioni. E sul profilo
Facebook ha scritto: «Il consigliere comunale Alessandro Nicolais (che con una collega di
partito avevano definito «uno schifoso» ndr ) ha sempre avuto la mia stima personale e
quella di tutto il gruppo di consiglieri perché è una persona la cui onestà intellettuale e
rettitudine morale non sono in contestazione. La decontestualizzazione delle
conversazioni pubblicate può indurre in errore». Sostiene che l’unica divergenza
riguardasse la questione degli stipendi.
Un evidente e ulteriore tentativo di minimizzare di cui evidentemente oggi le sarà chiesto
conto dai magistrati.
Fiorenza Sarzanini
del 14/01/16, pag. 11
Grillo prepara il contro-tour Ospiti sgraditi ai
5 Stelle in tv, scoppia il caso della black list
Grillo L’attacco sul blog alla sorella di Renzi: è assessore a Castenaso e
il suo sindaco è indagato
Santanché e Romano tra gli avversari indesiderati per i confronti
ROMA Tra Partito democratico e Movimento 5 Stelle è guerra aperta. Sul campo della
legalità, con il Pd che giudica tardiva e contraddittoria la scomunica di Rosa Capuozzo,
sindaco di Quarto. E con Beppe Grillo, che pubblica l’elenco di 84 tra consiglieri, assessori
e sindaci pd indagati o arrestati nell’ultimo anno. Ma anche il fronte mediatico è sempre
più caldo. Perché se i 5 Stelle hanno deciso di tornare in massa in tv, dall’altra parte si
denuncia la mancanza di contraddittorio. E, anzi, si denuncia la presenza di una vera
black list, per evitare alcuni personaggi politici «sgraditi».
Ieri Beppe Grillo si è fatto un giro a Pitti Uomo a Firenze, con tanto di fuga rocambolesca
per liberarsi dall’assedio dei giornalisti e autostop: ha chiesto e ottenuto un passaggio in
auto da una sconosciuta. Il leader dei 5 Stelle, che ha parlato di «ripresa economica
sfolgorante, ma solo per la classe medio-alta», lascia cadere un commento lapidario sulla
Capuozzo: «Il caso è chiuso». Decisamente no, visto che si aspettano ancora gli sviluppi
giudiziari e le conseguenze politiche sono ancora sotto gli occhi di tutti.
Grillo e i suoi provano a contrattaccare. E lo fanno con un attacco indiretto a Renzi: «C’è
un caso spinoso in casa Pd — scrive il blog — che riguarda anche la sorella del Bomba,
Benedetta Renzi. È assessore a Castenaso dove il sindaco Pd Stefano Sermenghi,
renziano di ferro, è sotto indagine da settembre per minacce nei confronti del sindaco anticemento di San Lazzaro di Savena (Bologna) Isabella Conti. Anche lei Pd». Poi pubblica
l’elenco degli indagati e arrestati di un partito che «è quasi un’organizzazione criminale».
Ma si parla anche di prossimi «blitz» dello stesso Grillo con parlamentari al seguito, nei
Comuni dei Pd indagati: «Sono un branco di ipocriti — avrebbe detto Grillo ai suoi — gli
daremo filo da torcere e io sarò con voi, davanti alle telecamere».
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Ma c’è il caso «black list» che fa discutere. Alcuni esponenti lamentano di essere stati
esclusi dai talk show perché invisi ai 5 Stelle. E in effetti ci sarebbero alcuni politici di
fronte ai quali i grillini rifiutano di sedersi. Tra loro Andrea Romano, Daniela Santanché,
Denis Verdini, Antonio Razzi, Domenico Scilipoti, Vincenzo D’Anna. Michele Anzaldi, pd,
giudica «gravissima» l’esistenza di una black list e invoca l’intervento dell’Ordine dei
giornalisti. In realtà, è abbastanza comune che nei talk show i partiti contrattino con la
trasmissione per escludere interlocutori sgraditi. Anche se i 5 Stelle sono tra i più diffidenti
ed esigenti. Il consigliere Rai Franco Siddi spiega: «Non ho evidenza che esista una black
list, ma se ci fosse sarebbe inaccettabile».
È guerra anche sui social, con i 5 Stelle che scagliano contro la deputata pd Pina Picierno
l’hashtag #timandiamolapicierno . Tra i tanti: «Hanno arrestato il sindaco Pd di Brenta
#timandiamolapicierno ».
Ma c’è anche un effetto sondaggi, sulle vicende di questi giorni. Secondo i dati Euromedia
di Alessandra Ghisleri per Ballarò , Luigi Di Maio perde il 3,7% di fiducia. Non solo: il
13,2% degli elettori M5S dice di essere indeciso sulla conferma del suo voto al
Movimento.
Alessandro Trocino
del 14/01/16, pag. 6
Tronca vuole sgomberare l’atelier Esc
L'altra faccia di Mafia Capitale. A Roma gli spazi sociali autogestiti
entrano nel mirino del Commissario Tronca: Esc, Auro & Marco e molti
altri. «Vogliono chiudere uno spazio politico creato in anni nei sei mesi
di commissariamento, prima delle prossime elezioni comunali e durante
il Giubileo» sostengono gli attivisti
Roberto Ciccarelli
ROMA
Il Commissario Tronca continua il lavoro di normalizzazione di Roma. Dopo la controversa
decisione di privatizzare gli asili nido comunali, insieme al centro sociale Auro & Marco e
Casale Falchetti vuole sgomberare l’atelier autogestito Esc nel quartiere di San Lorenzo,
una realtà attiva da 11 anni nei movimenti studenteschi, nel sindacalismo sociale,
nell’assistenza legale ai migranti, nella creazione di eventi culturali come la fiera degli
editori e vignaioli indipendenti «L/ivre».
Una notizia che si aggiunge alla chiusura della Casa della pace a Testaccio e alle difficoltà
del Corto Circuito a Centocelle a rischio sgombero tanto da avere occupato il settimo
municipio l’11 gennaio scorso. Il 30 dicembre scorso gli attivisti hanno ricevuto una
comunicazione in cui il comune chiede la riconsegna dei locali assegnati nell’ambito della
delibera 26 stabilita dalla giunta Rutelli nel 1995 per il mancato pagamento delle utenze,
poche migliaia di euro sulle quali era iniziata una trattativa sulla rateizzazione. L’obiettivo
prevedibile è quello di rimettere a bando la struttura affidandola a realtà imprenditoriali in
uno dei quartieri della declinante movida romana.
Questo strappo rispetto alle regole della negoziazione sociale in vigore nella Capitale dalla
metà degli anni Novanta avviene in una cornice politica che si è consolidata sin da quando
era in carica la giunta Marino. Lo stato di emergenza istituito dalla gestione commissariale
di Tronca sembra avere accelerato il progetto di monetizzare lo spazio sociale e le
relazioni che produce, seguendo la traccia del «piano delle alienazioni e valorizzazioni dei
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beni patrimoniali» citato nel documento della programmazione triennale approvato da
Tronca alla vigilia di Natale. Dall’alienazione di questi beni il Campidoglio prevede di
percepire 15 milioni di euro all’anno fino al 2018.
Si spiega così la stratosferica cifra di quasi sei milioni di euro chiesta, poche settimane fa,
al centro sociale Auro & Marco. Una volta dissolta la mediazione politica il calcolo
dell’ipotetica morosità non viene fatto in base al «canone sociale», abbattuto dell’80 per
cento, ma al prezzo di mercato. Funziona come una multa per un divieto di sosta: scaduto
il termine parte il procedimento amministrativo e l’aumento degli interessi fino ad arrivare
allo sgombero. Questo è il risultato dello slittamento di una dialettica politica su un piano
amministrativo.
In una lettera aperta alla città, gli attivisti dell’Esc analizzano la politica di Tronca come un
fare ispirato all’«ideologia salvifica del bando, considerato strumento neutro per esaltare il
merito. Anche un bambino sa che la valutazione prevede dei criteri fissati del più forte,
quello che comanda».
Il bando è stato riscoperto dopo «Mafia Capitale». Per rimediare ai danni provocati dalla
rete di Buzzi e Carminati si è pensato di ricorrere a questo strumento di governo,
apparentemente neutrale. In realtà questa decisione rischia di premiare gli attori
economicamente più forti del terzo settore (Welfare, intercultura, accoglienza,
associazionismo), ma non necessariamente competenti e specializzati: questa è la
denuncia degli operatori. Senza contare il blocco prodotto dallo choc di «Mafia Capitale»:
cooperative e associazioni sono state costrette a interrompere le attività. Tra le vittime di
questa finanziarizzazione del sociale ci sono anche i lavoratori che non ricevono gli
stipendi per il lavoro svolto.
Nei centri sociali romani si sta consolidando l’impressione che si voglia «chiudere uno
spazio politico creato in anni nei sei mesi di commissariamento, prima delle prossime
elezioni comunali e durante il Giubileo» sostiene un’attivista. La lettera aperta dello spazio
sociale si chiude con un appello alla solidarietà e un invito a conservare «l’anomalia
romana: non permetteremo che venga cancellata. Difenderemo Esc con ogni mezzo
necessario. A buon intenditor, poche parole».
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 14/01/16, pag. 31
Il pm attacca Libera. Don Ciotti: “Lo
denuncio”
ALESSANDRA ZINITI
L’affondo: “Al suo interno persone senza scrupoli che fanno solo i loro
interessi” La replica: “Si può criticare ma non calpestare la verità
Vogliono demolirci”
ROMA.
«Libera è stata un’importante associazione antimafia. Ma oggi mi sembra un partito che si
è autoattribuito un ruolo diverso. Gestisce i beni sequestrati alle mafie in regime di
monopolio e in maniera anticoncorrenziale ». Dopo l’addio polemico di Franco La Torre e
l’invito del presidente del Senato Piero Grasso al fronte antimafia a guardare bene al
proprio interno, un’altra bordata di “fuoco amico” colpisce Libera, l’associazione fondata da
don Luigi Ciotti. A sparare a zero, in un’intervista a
Panorama, è il pm della Dda di Napoli Catello Maresca, magistrato molto esperto di cose
di mafia. È lui, proprio nel giorno della convocazione di don Ciotti davanti alla commissione
parlamentare antimafia, a denunciare le presunte «infiltrazioni » all’interno di Libera di
«persone senza scrupoli che approfittano del suo nome per fare i propri interessi». Parole
durissime alle quali don Ciotti reagisce con veemenza, annunciando querela e liquidando
le parole di Maresca come «fango che fa gioco ai mafiosi». «Noi domattina lo denunciamo
questo signore — aggiunge il fondatore di Libera — perché uno tace una, due, tre volte,
ma quando viene distrutta la dignità di migliaia di persone, di gruppi e associazioni penso
sia un dovere ripristinare la verità».
Di frontei a quello che il sacerdote definisce «una trappola dell’antimafia», un «tentativo di
demolirci con la menzogna», Ciotti si ritrova al fianco tutta la commissione antimafia, a
cominciare dalla presidente Rosy Bindi, che definisce le affermazioni di Maresca
«offensive, accuse gratuite e infondate che non sento minimamente di condividere ». È
una pressoché unanime levata di scudi quella che accoglie l’analisi di uno dei più stimati
pm antimafia della Procura napoletana: da Claudio Fava, che ritiene «in atto una
campagna per fare terra bruciata su tutto ciò che l’antimafia ha prodotto di utile in questi
anni» a Davide Mattiello che si dice «sconcertato per gli attacchi inaccettabili e offensivi,
salvo smentite e chiarimenti».
Ma il magistrato napoletano non smentisce nulla. Anzi, nel pomeriggio, aggiunge all’Ansa:
«Libera ha svolto e svolge un ruolo fondamentale nella lotta alle mafie ma bisogna
constatare che purtroppo, con il tempo, a questo spirito iniziale esclusivamente
volontaristico si è affiancata un’altra componente che potremmo definire
pseudoimprenditoriale ». «Associazioni nate per combattere la mafia — dice Maresca —
hanno acquisito l’attrezzatura mentale dell’organizzazione criminale e tendono a farsi
mafiose loro stesse». Parole pesantissime, che don Ciotti intende rintuzzare con forza. E
pur ammettendo che vi sono stati episodi poco chiari in alcune cooperative coordinate da
Libera ribadisce quanto già detto a Repubblica dopo il polemico addio di Franco La Torre:
«Libera gestisce direttamente solo sei strutture, non riceve nessun bene che invece viene
dato ai Comuni e poi affidato alle cooperative. Non riceviamo finanziamenti pubblici, i
nostri bilanci sono online. Nessuno, nessuno metta il cappello su Libera».
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del 14/01/16, pag. 12
Antimafia contro antimafia Il pm Maresca
attacca Libera
Il magistrato che arrestò Zagaria: “Associazione inquinata”. Don Ciotti:
“Denuncio”
di Enrico Fierro
Antimafia contro. Da una parte della barricata un pm noto e stimato, dall’altra don Luigi
Ciotti, inventore e anima di Libera. Le accuse sono pesanti, la risposta pesantissima. Inizia
il magistrato. È Catello Maresca, della direzione antimafia di Napoli, un giovane pm che si
è fatto onore nelle indagini sul clan dei casalesi e ha contribuito alla cattura di Michele
Zagaria. “Se un’associazione come Libera, diventa troppo grande, se acquisisce interessi
che sono anche di natura economica e il denaro spesso contribuisce a inquinare l’iniziale
intento positivo, ci si possono inserire persone senza scrupoli che approfittano del suo
nome per fare i propri interessi”.
È solo l’anticipazione di una intervista al settimanale Panorama. Il tema è scottante e
tocca il sistema di interessi che si è costruito attorno alla gestione dei beni sequestrati ai
boss. “Libera gestisce i beni attraverso cooperative non sempre affidabili. Io ritengo che
questa antimafia sia incompatibile con lo spirito dell’antimafia iniziale”. La risposta è
durissima. Parla don Ciotti: “Noi questo signore lo quereliamo”. L’affondo del pm anticamorra arriva proprio il giorno in cui il fondatore di Libera parla davanti alla Commissione
bicamerale antimafia.
“Oggi è in atto una semplificazione per demolire il percorso di Libera con la menzogna. Ci
possono essere degli errori, si può criticare, ma non può essere calpestata la verità. Libera
gode di buona salute, il movimento giovanile chiede, partecipa, c’è un fermento
impressionante di ragazzi che cercano punti di riferimento veri e credibili. Io rappresento
un noi non un io”. Don Ciotti, ammette il rischio delle infiltrazioni, “è reale, ma le nostre
rogne sono iniziate con i 17 processi in cui siamo parte civile, lì ci sono situazioni
complesse e questo ci ha creato qualche problema. Altri problemi vengono dalle
cooperative, cammin facendo abbiamo scoperto che delle situazioni erano mutate.
Di fatto, noi siamo dovuti intervenire, abbiamo avuto anche processi di lavoro che sono
stati vinti da noi. Ogni sei mesi chiediamo la verifica ma qualche tentativo di infiltrazione
c’è ed è trasversale a molte realtà. Libera è 1.600 associazioni e qualche tentativo,
qualche ammiccamento c’è stato. Abbiamo allontanato dal consorzio Libero Mediterraneo
delle realtà che non avevano più i requisiti e queste realtà gettano il fango, sono le prime a
farlo. Chiediamo di darci una mano alle autorità”. Amarezza di don Ciotti.
