03 impa tipibraidesi/COLORE
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03 impa tipibraidesi/COLORE
martedì 31 gennaio 2006 ‘‘ ‘‘ ‘‘ ‘‘ Nelle prossime settimane “Braoggi” inizierà la pubblicazione del memoriale in cui l’ex artigliere racconta le proprie esperienze La sua è la storia di una famiglia povera, di origini contadine, nella quale i bambini dovettero ben presto cimentarsi nel lavoro... Giovanni Battista Fissore viaggia verso gli 86 anni e ricorda bene la tragedia di Russia vissuta in prima persona Il reduce alpino che odia la guerra G razie a mio padre, fin da piccola ho frequentato il mondo degli alpini. La sede dell’Ana di Cuneo è stata in un po’ la mia seconda casa: nelle vacanze estive, a cominciare dagli ultimi anni di scuola elementare, ci andavo con mio padre ogni lunedì e là passavamo tutta la mattinata, lui preso dai suoi molteplici impegni di presidente dell’Ana, io con i miei libri dei compiti delle vacanze. Mi sentivo la mascotte di tutte le “penne nere” che lo raggiungevano per parlare con lui e che mai mi facevano mancare un saluto affettuoso. Tanto che tra quegli alpini ne avevo eletto uno “papà FF (facente funzioni), Federico Beltrami, e uno “nonno FF”, l’indimenticabile Pompeo Vismara. In quegli anni ho cominciato a conoscere i reduci di Russia e ricordo uno a uno i loro volti e la commozione dei loro racconti. Anche il mio compleanno è sempre stato legato al mondo dei reduci: fino a quando è stato in vita, l’ho festeggiato in casa, con don Francesco Testa, lui nato il 17 aprile 1908, io lo stesso giorno di cinquant’anni dopo. Così, quando il mio direttore mi ha annunciato la prossima pubblicazione su Braoggi delle memorie di uno di questi reduci, vale a dire Giovanni Battista Fissore, braidese Doc, subito abbiamo concordato di farne uno dei nostri “tipi”. Classe 1920, il signor Fissore, artigliere alpino e reduce di Russia, ci ha offerto però, all’inizio della nostra conversazione, uno spaccato di come vivevano i bambini braidesi, in quegli anni, la loro infanzia. «Ho frequentato», racconta, «le scuole elementari, poi ho subito cominciato a lavorare. Ma al lavoro ero abituato già da qualche anno, perché durante le vacanze scolastiche i nostri genitori non ci lasciavano a giocare tutta l’estate, bensì ci mandavano a imparare un mestiere. Allora le famiglie non avevano grandi possibilità economiche e sarebbe stato impensabile far studiare tutti i figli. A casa mia la scelta di chi doveva continuare gli studi cadde sul figlio maggiore, Bernardo, che si diplomò in ragioneria e poi conseguì a Torino la laurea in economia e commercio. Ma anche per lui le vacanze coincidevano con un periodo di lavoro. Tutti noi abbiamo trascorso la pausa delle elementari lavorando: Bernardo da un calzolaio che aveva bottega sulla Rocca; io alla falegnameria “Grillo”, in via Vittorio, oltre la chiesa di San Giovanni; Sebastiano è stato destinato alla bottega del magnin che stava in via Umberto; Caterina faceva la sarta. Quando poi Giovanni Battista Fissore, classe 1920, accanto alla nostra Caterina Brero. Il “tipo braidese” di questa settimana ha messo nero su bianco i suoi ricordi della guerra, che lo portò prima sul fronte francese (ma la resa del Governo di Parigi ai tedeschi arrivò poche ore prima che con il suo battaglione di Artiglieria alpina iniziasse le ostilità), poi su quello greco-albanese e, infine, in Russia. “Braoggi” inizierà fra breve la pubblicazione a puntate di quello scritto, nel quale l’autore ribadisce anche le sue riflessioni sulle guerre del passato e odierne, che mettono di fronte persone che in realtà non hanno alcun motivo per scontrarsi. ho terminato la quinta elementare, ho continuato a lavorare da Grillo, poi da Milanesio, quindi da Stupino, un’autocarrozzeria, infine a Torino, in corso Orbassano, all’autocarrozzeria