Ogni volta che un infortunio sul lavoro o una malattia professionale
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Ogni volta che un infortunio sul lavoro o una malattia professionale
CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI ROMA Dipartimento Centro Studi - Formazione e Crediti formativi Progetto sul Diritto del Lavoro Newsletter del Progetto sul Diritto del Lavoro Numero 7 – SETTEMBRE 2013 Sono lieto di presentare il settimo numero della Newsletter, frutto dello studio dei componenti del Progetto sul Diritto del Lavoro e del coordinamento scientifico dell’Avv. Luciano Tamburro, coordinatore del Progetto. Il Consigliere delegato al Progetto sul Diritto del Lavoro Avv. Fabrizio Bruni PROGETTO SUL DIRITTO DEL LAVORO CONSIGLIERE DELEGATO: Avv. Fabrizio Bruni COORDINATORE: Avv. Luciano Tamburro INFORTUNI SUL LAVORO E RISARCIMENTO DEL DANNO Di Marco Gambacciani, Mauro Petrassi, Andrea Rossi, Antonino Sgroi Ogni volta che un infortunio sul lavoro o una malattia professionale derivano da un comportamento illecito, la vittima acquista il diritto ad ottenere sia il trattamento previdenziale assicurato dall’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, purché ricorrano i requisiti di legge per l’ammissione alla tutela, sia il risarcimento integrale del danno eventualmente patito dovuto dal responsabile. In presenza di un fatto illecito, perciò, sorgono in capo al danneggiato due diritti soggettivi perfetti, aventi fondamento costituzionale, la cui soddisfazione, però, è collegata a due rimedi non sempre cumulabili giacché il conseguimento dell’indennizzo, sottoposto ad un regime di disponibilità relativa, o preclude il diritto al risarcimento del medesimo danno oggetto della tutela sociale, nei casi in cui l’autore dell’illecito goda del parziale esonero dalla responsabilità civile (art. 10, d.P.R. n. 1124/65) o, quanto meno, nella generalità dei casi, ne riduce la consistenza in misura pari all’importo ricevuto dall’assicuratore sociale. Infatti, come avviene ancora nel più recente assetto, il risarcimento cede il passo all’indennizzo in mancanza di una fattispecie di reato perseguibile d’ufficio (art. 10, co. 2, d.P.R. n. 1124/65), la cui ricorrenza non consente, comunque, il cumulo proprio perché il lavoratore danneggiato può pretendere il risarcimento nei limiti del cd. danno differenziale, esattamente la differenza, se esistente, tra il risarcimento complessivo dovuto e l’indennizzo erogato (art. 10, co. 6 e co. 7 del d.P.R. n. 1124/65). Il rimedio risarcitorio subisce, altresì, un ridimensionamento a causa del diritto di surrogazione (art. 1916 c.c.), esercitabile anche nei confronti dell’impresa di assicurazione per la rca (art. 142, d. lgs. n. 209/2005), attribuito all’assicuratore sociale, che può ottenere, nei limiti delle somme liquidate in ambito civile a titolo di risarcimento, la condanna del responsabile civile al rimborso di quanto in precedenza erogato in favore della vittima dell’infortunio, il cui diritto di credito, perciò, pur non essendo condizionato alla ricorrenza di un reato perseguibile d’ufficio, rimane circoscritto alle somme che residuano (c.d. danno differenziale), una volta soddisfatta la pretesa dell’assicuratore sociale, che abbia manifestato la volontà di subentrare nel diritto di credito del lavoratore assicurato. Pertanto, sin dall’istituzione dell’assicurazione obbligatoria, il risarcimento vantato dal lavoratore infortunato nei confronti del responsabile ha fatto i conti con l’indennizzo assicurativo, subendo un inevitabile ridimensionamento. Nel diritto positivo non si rinviene una definizione di danno differenziale; tale espressione è stata ricavata dal testo dell’art. 10, d.P.R. n. 1124/65, in cui si legge “non si fa luogo a risarcimento qualora il giudice riconosca che questo non ascende a somma maggiore dell'indennità che, per effetto del presente decreto, è liquidata all'infortunato o ai suoi aventi diritto” (art. 10, co. 6) e “quando si faccia luogo a risarcimento, questo è dovuto solo per la parte che eccede le indennità liquidate a norma degli artt. 66 e seguenti” (art. 10, co. 7). A seguito dell’intervento della Corte Costituzionale (sentenze n. 319/89, nn. 356 e 485 del 1991), l’espressione danno differenziale ha assunto una valenza più circoscritta, rappresentando la differenza tra il risarcimento dovuto per le poste di danno comprese nella tutela sociale e l’indennizzo assicurativo versato alla vittima. Accanto al danno differenziale si colloca il danno complementare che, invece, rappresenta il coacervo di danni, riportati dal lavoratore, estranei alla tutela sociale. I danni complementari non subiscono la regola del parziale esonero ed il loro risarcimento spetta, in via esclusiva, alla