E tante domande dentro Libera. Cosa sta succedendo? Perché Franco La Torre, il figlio di
Pio, dirigente comunista ucciso da Cosa Nostra, si è dimesso? E infine le parole di un pm
stimato. “È un attacco, una delegittimazione pesante”, dicono fonti dell’associazione, “ci
colpisce soprattutto la coincidenza delle dichiarazioni del dottor Maresca con la data
dell’audizione di don Ciotti in Antimafia”.
Perché la querela lo spiega il fondatore di Libera: “Uno tace una volta, due volte, tre volte,
ma poi si pensa che siamo nel torto. Quando viene distrutta la dignità di migliaia di giovani
è dovere ripristinare verità e chiarezza. Le dichiarazioni di questo magistrato sono
sconcertanti, chiedo che ci sia verità e giustizia in questo Paese”. Polemiche, confronti
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aspri che non fanno bene alla lotta alla mafia. Il dottor Maresca, parlando col
fattoquotidiano.it, chiarisce: “Vedremo se don Ciotti sarà della stessa idea quando avrà
letto l’intervista, che affronta il tema in modo più ampio, poi vedremo in che sede dovremo
confrontarci”. In un successivo colloquio con l’Ansa, Maresca ha riconosciuto che “Libera è
un’importante associazione antimafia” e “svolge un ruolo fondamentale. Ma bisogna
constatare che col tempo, a questo spirito esclusivamente volontaristico si sia affiancata
un’altra componente, che potremmo definire pseudo imprenditoriale”.
del 14/01/16, pag. 6
Il paese dove tutto cambia ma comanda
sempre la camorra
Il nuovo Piano urbanistico comunale fa gola alle cosche
Guido Ruotolo
Sembra uno di quegli incontri in cui uno dei due combattenti è destinato a soccombere.
Sarà il quinto interrogatorio, quello che si terrà oggi alla Procura di Napoli. La sindaca di
Quarto, Rosa Capuozzo, sentita appena martedì pomeriggio è stata riconvocata dal pm
John Henry Woodcock e dal procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli. Non convince, o
perlomeno potrebbe non aver chiarito tutto, la sindaca (ex) Cinque Stelle, che rifiuta di
dimettersi. Senza più una copertura politica, la maggioranza dei «senzapatria», oggi figli
non più riconosciuti da Beppe Grillo, rischia di finire travolta, stretta in una morsa tra
sospetti e interessi indicibili.
E’ cresciuta all’improvviso, Quarto. E’ successo tra il terremoto dell’Irpinia del 1980 e il
bradisismo dell’area flegrea del 1983. Dal cratere dell’affarismo e della camorra un fiume
di cemento si è riversato su Quarto. E gli abitanti da 10.000 hanno superato i 40.000. E
oggi quel magma pericolosissimo di affarismo e camorra aspetta impaziente il Piano
urbanistico comunale che questa amministrazione deve approvare. La camorra, quella
maledetta bestia nera mica ha infierito solo contro Quarto. Si potrebbe percorrere una Via
Crucis con decine di stazioni di degrado, violenza e poteri criminali. Quarto, Pozzuoli,
Giugliano e Pianura e Fuorigrotta, i quartieri confinanti di Napoli. A ogni comune una
bandierina o addirittura più bandierine dei clan.
Il sindaco Rosa Capuozzo eletta il 16 giugno al ballottaggio con il 70% dei voti non si era
accorta in campagna elettorale del travaso di voti del clan dall’escluso candidato Pd Mario
Ferro al candidato grillino Giovanni De Robbio, primo degli eletti con 970 preferenze. Voti
clientelari, voti firmati dall’imprenditore del clan Polverino, Alfonso Cesarano, che
contemporaneamente doveva garantirsi i suoi eletti anche nella vicina Giugliano.
Clan Polverino, l’erede dei Nuvoletta di Marano. Uno dei clan che hanno fatto storia
(criminale) a Napoli. Nuvoletta, Bardellino, Zaza, Gionta. Formavano il cartello della Nuova
famiglia che contrastava la Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo, negli anni
Ottanta. Clan tutti affiliati ai Corleonesi. Da quella storia nacquero i Casalesi. E oggi il clan
Mallardo di Giugliano è quello che nei fatti comanda in provincia di Napoli. Nella
campagna elettorale del 2011, vinta dal centrodestra, furono arrestati 39 camorristi, tra cui
due candidati alle comunali. Consiglio sciolto. Secondo scioglimento nel 2013, e dopo 18
mesi di commissariamento, nel maggio scorso, si è tornati a votare, con la vittoria dei
Cinque Stelle. «I lavori svolti dalla commissione d’indagine - si legge nel decreto di
scioglimento - hanno preso in esame, oltre all’intero andamento gestionale
dell’amministrazione comunale, la cornice criminale e il contesto ambientale ove si colloca
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l’ente locale, con particolare riguardo ai rapporti tra gli amministratori e le locali cosche e
hanno evidenziato come l’uso distorto della cosa pubblica si sia concretizzato, nel tempo,
nel favorire soggetti o imprese collegati direttamente o indirettamente ad ambienti
malavitosi». Piano urbanistico comunale, gestione della squadra di calcio e dello stadio,
della politica cimiteriale. La sindaca Capuozzo travolta dai ricatti del consigliere De Robbio
sui problemi di abusivismo edilizio che la vedevano coinvolta, ha cercato di resistere alle
pressioni. Ma non ha avuto il coraggio di denunciare. E oggi senza i Cinque Stelle vuole
continuare a guidare Quarto.
del 14/01/16, pag. 3
L’euroinquisito Pd tra feste, voti loschi e
l’ombra dei clan
Caputo, eletto a Strasburgo, indagato dalla Dda di Napoli: il suo regno è
Villa di Briano, a 25 km dall’ex feudo grillino
di Vincenzo Iurillo
La Quarto del Pd si trova ad appena 25 chilometri di autostrada e si chiama Villa di Briano
(Caserta). Ma non vi scorgerete le folle dei cronisti e le dirette di piazza. Qui tutto è avvolto
nel lavoro di una commissione prefettizia che è arrivata a ottobre in silenzio, senza crepitii
mediatici. Qui infatti non si poteva dare addosso ai grillini, nessuna loro responsabilità in
una giunta democrat che si è sciolta in estate dopo le dimissioni del sindaco, quindi le
inchieste sul voto di scambio politico mafioso e le infiltrazioni della camorra nelle
amministrazioni comunali non fanno notizia. Nemmeno se tra gli indagati c’è un
europarlamentare, Nicola Caputo, promosso a Strasburgo con 85.897 voti dopo quasi due
legislature nel consiglio regionale campano.
In questo paese Caputo ha uno dei suoi principali serbatoi di preferenze, raccolte in
passato anche grazie a sfarzose feste elettorali tra showgirl in minigonna, alcool a fiumi e
la faccia del candidato stampata sui tovaglioli.
La descrizione di questo banchetto luculliano con 1800 invitati, risalente al 2010 e
raccontato dall’intercettazione di un imprenditore vicino ai clan, è finito dritto nelle carte
dell’inchiesta della Dda di Napoli – procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli, pm Cesare
Sirignano (oggi in Dna) e Catello Maresca – che ha iscritto l’europarlamentare dem nel
registro degli indagati in uno stralcio dell’indagine madre sul Comune di Villa di Briano.
Secondo le investigazioni dei carabinieri del comando provinciale di Caserta, agli ordini del
colonnello Giancarlo Scafuri, le attività dell’amministrazione piddina erano di fatto nelle
mani della fazione del clan dei Casalesi guidata dal boss Antonio Iovine ‘o Ninno.
Ed il sindaco dem Dionigi Magliulo, già imputato di corruzione elettorale e depennato
all’ultimo minuto dalle liste a sostegno del Governatore Pd Vincenzo De Luca, era solo
uno strumento nelle mani del fratello Nicola Magliulo, funzionario dell’ufficio tecnico
comunale, “il vero sindaco”, scrive la Procura Antimafia. Nicola Magliulo è stato arrestato a
luglio con accuse di associazione camorristica per “essersi messo a disposizione di Iovine”
accelerando i pagamenti alle ditte vicine al clan e fornendo notizie riservate su gare e
appalti agli emissari del boss, Benito Lanza, Antonio Cerullo e Nicola Coppola.
Sono proprio alcune intercettazioni ambientali di Lanza a mettere nei guai
l’europarlamentare Caputo. Il 21 maggio 2010 una cimice piazzata in una Peugeot 307
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registra una conversazione tra Lanza e Cerullo in cui si accenna al patto politico e di affari
tutto interno ai democrat: i fratelli Magliulo hanno dovuto sostenere con 100.000 euro la
campagna elettorale di Caputo alle regionali del 28 e 29 marzo 2010 e Caputo in cambio
sarebbe intervenuto in Regione Campania per assicurare i fondi per la realizzazione dello
svincolo sulla statale Nola-Villa Literno. “Alla fine quello mi disse… ci ho rimesso altri
100.000 euro…”.
Concetto rafforzato in un’altra ‘ambientale’ del 6 giugno, quando Lanza conversa con P. P.
e parla del ‘patto’ : “Alla fine arrivano le elezioni… va questo e dice: ‘Prima delle elezioni io
ti faccio il finanziamento’. Prima delle elezioni questo mantiene la parola e manda i denari.
Tu che fai, mantieni… ”.
Infatti è stato accertato che il 18 febbraio 2010, un mese e mezzo prima del voto, un
dirigente della Regione Campania ha firmato il decreto di approvazione della graduatoria
dei progetti ammissibili a finanziamento, e tra questi c’era anche lo svincolo sulla NolaVilla Literno, importo di quasi due milioni di euro. Quel decreto è agli atti, all’epoca Caputo
era vice capogruppo del Pd in consiglio regionale e componente della commissione
Bilancio. L’europarlamentare, con discrezione, ha chiesto di essere sentito dal pm per
fornire la sua versione e convincerlo della sua estraneità alle accuse di voto di scambio.
L’avvocato Carlo De Stavola, che difende anche Magliulo, sentito nelle scorse settimane,
è in contatto con la Procura per concordare la data dell’interrogatorio. Dovrebbe svolgersi
entro la fine di gennaio.
del 14/01/16, pag. 3 (Roma)
Gioco d’azzardo online milionario e mafie
Il «re delle slot» in carcere con dieci complici. I legami con boss dei
Casalesi e della ‘ndrangheta
Considerato un tempo il business minore di una mafia lontana dalla capitale, il circuito dei
videopoker - intanto proliferato - si conferma tanto indispensabile all’economia mafiosa
quanto radicato sul territorio laziale. Al primo posto Ostia che sacrifica metà delle sue
attività commerciali, anche improbabili come i lounge bar e gli stabilimenti vip, agli
interessi della criminalità organizzata.
E da Ostia - il tentato omicidio di un gestore di sale giochi nel 2014 - è partita l’inchiesta
che ieri ha portato all’arresto di 11 persone fra cui il boss collegato alle ‘ndrine Nicola
Femia e Luigi Tancredi, imprenditore-ideatore del circuito illecito del gioco d’azzardo.
Le indagini della mobile e dello Sco, coordinate dall’aggiunto Michele Prestipino,
fotografano un litorale ridotto a colonia della camorra ( Casalesi), i cui interessi coincidono
con quelli indigeni dei Triassi, già partner dei Fasciani (tesi rilanciata proprio ieri dal pg al
processo d’appello sui clan di Ostia).
Eppure ancora nel 2005 i giudici del Riesame respingevano l’idea di un collegamento fra
gioco d’azzardo e interessi mafiosi. Famoso il provvedimento grazie al quale fu scarcerato
Emidio Salomone, erede del boss Paolo Frau: «La gestione del mercato dei videopoker e
altre attività illecite - scrivevano i giudici - non è sufficiente a definirlo boss». Arrestato in
Danimarca, fu libero 24 ore dopo.
Da allora qualcosa è cambiato se oggi un giudice di quel Tribunale, la gip Elvira
Tamburelli, sottolinea «la radicalizzazione (del fenomeno, ndr) sul territorio nazionale, la
capacità di conquista di ulteriori fette di mercato illegale e la progressiva espansione
all’estero».
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I pm Cardia e Sargenti, aiutati dal collaboratore di giustizia Antonio Leonardi (nome di
spicco fra i secessionisti di Secondigliano, prima faida di camorra) hanno ricostruito la
penetrazione mafiosa nelle sale giochi laziali. Un giro d’affari enorme che, da una parte,
controlla la gestione «delle sale e delle macchinette legali Italypoker» soppiantando altre
organizzazioni criminali e dall’altra gestiva il più remunerativo circuito illegale accessibile
attraverso il proprio pc. A occuparsi di tutto questo sarebbe stato Luigi Tancredi, talento
imprenditoriale con collegamenti nelle organizzazioni. Dopo un’esperienza nelle sale
autorizzate dall’Agenzia delle Entrate, Tancredi si era specializzato nei casinò virtuali,
delocalizzando le centrali dei server in paesi a fiscalità vantaggiosa (Romania).
Conosciutissimo come «Re delle slot» avrebbe brevettato «un sistema illecito mediante la
creazione di apposite piattaforme informatiche (la famosa «Dollaro», ndr) che scorre
parallelo all’altro e consente di lucrare senza pagare tasse allo Stato».
Quanto valeva la piattaforma «Dollaro»? In proposito il collaboratore di giustizia Salvatore
Venosa dice: «Puntualizzo che solo alle macchinette degli esercizi commerciali fra Casale
e San Cipriano si ricavavano 17.500 euro per Francesco Schiavone detto Sandokan e
3.500 per il figlio Nicola Schiavone».
Tra le pieghe dell’inchiesta c’è spazio anche per un politico. L’ex deputato Amedeo
Laboccetta (Pdl) non indagato, titolare della «Atlantis srl» che gestiva i provider anche per
«Dollaro». Assieme agli arresti è stato eseguito dalla Guardia di Finanza anche un
sequestro di beni per il valore di 10milioni di euro: società, immobili, auto e conti di Luigi
Tancredi.
Ilaria Sacchettoni
Da Avvenire del 14/01/16, pag. 5
Azzardo online, gli affari delle cosche
Nel sistema parallelo dei clan un business «come la droga». 11 arresti a
Roma
VINCENZO R. SPAGNOLO
ROMA
«Quotidianamente si svolgevano 12mila tavoli da gioco virtuali, che producevano un giro
di affari di 11,5 milioni di euro al giorno. L’organizzazione smantellata percepiva il 10% di
quella cifra, ovvero 1,5 milioni al giorno». Così il procuratore aggiunto Michele Prestipino
tratteggia il business criminale scoperto nell’inchiesta «Imitation game», coordinata dalla
procura di Roma e condotta dallo Scico della Guardia di Finanza e dai poliziotti dello Sco e
della Squadra mobile capitolina. In manette sono finite 11 persone (ad altre due
l’ordinanza verrà notificata all’estero), con l’accusa d’associazione a delinquere «volta a
commettere una serie indeterminata di reati attraverso una rete illegale di gioco on line»,
omettendo il versamento dei tributi per la concessione di gioco «al fine di realizzare
plurime truffe ai danni dello Stato». Ad alcuni indagati viene contestata l’intestazione fittizia
di beni: i finanzieri hanno sequestrato beni immobili (società che possiedono sale giochi e
attività di ristorazione) e conti bancari per un controvalore di 10 milioni di euro (nella
perquizione a casa di un arrestato, sono comparsi 200mila euro in contanti). «In un
dialogo intercettato – racconta il colonnello della Gdf Alessandro Cavalli –, alcuni indagati
dicono che con quel business si guadagna più che con la droga», rischiando pene lievi.
