Lo psicologo nella scuola: quali richieste identificatorie?
Transcript
Lo psicologo nella scuola: quali richieste identificatorie?
Lo psicologo nella scuola: quali richieste identificatorie ? di P.G. Tagliani e R. Vitali Gennaio - Giugno 2011 LO PSICOLOGO NELLA SCUOLA: QUALI RICHIESTE IDENTIFICATORIE? Piergiorgio Tagliani1 e Roberta Vitali2 “Dentro le mura” Operare all’interno di un’istituzione rappresenta in qualsiasi caso una “variabile” del setting da tenere in considerazione. Sia che si tratti di un’istituzione socio-sanitaria, sia a maggior ragione di un’istituzione formativa, la “stanza dell’analisi” (intesa naturalmente come setting mentale del terapeuta) si trasforma in una rete complessa che entra nella relazione con il paziente e la caratterizza. D’altro canto, anche storicamente, ci ricorda Trasforini (1991), “[si assiste] al passaggio dallo psicoanalista come figura orientata a un ristretto settore di domanda privata, allo psicoanalista come un esperto sociale ad ampio spettro, una figura evolutivamente adattata ad una realtà complessa, a crescente differenziazione”. Non si tratta qui semplicemente di pensare in termini di “sistemi in interazione” (familiari, sociali…), ma di contestualizzare il lavoro clinico all’interno di realtà che, di per sé, si mantengono indipendenti dalle problematiche riguardanti il disagio mentale, ma non indifferenti ad esso perché in grado di influenzarne il funzionamento. Anche perché, come sostiene Garghentino (1998), “le caratteristiche stesse che definiscono il disagio giovanile, a buon titolo considerano la scuola, inteso come ambito di vita quotidiana significativo per la formazione della personalità, come idonea per un’attenta osservazione di quelle espressioni somato-psichiche e comportamentali che possono sottendere un disagio”. Nello specifico, il lavoro di spazio ascolto psicologico a scuola rappresenta una sorta di compromesso fra un progetto di prevenzione primaria (accogliendo il disagio al suo manifestarsi e riducendone l’impatto) e un ambito di “cura” vero e proprio. Tale oscillazione produce, all’interno dell’operatore, la necessità di un’elasticità di approccio che, in qualche modo, lo costringe a transitare dal ruolo di pedagogista a quello di orientatore, dal counselor allo psicoterapeuta, proprio perché la realtà del contesto scolastico costringe non solo a considerare il “campo”, ma anche a scendervi quotidianamente: “la scuola […] vede impegnati in rete insegnanti, studenti e genitori, in un sistema di relazioni e interazioni che va presidiato in numerosi punti nodali e che richiede pertanto competenze mirate e risposte articolate” (Bittanti, 2005). L’istituzione stessa, in qualche modo, pretende una molteplicità di ruoli dall’operatore, perché il lavoro con l’adolescente è entre les murs (per riecheggiare il titolo originale di un recente film francese) e non fuori: tornano alla mente le parole di un preside molto “potente” che al consulente psicologo del suo liceo, alla fine dell’anno, ricordò candidamente: “Si ricordi che lei qui non è il dott. X, ma lo psicologo dell’Istituto K.!”, lasciando intendere in modo neppure tanto sfumato che qualsiasi forma di autonomia andava contrattata con la dirigenza. Aldilà di questi eccessi che, in quanto tali, possono portare anche a ridefinire il contratto e, al limite, anche a risolverlo, è bene ricordare che l’istituzione nutre comunque aspettative più o meno esplicit(at)e riguardo al ruolo ricoperto dallo psicologo. A questo proposito “possono esserci aspettative eccessive nei confronti di questo intervento, come se il lavoro psicologico potesse in pochi colloqui non solo inquadrare, ma anche risolvere problemi che si trascinano da tempo e che da tempo rendono difficile la vita dell’insegnante” (Maggiolini, 1997), in una logica idealizzante che ben conosciamo in tutti i contesti clinici. Ma se l’analisi di un meccanismo di difesa come l’idealizzazione può condurre, all’interno di una psicoterapia o di un percorso sulla coppia genitoriale, al riconoscimento delle dinamiche profonde che vi sono sottese, quando tale funzionamento è tipico di un’istituzione, diviene molto difficile non diventare oggetti di 1 Psicologo, Psicoterapeuta, Socio e Docente PsIBA. Psicologa, Psicoterapeuta, Dottore di Ricerca in Psicologia della Comunicazione e dei Processi Linguistici, Socio e Docente PsIBA. 2 Quaderno di Psicoterapia del Bambino e dell’Adolescente (2011) Vol. 33, pp. 63-82. 1 Lo psicologo nella scuola: quali richieste identificatorie ? di P.G. Tagliani e R. Vitali Gennaio - Giugno 2011 delusione. Il ragazzo, inviatoci con tanta premura, non migliora (continua ad essere insolente, a non studiare…) e noi ci trasformiamo in una perdita di tempo inutile e dannosa per gli studenti. Tale meccanismo potrebbe forse spiegare perché, ad esempio, è molto frequente osservare come, dopo diversi anni di presenza in una scuola, lo psicologo cominci a lamentare cali di affluenza e situazioni sempre più “immobili”. In qualche modo, è come se la scuola cominciasse a disilludersi rispetto alle sue capacità “taumaturgiche” e nel contempo iniziasse letteralmente a “fare proprio” l’operatore, trasformandolo in qualcosa d’altro. È molto difficile non lasciarsi “intrappolare” da una logica inclusiva che, indubbiamente, rimanda a meccanismi di controllo istituzionale e che, alla lunga, riduce l’efficacia dell’intervento. Essere psicologi “della” scuola, e non più “per” la scuola rappresenta un passaggio spesso cruciale che, se non immediatamente riconosciuto, rischia di compromettere il prosieguo del lavoro. L’interpretazione di questo fenomeno passa sicuramente attraverso la differente percezione che gli adolescenti stessi cominciano ad avere: quello stesso adulto che, in qualche modo, veniva percepito come “altro” (non insegnante, non dirigente, non genitore, non…), diviene improvvisamente un componente della scuola stessa e quindi assume un ruolo coincidente con quello di tutti gli altri. Si potrebbe dire che, prima che sia possibile l’attivazione di un movimento transferale all’interno dello spazio ascolto, si genera un transfert istituzionale che condiziona il successivo rapporto. Non si tratta tanto del timore che il contenuto dei colloqui possa trapelare, ma di un’equazione (inconscia) fra psicologo e scuola che rende l’operatore meno “neutrale” sin dall’inizio. D’altro canto “gli insegnanti possono sviluppare fantasie di esclusione addirittura di persecuzione nei confronti di questo spazio d’ascolto. Possono temere che si configuri come un luogo di alleanza e di coalizione in qualche modo ‘contro’ la scuola e il loro lavoro” (Maggiolini, 1997). In questo caso, siamo di fronte ad una dinamica istituzionale opposta alla precedente, non meno pericolosa per il nostro lavoro. Soprattutto quando operiamo all’interno di un’istituzione, è