Chiabra e Bertolino. Nel frattempo mi sono iscritto a una scuola per corrispondenza (Scuole riunite per corrispondenza di Roma) e ho ottenuto un diploma come addetto ai motori. Tornando però agli anni della scuola elementare e della prima adolescenza, voglio sottolineare che eravamo in piena epoca fascista e c’era un gruppo di due o tre camicie nere che, durante le vacanze scolastiche, giravano per le strade della città e, se trovavano qualche giovane che stava al bar, indagavano sulle sue generalità e le sue abitudini, spronandolo a trovarsi qualcosa da fare... era un po’ un invito, un po’ un’imposizione». Poi è arrivato il servizio militare... «Non ancora ventenne, sono stato chiamato alle armi e mi hanno destinato all’Artiglieria alpina». Il massimo del bello, aggiungo io: bellissimi sono gli alpini, ma... gli artiglieri! «Prima sono stato a Beinette, poi a Cuneo. Noi del IV Reggimento eravamo accampati nei pressi di Frabosa Soprana quando ricevemmo l’ordine di recarci sul fronte francese: Mussolini aveva dichiarato la guerra. Raggiunta la Valle Maira noi della nona batteria dovevamo proseguire e piazzarci all’imbocco della valle dell’Otoré, nei pressi dei fortini francesi, e liberare la strada alle truppe alpine dirette verso il fondovalle. Per arrivare alla zona di destinazione ci toccava scendere lungo un pendio ghiacciato, ma i muli, che trasportavano i pezzi dell’obice, non riuscivano a proseguire. Allargammo dei teloni sulla neve e, uno alla volta, li facemmo scivolare coricati fino al fondo del canalone, e dietro di loro tutto il materiale in dotazione. La sera del 23 giugno arrivammo sul luogo prestabilito e il giorno dopo avremmo dovuto cominciare a sparare ai francesi. Alle 5 del mattino del 24 giugno invece giunse la notizia che i tedeschi avevano sottoscritto l’armistizio con la Francia. Decidemmo allora di andare a trovare i francesi ai fortini, e loro ci accolsero con caffè caldo e cioccolato. Alcuni di loro avevano studiato o lavorato a Torino e parlavano il torinese in maniera ineccepibile. Nel mio cuore e nella mia testa di ventenne una sola domanda: perché avremmo dovuto sparare contro chi era praticamente un nostro fratello? Questa è l’assurdità della guerra! “Noi abbiamo perso la guerra”, mi disse uno di loro, “però abbiamo finito. Voi avete vinto, ma non avete ancora terminato”. Mai mi fu detta cosa tanto vera!». Dopo il confine francese vennero la Grecia, l’Albania e la steppa russa, campagna, quest’ultima, che lei ha definito “muli contro carri armati”. La sua storia, passo a passo, i nostri lettori la troveranno presto, a puntate, su Braoggi, ma quali sono i momenti particolari, soprattutto sul piano umano, che lei ricorda di più? «In Albania ero puntatore al pezzo, quindi non ho avuto molti contatti con la popolazione locale. I russi? Gente buona, gente che dopo che ci aveva conosciuto un poco più a fondo e superata quindi la paura, apriva il cuore e ci raccontava la loro storia e lo loro storie, i massacri e le storie pazzesche dello stalinismo. Destra, sinistra, ma che storie sono queste? Se si vuole il bene dei popoli, la strada è una soltanto, alla ricerca e alla produzione del benessere per tutti. La 3 LA CARTA D’IDENTITÀ ■ DATI ANAGRAFICI Giovanni Battista Fissore nasce a Bra il 19 settembre del 1920. I suoi genitori, Francesco e Maria Verrua, subito dopo il matrimonio si sono trasferiti a Bra, in via Giovanni Piumatti: Maria, che si occupa della casa e della famiglia, è originaria della frazione Riva; Francesco arriva da Ca’ del Bosco, dove ha sempre lavorato nella cascina di famiglia, e anche dopo il matrimonio e il trasferimento sotto la Zizzola continua a fare il contadino. I due hanno quattro figli: Bernardo, Giovanni Battista, Sebastiano e Caterina. Nel dicembre del 1953 Giovanni Battista