Le cosche e il «re delle slot»
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Le indagini avevano preso il via da 2 tentati omicidi sul litorale romano di Ostia tra il 2011
e il 2012 ai danni di soggetti legati a sale giochi. Con pedinamenti, intercettazioni e
dichiarazioni di alcuni pentiti, gli inquirenti hanno ricostruito la rete, a partire dalle figure
chiave. Fra loro, l’imprenditore 50enne d’origine potentina Luigi Tancredi, conosciuto come
«il re delle slot» per aver creato un piccolo impero legato al gioco e già toccato da altre
inchieste: «Aveva una società legale – ricorda Prestipino – ma poi aveva perso
l’autorizzazione dell’Agenzia dei Monopoli ». Tancredi non è un mafioso, precisa il
magistrato, ma si avvaleva delle cosche «per occupare quel pezzo di mercato delle
scommesse online, creare po- stazioni nei locali pubblici e vincere la concorrenza con
metodi illeciti». Fra gli indagati c’è poi il 55enne Nicola Femia, calabrese residente a
Ravenna e già in carcere a Bologna per un’altra inchiesta, ritenuto vicino alla famiglia
Mazzaferro di Marina di Gioiosa Ionica. Prestipino descrive «un sistema parallelo di gioco
online a cui gli utenti potevano accedere da ogni parte d’Italia, costituito grazie alla
collaborazione con gruppi di camorra, ’ndrangheta e della criminalità di Ostia, a». Per la
loro cooperazione, a esponenti della camorra legati al clan dei Casalesi venivano versati
fra i 45mila e i 60mila euro al mese.
Server in Florida, società in Romania
Nelle 245 pagine dell’ordinanza di custodia, firmata dal gip Elvira Tamburelli, si
ricostruisce il sistema a cui migliaia di 'giocatori' accedevano con un nickname e una
password, caricando anche 10mila o 5mila euro: «Una struttura piramidale a livelli
gerarchici (national, regional, distretto e club), operativa su piattaforme informatiche che
consentono il gioco su siti non autorizzati dai Monopoli». Era il «cosiddetto sistema
'dollaro'», per via dei siti su cui il gruppo operava ( www.dollaropoker. com;
www.2dollaropoker. com e così via). Il server era a Tampa, in Florida, mentre in Romania
c’era la sede della società 'Dollarobet srl', con personale di assistenza al sito ed esperti
informatici. Una svolta alle indagini arriva nel marzo 2012, dopo la perquisizione in una
sede della società 'Cinque punto cinque', riconducibile a Tancredi. La documentazione
sequestrata serve agli investigatori a capire il meccanismo, ricostruendo il senso delle
conversazioni intercettate, a volte oscuro «anche perché spesso gli indagati, per ragioni di
cautela, si avvalevano di Skype».
Minacce ai debitori
La 'gestione' dei debiti avveniva con metodi brutali, come si evince dal racconto di un
giocatore, colpito con la canna della pistola da uno degli indagati, o dalle telefonate
minacciose a un ex calciatore di serie A, ora allenatore nelle serie minori, debitore di
74mila euro ma a corto di liquidi: «Famme ammazza’... Che te devo di’», si giustifica il
primo. L’indagato chiude la conversazione. Ma in seguito richiama, minaccioso: «Hai
perso e mo devi paga’... Se no domani me trovi lì e non so’ carino per niente...».
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 14/01/16, pag. 1/10
Il ministro della Giustizia: “Per difendere le nostre libertà assumeremo
3mila nuovi agenti. Le culture diverse non giustificano e non scusano
nulla”
“Via subito chi sbaglia chi vive qui rispetti i
diritti delle donne”
ANDREA TARQUINI
BERLINO.
«Non abbiamo al momento prove che gli orribili attacchi alle donne a Capodanno siano
legati al terrorismo internazionale. Ma lo Stato di diritto combatterà con tutti i suoi mezzi
contro ogni minaccia». Heiko Maas, il49enne ministro della Giustizia federale (Spd) spiega
così a Repubblica la strategia del suo governo.
Lei ha parlato di azioni coordinate: quanto è pericolosa la minaccia alla sicurezza e
libertà di donne e uomini in Germania e in Europa?
«Questi attacchi in massa alle donne nella notte di Capodanno sono stati vili e repellenti.
Le autorità tedesche lavorano a pieno ritmo per indagare e scoprire i responsabile, che
devono essere chiamati a rispondere con tutta la forza dello Stato di diritto. Non possiamo
tollerare spazi in cui si è liberi dalla Legge. Il governo federale ha deciso di rendere ancor
più facile e veloce l’espulsione di stranieri criminali. La soglia di tolleranza penale sotto la
quale scatteranno esclusione dai diritto all’asilo e l’espulsione per certi delitti verrà
abbassata. E assumeremo circa 3.000 nuovi agenti a questo scopo».
Germania ed Europa devono dunque cambiare profondamente la politica
d’immigrazione e asilo?
«Il punto non è la politica d’immigrazione. Certo, tra il milione e oltre di persone arrivate da
noi in Germania l’anno scorso ci sono anche alcuni che commettono reati penali. Così
come li commettono cittadini tedeschi. Ma è importante non trasformare tutti gli stranieri in
sospetti. I criminali devono essere puniti: è un dovere dello Stato anche davanti ai molti
profughi che non hanno commesso alcun reato. Chi vive qui deve rispettare le nostre
leggi. E non è finita: la migliore difesa contro la criminalità è fatta di istruzione e
integrazione».
Ma non le sembra che siamo di fronte a un “Kulturkampf”, uno scontro tra culture?
Cioè, in che misura le nostre idee di diritto, specie sui diritti delle donne, sono
condivise da migranti islamici?
«L’incontro tra culture diverse non giustifica nulla e non scusa nulla. In Germania esiste la
parità di diritti tra donne e uomini in ogni relazione, privata e sociale. Chiunque viva qui
deve accettarlo. Certo, è chiaro che la coesistenza tra persone di culture diverse può
portare a conflitti. Per contrastarli e superarli, puntiamo a una forte politica d’integrazione:
corsi di educazione civica integrazione e lingua, corsi d’apprendistato professionale, offrire
possibilità di lavoro, parlarsi, solo così si dà alla convivenza una prospettiva di futuro».
Ma l’estrema destra tedesca ha reagito in modo violento e minaccioso alle violenze
di Capodanno: in Germania come altrove si sono registrati attacchi razzisti contro
gli stranieri. Da Berlino a Helsinki. Quanto è pericolosa per i valori costitutivi
dell’Europa questa deriva violenta?
«Nell’Europa unita dai valori costitutivi della libertà e del Diritto, un denominatore comune
deve assolutamente essere e restare chiaro, prioritario. E cioè che ovunque in Germania
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come ovunque in Europa è compito dello Stato, e soltanto dello Stato, organizzarsi anche
come forza pubblica al fine di garantire la sicurezza dei cittadini e l’ordine pubblico. Il
contratto sociale dell’Europa democratica dice questo. Non contempla l’autodifesa con
milizie private né tantomeno violenze razziste. Su questo non si transige: il monopolio
dell’uso della forza pubblica, ove necessario anche della violenza entro i limiti dello Stato
di diritto, è in mano solo allo Stato. Tale principio non può essere messo in discussione da
alcuna iniziativa».
Cosa fare allora contro questi squadristi, contro le ronde violente auto-organizzate?
«Non accettiamo e non accetteremo alcun tentativo da parte di gruppi di privati cittadini di
darsi un ruolo di polizia, nemmeno se e quando i cosiddetti
Buergerwehren (gruppi o milizie di autodifesa civica, ndr) se lo arrogano. E quanto alle
reazioni degli estremisti di destra, sono indignanti e repellenti proprio come gli assalti alle
donne a Capodanno. Noi, come governo federale, non permetteremo ad alcun criminale di
distruggere la pace sociale: non lo permetteremo né agli stranieri responsabili di reati
penali, né agli estremisti di destra. Difenderemo con decisione la nostra libertà. Chiunque
la metta in discussione non rappresenterà mai un Paese tollerante e aperto al mondo
come la Germania».
Ipotizzate legami tra gli organizzatori delle violenze di Capodanno e i terroristi,
come quelli che hanno martedì a Istanbul hanno ucciso 10 turisti tedeschi?
«Non ho alcuna prova che faccia pensare a un legame diretto. I delitti di Capodanno, allo
stato attuale delle indagini, non hanno nulla a che fare col terrorismo internazionale».
Occorrono soluzioni nazionali e urgenti o soluzioni europee coordinate e
inevitabilmente più a lunga scadenza?
«Entrambe. Una cooperazione paneuropea nella politica verso i migranti è irrinunciabile,
così come lo sono i provvedimenti nazionali. Per esempio: la nostra reazione agli assalti
alle donne, con la decisione di rendere più severe le norme di soggiorno in Germania. La
questione dei profughi resta comunque una sfida internazionale, non possiamo affrontarla
da soli. Ed è inammissibile che Stati come Italia, Grecia o Germania vengano lasciati soli
ad affrontare questa emergenza. Tutti devono dare un giusto contributo. La questione dei
migranti è una prova decisiva per l’Unione europea».
del 14/01/16, pag. 14
I fatti di Capodanno a Colonia, «un fenomeno
emergente»
Monica Zoppè
Sugli attacchi alle donne la notte di capodanno in diverse città della Germania c’è ancora
molta luce da fare. C’è chi parla di una regia, di una strategia escogitata non si sa bene da
chi, né a che scopo, tuttavia finora nessuna «mente» è stata identificata, né è chiaro come
questa avrebbe agito, per coordinare un così grande numero di attacchi in parecchie città
diverse e lontane.
Senza essere esperta sociologa, ritengo possibile che quel che è avvenuto sia uno
esempio di «fenomeno emergente», un effetto imprevedibile sviluppato in modo pressoché
autonomo, come diretta conseguenza delle condizioni date.
Come prima condizione vediamo un gran numero di persone frustrate da una qualità di
vita decisamente scarsa, a volte pessima, in un paese in cui per contro, la maggior parte
degli «altri» gode di un sistema che invece funziona bene (per gli altri), almeno
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apparentemente. La seconda componente del sistema è il fatto di trovarsi in grande
numero tutti insieme contemporaneamente, nello stesso posto; dove questo non è
fisicamente vero, la connessione via social network fa le veci della vicinanza. Allora un
possibile supporre uno scenario in cui «semplicemente» sia avvenuta una prima
aggressione, forse semplici insulti (certo, non sarebbe un bel gesto, ma nemmeno un fatto
raro in occasioni di folle, magari tutti un po’ ubriachi o esaltati dal clima); supponiamo che
uno dei protagonisti abbia postato su Fb o Twitter il fatto.
Tra chi ha ricevuto il messaggio, è certo possibile che qualcuno abbia «tratto ispirazione»
ed emulato il fatto. Naturalmente, nel mondo social, è come non averlo fatto se non lo
condividi, ed ecco che il giro si allarga, rimbalza, si carica, e quella che poteva essere una
semplice bravata diventa sempre più grave e pesante fino ad arrivare a quella che oggi
viene descritta come una violenza inaudita e organizzata contro le donne (tedesche?). In
ambito scientifico c’è un filone di studio che si occupa proprio delle proprietà emergenti, e
di forme «attive» di autorganizzazione, in cui per esempio anche semplici sfere in un
fluido, possono acquisire comportamenti apparentemente organizzati (flussi di massa,
spirali, fontane..) senza che nessun impulso esterno abbia fornito indicazioni, ma solo in
presenza della alta concentrazione, e del fatto che vi sia dell’energia disponibile.
Questo avviene perché il comportamento di un elemento influenza ed è a sua volta
influenzato da quello degli altri elementi intorno, un fenomeno che si sviluppa anche in
forme viventi, come per esempio nel volo degli stormi di uccelli. Anche dal punto di vista
teorico è possibile simulare le condizioni e produrre comportamenti emergenti, e
addirittura è possibile creare <TB>«sciami di robot» che si autorganizzano, e si
comportano in modo coordinato, anche senza che nessuna indicazione di comportamento
venga imposta al sistema.
C’è da augurarsi che l’ipotesi sia sbagliata: è meno spaventosa l’idea che ci fosse sotto un
disegno, perché in questo caso sapremmo (almeno in teoria) come affrontarlo. Ci sarebbe
molto da temere invece di fronte ad un fenomeno che coinvolge così facilmente un così
grande numero di persone, senza nessun controllo, e senza che vi sia modo di prevedere,
e possibilmente prevenire lo svolgersi delle cose.
* Institute of Clinical Physiology – Cnr Pisa, Italia
del 14/01/16, pag. 1/10
La Germania tradita
BERNARDO VALLI
LA cattedrale di Colonia è uno dei simboli più forti della Germania occidentale: sull’ampio
spazio antistante si è consumato il tradimento.
LA cattedrale di Colonia è uno dei simboli più forti della Germania occidentale: ed è
sull’ampio spazio antistante, da dove si sale al sagrato, che si è consumato il tradimento.
Là, ai piedi dell’ imponente monumento gotico, è stata violata la fiducia con la quale molti
tedeschi, esortati, guidati da Angela Merkel, avevano accettato l’ondata di migranti. È stato
il tradimento della cattedrale. Scegliendo quel luogo emblematico nella valle del Reno i
colpevoli hanno appesantito i loro gesti incivili: non hanno ferito soltanto la dignità
femminile, ma sono venuti meno anche al rispetto dovuto ai luoghi della memoria, nella
terra che ti ospita.
Con il suo discorso del 31 agosto, di appena quattro mesi fa, la cancelliera aveva
rappresentato un Paese generoso, ormai lontano non solo dai vecchi demoni, ma anche
da quelli nuovi, senz’ altro meno tragici e tuttavia visti come l’ espressione di un rigore
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arcigno,non privo di egoismo. Di fronte all’ondata di profughi Angela Merkel aveva
spalancato le porte della Germania offrendo l’immagine di un’Europa fedele agli ideali
fondatori. In quel momento la donna di Berlino è stata la nostra buona coscienza. Lo è
stata senza retorica, con lo stile semplice, in apparenza dimesso, della figlia del pastore
protestante.
I tormenti di Angela Merkel sono cominciati subito dopo con l’emergere alle sue spalle di
una società tutt’altro che compatta. Comunque in parte stupita dal suo abbraccio
incondizionato a un milione di persone. A quello che appariva un autentico slancio iniziale
sono seguiti il malumore,l’irritazione, la collera.
Le accuse di ingenuità alla cancelliera si sono moltiplicate. Uno dei suoi ministri, il più
autorevole, quello delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, l’ha definita «una sciatrice
imprudente » che sposta un po’di neve e provoca una valanga.
La sera di San Silvestro, a Colonia, ma anche ad Amburgo, e in altre città tedesche,
persino in Austria, aggredendo o molestando il popolo femminile che si preparava a
festeggiare capodanno , masse di giovani e meno giovani, identificati come arabi, o
genericamente come musulmani, hanno tradito la donna che li aveva accolti.
Hanno creato sgomento e divisioni in Germania e in Europa. L’inquietudine per l’ondata di
migranti è diventata ansia, angoscia, dopo gli assalti sessuali di fine d’ anno, scrive un
reporter del New York Times misurando gli umori europei con occhi americani. Gli attentati
terroristici, compreso l’ultimo, in piazza Sultanahmet, a Istanbul, che ha ucciso dieci turisti
tedeschi, creano un’ atmosfera di guerra, suscitano paura, spingono a detestare gli
avversari. L’insulto alle donne del-Paese che ti ha aperto le porte provoca altri sentimenti.