necessario tenere sempre ben in mente il fatto che essa possa mettere in atto dinamiche espulsive collegate a difese persecutorie: il “potere” rappresentato dal presunto sapere dello psicologo in un contesto che si ritiene il “tempio della conoscenza” per gli allievi. Per far fronte a tale “angoscia dell’estraneo” l’istituzione mette in atto meccanismi di difesa atti a ridefinire il ruolo dell’operatore all’interno della sua rete, ricordando che “fa comodo, psicologicamente parlando, un’istituzione in cui tutti abbiano il loro posto, in cui i tipi di autorità siano ben precisati e i modi di agire codificati, perché così si delinea un mondo senza sorprese, senza irrazionale, senza passione” (Blandino e Granieri, 1995). Tali meccanismi possono da un lato dar luogo a veri e propri “rigetti”, che creano nell’istituzione una cultura “antipsicologica” difficile da sradicare, dall’altro produrre nell’operatore vissuti persecutori che non facilitano il mantenimento di una “giusta distanza” perché finiscono per accrescere le alleanze (collusive) con gli studenti “contro” l’istituzione. Negli occhi degli adolescenti L’esigenza di delineare, in modo molto sommario, quei meccanismi istituzionali che in qualche modo sono parte integrante del setting dello spazio ascolto scolastico nasce dalla consapevolezza che essi siano in grado di influenzare significativamente lo sguardo dei ragazzi nei confronti dello psicologo che andranno ad incontrare. Rispetto al proprio ruolo, e ai movimenti identificatori che esso attiva, siamo di fronte ad una condizione molto diversa da quella della consulenza effettuata nello studio privato o in una struttura clinica: in quei contesti, in fondo l’adolescente è sempre attivamente accompagnato dall’adulto e gioca letteralmente “fuori casa”. Al contrario, la scuola rappresenta in fondo la sua seconda (o prima?) dimora, quello spazio in cui non va certamente (solo) per imparare, ma in cui sono molto attivi quei processi affettivi che hanno a che fare con le relazioni con gli altri, spesso non a caso al centro dei colloqui. Se la scuola è un ambiente affettivo, è difficile non osare un paragone proprio con l’ambito familiare, nel quale indubbiamente lo psicologo si rifiuterebbe di operare. Quaderno di Psicoterapia del Bambino e dell’Adolescente (2011) Vol. 33, pp. 63-82. 2 Lo psicologo nella scuola: quali richieste identificatorie ? di P.G. Tagliani e R. Vitali Gennaio - Giugno 2011 Al contrario, a giudicare dal successo degli spazi ascolto, e dalla loro sempre maggiore diffusione, la consulenza breve a scuola è un modello di intervento che deve essere sempre più “pensato” non tanto come un surrogato della psicoterapia tout court, ma come un vero e proprio processo specifico che deve tenere conto del “dove” e del come”, senza per questo essere ritenuto appunto meno importante, soprattutto in termini di prevenzione primaria e secondaria3. Allora il fatto di operare “fuori casa” diviene di per sé uno degli elementi che “identificano” lo spazio ascolto ed entrano nella relazione, trasformando quell’adulto che opera a scuola in una figura della scuola, con tutti i rischi che ne conseguono. Abbiamo già accennato a quell’omologazione di ruolo che, in virtù dei meccanismi difensivi istituzionali, complica il nostro lavoro. Nella mente dell’adolescente, corriamo il rischio di essere identificati con un ruolo sempre più giudicante (e genitoriale) perché appartenenti ad una struttura che ha tale compito. Anche se nessuno psicologo si sente a proprio agio in questo ruolo, egli lo ricopre proprio perché, a titolo diverso, fa parte degli adulti della scuola, magari con una sfumatura meno persecutoria, ma pur sempre in qualche modo “alleata” con loro. In fondo, ciò accade anche nelle consultazioni ordinarie, soprattutto quando gli invianti sono proprio i genitori, ma in quei casi rappresentiamo comunque un’alterità, proprio perché il contesto in cui operiamo ci protegge e ci consente di mantenere il nostro setting. In questo senso, le possibili alleanze (più o meno inconsce) con i genitori o con il ragazzo possono essere comunque sottoposte ad un’interpretazione controtransferale che permette di procedere nel percorso terapeutico: chiedersi, ad esempio, perché quell’adolescente ci stia subito antipatico o perché invece ci alleiamo empaticamente con lui sin dal primo incontro con i genitori, ci offre un prezioso elemento di interpretazione di una realtà interna alla relazione, che passa ovviamente anche attraverso la nostra esperienza (di adolescenti-figli-genitori), ma che rimane nell’hic et nunc. Questi stessi movimenti identificatori subiscono ben differenti pressioni quando operiamo all’interno di un’istituzione come la scuola. Qui non solo si inserisce un nuovo parametro (docente-discente), ma siamo veramente qualcosa di diverso per gli adolescenti che incontriamo: insieme alla configurazione edipica classica, nella quale comunque, almeno internamente e teoricamente, ci muoviamo, assumiamo il ruolo della Sfinge-scuola, affascinanti ma inquietanti creature a nostra volta chiamate a porre indovinelli sul passato, il presente e il futuro… Spesso sono i ragazzi stessi, in questo ambito, che ci fanno domande dirette, vogliono risposte su quello che possono o devono fare, e pur essendo consapevoli che il nostro compito è aiutarli a trovare le risorse per rispondere da soli, questa funzione di “indottrinamento” è resa ancora più significativa dal contesto scolastico, luogo dove l’adulto, appunta, insegna… In fondo, l’autoriferimento piuttosto che la segnalazione da parte di insegnanti o genitori, rende l’adolescente “soggetto attivo di esplorazione dell’efficacia […] degli strumenti che la psicologia clinica può offrirgli per la risoluzione della sua problematica” (Iaccarino, 1988). Tale condizione facilita indubbiamente i processi di cambiamento, ma alimenta aspettative taumaturgiche che rimandano alla (rischiosa) attribuzione di fiducia a questo adulto che, in fondo, è destinato, ad essere almeno un po’ “deludente” se alla fine l’adolescente deve individuarsi. La brevità dell’intervento, che costituisce un aspetto fondamentale del modello, diviene un’ulteriore complicazione in questo senso, perché il processo di illusione-disillusione si gioca in un tempo che, se da un lato riflette il mondo interno dell’adolescente (rapido e mutevole), dall’altro costringe ad una maggiore rapidità anche i processi di pensiero dell’operatore, che sono a loro volta influenzati, di nuovo, dal contesto: ad esempio, si tende a ragionare in termini di quadrimestre, o di anno scolastico, perché è all’interno di questo tempo (relativo) che si muovono gli attori della relazione. Se è vero che, in qualche modo, la consultazione con l’adolescente dovrebbe comunque essere pensata in termini di anno scolastico (Maggiolini, 1999), tale considerazione è ancora più pregnante se proprio 3 Come dice Iaccarino (1988) la consultazione “riattiva nell’adolescente che vive una difficoltà psichica quei processi di sviluppo che, per qualche motivo, sono bloccati, facilitandone la ripresa ed evitando in prospettiva l’aggravamento o il riacutizzarsi del disagio nell’età adulta”. Quaderno di Psicoterapia del Bambino e dell’Adolescente (2011) Vol. 33, pp. 63-82. 