vittima dell’infortunio, secondo le regole del diritto primo. Il calcolo del danno differenziale, quantitativo e qualitativo, non è stato operato sempre con le medesime modalità, ma si è modificato nel corso del tempo, con alterne vicende, che non possono essere trattate, per ovvie ragioni di spazio, nell’ambito di una newsletter. Preme, invece, evidenziare che a partire dalle pluriannotate sentenze, pubblicate nel novembre del 2008, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, chiamate a risolvere gli insanabili contrasti sorti, anche in sede di legittimità, sull’autonomia o meno del danno esistenziale, sviluppando la tesi già sostenuta nelle sue precedenti decisioni pronunciate in composizione semplice, riguardo l’unitarietà del danno non patrimoniale, confermavano la struttura in forma bipolare del sistema risarcitorio, escludevano l’autonomia del danno esistenziale e riaffermavano con forza che “il danno non patrimoniale è categoria generale non suscettiva di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate” (punto 3.13), che “il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno” (punto 4.8), giungendo, infine, all’estrema conclusione, poi ribadita, dopo soli tre mesi, che “determina duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale” (punto 4.8). Il danno biologico, pertanto, a dire delle Sezioni Unite, diveniva un collettore di tutti i pregiudizi alla persona, i quali in precedenza avevano dato origine ad autonome fattispecie di danno, che continuavano a conservare una dignità solo a fini puramente descrittivi. Dopo l’autorevole dictum reso a sezioni unite la giurisprudenza, soprattutto di merito, era chiamata ad un nuovo arduo compito: quello di individuare le modalità di applicazione del principio di diritto affermato a sezioni unite in presenza di danno alla persona riportato da un lavoratore in precedenza indennizzato dall’INAIL che, nel frattempo, a partire dal 25 luglio 2000, aveva iniziato ad indennizzare la lesione all’integrità psico-fisica suscettibile di valutazione medico legale (art. 13, d. lgs. n. 38/2000). La giurisprudenza di merito si è spaccata, dando origine a due opposti orientamenti. Precisamente, nelle controversie promosse dal lavoratore infortunato nei confronti del datore di lavoro, ritenuto responsabile dell’infortunio, la magistratura di merito, pur riferendosi ai nuovi criteri di liquidazione introdotti dalle Sezioni Unite, ha continuato a liquidare il danno avvalendosi delle varie categorie, tradizionalmente comprese nel danno non patrimoniale, come l’invalidità temporanea, l’invalidità permanente, il pregiudizio delle condizioni soggettive, nonché la personalizzazione in ragione delle altre componenti del danno extra-patrimoniale, per poi procedere al calcolo del danno differenziale spettante alla vittima dell’infortunio attraverso la differenza tra danno civilistico complessivo, comprensivo anche dei pregiudizi non indennizzati in ambito sociale, ed erogazione previdenziale con una compressione della liquidazione civilistica operata per le poste estranee alla tutela previdenziale. Secondo questo primo orientamento, attento al rispetto formale dell’arresto delle Sezioni Unite, il giudice – una volta liquidato il danno non patrimoniale civilisticamente risarcibile e conseguente alla lesione del bene salute – non può fare altro che raffrontare tale importo, senza ulteriori e non più consentiti distinguo, con il quantum erogato dall’ente a titolo di danno biologico, accogliendo la domanda di surroga per l’intero relativo ammontare (nei limiti dell’importo risarcitorio liquidato) e riconoscendo in capo al danneggiato il diritto al risarcimento dell’importo differenziale. Altri giudici di merito, pur procedendo alla liquidazione unitaria del danno extrapatrimoniale, hanno continuato a distinguere, per lo meno a livello descrittivo, le tre sottocategorie di danno, conservando una liquidazione differenziata dei profili di danno che compongono il danno extra-patrimoniale. L’opinione appena citata è stata suffragata con la triplice considerazione che la nozione di danno non patrimoniale, sebbene unitaria, non sia monolitica, perché include tutti i molteplici pregiudizi alla persona non suscettibili di valutazione economica, il cui accertamento e valutazione rimane doveroso per il giudice di merito, che il diritto positivo continua a prevedere profili di danno estranei all’indennizzo sociale, sottratti all’azione di rivalsa dell’Istituto e che la liquidazione del danno non patrimoniale, che ha carattere omogeneo, può essere scomposta secondo le causali o pregiudizi da cui ha avuto origine. La questione, ancora controversa, attende di essere risolta con una pronuncia chiarificatrice da parte della Suprema Corte.