Suona, appunto, come un tradimento. E lo è.
Gli esseri umani vanno giudicati per quel che fanno, non per quel che sono. Estendere
genericamente a comunità, etnie o religioni le colpe di individui non è una pratica che si
addice alla nostra cultura.
Restano molte ombre da dissipare negli avvenimenti di San Silvestro: la simultaneità delle
aggressioni in varie città, senza un’organizzazione, stando alla polizia ; la quale ha tardato
non solo a intervenire, ma anche a stendere i rapporti sull’ accaduto; le assai più rapide
reazioni dei gruppi razzisti o populisti; la crescita di giorno in giorno delle denunce. L’
atmosfera festiva, l’opportunità politica hanno probabilmente pesato. E ha forse contato un
certo pudore. Adesso si scopre, ad esempio, che la polizia svedese ha nascosto
aggressioni sessuali avvenute lo scorso anno e in quello precedente.
Angela Merkel non ha interrotto la sua politica sull’immigrazione, ma ha dovuto
socchiudere le porte, e preparare leggi più restrittive sull’ ammissione dei profughi. Gli
elettori devono essere rassicurati e i fatti di Colonia, di Amburgo e di altre città non danno
l’ impressione che il governo di “grande coalizione” controlli la situazione.
Tuttavia gli ultimi sondaggi non sono sfavorevoli ad Angela Merkel, nonostante su di lei
piovano critiche e accuse. L’ Unione (CDU-CSU, i due partiti cristiano democratici fratelli)
raccoglie il 39 per cento, come nei sondaggi precedenti; mentre l’alleato socialdemocratico
(SPD) perde qualche consenso, scende al 23 per cento; come del resto il movimento di
estrema destra Alternativa, che si ferma all’8 per cento.
Gli elettori virtuali non sono severi con la cancelliera. La Germania traumatizzata
dall’ondata migratoria, e dalla violenza di alcuni gruppi forse manovrati, non gira le spalle
ad Angela Merkel.
La “grande coalizione” a volte sembra in seria difficoltà. Le polemiche hanno agitato e
agitano soprattutto i due partiti cristiano democratici.I socialdemocratici appaiono spesso
più solidali con la cancelliera. Non la risparmiano invece i bavaresi della CSU ( Unione
cristiano sociale), più conservatori dei loro fratelli della CDU (Unione cristiano
democratica)nazionale. Questo sembra tuttavia rientrare nella tradizione o in quello che si
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chiama lo “ spirito di Kreuth”. Il quale risale alla burrascosa riunione che nel 1976 si
concluse in quella località con l’ affermata autonomia dei bavaresi. Per ribadirla
quest’ultimi, ancora oggi, promuovono da Monaco, puntualmente, animate controversie
con Berlino, senza mai interrompere però la partecipazione al governo.
È sempre allora, quarant’ anni fa, che la CSU adottò un altro principio, secondo il quale
nessun partito doveva spuntare alla sua destra, Da qui la necessità di animare una politica
conservatrice, se necessario in contrasto con la cancelleria federale. La regola ha
funzionato anche in questa occasione con gli attacchi alla Merkel, che hanno avuto
almeno finora l’ effetto di un’assicurazione, Non lasciando ad altri movimenti di rilievo il
ruolo di oppositori in un momento critico.
del 14/01/16, pag. 8
La Danimarca confischerà ori e averi ai
profughi
Rachele Gonnelli
È sbarcata ieri nel Palazzo di Christiansborg, sede del parlamento, la proposta di legge del
premier liberale Lars Løkke Rasmussen per requisire ori, gioielli e soldi ai profughi in
arrivo in Danimarca come contributo per le spese di soggiorno. Non è ancora chiaro se i
denti d’oro saranno compresi nel «bottino», che però ufficialmente viene definito «prelievo
fiscale» e si inserisce in una legge più complessiva, una riforma, che va a modificare la
legge sull’immigrazione risalente al 1951.
Le opposizioni socialdemocratiche e rosso-verdi con le loro critiche al vetriolo — le
confische somigliano tanto le razzie dei nazisti agli ebrei in fuga e internati nei campi, lo ha
detto anche l’Unhcr — finora hanno portato il governo di destra solo a alzare il tetto dei
beni non confiscabili perché di scarso valore, passato dalle 3 mila corone, pari a 402 euro,
della versione iniziale presentata prima di Natale alle attuali 10 mila corone, circa 1.350
euro. Restano esentati dalla confisca i beni «di particolare significato personale» come
fedi nuziali e orologi d’epoca, ma resta da vedere l’interpretazione della norma e la sua
effettiva applicazione.
L’obiettivo del provvedimento sui sequestri, che dovrebbe essere votato il prossimo 26
gennaio dalla Folketing, la Camera danese, è esplicito: scoraggiare gli arrivi di profughi. è
lo stesso relatore, la ministra per l’Integrazione — si chiama così il suo dicastero — Inger
Støjberg a parlarne nei termini di «misure di austerità per ridurre al minimo l’afflusso di
migranti», insieme all’estensione dei controlli ai valichi di frontiera con la Germania che da
pochi giorni hanno sospeso il trattato di Schengen.
«Se un cittadino danese ha beni di valore superiori a 10mila corone deve venderli se vuole
accedere al sussidio di disoccupazione», ha dichiarato la ministra per difendere la pretesa
universalità della misura.
Il partito del premier (Venstre) non ha vinto le elezioni della scorsa estate ma è riuscito lo
stesso a spodestare i socialdemocratici, rimasti primo partito dopo le dimissioni della
leader Helle Thorning-Schmidt, travolta da uno scandalo, solo grazie all’appoggio esterno
del partito nazionalista e xenofobo Dansk Folkeparti (Partito del Popolo). La nuova legge
sull’immigrazione e la politica anti immigrati è il collante fondamentale dell’alleanza. Il fatto
che ciò «alimenti la paura e la xenofobia», come denuncia l’agenzia Onu per i rifugiati, non
è un deterrente per i proponenti.
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Anzi, come fa notare la portavoce della Coalizione rosso-verde Johanne Schmidt-Nielsen,
il governo non teme di far finire la Danimarca in cattiva luce «credo sia piuttosto
soddisfatto, perché scoraggia i profughi dal chiedere asilo in Danimarca».
Non che siano tantissimi: l’anno scorso i richiedenti asilo in Danimarca sono stati 21 mila
ma in base alla ripartizione in quote decisa dalla Commissione europea dovrebbero
raggiungere i 160 mila. La nuova legge sull’immigrazione inserisce altri deterrenti: i tempi
per i ricongiungimenti familiari slittano a tre anni, ottenere la residenza sarà più difficile e i
minori non accompagnati (oltre 2 mila nel 2015) dovranno passare 6 mesi nei centri di
prima accoglienza per poi passare alla tutela delle famiglie affidatarie.
Da Avvenire del 14/01/16, pag. 11
In arrivo 453 persone. Ad Augusta 101
sbarcati
DANIELA FASSINI
Proseguono gli arrivi e gli sbarchi in Sicilia. Solo ieri, in poche ore, le due navi della marina
militare, Aliseo e Spica, hanno tratto in salvo 453 immigrati. La prima è intervenuta in aiuto
a tre gommoni, recuperando 337 persone. Sono invece 116 gli stranieri (tra cui 42 minori)
soccorsi dalla Spica. Anche questi ultimi stavano viaggiando su un gommone in difficoltà. I
453 migranti soccorsi saranno sbarcati oggi, nel primo pomeriggio, probabilmente ad
Augusta.
Sono invece riusciti a raggiungere le coste italiane, grazie all’intervento della Guardia
costiera, altri 101 immigrati, arrivati ieri ad Augusta. «Si tratta di migranti partiti lo scorso
11 gennaio da Tripoli – spiega Giovanna Di Benedetto di Save the Children – e provenienti
dalla regione subsahariana». Sono tutti uomini, di cui 5 minori non accompagnati dai 15 ai
17 anni, in fuga da Guinea, Costa d’Avorio, Niger, Camerun e Mali. Sono stati
accompagnati nelle strutture di prima accoglienza, in attesa di nuovi trasferimenti.
Si sono invece concluse le ricerche di eventuali migranti dispersi nel corso dei tre sbarchi
avvenuti in Salento nella notte tra domenica e lunedì. Nonostante le ricerche condotte con
i mezzi aerei, navali e i sommozzatori della guardia costiera e dei vigili del fuoco non è
stata trovata traccia di altre persone, oltre alle trentasette già identificate e al cadavere di
una donna di 32 anni. Non sono stati trovati neppure abiti o oggetti che potessero far
pensare alla presenza di altre corpi in mare. Non si esclude che altre persone siano
riuscite a raggiungere la costa a nuoto e a fare perdere le proprie tracce. Anche l’esodo
via terra prosegue senza interruzione. La polizia bulgara ha salvato 111 migranti irregolari,
61 dei quali bambini, 26 donne e 24 uomini, che stavano per annegare nelle gelide acque
del fiume Maritsa, nella zona di Svilengrad, vicino al confine con la Turchia. I migranti si
sono dichiarati siriani ma nessuno di essi possiede un documento di identità. Secondo i
primi accertamenti, la notte scorsa avrebbero navigato lungo il fiume a bordo di barche di
trafficanti turchi e sarebbero stati lasciati su una piccola isola nel mezzo del corso d’acqua.
La polizia li ha salvati mentre cercavano di raggiungere a nuoto una delle rive del fiume.
Intanto l’Organizzazione internazionale sulle migrazioni (Oim) ha diffuso i primi dati del
2016: da Capodanno sono già oltre 23.000 i migranti che hanno raggiunto l’Europa
entrando in Italia e in Grecia attraverso il Mediterraneo. E sono almeno 58 le persone
morte in mare. Il portavoce dell’Oim Joel Millman ha detto che quest’anno in 22.895 hanno
raggiunto la Grecia e 260 in Italia. Nei due mesi di gennaio del 2014 e del 2015 gli arrivi,
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sommati, erano stati in totale 6.000 circa. «Quel numero è quadruplicato e davanti a noi
c’è ancora più della metà del mese di gennaio», ha concluso il portavoce.
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DIRITTI CIVILI E LAICITA’
del 14/01/16, pag. 2
Stop sulle unioni civili da trenta cattolici dem
“Adozioni via dal testo”
Documento di deputati, anche laici tra i sostenitori I renziani: giù i toni.
Al Senato voti sempre più risicati
GOFFREDO DE MARCHIS
ROMA.
«Non laceriamo il Paese». «Dotiamoci di uno spirito largo e di uno sguardo lungo». È
successo quello che Matteo Renzi e il Partito democratico volevano a tutti i costi evitare:
che nella trattativa complessa e delicata sulle unioni civili, a pochi giorni dall’arrivo in aula
della legge, una delle anime del Pd ponesse delle condizioni sul riconoscimento dei diritti
delle coppie gay. Si muove infatti l’ala cattolica e stavolta mette nero su bianco il suo
“manifesto” per modificare profondamente il disegno di legge Cirinnà, a partire dal tema
più spinoso della stepchild adoption.
Nel testo si scrive chiaramente che questa norma va stralciata e «rinviata ad una riforma
più organica degli istituti paragenitoriali».
Adesso i sostenitori delle unioni civili e dell’adozione vivranno l’iniziativa di un gruppo di
cattolici, che alla Camera hanno già raggiunto le 30 firme, come una sfida diretta. Le
posizioni possono irrigidirsi e il breve slittamento di due giorni (al Senato la proposta arriva
il 28 anzichè il 26) potrebbe non bastare per sanare la frattura, sebbene nel “manifesto” si
confermi la volonta del dialogo, di «uno spirito unitario » e si riconosca, anche in chiave
autocritica, che «l’intervento legislativo è doveroso per mettere fine ai troppi ritardi e rinvii
accumulatisi nel tempo».
La “nota” è promossa da Alfredo Bazoli, che rappresenta i cattolici al tavolo del Pd, e da
Ernesto Preziosi, ex vicepresidente dell’Azione cattolica. Tra i 30 firmatari ci sono fedeli
(Teresa Guccione) e laici. Per esempio, il siciliano Franco Ribaudo, ex comunista ed ex
dirigente della Cgil. Ma alcuni rifletteranno nella notte e anche il bersaniano Andrea
Giorgis, costituzionalista, esprime qualche dubbio giuridico sulla stepchild. Naturalmente
nell’elenco, che sarà diffuso oggi, compaiono molti renziani, così come tra i 25-30 senatori
che hanno preparato un emendamento per l’affido rafforzato. Il testo dei deputati serve a
consolidare la posizione dei contrari a Palazzo Madama.
Cosa chiedono i cattolici? Una «riformulazione più coerente degli articoli 2, 3 e 4» per
evitare «pedissequi» richiami al codice civile sul matrimonio, cioè un’equiparazione. Le
unioni civili devono essere ben distinte dalle nozze. Un riferimento in premessa all’articolo
2 della Costituzione. Ovvero: alle coppie gay sono riconosciuti i diritti personali ma non
quelli degli sposati. Infine, lo stralcio dell’adozione oppure la sua «sostituzione» con
soluzioni «che garantiscano la piena tutela dei minori». Il punto è non «legittimare o
incentivare» l’utero in affitto che nel manifesto viene definito un «comportamento
gravemente antigiuridico ».
Non è un ultimatum, ma ci sono passaggi che hanno il tono dell’appello finale: «È dovere
del legislatore farsi carico dell’obiettivo di non lacerare il Paese e di evitare che le leggi sui
diritti civili subiscano cambiamenti ad ogni avvicendamento delle maggioranze politiche».
Può darsi che il “manifesto” serva, come dice Walter Verini, a piantare delle «bandierine»
facilmente superabili. Può forse accelerare l’ipotesi di una mediazione conclusiva per non
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arrivare al Senato in ordine sparso. Se lo augura la cattolica Flavia Nardelli che non ha
voluto firmare il documento proprio per scongiurare nuove guerre ideologiche. Ma i numeri
sono molto fragili per i tifosi del ddl Cirinnà e in queste stesse ore si riuniscono i
parlamentari che organizzano il Family day di Piazza San Giovanni il 30 gennaio. Ieri
erano circa 60, di Ncd, Lega, Forza Italia, Udc e con la presenza di alcuni grillini. Senza 30
dem e senza i 36 centristi di Alfano, a Palazzo Madama, potrebbero non bastare
nemmeno i 5stelle per superare l’ostacolo dei molti voti segreti, in particolare sulla
stepchild adoption.
A Palazzo Chigi non è ancora cominciato l’esame dei numeri, che verrà affidato al solito a
Luca Lotti, ma si fa strada l’idea che l’unico modo per portare il Pd e la maggioranza
compatti in aula sia lo stralcio delle adozioni con l’impegno a non buttare la palla in tribuna
ma ad attivare subito la legge sulle adozioni. Del resto anche i verdiniani so- no divisi.
Denis Verdini è favorevole alle adozioni (e motivando la sua scelta usa spesso l’immagine
di un improbabile coppia tra lui e un suo collaboratore), ma D’Anna ha annunciato il no.
«L’importante è portare a casa le unioni civili, è il vero risultato », dicono i renziani più
vicini al premier. Ma al Senato è partita una rivolta rispetto all’ipotesi dello stralcio.