3 Lo psicologo nella scuola: quali richieste identificatorie ? di P.G. Tagliani e R. Vitali Gennaio - Giugno 2011 la scuola ospita la consultazione e “impone” i suoi tempi: inizi privi di verifiche, momenti caldi a fine quadrimestre, angosce di termine anno sono momenti che vanno a far parte integrante della relazione. La cosiddetta “crisi” che induce l’adolescente a chiedere aiuto è influenzata da questi tempi, perché essi sono in grado di acutizzare o di attenuare le sofferenze interne, e ciò rende più complessa, per il clinico, la valutazione dell’efficacia del proprio intervento, non solo perché le promozioni sono, a volte, straordinariamente terapeutiche, ma perché anche nella mente dello psicologo gli eventi reali possono fondersi (e confondersi) con quelli appartenenti alla relazione. Quando suona la campanella dell’intervallo (e sentiamo che ci manca ancora qualcosa), quando, nell’ora dopo, è stata fissata proprio quella verifica… anche noi entriamo a far parte della logica scolastica. 4 Jason Jason è un ragazzo 17enne di origine ecuadoregna. Arriva scortato da un'insegnante che lo esorta ad andare dallo psicologo perché è “un drogato, che sa solo stare con ragazzacci in strada”. Ha l'aria da duro, uno sguardo tagliente, capelli tirati e lucidi, è vestito di pelle. Si siede molto arrabbiato per le parole che mi riferisce l'insegnante gli rivolta continuamente contro. Ha accettato di venire strumentalmente affinché l'insegnante colga i suoi “buoni propositi” e non lo tempesti più con questi appellativi “insopportabili”. Gli chiedo perché si sia attirato giudizi tanto netti e definiti. Serio e lineare, racconta di non avere mai fatto uso di droghe, se non oppiacei in compagnia degli amici. Esplicita poi del suo coinvolgimento come indagato in un processo penale a carico di un suo compagno per truffa e smercio di droga, processo in cui il PM lo ha prosciolto. Scavando, troviamo le tracce di uno spavento molto intenso che il possibile “Giudizio” dell'Autorità (più che il rischio della pena) ha scatenato. Le parole del PM per lui sono incise nel suo ricordo: “Sei un bravo ragazzo, difenditi. Ce la puoi ancora fare”. Alla fine del primo colloquio Jason osserva con grande stupore che tornerà. Aveva aspettative “negativissime” sulla mia figura, che lo avevano orientato a pensare se stesso in un assetto di distacco verso l’ennesimo adulto che avrebbe saputo bene cosa dirgli di fare e non fare. Io ritraduco così: adulti che imprimono a lui un modo di “essere” o “non essere” che forse non gli appartiene o che forse finisce per essere espressione e reazione di come gli adulti definiscono la sua immagine. Ma Jason chi vorrebbe essere? Nella consulenza breve ci focalizziamo sul senso di colpa che lui delinea molto chiaramente quando racconta del suo rapporto con la madre vedova che si occupa tanto amorevolmente di lui (chiamandolo 5-10 volte al giorno per stargli vicino). Per contrasto ad un’imago materna depurata di ogni sentimento negativo e conflittuale, emerge un’immagine di sé come “figlio trasgressivo”, che fa soffrire e che soffre di conseguenza per il danno che arreca. Le trasgressioni, di cui sotto la pressione dello schiacciante senso di colpa mi parlerà, sono due fughe da casa con la macchina della madre, alcune assenze “ingiustificate” per via del suo lavoro di organizzatore di eventi e delle uscite pomeridiane non dichiarate alla madre con il “famigerato” gruppo di amici. Ridefiniamo allora lo spavento sollecitato acutamente dalla telefonata dei Carabinieri che intrudono nella sua vita per convocarlo presso il Tribunale come uno spostamento del vero “spavento” che assorbe le sue energie: lo spavento è per la reazione di stupore, delusione, disapprovazione della madre che -forse ancora adesso- non comprende. Jason accetterà di sentirsi rispecchiato nel suo vissuto di oppressione che prova a subire il controllo materno che appare ai suoi occhi più che giustificato. L’unico mezzo che sembra aver utilizzato per affrontare la separazione dalla madre è stato agirla con i comportamenti “trasgressivi”, non riconoscendola, ma quasi gridandola; salvo poi non poter uscire dalla rete e, attraverso il senso di colpa, dover tornare indietro penitente per rimettersi nelle mani della madre, come figlio immaturo e indegno. 4 Consultazione breve condotta dalla dott.ssa Roberta Vitali presso lo spazio di ascolto di un ITIS. Quaderno di Psicoterapia del Bambino e dell’Adolescente (2011) Vol. 33, pp. 63-82. 4 Lo psicologo nella scuola: quali richieste identificatorie ? di P.G. Tagliani e R. Vitali Gennaio - Giugno 2011 Il livello delle idealizzazioni è davvero straordinariamente intenso e mi fornisce un utile criterio per valutare lo scarto interno tra gli aspetti ideali che dalle imago genitoriali Jason assimila e un’immagine di Sé piuttosto deragliante. Il sintomo – se così si può definire – si polarizza attorno alla tematica della dipendenza scarsamente riconosciuta e difficilmente tollerata che spinge a risposte di controdipendenza agita: le fughe, così come la parziale identificazione con il modello delinquenziale attraverso cui si assicura il giudizio negativo dell’adulto. Jason sembra da un lato non poter sostenere fino in fondo il desiderio infantile di superare il padre morto e dall’altro non riuscire a ridimensionare l’autorità materna, concedendosi di sperimentare attivamente per sé una “potenza” maggiore, senza sentirsi poi colpevole per la sua ambizione. Cerco di aiutarlo a guardare meglio a ciò che sperimenta nelle relazioni con le rappresentazioni genitoriali interne, stando ben attenta a non toccare la madre reale. Jason piange. Dice di non essersi mai sentito così capito in tutta la sua vita. Gli sembra incredibile che qualcuno possa aver capito così tante cose di lui in così poco tempo….e soprattutto nonostante il fatto che egli tenti sempre di “mascherarsi” con gli altri. In fondo ha una reputazione da salvaguardare! Alla fine del terzo colloquio Jason trarrà da solo le sue sintesi, comunicandomi indirettamente che il nostro lavoro è giunto a compimento. Mi dirà che ha ripensato al suo futuro: “Ho deciso che non farò lo spacciatore, ma aprirò un’agenzia di viaggi che mi permetterà di andare via e fare diverse esperienze, oltre che dover mettere al pezzo le mie capacità organizzative. Anche se non te ne ho mai parlato ho avuto e ho ottime occasioni per smerciare droga, sono anche soldi facili senza troppo sbattimento, non