si sposa con Rosina Mollo, nativa di Monticello. Dal loro matrimonio nascono Patrizia, che ha due figlie, Fabiana e Francesca, e Franco. ■ STUDI E PROFESSIONE Giovanni Battista frequenta a Bra le scuole elementari, poi comincia subito a lavorare, prima come falegname (lavoro che svolgeva già da piccolissimo, durante le vacanze scolastiche), poi come autocarrozziere. Gli anni della prima gioventù, e anche un po’ oltre, se li portano via il servizio militare e la seconda guerra mondiale. Con la moglie, a Bra ha creato una delle più prestigiose aziende italiane del settore dell’intimo, la “Faber”. Oggi è pensionato e, soprattutto, nonno di due nipoti di cui è particolarmente, a ragione, orgoglioso. ● produzione della guerra è la distruzione di un popolo. La guerra può aver senso solo là dove si costringono gli uomini e i popoli a misfatti collettivi che distruggono l’uomo e la sua dignità. La “guerra” può essere portata avanti, ad esempio, là dove si costringe un popolo a produrre la droga o, almeno, ci si deve impegnare a risolvere questi problemi. Diversamente non ha nessun senso». Il popolo russo, quindi, si è dimostrato, verso gli alpini, un grande popolo? «Ho cercato di imparare la loro lingua, per poterli conoscere meglio. I contatti giornalieri con loro, persone dal viso bonario che mi facevano sentire come se fossi in mezzo alla nostra gente di campagna, mi hanno fatto capire la loro sofferenza per l’impossibilità di esprimere liberamente il proprio pensiero a causa dei divieti imposti dal loro Governo, specie per quanto riguardava la religione. Ci accoglievano, condividevano con noi il poco che avevano e sempre cercavano di offrirci il meglio, privandosene loro. Una coppia anziana, con quattro figli al fronte dei quali non avevano più no- Giovanni Battista Fissore, come reduce di Russia, ha anche avuto l’occasione di narrare le sua esperienza diretta ai ragazzi delle scuole di Bra. tizie da quando erano partiti, propose a me e a un mio commilitone di rimanere come figli. Eravamo come loro: forgiati dai nostri genitori al lavoro e all’onestà, combattevamo una guerra non nostra e avevamo dentro la certezza che un mondo di pace si ottiene solo avvicinandosi gli uni agli altri». Ho imparato, frequentando tanti reduci di Russia, ad ascoltare, senza mai chiedere oltre. Perché troppe volte li ho visti interrotti nei loro racconti dalle lacrime e da una commozione talmente forte che più che commozione è dolore: dolore per le sofferenze sopportate, la fame, il freddo, gli amici morti accanto e l’impossibilità di farli camminare ancora nella tremenda steppa russa, i piedi e le mani congelati, l’angoscia di non poter più fare ritorno a casa. Sono sicura che certe cose non potranno mai raccontarle, perché ci hanno voluto e ci vogliono proteggere dalla crudeltà assoluta della guerra. Non ho mai conosciuto un reduce di Russia che amasse la guerra o in qualche modo l’esaltasse. Avevano vent’anni e hanno obbedito al loro Paese. Ho solo conosciuto alpini della Cuneense sopravvissuti al disastro della ritirata di Russia che mi hanno raccontato degli aiuti ricevuti dalla popolazione russa o dai loro compagni alpini (un sorso di anice a combattere il freddo, un pezzo di pane o una patata divisa in due) ma mai mi hanno parlato degli stessi gesti, che certamente hanno compiuto, fatti da loro. Giovanni Battista Fissore ha un sogno nel cassetto: tornare là, trovare ancora qualcuno di allora e farli conoscere alla moglie e alle nipotine. Mi piacerebbe essergli accanto, quando avverrà. E tengo ben strette le sue parole: «Le guerre? Pazzie, niente altro che pazzie! È una vergogna che secoli di guerre non ci abbiano insegnato nulla. Sulla terra ci sono innumerevoli “battaglie” da fare portare avanti per vivere bene e far vivere bene il mondo intero!». Caterina Brero