«Tornare indietro mette a rischio la tenuta del Pd e l’approvazione della legge. Ok la
libertà di coscienza ma niente stravolgimenti», avverte il giovane turco Francesco
Verducci. Per Preziosi invece è «in gioco l’identità plurale del Pd». Due visioni diverse non
solo sui diritti ma sul partito.
del 14/01/16, pag. 4
Renzi slitta sulle unioni civili
Senato. Rinviato l’esame del provvedimento. Il governo vuole prima
mettere al sicuro la riforma costituzionale e la nomina dei presidenti di
commissione. A costo di discutere sulla sua sfiducia
Carlo Lania
Fuori il parlamento i movimenti cattolici si preparano al Family Day del 30 gennaio, la
manifestazione che nelle intenzioni degli organizzatori dovrebbe fermare le unioni civili.
Dentro il parlamento non bisogna neanche fare la fatica di organizzarla una
manifestazione, visti i tanti ostacoli che il ddl Cirinnà deve affrontare ogni giorno. L’ultima
novità, ovviamente negativa, è lo slittamento di due giorni dell’esame del testo.
inizialmente fissato per il 26, si comincerà invece a parlarne non prima del 28 gennaio.
La decisione è stata presa dai capigruppo dopo che ieri Forza Italia ha chiesto di discutere
subito la mozione di sfiducia al governo. Si sarebbe potuto rimandare tutto a dopo l’avvio
dell’iter del ddl Cirinnà, ma il Pd ha preferito approfittare dell’occasione per evitare
pericolosi incidenti di percorso per il governo. Affrontare la sfiducia dopo le unioni civili, a
carte ormai scoperte sui punti caldi della legge come la stepchild adoption, sarebbe stato
un rischio troppo grande, tenuto conto che in seguito il Ncd avrebbe potuto vendicarsi di
possibili maggioranze alternative favorevoli a un testo la cui abolizione considera ormai
una questione di principio. Meglio evitare. Scelta che per il M5S è fin troppo facile
attaccare. «Pur di non discutere di unioni civili, il governo accetterebbe perfino di essere
sfiduciato», ironizza il senatore Alberto Airola.
Il problema è che dall’inizio della prossima settimana Renzi dovrà fare i salti mortali per
non arrivare a una crisi definitiva con l’alleato di centrodestra. A parte il decreto Ilva, che
andrà discusso il 26, il 19 e il 20 c’è la discussione e il voto sul ddl Boschi, il 21 gennaio
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sono in programma le nuove nomine delle presidenze di commissione, per le quali il
premier deve far fronte alle richieste del partito di Alfano. Il 22 scadono invece i termini per
la presentazione degli emendamenti sempre al ddl Cirinnà e, infine, il 26 la discussione
sulla sfiducia. Chiaro che Renzi intenda mettere prima in salvo il ddl Boschi e le
presidenze, lasciando a dopo tutto il resto. resta il fatto che per il premier ha di fronte a sé
un vero e proprio percorso a ostacoli.
Senza contare le divisioni dentro al partito sempre sulla questione della stepchild adoption.
Ormai le riunioni si susseguono una dietro l’altra, con tutti che parlano con tutti e a volte
litigano anche. Come è successo tra il capogruppo Luigi Zanda e il vicecapogruppo
Stefano Lepri, quest’ultimo tra i più attivi nel chiedere la cancellazione della possibilità —
prevista dal ddl — di adozione del figlio biologico del partner. Pare chiae siano volate urla.
«Nessuna lite, solo una discussione perché io chiedevo di poter avere due riunioni del
gruppo per discutere delle stepchild adoption, e alla fine Zanda è stato d’accordo. Ci
riuniremo martedì prossimo e poi quello successivo», getta acqua sul fuoco Lepri. Altre
riunioni sono infine in programma tra i i circa trenta dem («cattolici ma non solo», ci tiene a
precisare Lepri) contrari all’adozione del figlio del partner per mettere a punto gli
emendamenti al testo di legge. L’unico sicuro per ora riguarda la sostituzione della
stepchild adoption con l’affido rafforzato, mentre è in preparazione un altro sul titolo 2 della
legge che riguarda le convivenze di fatto, in questo caso sia etero che omosessuali.
Ieri sera intanto si è riunita la cosiddetta bicameralina, il gruppo di lavoro composto da
senatori e deputati guidato dalla responsabile Diritti del Pd Micaela Campana e voluto per
provare a smussare le differenze esistenti nel partito. All’ordine del giorno il titolo 2 della
legge, sulle convivenze di fatto, ma la questione adozioni è stata sicuramente dibattuta.
«Ogni mediazione sarà comunque una mediazione al rialzo», assicura in serata un
senatore.
Intanto Forza Italia ha cambiato la sua posizione. Nei giorni scorsi Silvio Berlusconi si era
detto favorevole a lasciare libertà di coscienza ai parlamentari, scontandosi su questo con
gli ultrà del partito. Ieri Berlusconi ha partecipato alla riunione dei gruppi parlamentari,
cambiando indicazione: niente più libertà di coscienza sulle adozioni, Forza Italia voterà
contro il ddl Cirinnà. Una decisine presa per allinearsi alle scelte già fatte da Fratelli d’Italia
e Lega, ma anche per la paura di uno scontro con l’elettorato cattolico. «Noi restiamo però
a favore delle unioni civili», ha voluto però precisare Berlusconi, una puntualizzazione che
difficilmente convincerà chi, come Stefania Prestigiacomo o Michela Brambilla, si è
schierato apertamente a favore della legge.
del 14/01/16, pag. 4
Dietrofront Berlusconi: votiamo no
Sulle unioni civili, il Cavaliere prova a mantenere la compattezza dei
gruppi parlamentari: “Nella legge troppi punti critici”. Poi taglia corto:
“Come vorrei essere alle Bermude, e comunque facciamo presto che c’è
il Milan”
CARMELO LOPAPA
ROMA.
La retromarcia, l’ennesima, è servita. In serata Silvio Berlusconi tiene a rapporto dopo tre
mesi i gruppi parlamentari per dettare la linea sulle unioni civili, sul ddl Cirinnà al voto al
Senato a fine mese, et voilà: la strategia non è più quella ispirata e eterodiretta dalla
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compagna Francesca Pascale. Forza Italia voterà no al disegno di legge della senatrice
pd, pur lasciando libertà di coscienza, precisa il Cavaliere. Resta isolata la battaglia di
Stefania Prestigiacomo e pochi altri.
Ma il leader prova in quelle due ore soprattutto a tenere unito e in vita un partito che
sbanda, si sfilaccia, annega nella sfiducia e nella paura del Carroccio. Lui non è di grande
incoraggiamento quando ostenta tutto il suo disinteresse, ormai, verso la politica e verso
questo partito di reduci quando esordisce in Sala della Regina, Renato Brunetta alla
destra, Paolo Romani alla sinistra. «Come sapete, vorrei andare alle Bermuda ma non
posso, sono qui». E poi: «Ora discutiamo, facciamo il dibattito, ma poi avrei il Milan da
vedere alle 21..» (col Carpi, per altro). Prova comunque a rassicurarli: «Dovete stare
tranquilli, ho stretto un patto con Matteo Salvini. Chi sarà in testa nei sondaggi giuderà la
coalizione ». Indicherà cioè il candidato premier e avrà voce in capitolo sul listone unico. Al
momento, ammette lui stesso, «la Lega è al 16, noi al 12, Fdi al 4, ma alla fine
comanderemo noi. C’è già il Cencelli del futuro governo: «Tre ministri di Fi, tre Lega, due
Fdi, altri esterni». Renzi ormai è nemico, anzi «clandestino del Parlamento», ultimo insulto
coniato.
Ma la stretta di Berlusconi è sulle unioni civili. «Dobbiamo spiegare la nostra posizione dice - siamo favorevoli alle unioni civili ma non al progetto Cirinnà. Presenteremo dunque
un nostro ddl». Esiste già il testo Carfagna, per altro. Solo Stefania Prestigiacomo prova a
difendere il ddl targato Pd: «Penso che non possiamo restare fuori da questo che sarà un
passaggio epocale, è importante sostenerlo, adozioni comprese». Più sfumata sul ddl
Cirinnà la deputata Elena Centemero. La più appassionata (e applaudita) Laura Ravetto:
«Questo ddl è discriminatorio, sia per gli omosessuali che per gli etero che non hanno un
compagno. E poi le adozioni meritano uno stralcio. Noi dobbiamo essere favorevoli alle
unioni ma contrari al testo». Spiega, Maria Stella Gelmini: «Non possiamo rompere l’unità
del centrodestra su questo tema e lasciare a Salvini e Meloni il monopolio della difesa
della famiglia, no all’omologazione al matrimonio, no alle adozioni». Così i vari senatori
che intervengono a ruota.
Resta il panico nei confronti dei grillini. «Ho incontrato il loro Paolo Becchi che mi ha
rivelato il loro vero programma e ho scoperto - rivela Berlusconi - che il reddito minimo di
cittadinanza pensano di finanziarlo con la tassa di successione: 50 per cento dei beni
ereditati va allo Stato». Con un colpo di coda finale stronca le candidature di Giorgia
Meloni a Roma e Alessandro Sallusti per Milano: «Per le due città ho due candidati super
e sconosciuti che, se accettano, ci faranno vincere ». Addio a quei due.
del 14/01/16, pag. 5
«Serve una buona legge per tutelare i
bambini»
Intervista. Marco Gattuso, promotore dell’appello dei giuristi
Carlo Lania
«Il ddl Cirinnà sulle unioni civili è il primo grande tentativo che può avere qualche speranza
di andare in porto dopo decenni, ma oggi è in pericolo. Per questo abbiamo sentito il
bisogno di rivolgere un appello al parlamento perché non retroceda su una legge che,
seppure sia un compromesso al ribasso, rappresenta pur sempre una conquista».
Marco Gattuso è tra i promotori di un appello firmato da 430 giuristi italiani in difesa del ddl
che a partire dal 28 gennaio verrà discusso dal Senato. Magistrato a Bologna, è direttore
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del sito Articolo 29, dove è apparso l’appello intitolato «I bambini innanzi tutto». «Ora che
anche Malta, Cipro e la Grecia si sono dotate una legge – prosegue -, siamo rimasti l’unico
Paese senza ancora una legislazione per le coppie dello stesso sesso. Se non ci fosse
anche una tutela minima dei bambini, credo che andremmo sotto il livello dell’accettabilità.
Anche la proposta di affidamento in casi particolari, avanzata da alcuni cattolici del Pd, è
inadeguata: si tratterebbe di un istituto del tutto inedito in occidente che per di più non
tutelerebbe i bambini perché consentirebbe in ogni momento al genitore di revocare la
propria disponibilità a interessarsi del bambino, a mantenerlo e a curarlo. Invece non
possiamo dimenticare i bambini, a prescindere da come nascono, che devono essere
tutelati e l’adozione è davvero la garanzia minima per loro, una garanzia sotto la quale non
si può andare anche perché negli altri paesi è già molto più alta».
Lei parla di responsabilità dei genitori, ma dietro le critiche alla stepchild adoption
sembra esserci soprattutto l’opposizione alla genitorialità omosessuale.
Sicuramente questo è il problema, però nel momento in cui le stese persone che si
oppongono alla stepchild adoption propongono l’affidamento, riconoscono che c’è un
problema di tutela dei bambini figli di coppie omosessuali. Il legislatore non può certo
impedire che donne e uomini omosessuali abbiano figli. Bisogna prendere atto che questi
bambini ci sono già, esistono, come abbiamo scritto nel nostro appello. E il legislatore non
può cancellarli ignorandone le esigenze di protezione.
Lei parla di bambini già esistenti, ma chi oppone alla legge vi accusa in realtà di
voler legalizzare la maternità surrogata.
Se il problema è quello di vietare la surrogazione di maternità, non è una questione che si
può porre oggi quando si parla di coppie dello stesso sesso, perché come tutti sappiamo il
98% delle coppie che vi fanno ricorso sono eterosessuali. Dopo di che la surrogazione d
maternità è già vietata nel nostro paese dalla legge 40/2004. In altri paesi sono state fatte
delle scelte diverse. Gli Stati uniti non hanno dimenticato di tutelare le donne verificando
che esistano tre requisiti: che le portatrici siano persone libere dal bisogno economico, che
abbiano una famiglia e che abbiano altri figli. Ma anche che venga sempre preservata
l’autonomia decisionale della persona.
Nell’appello si sostiene che la stepchild è la garanzia minima per un minore.
Perché?
Perché già cosi ci sono dei limiti molti forti. Le faccio un esempio: mentre crea un rapporto
genitoriale di tipo adottivo, non crea alcun rapporto con i fratelli, per cui due bambini della
stessa famiglia saranno figli degli stessi genitori ma non saranno fratelli o sorelle tra di
loro. E non saranno nipoti dei loro nonni. Il nostro appello si chiama non a caso «I bambini
innanzi tutto» perché riteniamo che, come pure propone qualcuno, sia immorale chiedere
lo stralcio delle adozioni per fare una legge che tuteli solo gli adulti, dimenticando i soggetti
più deboli che sono i bambini.
Però secondo il presidente emerito della Consulta Cesare Mirabelli nella stepchild
adoption ci sarebbero profili di incostituzionalità-.
Devo dire che in un’intervista rilasciata a dicembre all’Avvenire aveva detto che non
c’erano profili di illegittimità costituzionale, evidentemente ha cambiato idea. Al nostro
appello hanno aderito costituzionalisti come Pugiotto, D’Amico, Romboli, Zagrebelsky,
solo per fare degli esempi, e tutti loro non solo dicono esattamente il contrario ma
sostengono che la legge sulle unioni civili deve contenere u trattamento che sia omogeneo
al matrimonio altrimenti sarà esposta a possibili eccezioni di incostituzionalità.
Che ne pensa dell’ipotesi di una sanatoria che consenta l’adozione dei soli figli nati
prima che la legge entrerà in vigore?
Se fatta in modo etico la gestazione per altri non ponga dei problemi, ma comunque se
pure partiamo dal presupposto che averla utilizzata sia “una colpa”, non è ammissibile
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scaricarla sui bambini. E che facciamo con quelli che nasceranno quando ci sarà la legge?
Ripeto: per il giudice è essenziale proteggere quel bambino concreto, qui e ora. Ed è
innegabile che ogni bambino abbia bisogno del riconoscimento giuridico del rapporto che
ha con i propri genitori. Il nostro ordinamento non può tollerare bambini di sera A e di serie
B.
Da Avvenire del 14/01/16, pag. 8
«No a un testo che va contro il futuro
dell’Italia»
Appello di oltre cento giuristi preoccupati: copia matrimonio e apre a
utero in affitto
GIANNI SANTAMARIA
ROMA
No al ddl Cirinnà. In particolare alla possibilità per gli omosessuali di adottare,
«particolarmente iniqua», e alla parificazione delle unioni tra persone dello stesso sesso
con il matrimonio. Strade che non tengono conto del bene del minore e conducono alla
maternità surrogata, pratica che rappresenta una grave forma di «sfruttamento e
umiliazione della donna». E «non è accettabile» l’alternativa alla stepchid adoption, cioè
l’affido rafforzato.