ci vuole nulla ad organizzarmi. Ma ho deciso che non mi interessa, non sarebbero cose conquistate da me, quelle. Voglio essere come mio padre che ci ha garantito sempre tutto ciò di cui noi avevamo bisogno costruendosi da solo il suo lavoro. E lui era un mago nel suo lavoro”. Gli restituisco il suo desiderio di “volare via” (a proposito di una trasformazione dell’assetto inconscio controdipendente!) e il sapere che se lo potrà fare per sua decisione, allora forse potrà anche tornare, pensando di avere allargato il suo raggio di movimento. Jason, con gratitudine e un pizzico di ambivalenza, mi conferma che il suo percorso di consulenza è grossomodo concluso. Mi sento in bilico a livello controtrasferale, in dubbio nel decidere se trattenerlo per provare a “vedere meglio nel suo futuro” – rischiando di riprodurre le dinamiche transferali del rapporto con la madre – o lasciarlo libero di sperimentare, questa volta senza senso di colpa, la propria via. Decido di lasciare solo la porta aperta…. Mi sembra che la “fantasia” sul suo futuro si offra magistralmente come condensato di una mutazione nelle identificazioni patologiche e avviluppanti con figure interne drammaticamente idealizzate che sembravano inibire completamente il processo di individuazione. L'identificazione con la figura paterna (pur se con zone d'ombra) viene preservata nei suoi aspetti ideali, a salvaguardia, però, di un Ideale del Sé valoroso, che tende ad auto-gratificarsi, piuttosto che solo orientato al successo e all'acquisizione di un potere che dia visibilità esterna. Suona come "ho deciso di voler essere", piuttosto che "volere e basta". Vengono recuperati gli aspetti di identificazione positiva con il padre e valorizzati come risorse interne utili alla riorganizzazione del proprio Sé. Potersi allontanare, inoltre, a piacimento dalla madre “volando via” sulla base di un suo progetto realizzativo sembra permettere a Jason di non sperimentare – e soprattutto proiettare all'esterno con l'agito – il senso di colpa verso la stessa. Aver riconosciuto non tanto il deficit materno, quanto piuttosto l'asfissia della relazione con l’amata-odiata madre e la legittimità del suo vissuto soggettivo permette a Jason di non dover più necessariamente scontare "la pena" auto-inflitta o indotta dall’esterno in tutti i momenti in cui egli si trova dolorosamente concentrato sul giudizio negativo formulato dallo “sguardo sociale”. Aver processato la madre interna non porta alla sua condanna, elemento che per Jason resta certamente funzionale per conservare le idealizzazioni; soprattutto questo spostamento di prospettiva – ora c’è la madre e non più solo lui sul banco degli imputati – sembra permettergli di non dover necessariamente agire la trasgressione. Viene immessa, nella fantasia del suo futuro, una quota di distanza che permette di rendere il desiderio di separazione dalla Quaderno di Psicoterapia del Bambino e dell’Adolescente (2011) Vol. 33, pp. 63-82. 5 Lo psicologo nella scuola: quali richieste identificatorie ? di P.G. Tagliani e R. Vitali Gennaio - Giugno 2011 madre tollerabile, legittimo e di conservare l’idea di poter preservare il padre interiorizzato (e la sua potenza) attraverso gli ideali paterni. Non posso sapere quale sarà la strada effettiva di Jason, ma sembrano essersi slatentizzate o aperte possibilità identificatorie con un adulto che accoglie senza giudicare, pur esercitando una critica motivata che trae le sue fondamenta dalla legittimazione dei suoi bisogni di individuazione… un adulto che, peraltro, accetta e tollera di lasciarlo andare quando è lui a volerlo per sé – senza dover indurre la fuga in corsa. L'insegnante mi chiederà, poi, se effettivamente il ragazzo era "drogato"; si è lavorato sulla "droga dai giudizi negativi esterni, ma anche da quelli interni". Qualche mese dopo ritrovo Jason, durante un'autogestione, nel corridoio della scuola intento a coordinare gli interventi di "sicurezza". Derogando, solo per un momento, dalla serietà del suo impegno, mi saluta e mi sorride. Stefania, la Sirena spaventata 5 Per introdurre il secondo caso che abbiamo deciso di presentare è necessaria una premessa che rientra appieno nelle considerazioni riguardanti la figura dello psicologo nella scuola. Prima che la ragazza accedesse allo sportello, mi aveva già conosciuto in un contesto significativamente differente: quando lei era in seconda superiore, avevo condotto, assieme ad un’assistente sanitaria, alcuni incontri di educazione sessuale nella sua classe. Lo sportello era invece stato avviato tre anni dopo, quando Stefania era in quinta superiore e gli interventi nelle classi ormai sospesi. Il “tema” della sessualità, sia nelle sue componenti più “fisiologiche” (innamoramenti, prime esperienze, dubbi), sia in quelle più francamente patologiche (tanto da portare ad una segnalazione di abuso), si era effettivamente rivelato centrale in questo contesto, anche con ragazzi che non mi avevano mai incontrato prima, quasi che si fosse creato un alone di “esperto” attorno alla mia figura in grado di condizionare i contenuti dei colloqui. In qualche modo, era come se la mia presenza “pubblica”, intesa come un ruolo che avevo ricoperto formalmente in precedenza, fosse rimasta impressa nel tessuto connettivo istituzionale, concentrando il focus degli accessi proprio su quelle problematiche inerenti la sfera della sessualità in senso lato. Se tale movimento ha permesso di far emergere situazioni anche molto complesse, ha probabilmente connotato in modo incontrovertibile la funzione di questo spazio per tutti i componenti della scuola6. Stefania ha 18 anni quando si presenta per la prima volta allo spazio ascolto psicologico della sua scuola: ha fissato l’appuntamento insieme a una compagna, che è venuta prima di lei e che si presenta come la “migliore amica”. Quando Stefania si siede al proprio posto, assume un’espressione timida, quasi da ragazzina, ed esordisce dicendo: “Mi imbarazza un po’ parlare con te…”. Sulle prime, il suo atteggiamento non differisce molto da quello di tanti studenti che, di fronte a una situazione nuova, non sanno letteralmente come muoversi: esaurita la spinta, magari amicale, che li induce a richiedere un colloquio con lo psicologo, si ritrovano a disagio nel parlare per la prima volta con un assoluto sconosciuto con cui si suppone debbano confidarsi. Ma appena viene invitata a esprimere liberamente i propri pensieri, riprendendo le “regole” dello spazio ascolto, Stefania mi “travolge” letteralmente con un fiume di parole e di emozioni capaci di trascinarmi direttamente in un mondo interiore tanto ricco quanto confuso. Ripensando a quel primo colloquio, alla luce degli elementi controtransferali che lo hanno caratterizzato, non è difficile paragonare questo sorprendente esordio ad un vero e proprio canto delle sirene attraverso cui la giovane ha cercato di ammaliarmi (figura maschile relativamente giovane), offrendo ciò che avrei potuto “desiderare” all’interno di un colloquio clinico: un sintomo già ben delineato (attacchi di panico), elementi della propria storia personale-familiare, persino un sogno a completare il quadro di un “primo colloquio” ideale. Questo movimento seduttivo in senso 5 Consultazione breve condotta dal dott. Piergiorgio Tagliani presso lo spazio di ascolto di un liceo scientifico milanese. Un’insegnante, due anni dopo che il servizio di sportello non era più gestito dallo stesso psicologo, aveva chiesto una consulenza per il figlio (tardo adolescente) alle prese con problemi della sfera sessuale… 6 Quaderno di Psicoterapia del Bambino e dell’Adolescente (2011) Vol. 33, pp. 63-82. 6 Lo psicologo nella scuola: quali richieste identificatorie ? di P.G. Tagliani e R. Vitali Gennaio - Giugno 2011 professionale verrà accompagnato, a partire dal secondo colloquio, da contenuti sempre più espliciti riguardanti le arti di “sciupa uomini” di Stefania: l’avventura nei bagni di un treno con un ragazzo appena conosciuto, gli sguardi ammiccanti a un giovane adulto durante un matrimonio, il tentativo di descrivere in modo dettagliato le proprie performance. In tutto questo la ragazza sembra aver dimenticato l’incipit con cui si era presentata allo sportello, presa com’è nel dimostrare come, in fondo, qualsiasi tipo di relazione finisca per trasformarsi con lei in un gioco di seduzione che le fa sperimentare il potere sui maschi. Stefania raggiunge il massimo della sua violenza seduttiva, se così si può definire, quando, riprendendo tono e movenze che avevano caratterizzato la sua presentazione, confessa la fantasia di finire a letto con me. “Oh mamma mia, che cosa ho detto!”, aggiunge arrossendo, ma senza per questo modificare il flusso delle sue associazioni. Non vi è alcun dubbio che tali contenuti così forti mascherano più che esprimere stati d’animo profondi: così facendo, Stefania alimenta la sua illusione di poter esercitare un controllo attivo su un mondo che vive come minaccioso, come i suoi attacchi di panico in fondo dimostrano quotidianamente. Un mondo che diviene per lei fonte di estrema angoscia soprattutto quando declinato al maschile, tanto da costringerla a perpetrare una forma di castrazione simbolica (rappresentata dalla fellatio, unica modalità con cui poi, in fondo, agisce la propria sessualità) per ridurre il pericolo che esso rappresenta. La modalità con cui entra in relazione con me – con l’apparente gratificazione dei miei bisogni narcisistici per esercitare un controllo sulla mia mente, in un gioco di identificazioni proiettive tanto rapido quanto disorientante – potrebbe essere in questo senso letta come un tentativo di assumere, facendo inizialmente la paziente perfetta, la guida del processo terapeutico, impedendo di fatto qualsiasi cambiamento. Sarà proprio la possibilità di riprendere con lei l’incipit con cui si è invece presentata a trasformare quello spazio che Stefania ha cercato di riempire di contenuti che sapeva potevano essere condivisibili (dall’esperto di educazione sessuale…), in un zona di transizione verso un contesto terapeutico nel quale fosse possibile un’azione interpretativa. Senza cadere nella trappola dell’”incontro occasionale” che, giocoforza, il contesto istituzionale scolastico favorisce, nella sua dimensione dei 4-5 colloqui, è stato possibile accompagnare la giovane verso uno spazio nel quale potesse mettere in scena entrambi i personaggi proposti, la pulzella in pericolo e la femme fatale. Riprendendo quella frase (“Mi imbarazza un po’ parlare con te”) e ricontestualizzandola nel suo successivo “gettarsi addosso” all’interlocutore, è stato possibile restituire a Stefania un funzionamento che, lungi dall’essere incoerente, rappresentava invece un plot (nel senso di coazione a ripetere) collegato in qualche modo con aspetti profondi della sua personalità. Quell’apparente imbarazzo diveniva così più chiaramente uno “specchietto per le allodole” che induceva l’altro ad avvicinarsi alla trappola di una seduttività usata per sfuggire al pericolo di diventare realmente una vittima. Aiutandola a comprendere meglio i suoi meccanismi relazionali attuali (senza toccare, in questo contesto, i rapporti con figure genitoriali interne pesantemente coinvolte), è stato possibile accompagnare la ragazza ad un percorso psicoterapeutico esterno che le permettesse di mettere a fuoco le proprie sofferenze profonde. Piuttosto che muoversi costantemente con il Lexotan (suggeritole qualche tempo prima dal medico di base) nello zainetto per far fronte ai suoi attacchi di panico, Stefania poteva finalmente accedere ad una dimensione intrapsichica nella quale ridimensionare la forza opprimente dei suoi fantasmi, riducendo in questo modo la condanna a “ripetere” un copione che, alla fine, la faceva sentire solo carica di vergogna. 7 Marika e le sue compagne…. Marika è una ragazza rumena quasi 17enne. Nell’ultima data disponibile dell’anno solare viene letteralmente trascinata a forza allo sportello da Sara, una compagna. Marika sembra stordita, disorientata, a tratti assente. Mostra un assetto emozionale marcatamente inibito; l’espressività 7 Consultazione e colloqui e condotti dalla dott.ssa Roberta Vitali presso lo spazio di ascolto di un ITIS. Quaderno di Psicoterapia del Bambino e dell’Adolescente (2011) Vol. 33, pp. 63-82. 7 Lo psicologo nella scuola: quali richieste identificatorie ? di P.G. Tagliani e R. Vitali Gennaio - Giugno 2011 facciale è ridotta al minimo, l’affettività pervasivamente appiattita. Dopo qualche battuta iniziale in cui si tematizza la complessità dei rapporti con il padre, intuendo una grave problematica sottostante, propongo – a tutela di entrambe – la loro separazione. Marika non accetta di restare senza l’amica. Sara riferisce che a Marika è “capitata una cosa molto grave di cui sta parlando con tutte le compagne a scuola, una cosa molto scioccante” per cui anche lei (Sara) c’è “rimasta veramente sotto!”