Sono i punti fermi intorno ai quali ruota l’appello di oltre cento giuristi che hanno raccolto
l’invito del Centro sudi 'Rosario Livatino' ad esprimere «forte preoccupazione per l’insieme
del testo prossimo al voto». Tra i firmatari - 103 nelle prime 24 ore (l’elenco completo si
trova, insieme al testo, sul sito www.centrostudilivatino. it) - magistrati, avvocati esperti in
diritto di famiglia, docenti universitari, notai. Fra essi: Mauro Ronco, primo firmatario e
presidente del Centro, il presidente emerito della Corte Costituzionale Paolo Maddalena,
Mauro Paladini, Filippo Vari, Mario Cicala, Giacomo Rocchi, Domenico Airoma, Alfredo
Mantovano (già parlamentare e sottosegretario all’Interno), e Anna Maria Panfili. Il testo intitolato 'Rilancio della famiglia come riconosciuta dalla Costituzione, no a improprie
equiparazioni' - non si limita, però, a dichiarare cosa non va. Nella conclusione si invita il
legislatore «in un momento di così seria crisi demografica e di tenuta del corpo sociale», a
promuovere norme che promuovano famiglia e maternità. Per farlo occorre, però, mettere
da parte «ddl come quello cosiddetto sulle unioni civili, ostili alla dignità della persona,
all’interesse del minore, al bene delle comunità familiari, al futuro dell’Italia».
L’intervento giunge a due settimane dall’inizio del dibattito nell’Aula del Senato, il 28
gennaio, e in un momento in cui, oltre all’acceso dibattito politico, si susseguono prese di
posizione dei tecnici del diritto. Da queste colonne il presidente emerito della Consulta,
Cesare Mirabelli, ha ribadito i dubbi sulla costituzionalità della norma. Mentre altri giuristi si
sono spesi per un manifesto in difesa della stepchild adoption.
Quattro i punti in cui si articola il documento. L’esordio ricorda che «l’ordinamento già
riconosce in modo ampio diritti individuali ai componenti di una unione omosessuale».
Detto ciò, i giuristi contestano la stessa definizione del provvedimento come 'sulle unioni
civili'. Perché «in realtà individua un regime identico a quello del matrimonio» in contrasto
con il riconoscimento della «funzione fondamentale» della famiglia negli articoli 29 e 31
della Carta. «È iniquo mettere sullo stesso piano realtà diverse», il commento.
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«Particolarmente iniquo», incalza l’appello, è prevedere l’adozione, sia pure nella forma
della stepchild adoption. Il legislatore, parificando la crescita in una coppia omosessuale a
quella con padre e madre, priva il bambino «della varietà delle figure educative». Non
solo. I giuristi - guardando all’orientamento delle Corti europee, - prefigurano un
allargamento a ogni coppia omosessuale, «perfino a scapito del genitore biologico». In tal
modo «il 'diritto al figlio' dell’aspirante genitore sostituisce il 'superiore interesse del
minore', sul quale finora si è fondato il diritto minorile», messo così in crisi. A diverse
esigenze del minore fanno riferimento anche le «logiche differenti» e gli «obiettivi non
sovrapponibili» di affido e adozione. Il primo risponde a difficoltà momentanee della
famiglia di origine, la seconda a uno stato di abbandono. Insomma, il ddl, «forza » istituti
consolidati per scopi differenti.
Infine, il rigetto dell’utero in affitto, «una delle forme contemporanee di sfruttamento e di
umiliazione della donna più gravi, ostile a quel rispetto della persona che è cardine del
nostro ordinamento». Con la parificazione di unioni omo ed etero, visto che la Corte
europea dei diritti dell’uomo ha «costruito un 'diritto' ad avere figli» si aprirebbe la via
anche alla «gestazione per altri».
del 14/01/16, pag. 5
L’eutanasia legale in Aula, alla Camera, a
marzo. L’Italia rompe il tabù
Eleonora Martini
Per la prima volta il parlamento si prepara a discutere una legge sull’eutanasia. Nel
calendario trimestrale dei lavori della Camera ora è fissata anche una data di massima:
entro marzo.
Così ha deciso ieri la conferenza dei capigruppo inserendo nell’agenda dell’Aula il testo
sul «Fine vita» presentato da Sinistra italiana che ricalca la proposta di legge di iniziativa
popolare depositata nel settembre 2013 e sottoscritta da oltre 105.000 cittadini nell’ambito
della campagna «Eutanasia legale» promossa soprattutto dalla galassia del Partito
radicale.
La notizia arriva via twitter dal presidente dei deputati di Si, Arturo Scotto, proprio nel
giorno in cui trapelano indiscrezioni sulla morte di David Bowie che, secondo la
ricostruzione di alcuni media Usa, avrebbe fatto ricordo al suicidio assistito, peraltro
legalizzato dall’ottobre scorso anche in California, il quinto degli Stati uniti dopo l’Oregon, il
Vermont, Washington e il Montana.
Non è stato facile aprire questo primo spiraglio italiano, riferisce Scotto: «Da quattro mesi
mi batto contro l’opposizione delle destre e la freddezza di Pd e M5S, ma ora siamo riusciti
ad inserirla nelle proposte in quota Sel. La legge dovrà arrivare in Aula entro marzo a
meno che non sia concluso l’iter nelle commissioni Affari sociali e Giustizia dove al più
presto verrà avviato».
Gioiscono Marco Cappato, Filomena Gallo e Mina Welby, a nome dell’Associazione Luca
Coscioni e di Radicali italiani: «Abbiamo compiuto un altro importante passo verso la
legalizzazione e il governo di un fenomeno sociale sempre più importante nella società
italiana». I tre radicali si dicono fiduciosi «nell’opera che gli oltre 225 Parlamentari aderenti
agli obiettivi dell’intergruppo compiranno ora in Commissione e in Aula». Anche Sinistra
italiana assicura che non abbasserà la guardia ma in ogni caso i Radicali promettono: «La
battaglia prosegue per realizzare il prossimo traguardo: l’effettiva trattazione prima in
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Commissione e poi in Aula della legge di iniziativa popolare per la legalizzazione
dell’eutanasia e del testamento biologico».
Nei dodici articoli del testo della legge calendarizzata, a prima firma della deputata di Sel
Marisa Nicchi che coordina l’intergruppo palamentare, sono normate le dichiarazioni
anticipate di fine vita e l’eutanasia, ossia «l’atto praticato da un terzo, che mette
volontariamente fine alla vita di una persona» che lo ha esplicitamente richiesto. L’articolo
2 prescrive le condizioni nelle quali «ogni persona maggiorenne, qualora tema di perdere
la propria capacità di intendere e di volere, mediante un’apposita dichiarazione scritta
anticipata, può esprimere la volontà che gli venga praticata l’eutanasia». E viene istituita
«presso il Ministero della salute, la Commissione nazionale di controllo e valutazione».
Un primo ma importante passo che è stato ottenuto grazie anche alla battaglia di alcuni
malati terminali, ricordano i Radicali, «a partire da Luigi Brunori, che proprio nei giorni
scorsi è morto, a Max Fanelli, Walter Piludu e Ida Rescenzo, che si sono rivolti a più
riprese al parlamento. Non saremmo arrivati a questo risultato senza la forza e la
generosità della militante radicale Dominique Velati, che ha restituito alla conoscenza degli
italiani un tema altrimenti tabù per il potere italiano».
E da quando, a dicembre, Cappato si è autodenunciato per aver aiutato anche
economicamente l’infermiera malata di cancro a raggiungere una clinica svizzera dove ha
potuto ottenere il suicidio assistito con l’aiuto dell’associazione Dignitas, sono circa 50 le
persone che si sono rivolte all’associazione radicale «Sos Eutanasia». Matteo Minardi ne
traccia una sorta di identikit: «Sono uomini e donne in egual misura, soprattutto residenti
nel Nord Italia, per la maggior parte malati di cancro ma anche di patologie degenerative
come la Sla o la distrofie muscolari».
Se la procura non aprirà un fascicolo sull’operato di Cappato (e al momento non lo ha
fatto) per tutti loro si aprono nuove prospettive: «Lo consideriamo — conclude Minardi —
un via libera ad aiutare altri malati terminali».
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 14/01/16, pag. 11
Cercare ma non perforare
Il governo ondivago sulle trivelle
Lo Sviluppo economico spinge per le estrazioni, ma l’Ambiente frena
Roberto Giovannini
Massima è la confusione sotto il cielo, quando si parla di trivelle, ricerche e perforazioni
petrolifere off shore. Dal 23 dicembre scorso, infatti, risulta vietato fare nuove perforazioni
del fondo marino per estrarre idrocarburi entro le 12 miglia dalla costa del Belpaese. Lo ha
stabilito un emendamento alla Legge di Stabilità inserito dal governo per evitare i
referendum «No Triv» presentati da dieci Regioni. Tuttavia, le concessioni per le
trivellazioni già date a suo tempo non scadono: restano “congelate”, e potrebbero tornar
buone in un futuro imprecisato. Contemporaneamente, è appena stato concesso un nuovo
permesso di ricerca al largo delle isole Tremiti. Con una conseguenza paradossale: la
società Petroceltic Italia potrà cercare di capire se sotto il mare c’è un giacimento di gas o
altri idrocarburi. Ma se lo trovasse vicino alle coste, non potrebbe estrarlo.
La protesta alle Tremiti
Nel frattempo è esplosa la protesta degli abitanti delle Tremiti, che temono ripercussioni
per il turismo. Due sono le obiezioni degli isolani. La prima riguarda il futuro più lontano: un
arcipelago come le Tremiti deve puntare su turismo e ambiente, oppure sugli idrocarburi,
con tutti i rischi del caso? La seconda riguarda i possibili danni per il fondo marino legati
all’uso della cosiddetta «air gun», una tecnica di ispezione del sottosuolo basata su
esplosioni mirate di aria compressa. Secondo la maggior parte degli scienziati è
assolutamente innocua, altri temono conseguenze per fondali e fauna. Critiche sono
anche le organizzazioni ambientaliste, contrarie alle trivellazioni in mari «angusti» come
l’Adriatico e il Canale di Sicilia, visti i potenziali rischi di incidente e inquinamento, come si
è visto nel Mare del Nord o nel Golfo del Messico. E poi, dice Rossella Muroni presidente
di Legambiente, «visti gli impegni presi alla Cop 21 di Parigi non si può predicare bene a
livello internazionale e poi in Italia fare il contrario», visto anche che i giacimenti possibili di
idrocarburi nei nostri mari sembrano molto piccoli, a detta degli esperti.
A complicare la situazione ci si è messo il braccio di ferro istituzionale tra il governo e il
presidente della Puglia Michele Emiliano, uno dei presentatori dei quesiti referendari, che
chiede al governo di ritirare il permesso di ricerca alle Tremiti. E - ciliegina sulla torta martedì 19 la Corte Costituzionale potrebbe stabilire che uno dei sei referendum «No Triv»
potrebbe essere comunque mantenuto. Proprio quello che riguarda le trivelle entro 12
miglia dalla costa.
Governo ondivago
Una grande confusione che nasce, fanno notare gli addetti ai lavori, dalla linea poco chiara
fin qui tenuta complessivamente dal governo Renzi. Da una parte c’è un ministero - quello
dello Sviluppo Economico - che spinge sul pedale dell’estrazione di petrolio in Italia, con la
finalità di ridurre (anche di poco) la dipendenza energetica. E sostanzialmente mantiene la
strategia energetica decisa nel 2012 dal governo Monti, considerata universalmente molto
«fossile». Dall’altra c’è il ministero dell’Ambiente, che a nome del Paese ha siglato
l’accordo sul clima di Parigi. E soprattutto, dicono al ministero guidato da Gian Luca
Galletti, è un ministero che a ben vedere è stato molto poco generoso con chi vuole
trivellare. A leggere i numeri di un rapporto riservato del ministero dell’Ambiente, sulle 20
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autorizzazioni Via di impatto ambientale concesse dal varo nel 1994 della legge che regola
la materia delle «coltivazioni off shore», soltanto una è stata data dal governo e dal
ministro in carica. Sei risalgono al primo governo Prodi (ministro Ronchi); tre al Berlusconi
1 (Matteoli); cinque al Berlusconi 2 (Prestigiacomo), e due a Monti (Clini). L’unica
autorizzazione firmata da Galletti riguarda il progetto «Ombrina Mare», a 3,6 miglia dalla
costa abruzzese-molisana. Attualmente (forse) sospeso. I punti interrogativi sono
d’obbligo.
Da Avvenire del 14/01/16, pag. 12
«Trivelle, basta coi pasdaran»
Gli ambientalisti: Guidi fa gli interessi dei petrolieri
MILANO
L’atto d’accusa contro il governo è diretto: a Palazzo Chigi si fanno gli interessi dei
petrolieri. Mentre le Regioni continuano a incalzare l’esecutivo per il decreto sulle Tremiti
che ha aperto lo scontro sul via libera alle trivellazioni off shore, il mondo ambientalista fa
fronte comune e individua un responsabile su tutti: il ministro dello Sviluppo economico,
Federica Guidi. Secondo Legambiente, Wwf e Greenpeace, «il governo Renzi ha un
problema con i pasdaran pro-trivelle del ministero dello Sviluppo Economico che,
favorendo il più clamoroso conflitto istituzionale oggi in atto (con 10 Regioni che hanno
promosso 6 referendum), interpretano in maniera distorta e riduttiva» il loro ruolo,
«facendo proprie le valutazioni di Assomineraria e gli interessi dei petrolieri e non
difendendo, con altrettanta forza, gli altri settori economici consolidati strategici per il
Paese » dal turismo alla pesca. Dopo le precisazioni dei giorni scorsi, ieri, il presidente del
Consiglio e il ministro Guidi hanno preferito non replicare. L’obiettivo del fronte ecologista
rimane «una moratoria di tutte le attività di trivellazione a mare e a terra», insieme al
«rigetto definitivo di tutti i procedimenti ancora pendenti nell’area di interdizione delle 12
miglia dalla costa (a cominciare da Ombrina)». Le associazioni hanno inoltre denunciato
una grave distorsione nell’operato del ministero dello Sviluppo Economico, che secondo
Legambiente, Wwf e Greenpeace, «sostiene e attua politiche di retroguardia in una difesa
d’ufficio dei combustibili fossili, contro le scelte energetiche imposte dagli impegni assunti
dall’Italia per la salvaguardia del clima». Intanto i Verdi hanno annunciato ieri di aver
raggiunto quota 30mile firme in un giorno, nella petizione lanciata su Change. org. «La
grande partecipazione che sta avendo la nostra petizione dimostra come i cittadini stiano
dalla parte del mare e non delle multinazionali del petrolio a cui si vogliono svendere i
nostri mari per la ricerca di idrocarburi». Per Angelo Bonelli dei Verdi, «i cittadini fanno
sentire la propria voce per la difesa di un bene comune, il mare e dei paradisi italiani messi
in pericolo dalle autorizzazioni del ministro »
Da Avvenire del 14/01/16, pag. 12
Terra dei Fuochi
Ecco i detective
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ROMA
Migliora il contrasto agli avvelenatori nella 'Terra dei fuochi'. Duecentoquaranta uomini
delle forze dell’ordine e della polizia locale saranno appositamente formati per combattere
il fenomeno della combustione dei rifiuti. Lo ha comunicato il viceprefetto, Donato
Cafagna, incaricato del governo per la lotta ai roghi tossici in Campania. Il percorso di
formazione avrà una durata di 3 mesi e affronterà le tematiche dei delitti ambientali ma
anche come intervenire sull’intera filiera per contrastare ogni forma di illegalità, partendo
dalla produzione illegale dei rifiuti che vengono poi smaltiti illegalmente. Al termine della
formazione questi 'detective' dell’ambiente saranno impiegati negli 88 comuni interessati
dal dramma dei roghi. E sulla gravissima situazione ieri è intervenuto il gruppo di Fi alla
Camera, polemizzando in particolare col piano del governo che prevede un investimento
di 450 milioni per smaltire le famose 'ecoballe'. Per i deputati del centrodestra sarebbe,
invece, più urgente intervenire sulle bonifiche dei rifiuti interrati. Inoltre, denuncia Paolo
Russo, ex presidente della Commissione ecomafie, «si mandano i rifiuti lontano da dove
vengono prodotti. Per trasportare 6 milioni di ecoballe fuori dalla Campania, occorreranno
300mila automezzi: immaginate l’impatto ambientale. Questa operazione – insiste – non
va fatta, perché offre al sistema criminale grandi opportunità dal punto di vista della
logistica».