. Sara continua osservando che di queste cose è necessario parlarne o “con la madre o con la psicologa, perché le compagne più di tanto non possono aiutarla” e anche in fretta “prima che tutti gli uomini ti facciano proprio schifo”. Marika accenna a contatti sessuali impropri che avrebbe avuto con il padre da circa un anno e mezzo secondo un andamento oscillatorio, ma cadenzato in tutti i momenti di assenza della madre da casa per lavoro; i rapporti si sono interrotti da circa un paio di mesi. Lei si racconta forte della sua attiva capacità di problem-solving, superficialmente rassicurata dall’idea di aver maturato strategie efficaci per far cessare le azioni di abuso come ad esempio ingaggiare un compagno omossessuale come fidanzato di copertura da cui farsi inviare messaggi sul cellulare, prontamente visibili per il padre; tali messaggi avrebbero prodotto – a suo dire – il “ripensamento” da parte del padre che ritenendola ora “svezzata” le dà il permesso di vivere con altri la “sua” sessualità. Marika è certamente orientata a mantenere la fantasia di un controllo su eventi che in realtà sfuggono per definizione alla sua sfera di scelta. L’equilibrio è molto precario: non solo manca la fiducia nell’adulto, ma è totalmente assente dalla scena psichica la consapevolezza di un abuso (emozionale ancor prima che sessuale); l’assetto di controllo permette di tenere a bada solo malamente le angosce che invece paiono esplosive (non fa che parlarne a scuola con tutte le compagne e ha chiesto aiuto al suo amico) e che sembrano, tuttavia, non motivarla ad una rivelazione. Sulla base di una tale ambivalenza si intravedono gli effetti del trauma, ma anche una confusiva alleanza della ragazza con il padre. Il rapporto con lui sembra ancora caratterizzato da un profondo invischiamento: penso che l’angoscia potrebbe essere sostenuta da sentimenti di abbandono così come da vissuti di esclusione legati alla cessazione dell’abuso. In fondo Marika aveva usufruito anche l’anno precedente di un colloquio con me, ma sulla scena era comparsa solo una tematica di conflittualità nel rapporto con il gruppo di amiche. Il padre chi avrà investito ora - mi domando come oggetto di desiderio prescelto? Sarà davvero Marika ad aver indotto l’interruzione o sarà il padre che avrà altri interessi a non tenere più vicino a sé quest’oggetto erotizzato? A livello controtransferale sento un profondo isolamento, mi sento chiamata a raccogliere e trattenere in solitudine i frammenti scissi dell’emozionalità di Marika, frammenti che fanno comparse sporadiche, saltuarie per poi scomparire nuovamente dietro la coltre del suo sconcertante congelamento espressivo. Manca qui totalmente l’investimento di una chiara richiesta di aiuto che indirettamente si è comunque autoderminata. Marika accetta, su mia espressa richiesta, di tornare subito alla riapertura della scuola, ma salterà il successivo colloquio. Sarò io a riconvocarla, data la drammaticità della situazione. Nel frattempo dopo di lei si presentano a colloquio inaspettatamente gruppi di compagne, prima due, poi altre tre per riferirmi di un “fatto molto brutto” di cui una compagna di classe continua a parlare. Le posizioni delle prime due amiche sono speculari: le ragazze empatizzano con Marika, ma hanno bisogno di capire come gestire tutte le comunicazioni che fa quando “meno te lo aspetti”, comunicazioni che “spiazzano” e “non si sa cosa fare”. Chiedono come possono fare per aiutarla, non capiscono perché non vada direttamente alla Polizia. Optando per mantenere un setting condiviso si lavora congiuntamente sulla confusione emozionale che sono loro a provare, su un istinto protettivo che le sente chiamate in prima persona al posto degli adulti, come se gli adulti fossero spariti dal panorama psichico di ognuno o potessero intervenire solo come “giustizieri”. Questo sembra rispecchiare quello che è capitato a Marika; gli adulti al loro posto non ci sanno stare e quindi perché mai interpellare proprio loro per trovare aiuto? Le ragazze fanno da eco ad un’onda emozionale che pervade la classe. Alla chiusura della mattina, sempre fuori orario, si presenta l’altro trio di compagne di Marika: qui il tema è l’alleanza-la fiducia-l’autenticità. Anche in questo caso sento di non poter dividere le ragazze Quaderno di Psicoterapia del Bambino e dell’Adolescente (2011) Vol. 33, pp. 63-82. 8 Lo psicologo nella scuola: quali richieste identificatorie ? di P.G. Tagliani e R. Vitali Gennaio - Giugno 2011 perché sono schierate e dialogano come fazioni scisse: le posizioni sono molto polarizzate, c’è chi le crede e chi non le crede assolutamente. Forse non spetta a noi decidere - dico -, forse le questioni di questa natura sono più complesse di quello che possiamo immaginare. Possiamo però guardare alla nostra ambivalenza e alla nostra paura al pensiero che nella vita possano accadere cose tanto sconcertanti. Cerco di non entrare nel merito, cerco di rispettare la privatezza della rivelazione. Una ragazza mi chiede se Marika mi abbia parlato, vorrebbe sapere “la verità”. Due delle ragazze riescono a riconoscere la loro incredulità, valorizzando al contempo molti altri segnali di disagio di Marika. Si dimettono, per un po’, dal ruolo di giudici. La terza ragazza Sami è durissima, rabbiosa, ostile: “Non può essere vero!”; “Marika non fa altro che raccontare bugie assurde, una peggio dell’altra”, “È Marika che è pazza!”. Cerco di aiutare Sami a vedere il terrore che sta cercando di espellere dalla sua mente e dal suo cuore, quello che forse ha letto negli occhi dell’amica, il terrore di chi sente le cose “quasi come se le avesse sperimentate sulla sua pelle”. Le chiedo di tornare da sola. Ho già conosciuto e segnalato Sami l’anno prima per gravi maltrattamenti e inizio di molestie sessuali subite per mano paterna. Sami, in un sistema di funzionamento ad altissima proiettività, decide che Marika non potrà più essere sua amica “perché è pazza e manipolatrice, i padri per queste cose finiscono in prigione e le famiglie di scombinano”. Rispetto al tornare dice che ci penserà, ma come anche l’anno prima manderà la sorella a parlare per lei al suo posto. Di quest’amata e perduta amica Marika poi mi parlerà con grande dolore: “A lei lo avevo detto per prima, ma non mi ha creduto. Ora non mi parla più e non mi guarda nemmeno in faccia. Ha deciso che non saremo mai più amiche”. Dopo essere stata “contattata” da tutte queste ragazze sono tentata di uscire dal setting, sono tentata di chiedere l’aiuto degli “altri adulti”, sono tentata di pensare che è la classe l’oggetto-bersaglio e contenitore che Marika ha scelto e forse lì dovrei andare per ritessere insieme la trama di una vicenda tanto scottante. Mi domando se sia il mio vissuto di impotenza a spingermi a formulare il desiderio di “socializzare il problema” dentro la classe. Forse rivivo specularmente il vissuto di Marika che cerca di stabilire connessioni laterali per ridurre il suo disorientamento o per ottenere affiliazione. Poi riprendo le mie coordinate: la privatezza del setting, la difficoltà di Marika di accedere ad uno spazio di fiducia con l’adulto, la necessità assoluta di approfondire con delicatezza il senso di questa iniziale rivelazione che resta per ora nell’ombra, buttata come una pietra incandescente nelle mie mani. Non posso segnalare con così pochi elementi, non posso schierarmi né con Marika, né contro il padre. Non so cosa sia accaduto, ma sento che c’è una grave area di collusione da cui sarà molto difficile far uscire Marika. Qualunque movimento è prematuro. Con tutta la fatica del caso penso che ora spetti davvero a