(A.M.M.)
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INFORMAZIONE
del 14/01/16, pag. 15
Rai, lo strabismo dei privatizzatori
Giandomenico Crapis
Alessandro De Nicola, su Repubblica di domenica scorsa, attacca la pseudo-riforma della
Rai, di fatto facendo sue le stesse preoccupazioni sollevate su questo giornale.
I problemi cominciano, però, quando l’autore si chiede che cosa sia il servizio pubblico e
se sia necessaria la proprietà pubblica per svolgerlo. Ci fa infatti sapere che per lui non
sono certo “servizio pubblico’ l’Eredità o la Domenica Sportiva, mentre, forse, potrebbero
esserlo ( ma «un libertario puro non sarebbe d’accordo», sottolinea), Rai Storia, Rai
Scuola, Rai 5, Rai News e Isoradio. Per finanziare queste reti, aggiunge, basterebbero
poche decine di milioni di euro, così risparmieremmo circa 3 miliardi di canone. Ma si
potrebbe fare di più: «Privatizzare tutto, abolire il canone e dare in appalto ai privati lo
svolgimento del famoso servizio pubblico, i partiti sarebbero fuori, le professionalità
potrebbero esprimersi al meglio e ci sarebbe più concorrenza».
Il ragionamento ci sembra viziato nelle premesse.
Il servizio pubblico, che esiste con proprietà pubblica in tutte le democrazie occidentali, in
queste si sostanzia di film, telefilm, serie tv, telegiornali, eventi sportivi, documentari,
intrattenimento, magazine (e anche qualche talk show politico), come si può constatare sui
siti di BBC, France 2, etc… Se il “servizio pubblico” (e qui rubiamo le parole a Bourdon),
ha un’ambizione culturale e politica, quella di togliere dalla minorità culturale,
emancipandole, le classi più deboli, e quella di rendere queste ultime partecipi del gioco
democratico informandole, tali obiettivi si realizzano attraverso programmi in cui
informazione, cultura e intrattenimento stanno separati o si mescolano secondo una ricetta
di qualità e intelligenza? Ridurre, come fa De Nicola, i programmi di “servizio pubblico” a
Rai Scuola, Rai Storia o Isoradio significa avere un’idea anacronistica ed elitaria del video,
che non fa i conti con la società e la cultura di massa, e che di fatto renderebbe marginale
e irrilevante qualsiasi “servizio pubblico” siffatto (come la PBS americana).
Sulla privatizzazione della Rai, invece, il guaio è che se ne parli ancora una volta
scotomizzando un elemento centrale del contesto: Mediaset e le sue reti, tre generaliste,
altre otto digitali free più una ventina pay. In tutto fanno una trentina, che insieme alla
quindicina della Rai, vanificano l’idea stessa di mercato.
Puntare lo sguardo solo sulla Rai senza tenere conto dell’intero sistema è un difetto di
analisi in cui cadono in molti, anche autorevoli, quando si cimentano con la questione
televisiva. De Nicola, per ultimo, pensa di sollecitare concorrenza e professionalità
privatizzando completamente la Rai e appaltando il “servizio pubblico” (come lo intende,
l’abbiamo visto) ai privati.
E’ una proposta completamente fuorviante, soprattutto guardandola dal punto di vista
liberale. La questione, quella di cui non si parla più nemmeno a sinistra, è la natura
fortemente oligopolistica del mercato nazionale delle televisioni.
Anzi, la presenza oramai più che trentennale di un duopolio che nessun governo ha mai
messo in discussione, duopolio di cui paradossalmente proprio quegli economisti che più
di altri dovrebbero avere a cuore la libertà del mercato, dimenticano di occuparsi.
Un assetto che nemmeno l’avvento del digitale ha incrinato, come gli studiosi, con numeri
e percentuali, ci dicono. Qualche anno fa su “Problemi dell’informazione” Marco Mele parlò
di “mitridatizzazione” dell’emergenza televisiva italiana: c’è da pensare che in questi
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decenni il sottile veleno del duopolio somministrato al paese ogni giorno abbia finito col
silenziare e rendere inoffensivi gli anticorpi della pubblica opinione.
Privatizzare. E come?
Tutte le reti Rai in mano ad un privato, grazie anche alla legge Gasparri? Si riproporrebbe,
mutatis mutandis, l’oligopolio-duopolio che conosciamo. Oppure diamo una-due reti Rai a
testa ai privati che vogliano comprarle? Uno scenario ancora peggiore, con il gigante
Mediaset a farla da padrone mangiandosi i concorrenti con le sue trenta reti, e la
disponibilità della micidiale macchina da guerra della raccolta pubblicitaria.
Punto cruciale questo, e altra distorsione monopolistica del mercato dell’etere, di cui
purtroppo i nostri “liberali” ( verrebbe da dire: alle vongole) sembrano non accorgersi
affatto quando parlano di tv.
Da parte nostra pensiamo che le soluzioni vadano cercate nell’aprire, sul serio, il mercato
alla concorrenza. Soluzioni che salvino la Rai dai partiti, anche quelli di governo. E la tv
tutta da un sistema ipertrofico e oligopolistico che ne imprigiona le risorse e ne frena la
crescita produttiva (vedi il bel libro di Balassone e Guglielmi di due anni fa).
Una dieta dimagrante per Rai e Mediaset che faccia respirare il mercato, a partire proprio
dalle reti generaliste che ancora, alla faccia dell’illusione-bufala digitale, la fanno da
padrone nell’etere con più della metà degli ascolti del sistema.
Una Fondazione per la tv pubblica, sganciata dai partiti e dalla politica, secondo le linee
del compianto disegno Gentiloni passato alla Camera nel secondo governo Prodi.
E infine limiti seri alla raccolta pubblicitaria nel sistema informativo. Di questo parliamo,
cari amici, liberali immaginari, quando parliamo di tv in Italia.
PS: a proposito di “servizio pubblico” e di professionalità è stata strepitosa la puntata di
“Presa diretta” sui vaccini domenica sera su Raitre.
Del 14/01/2016, pag. 11
Servizio pubblico. Il cda in Vigilanza
Nasce Rai Digital, mega direzione per nuovi
contenuti
ROMA
Nasce Rai Digital. Una nuova direzione che, nella delibera approvata ieri dal cda e
annunciata dal presidente Rai Monica Maggioni alla commissione di Vigilanza, avrà il
compito di «declinare – ha sottolineato il presidente del servizio pubblico – il progetto Rai
su tutte le piattaforme, coinvolgendo tutti i contenuti e renderli appetibili anche a chi non ci
vede dagli schermi tv».
Quella che sarà affidata a Gian Paolo Tagliavia sarà una direzione di tutto rispetto: conterà
100-150 persone che, a regime, potrebbero salire a duecento. Una parte di RaiExpo, per
esempio, entrerà nella nuova direzione, che si articolerà al suo interno in quattro
dipartimenti: uno dedicato al content, ai contenuti, un secondo alle tecnologie, un terzo al
marketing legato alla sviluppo di nuovi prodotti e un quarto, tutt’altro che secondario,
sull’usabilità e le interfacce. Gran parte dell’organico verrà dall’interno della Rai, tranne
poche figure professionali, riguardanti i rapporti con i clienti finali.
Tra i modelli esteri citati come buon esempio, l’iPlayer della Bbc, con la sua possibilità di
trovare qualsiasi programma trasmesso in un determinato periodo, diviso per genere o in
ordine alfabetico. È stata esclusa, per ora, la pratica dell’e-commerce. L’obiettivo
principale è recuperare traffico e utenti, rispetto alla dispersione esistente. Come dire: in
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Rai, d’ora in poi, non sarà possibile per chiunque ideare, produrre e mettere in onda un
contenuto senza confrontarsi non solo con la rete, ma anche con la nuova direzione.
Il cda ha avviato la discussione sulla nuova legge che modifica la governance aziendale:
un’altra riunione è fissata tra il 26 e il 28 gennaio per analizzare il testo dello Statuto
modificato secondo una legge che, peraltro, dev’essere ancora pubblicata sulla Gazzetta
Ufficiale. Da approfondire, tra l’altro, quel “sentito il cda” da parte dell’amministratore
delegato sulle nomine editoriali: dovrà essere un parere scritto o meno? Potrà essere
prevista un’istruttoria con audizioni sui nomi proposti, con il cda che diventerebbe quasi
una commissione di Vigilanza?
È stata rinviata la discussione sul?Piano industriale, mentre è stato approvato il Piano
anticorruzione, che pone all’azienda diversi problemi da risolvere in materia di
incompatibilità e inconferibilità degli incarichi ad interni ed esterni.
A proposito di Piano industriale, in Vigilanza il senatore Maurizio Rossi, gruppo MistoLiguria civica, ha chiesto al vertice Rai «che senso ha preparare Piani industriali, quando
non si sa cosa prevederà la nuova concessione, che non potrà essere rinnovata
automaticamente ma dopo un passaggio in?Parlamento entro il maggio di quest’anno? La
Rai non sa quanti canali avrà e non è detto che la Ue non abbia da ridire su un servizio
pubblico non messo a gara».
Del 14/01/2016, pag. 35
Entrate-Rai. I primi chiarimenti
Il nuovo canone Rai non va pagato per lo
streaming
Per il nuovo canone Rai la botta arriverà a luglio ma sarà meglio chiarire prima la propria
posizione. Un comunicato stampa congiunto Entrate-Rai ha segnalato trionfalmente l’avvio
dell’operazione, annunciando, con involontaria ironia, che «Pagare il canone tv è adesso
facile come accendere la luce». Infatti, come deciso con la legge di Stabilità 2016, i 100
euro annui saranno addebitati in dieci rate nella bolletta di fornitura dell’energia elettrica.
Per il 2016 il primo addebito arriverà dopo il 1° luglio ma comprenderà tutte le prime rate
(5 o 6, non è chiaro).
I dubbi sorgono proprio lì dove il comunicato sembra rendere tutto molto semplice: «Il
canone è dovuto una sola volta, per ogni famiglia o per gruppo di persone residenti nella
stessa casa (…): il canone verrà addebitato nella bolletta elettrica della casa di residenza
a prescindere dalla persona a cui è intestata».
La Rai promette a breve l’attivazione di un numero verde gratuito ma già da ora si
possono consultare le Faq sul sito www.canone.rai.it. Tra le domande più comuni: chi ha
una fornitura di energia elettrica deve pagare anche se non ha apparecchi di ricezione Tv?
La Rai risponde che l’unico modo di sfuggire all’obbligo è quello di fare
un’autocertificazione (come da Dpr 445/2000) allo sportello Sat delle Entrate, ma le
modalità saranno definite da un provvedimento della stessa Agenzia. In realtà, la
possibilità, concessa dalla legge di Stabilità a fornitori di energia elettrica, Anagrafe
tributaria e ministero dell’Interno di scambiarsi notizie e dati (si spera con qualche garanzia
di privacy) potrebbe eliminare all’origine le duplicazioni. Ma sarà un’impresa non facile.
Altra questione chiarita dalla Rai è su chi non possiede televisori ma solo un pc: questo da
solo non obbliga a pagare, occorre che il pc sia dotato di un sintonizzatore, mentre vedere
solo in streaming i programmi non implica che si debba versare il canone.
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La «famiglia anagrafica» indicata nella legge di Stabilità è quella descritta dall’articolo 4
del Dpr 223/89. Sono comprese, quindi, le coppie di fatto - laddove esistono i registri
comunali delle unioni civili - che in questo caso magari risparmierebbero un canone. Lo
scopo della norma è di superare le duplicazioni inevitabili che si verificheranno quando le
utenze elettriche siano intestate a componenti diversi della stessa famiglia, come spesso
accade: in città è intestata alla moglie, nella casa di campagna al marito, o viceversa,
oppure ai figli, quando in realtà la famiglia è una sola e quindi è uno solo anche il canone
da pagare.
Il discorso sanzioni è ormai superato dal nuovo meccanismo, tranne quelle (penali) per
l’autocertificazione mendace. Non è chiaro cosa succederà in caso di morosità nel
pagamento della bolletta elettrica.
Le cose si presentano più complicate per chi ha la domiciliazione bancaria, dato che
queste autorizzazioni all’addebito diretto rilasciate dai titolari di utenza per la fornitura di
energia elettrica «si intendono estese al pagamento del canone di abbonamento
televisivo, salvo contraria manifestazione di volontà dell’utente», che quindi deve farsi
parte attiva prima che arrivi in banca la bolletta da pagare. In sostanza, le banche (ma
soprattutto i gestori del servizio di fornitura elettrica) rischiano la revoca della
domiciliazione da parte dei molti che vogliono evitare di pagare due volte, almeno sinché
la situazione non si sarà chiarita.
del 14/01/16, pag. 9
Assalto ai cronisti e alle fonti per
normalizzare la stampa
Le Procure ora sono diventate aggressive: i casi di Ballarò, Piazzapulita
e Fatto. In ballo c’è il diritto di dare le notizie
di Marco Lillo
Martedì è toccato a Piazzapulita. La Digos è stata inviata dalla Procura di Roma a
eseguire un ordine di sequestro nella sede romana della rete di Urbano Cairo. L’obiettivo è
dare un nome alla fonte anonima che aveva raccontato all’inviato del programma di
Corrado Formigli lo stato scadente degli equipaggiamenti della Polizia. Per tutelare la
fonte, il giornalista autore del servizio, Antonino Monteleone, avrebbe potuto rifiutarsi di
consegnare il video integrale senza le schermature della voce e del volto adottate nella
versione andata in onda proprio per proteggere la fonte.
Così i magistrati hanno pensato di andare direttamente dalla società editoriale che non
può opporre nessun segreto professionale. Solo i giornalisti e non i manager, in base alla
legge 69 del 1963,“sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie,
quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse”. La redazione di Piazzapulita è
insorta: “Questo metodo di aggiramento del segreto professionale è gravissimo e mette a
rischio il libero esercizio della nostra professione, oltreché le fonti che decidono, proprio
perché tutelate dal segreto, di dare informazioni che, diversamente, non giungerebbero
all’opinione pubblica”.
Il caso non è isolato. Anche Ballarò aveva trasmesso un servizio sugli equipaggiamenti
della Polizia dopo gli attentati di Parigi e anche in quel caso la Procura di Roma s’è fatta
consegnare dalla Rai, e non dal giornalista Alessio Lasta, il girato: “Non possiamo non
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rilevare la gravità di un ‘metodo’, adottato dalla Procura, che scardina di fatto il diritto alla
segretezza delle fonti, garantito ai giornalisti da norme disciplinate dall’ordinamento interno
e comunitario, e consolidate da una vasta giurisprudenza”, commenta Massimo Giannini,
Secondo il giornalista, “questo ‘metodo’ mette a repentaglio la libertà e la qualità
dell’informazione. Per questo lo denunciamo con forza, e chiediamo alla nostra categoria
di mobilitarsi e alla magistratura di riflettere”.
Questo comportamento aggressivo sul fronte televisivo fa il paio con quello che è
accaduto ai giornali, come Il Fatto o il Corriere della Sera. In due casi – prima per aver
pubblicato le intercettazioni delle conversazioni di Matteo Renzi e del “Giglio magico” col
generale della Finanza Michele Adinolfi e, più di recente, quelle dell’inchiesta “Breakfast”
di Reggio Calabria – i giornalisti che le hanno diffuse si sono trovati di fronte agli uomini
della Direzione Investigativa Antimafia (Dia), latori di un doppio mandato: la richiesta di
consegnare spontaneamente il file informatico del documento contenente le notizie o, in
caso di rifiuto, l’ordine di eseguire una perquisizione sulla persona e su tutti i luoghi a
disposizione del cronista per rintracciare computer, hard disk, pen drive e qualsiasi altro
supporto del quale, i magistrati, delegavano la polizia giudiziaria a fare copia integrale del
loro contenuto.
In pratica il messaggio brutale è: o consegni un file che ci aiuta a scoprire la tua fonte
(mediante le proprietà, la data del salvataggio, etc) oppure ti portiamo via (in copia) tutto
l’archivio, tutti i tuoi contatti, tutte le tue email, in pratica tutte le tue fonti e la tua vita
privata e professionale.
In realtà l’alternativa del sequestro integrale della memoria dei pc del giornalista non
sarebbe consentita. In un recente provvedimento di perquisizione – quello sulle
intercettazioni dell’indagine “Breakfast” – la Procura di Reggio Calabria richiamava una
sentenza della Cassazione che in realtà dice il contrario (Sesta Sezione penale, n.
24617/15 del 24 febbraio 2015, depositata il 10 giugno) “non può essere disposto un
indiscriminato sequestro dell’intero computer, con copia dell’intero contenuto, essendo una
modalità contraria alla necessità di individuazione della cosa da acquisire e di
collegamento tra la cosa ed il reato da dimostrare; inoltre, più in generale, un sequestro
così ampio e indiscriminato viola le regole in tema di proporzionalità tra le ragioni del
sequestro ed entità dello stesso”.
Solo che i sequestri dei computer dei giornalisti, anche quando poi vengono annullati dalla
Cassazione, raggiungono nel frattempo l’obiettivo: gli investigatori alla fine restituiscono il
pc, ma lo hanno già scandagliato legittimamente, nell’attesa della sentenza.
Incurante dei principi stabiliti dalla Cassazione e dalla Corte di Strasburgo, la tecnica
aggressiva per risalire alle fonti del giornalista si sta diffondendo senza differenze tra i
mezzi di informazione o gli uffici giudiziari. A rendere più inquietante la sequenza di
provvedimenti è l’oggetto dei servizi giornalistici nel mirino, quasi sempre poteri forti: la
Polizia, nel caso di Ballarò e Piazzapulita, il premier Renzi nel caso della Procura di
Napoli, o leader politici, come Roberto Maroni e Silvio Berlusconi, nel caso della Procura
di Reggio Calabria.
Tutte queste storie hanno un elemento in comune. Sono in contrasto con le sentenze della
Corte di Strasburgo e della Corte di Cassazione che tutelano il segreto professionale,
sostiene l’Ordine nazionale dei giornalisti: “C’è chi la legge la viola e c’è chi le norme le
aggira.
È singolare il tentativo della Procura di Roma di acquisire informazioni che i giornalisti, nel
rispetto della legge, possono rifiutarsi di dare”, ha tuonato il presidente Enzo Iacopino: “La
Procura, consapevole anche dei precedenti comunitari, non ha chiesto al collega
Monteleone di indicare l’identità della sua fonte, ma si è rivolta all’emittente, La7, per avere
il filmato integrale dell’intervista”.
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Un modo “furbo” – secondo Iacopino – per “aggirare gli ostacoli e identificare il poliziotto”:
“È opportuno che il Consiglio superiore della magistratura si interroghi su comportamenti
come questi che di fatto tendono a limitare il dovere dei giornalisti di fornire ai cittadini, che
ne hanno pieno e incondizionato diritto, le informazioni, tanto più su un tema delicato qual
è la sicurezza”.
Per l’avvocato Caterina Malavenda, massimo esperto di questioni giudiziarie legate al
diritto di informazione e difensore di molti giornalisti coinvolti anche in queste vicende: “La
Corte europea e la nostra Cassazione hanno da tempo detto parole definitive sulla
illegittimità dei provvedimenti che, direttamente o indirettamente, mirano ad identificare la
fonte di un giornalista: ciò per tutelare la libera circolazione delle informazioni – tanto più
preziose quanto sono inaccessibili – che una fonte interna riferisce al giornalista sapendo
che non rivelerà la sua identità. Se questa fiducia viene meno e passa il messaggio che il
segreto può essere aggirato, non ci saranno più inchieste ma solo comunicati ufficiali,
perché nessuno sarà più disposto a rischiare”.
Anche presidente e segretario generale della Federazione nazionale della stampa italiana,
Giuseppe Giulietti e Raffaele Lorusso, sono intervenuti: “Ci muoveremo in tutte le sedi
affinché quanto accaduto non abbia più a ripetersi e soprattutto non possa essere
considerato un ‘grimaldello’ da utilizzare per aggirare e vanificare il segreto professionale
dei giornalisti. Ci attiveremo fin d’ora per ottenere un incontro col presidente
dell’Associazione nazionale magistrati, Rodolfo Sabelli”.
Del 14/01/2016, pag. 11
Tv. Il gruppo Usa fra i possibili fornitori per un nuovo canale sul
multiplex controllato dall’editore italiano
Rcs-Discovery, prove in Spagna
Trattative per coprire lo spazio lasciato libero dall’uscita di 13TV
Nelle more della possibile vendita, ecco che in Spagna si profila un allargamento della
partnership fra Rcs e Discovery. A quanto risulta al Sole 24 Ore i colloqui fra le sue società
sono abbastanza avanzati. E a breve qualcosa potrebbe sbloccarsi con l’arrivo sul
mercato televisivo spagnolo di un secondo canale con contenuti forniti dal gruppo
americano: un canale “femminile”, da affiancare a Discovery Max, già operativo in Spagna.
Tutto si gioca attorno a Veo Tv, titolare di un multiplex per la trasmissione televisiva
digitale nazionale e parte del gruppo Rcs. In Spagna l’editore di Corriere della Sera e La
Gazzetta dello Sport controlla il gruppo Unidad Editorial che, oltre a pubblicare El Mundo
(il secondo quotidiano nazionale spagnolo) e le testate Marca ed Expansion, controlla
Veo. È su questo mux che girano i due canali 13 Tv (canale della Conferenza Episcopale
locale) e Discovery Max.
Il gruppo guidato dall’ad Laura Cioli e dal presidente Maurizio Costa sta valutando ipotesi
di vendita. Intervistata dal Sole 24 Ore, lo scorso 22 dicembre la stessa ad Cioli non
mancò di sottolineare che la vendita avverrà «solo in presenza di una valorizzazione
opportuna, che per noi è superiore a 50 milioni, altrimenti ce la teniamo. Nel piano
abbiamo messo la previsione di incassare 25 milioni, nell’ambito di un’operazione che
comprende la cessione solo del 25% di Veo».
Del resto la Spagna non sta dando grandi soddisfazioni al gruppo: qui le attività media di
Rcs nel 2014 (stando all’ultimo bilancio annuale disponibile) hanno registrato ricavi per
358,1 milioni, in calo rispetto ai 371,7 milioni del 2013.
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Le negoziazioni su questo versante stanno dunque andando avanti, non c’è nulla di
nuovo. I potenziali acquirenti sarebbero più d’uno secondo i rumors di mercato. Un nome
molto ricorrente è quello del gruppo Secuoya, desideroso di aggredire quello che nei fatti è
un duopolio nel mercato televisivo spagnolo in cui la parte del leone la fanno Mediaset
España (la cui rete di punta è Telecinco, rete leader di ascolti sul genere di Canale 5) che
è prima nel mercato con 31% di share nel giorno medio, Atresmedia Televisión (De
Agostini Planeta) che ha in Antena 3 la sua ammiraglia e ha il 26,8% di share e la tv
pubblica Radio Televisión Española (Rtve) che con le sue reti totalizza attorno al 16% di
share. Mediaset dispone di sei canali nazionali (Telecinco, Cuatro, Boing, Divinity,
Energy, Factoria de ficcion) contro i cinque canali di Atresmedia(Antena 3, La Sexta,
Neox, Nova e Mega). Nel complesso questi undici canali free fanno propri ben oltre l’80%
degli investimenti pubblicitari. Questo è il quadro. Ma nel frattempo (e si parla di marzo)
13 Tv dovrebbe lasciare il multiplex di Rcs (risparmiando 2,38 milioni di euro di affitto),
avendo ottenuto una propria frequenza frutto di una ripartizione decisa dal governo che ha
premiato, fra gli altri, anche Mediaset e Atresmedia Televisión .
Ecco così che accanto al discorso legato alla possibile vendita di Veo Tv hanno preso
corpo le discussioni - che Rcs avrebbe condotto comunque con più soggetti - per coprire
quello spazio vuoto. È qui che si è inserita la trattativa con Discovery che, come detto,
avrebbe manifestato interesse per quel tassello rimasto scoperto e che ha già un canale
nel Paese e le cui attività in Spagna dipendono organizzativamente proprio dall’Italia,
Paese in cui il broadcaster è il terzo editore con un 6,4% di share in crescita del 9%
rispetto al 2014. È infatti di fine 2014 la riorganizzazione funzionale all’interno di
Discovery Networks International - che vale attorno al 55% dei ricavi totali, pari a 5,5
miliardi di euro nel 2014 - con l’area Discovery Networks Southern Europe (Italia, Spagna,
Francia, Portogallo) che ha Milano come quartier generale e Marinella Soldi, ad di
Discovery Italia, come presidente e managing director.
La trattativa con Rcs potrebbe quindi sfociare nella copertura di quella casella per dare un
po’ più di peso alle attività di Discovery nel Paese, visto che 13 TV e Discovery max
insieme non vanno oltre il 3,6% di share.
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ECONOMIA E LAVORO
del 14/01/16, pag. 7
Cgil, sempre più delegati licenziati
Lo scontro con le imprese. Due Rsu Fiom messe alla porta a Bologna
dopo il caso di Ferrara. Oggi nel capoluogo emiliano assemblea con
Camusso e Landini. E intanto a Roma i confederali approvano la
proposta sulle nuove relazioni industriali:
Antonio Sciotto
È sempre più aspro lo scontro con le imprese, e mentre sul fronte del nuovo modello
contrattuale non si riesce a trovare un terreno comune tra sindacati e Confindustria, si
moltiplicano i licenziamenti di delegati della Cgil. «Un clima da anni Cinquanta», lo
definisce Franco Focareta, il legale a cui la Fiom ha affidato il caso di due Rsu del
bolognese messe alla porta da due grosse aziende metalmeccaniche del luogo, la Oam e
la Metalcastello. Due settimane fa la LyondellBasell di Ferrara aveva licenziato il delegato
Filctem Luca Fiorini (oggi la causa in tribunale). Proprio questa mattina, a Bologna,
Susanna Camusso e Maurizio Landini saranno presenti a un attivo di 5 mila delegati, dove
verrà presentata la Carta dei diritti universali del lavoro, mentre nel pomeriggio a Roma gli
esecutivi di Cgil, Cisl e Uil vareranno la proposta per le nuove relazioni industriali.
Ma in quale atmosfera. I due licenziamenti bolognesi ricordano, in qualche modo, quello
ferrarese. Il più eclatante è forse quello della Metalcastello di Castel di Casio, stabilimento
con circa 300 dipendenti, appartenente al gruppo spagnolo Cie Automotive. Produce
componenti per automobili. Uno dei delegati Fiom, un immigrato lavoratore al sesto livello
— spiega il segretario emiliano Bruno Papignani — si era recato il 19 dicembre a una
iniziativa di solidarietà con gli operai Saeco che non lontano — a Gaggio Montano —
rischiano 243 licenziamenti, e sono tuttora in presidio davanti alla fabbrica di macchinette
per il caffè.
«Il delegato racconta le condizioni di lavoro nella sua azienda — spiega l’avvocato
Focareta — e parla di 50 mobilità, di uno scavalcamento del sindacato nell’aver stabilito
unilateralmente orari e ferie, dopo aver disdettato un accordo del 2008, di altri
licenziamenti individuali impugnati dai dipendenti. Tre, tra l’altro, chiusi con un’offerta di
transazione monetaria qualche giorno fa. Ebbene: è stato accusato di aver danneggiato
l’immagine dell’azienda all’esterno, e pertanto è stato licenziato».
Il caso della Oam di Pianoro ricorda ancor più da vicino quello di Fiorini a Ferrara,
accusato di aver aggredito un dirigente durante una trattativa sindacale. Anche in questo
caso — l’impresa dà lavoro a 300 persone, produce carrelli elevatori e altri macchinari —
siamo nei giorni caldi di trattativa sull’integrativo, e il delegato licenziato è tra quelli che
siedono al tavolo. «L’azienda lo accusa di aver aggredito un dirigente e una collega —
spiega l’avvocato Focareta — ma noi abbiamo testimonianze del contrario: è stato lui a
essere aggredito. Lo stesso giorno i suoi colleghi sono scesi in sciopero, ma questo non è
bastato all’azienda, che ha deciso di metterlo alla porta».
«Il primo delegato, cittadino non comunitario — commenta il segretario Fiom Papignani —
è stato licenziato in tronco per un “reato d’opinione”». Il secondo lavoratore, invece, «era
nel pieno di una vertenza sindacale — ha spiegato Alberto Monti, della Fiom di Bologna —
ed è stato messo alla porta perché avrebbe avuto un comportamento contro la sua
azienda. È qualcosa che ci riporta ai licenziamenti per rappresaglia».
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Il tema dei licenziamenti verrà sicuramente affrontato nel corso dell’attivo dei delegati Cgil
al Paladozza (e poi in un altro attivo, pomeridiano, dei soli delegati della Fiom). I colleghi
del ferrarese Luca Fiorini porteranno uno striscione di solidarietà, e lo stesso Luca
sarebbe teoricamente atteso sul palco, se non fosse impegnato nelle stesse ore davanti al
giudice.
Susanna Camusso illustrerà la Carta dei diritti universali del lavoro, il testo che dovrebbe
confluire in una proposta di legge di iniziativa popolare per sostituire — se venisse
approvato — lo Statuto dei lavoratori. Verranno affiancati dei quesiti referendari per
cancellare tutto quello che, secondo la Cgil, non va nelle leggi degli ultimi 15 anni, dalla 30
al Jobs Act.
Intanto a Roma (Auditorium via Rieti, dalle 15) gli esecutivi unitari di Cgil, Cisl e Uil
approveranno il documento Un moderno sistema di relazioni industriali che poi
presenteranno alle imprese.
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