me tenere l’ansia. Spetta a me sostenere Marika e anche le compagne che da me allo spazio di ascolto arrivano (non tutte, non la classe, quelle che lo chiedono) a guardare meglio a ciò che accade dentro di loro, più che nella vita di Marika. Dopo le vacanze natalizie nei successivi tre colloqui con Marika affronteremo più da vicino l’abuso nella sua specificità, la sua dimensione storicizzata, la dinamica di relazione tra Marika e il padre, lo scoperchiamento progressivo dei suoi timori, primo fra tutti quello di non essere creduta dalla madre, che come l’amica, l’abbandonerà additandola di “follia”. Metteremo a fuoco che l’attività di molestia è stata dipinta dal padre come una sorta di apprendimento iniziatico sulla base di una modalità che si rivela seduttiva più che coercitiva. La progressiva focalizzazione sui sentimenti ambivalenti nutriti da Marika che la confondono e la fanno sentire colpevole per avere “desiderato” fare coppia con il padre ci rimandano ad una storia di precoci separazioni. Marika riuscirà a rielaborare anche il delicato passaggio da un rapporto assolutamente deficitario se non addirittura assente con il padre (nell’infanzia) alla fantasia di un forte coinvolgimento emotivo con lui nell’epoca delle molestie. E infine compare sulla scena psichica – pur se come ancella più silente – l’invidia per la nuova amante del padre con cui lui l’ha sostituita. Lei pensa di essere stata una scelta strumentale: l’amante in casa nessuno mai “l’avrebbe scoperta”, nemmeno la madre avrebbe potuto sospettare, ma se l’avesse cercata fuori lui “avrebbe passato seri guai”. Quaderno di Psicoterapia del Bambino e dell’Adolescente (2011) Vol. 33, pp. 63-82. 9 Lo psicologo nella scuola: quali richieste identificatorie ? di P.G. Tagliani e R. Vitali Gennaio - Giugno 2011 Passando dal congelamento iniziale si arriverà ad una forte tematizzazione dell’ambivalenza e del terrore di essere giudicata dalla madre, fino all’accettazione al quinto colloquio della necessità della segnalazione (già ormai inoltrata da tempo) per il grave stato di rischio in cui Marika riconosce di essere. Ricordo le nostre ultime parole: scese fuori orario per chiedermi se almeno io “le avevo creduto e se avevo fatto in modo che qualcuno potesse intervenire dal Tribunale per lei”. Eravamo entrambe ignare dell’imminente arrivo della Squadra Mobile a scuola per l’interrogatorio e l’allontanamento; l’ufficiale di Polizia mi ringraziò per la collaborazione, osservando che Marika aveva confermato i fatti ed era grata per essere portata via; il padre aveva da poco iniziato a reiterare gli abusi. Nei mesi a venire i Servizi Sociali hanno incontrato il corpo docente per pianificare la prosecuzione degli studi per Marika. Nessuno si è reso disponibile per far avere agli operatori sociali i programmi didattici e le indicazioni per completare l’anno. Il corpo docente compatto ha negato la possibilità che Marika venisse reinserita l’anno dopo nella stessa scuola, perché questo “avrebbe generato troppo scompiglio nelle altre compagne di classe”. L’assistente sociale, con malcelata rabbia, mi ha cercato presso il Servizio territoriale esterno dove lavoro per un confronto clinico. Riflettendo sul livello di proiezioni massive e sull’identificazione di Marika come oggetto persecutorio si è optato per cercare per lei un ambiente più accogliente e rispettoso. A proposito di giochi identificatori Che adulto può essere lo psicoterapeuta per lo studente, per il docente e soprattutto in mezzo a loro? Nel caso di Jason l’insegnante interviene come apparente mediatore, facendo una richiesta ben precisa e dalle sfumature magiche alla psicoterapeuta (“rimetti il ragazzo sulla retta via”), non contemplando la complessità dei fattori ambientali e interni in gioco, ma nemmeno offrendosi come supporto identificatorio che possa sostenere nel ragazzo la trasformazione ed un’autentica ridefinizione del suo Sé. Ritroviamo qui la traccia di quei processi di idealizzazione di cui si faceva cenno sopra, processi che se non elaborati portano inevitabilmente al rischio di trasformare non più solo il ragazzo, ma anche lo psicoterapeuta in quell’oggetto “deludente” di cui forse è meglio non fidarsi, snaturando così il cardine del lavoro “dentro” la scuola. Non contemplando la motivazione di Jason al lavoro psicologico e ingiungendo forzosamente un rapporto “terapeutico” interventista e pseudo-salvifico, l’invio dell’insegnante pone le premesse per un vuoto che rischia di non far incontrare i due attori in gioco. La psicoterapeuta si trova, precipitata come il ragazzo, “attorno” più che “coinvolta in” un oggettoconsulenza reso persecutorio fin dalle sue premesse per via dell’assetto interno del ragazzo, ma anche per le modalità di investimento operate dell’insegnante. Sembra dover scegliere tra identificarsi con la proiezione adultocentrica dell’insegnante oppure costruire un’alleanza con la parte ribelle del giovane che rifiuta l’oppressione svalorizzante dell’adulto; è il rispecchiamento del vissuto di intrusione sperimentato attivamente dal giovane (e in parte dal terapeuta) a generare una terza possibilità identificatoria che apre il senso di un lavoro condiviso di ascolto più intimo e rispettoso. E’ questo aspetto che induce il ragazzo a “fermarsi per provare a guardarsi”, invece di continuare a controagire sulle immagini deformate dal mondo interno o mutuate da quello esterno. Con Stefania, anche in considerazione della premessa, è stato molto complesso riuscire a “stare dentro” il setting: in un caso, come questo, nel quale sia il fatto di avere avuto un contatto precedente con lo psicologo dello sportello sia la necessità di dover comunque limitare il numero di colloqui, ha alimentato il rischio di un agito (coinvolgimento dei genitori? Estensione degli incontri? Accoglienza “personalizzata” presso il servizio di zona? Fare il “sessuologo” come il ruolo precedente prevedeva?) che avrebbe probabilmente reso invece più difficile una futura – e indispensabile – presa in carico. Nello stesso tempo, proprio la possibilità di accedere, quasi in automatico, alla sfera della sessualità con chi si supponeva ne sapesse parlare, ha permesso l’attivazione di un canale immediato di mise en scène del problema. In questo senso, il “prima” in classe, sebbene molto remoto, ha fornito una cornice in cui il “dopo” della relazione ha potuto trovare espressione. Nel gioco delle Quaderno di Psicoterapia del Bambino e dell’Adolescente (2011) Vol. 33, pp. 63-82. 10 Lo psicologo nella scuola: quali richieste identificatorie ? di P.G. Tagliani e R. Vitali Gennaio - Giugno 2011 identificazioni-controidentificazioni la possibilità successiva per lo psicoterapeuta di spostarsi dalla dimensione di presunto esperto a quella di adulto in grado di accogliere un reale disagio ha permesso a Stefania di trovare, nello spazio di pochi incontri, un luogo nel quale riflettere, per la prima volta, su modalità relazionali per lei sempre meno egosintoniche, quasi che l’approssimarsi della maturità – a conferma del peso degli eventi reali all’interno di questo contesto – l’avesse indotta a fare finalmente il punto su di sé. Nel caso di Marika l’adulto – incarnato dal corpo docente in senso lato – non sembra potersi offrire come tessuto connettivo per permettere un transito allo spazio di ascolto psicologico, né definirsi come luogo-altro per la ricezione di un messaggio laterale ma diffuso dentro la classe, un messaggio che sembra frantumarsi – come per effetto di una fragorosa caduta – in schegge di vetro. L’adulto in questo caso è fuori gioco perché non si offre, nell’esperienza della vittima di abuso e nemmeno in quella delle compagne di classe, come soggetto protettore e partecipe del dramma. Il genitore è seducente e abusante (agisce dunque con la lusinga e l’inganno), l’insegnante è sordo e respingente (si propone sulla modalità della negazione e dell’espulsione, aspetto che amplifica la portata del trauma nelle adolescenti), allo psicoterapeuta viene delegata in modo automatico e non condiviso ogni forma di richiesta. L’oggetto-trauma (l’abuso sessuale per mano di un padre) viene scisso e segregato nella segretezza della stanza della consulenza, con il desiderio che i soggetti – Marika e la psicoterapeuta – attivatori del trauma disorganizzante per la scuola (lo scompiglio tra le compagne) vengano definitivamente deportati. Ma con queste premesse identificatorie l’adolescente può permettersi una nuova identificazione? E lo psicoterapeuta può uscire dalla sostenuta schiera di oggetti desertificanti e vacui che l’adolescente in impasse ha così drammaticamente esperito e anche introiettato? È una conquista molto difficile questa sia per l’adolescente che per il clinico. Lo è ancor più per il clinico che opera entro le mura scolastiche. Resta una sfida da raccogliere, da trasformare sotto l’effetto dei vissuti di impotenza in cui lo stesso psicoterapeuta può incorrere, vissuti che non sembrano poter essere meglio stemperati nel panorama di relazioni significative adulto-adolescente che la scuola – in altri frangenti – può offrire in modo meno dissociato. In questi contesti lo psicoterapeuta è chiamato ad incarnare un modello massimamente contenitivo, ma al contempo declinato attraverso funzioni-guida. Per questo diviene fondamentale reperire i propri riferimenti interni sia per orientare il lavoro, sia per poterli realisticamente offrire come nuovo supporto identificatorio all’adolescente con l’obiettivo di prevenire un drop-out immediato o reattivo al drammatico avvicinamento a zone ad intensa valenza traumatica. Considerazioni conclusive Il rapporto tra le richieste della scuola superiore e la realtà della condizione adolescenziale risulta certamente molto articolato e – se vogliamo – anche contraddittorio: da un lato troviamo che i caratteri del pensiero – giunti al massimo delle loro potenzialità evolutive, orientati alla libertà di astrazione, al gusto del pensare e del formulare giudizi critici – si pongano come la migliore premessa per un forte impegno intellettuale, dall’altro rileviamo che l’intensa centratura narcisistica e compensatoria dell’adolescente su di sé, l’iperinvestimento sulla percezione della propria soggettività, emozionalità, corporeità, sessualità, nonché lo scontro tra il sapere e le verità affettive organizzano un ingombrante bagaglio che non necessariamente permette di giungere ad una lineare convergenza tra richieste di adattamento scolastico (cognitive e comportamentali) e urgenze di sviluppo. L’adulto dovrebbe, nel nostro osservatorio, avere sempre in mente la difficoltà di integrazione a cui l’adolescente è richiamato e quanto intensamente la scuola possa sollecitare, oscurare o anche far slatentizzare ed esplodere dinamiche legate ad uno sviluppo identitario ed emozionale disarmonico, rallentato, inceppato. Crediamo che la condizione necessaria affinché tale convergenza si realizzi fattivamente sia che l’adolescente possa sentire la scuola come un’occasione di sperimentazione positiva di sé e per sé, sede di riconoscimento e conferma di elementi necessari alla graduale conquista di nuove identità, Quaderno di Psicoterapia del Bambino e dell’Adolescente (2011) Vol. 33, pp. 63-82. 11 Lo psicologo nella scuola: quali richieste identificatorie ? di P.G. Tagliani e R. Vitali Gennaio - Giugno 2011 dove gli adulti si incontrino tra loro e con l’adolescente in un dialogo rispettoso, ma attento. È anche per questo che riteniamo fondamentale il lavoro di integrazione tra le figure adulte presenti nella scuola, figure che ci auguriamo possano uscire dalla tipica oscillazione che vede spesso modalità di funzionamento improntate ad un modello paterno rigidamente superegoico alternarsi a scelte di maternage iperprotettivo volto alla sola rassicurazione, in polarità contrapposte e poco fruibili per l’adolescente. Il ruolo dello psicologo nello spazio di ascolto dentro i confini delle mura scolastiche potrebbe allora essere, in questo frangente, anche quello di recuperare una funzione paterna (esercitata indipendentemente dal genere effettivo dell’operatore) che, lungi dall’incarnare un modello lineare di idealità da emulare o riprodurre, possa contenere in sé il seme di un pensiero critico tollerabile, affidabile, ma al tempo stesso “attivatore”. Un principio paterno che più che porsi come mera guida, sostenga il giovane ad acquisire propri strumenti di guida, ritessendo indirettamente un’aspettativa ottimistica rispetto al mondo degli adulti, non più identificato solo al dolore della rinuncia al piacere o alla frustrazione castrante imposta dalla realtà, ma anche capace, aperto ad accogliere e far maturare nuove opportunità di soddisfacimento di desideri, curiosità verso la vita e verso un nuovo Sé. BIBLIOGRAFIA BITTANTI E. (2005) Scuola e servizi: un’alleanza possibile. In: AA.VV. Oltre il disagio: percorsi di prevenzione. Atti del Convegno COSPES, Milano. BLANDINO G. e GRANIERI B. (1995) La disponibilità ad apprendere. Cortina, Milano. DE VITO E. e CODIGNOLA F. (1990) Il Centro di consultazione come spazio d’individuazione. Adolescenza, vol. 1, n. 2. GARGHENTINO R. (1998) Quando lo specialista entra nella scuola. In: L. FERRAROLI (a cura di) Il disagio degli adolescenti tra famiglia e scuola: difficoltà o risorsa? Elledici, Torino. IACCARINO B. (1988) Un modello di intervento psicologico con gli adolescenti: il Centro di consultazione breve. Rivista di Psicologia Clinica, n. 3. MAGGIOLINI A. (1987) Counseling a scuola. Franco Angeli, Milano. TRASFORINI M.A. (1991) La professione di psicoanalista. Bollati Boringhieri, Torino. Quaderno di Psicoterapia del Bambino e dell’Adolescente (2011) Vol. 33, pp. 63-82. 12