Appunti per un`interpretazione filosofica dell`attuale crisi economico

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Appunti per un`interpretazione filosofica dell`attuale crisi economico
Simone Ratti1
Appunti per un'interpretazione filosofica
dell'attuale crisi economico-finanziaria
Da circa due anni, in Europa, viviamo all’interno di quella che i mezzi di comunicazione
di massa hanno chiamato “crisi del debito sovrano”; tale crisi, che all’inizio sembrava interessare solo i paesi più deboli dell’Unione Europea (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna, i
cosiddetti “P.I.G.S.”) dalla fine del 2011 ha, come tutti sappiamo fin troppo bene, toccato direttamente anche l’Italia, giungendo a minacciare economie apparentemente inattaccabili
come quella francese e, più in generale, mettendo a repentaglio la stessa sopravvivenza della
moneta unica.
La crisi del debito sovrano europeo, però, è stata preceduta dalla “crisi dei mutui subprime”, che ha causato il fallimento di grandi banche d’affari, la crisi delle borse di tutto il pianeta ed ha innescato – in modi che dovrebbero essere studiati con maggiore attenzione di
quanto si sia fatto sinora – la crisi dell’economia mondiale in cui ci troviamo ancora immersi.
Non sono un economista e, di conseguenza, non cercherò di fornire una spiegazione tecnica dell’andamento della crisi e, tanto meno, tenterò di proporre soluzioni o di azzardare
previsioni su se, come e quando usciremo dalla situazione in cui ci troviamo. Tuttavia, essendo stato toccato personalmente, sotto il profilo emotivo, economico, lavorativo,
dall’attuale crisi, ho cercato, con i miei limitati mezzi, di comprenderla e vorrei rendere pubbliche alcune ipotesi, alcune idee che ho maturato nel corso di questi mesi, nella speranza di
fornire spunti di riflessione che alimentino un dibattito utile ad illuminare la situazione attuale.
Innanzitutto vorrei dire che l’attuale crisi economico-finanziaria, per la sua durata, gravità ed estensione, mi ha portato a convincermi che il modello di sviluppo egemone a livello
planetario, cioè il capitalismo, l’economia di mercato, almeno per come è concepita e praticata per lo più, debba ormai essere considerato insostenibile e non più perseguibile. Detto in
altri termini: penso sia assolutamente necessario ripensare il modello di sviluppo economico
a livello globale e ritengo che l’attuale crisi, con la sua drammaticità, costituisca un’occasione unica di riflessione e ripensamento; sono convinto del fatto che se si uscisse dalla crisi
odierna mediante soluzioni meramente tecniche, senza cambiare le “regole del gioco” della
finanza e dell’economia a livello globale, si ripiomberebbe, nel giro di breve tempo, in
un’altra crisi, probabilmente ancora più devastante. Purtroppo, a giudicare da quanto si
1 Docente di Filosofia e Storia, liceo G. Ferraris, Varese.
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ascolta dai notiziari e si legge sui principali organi di stampa, non sembra che si stia andando in questa direzione, ma che ci si concentri esclusivamente sulle singole emergenze per
tentare di escogitare “rimedi tampone”, che ovviamente non eliminano le cause dei problemi.
Per risolvere veramente l’attuale crisi, per uscire da questo “tunnel” evitando di imboccarne un altro subito dopo, bisognerebbe invece, evidentemente, andare alla ricerca delle sue
radici, per tentare di estirparle. Ciò che vorrei fare con questo mio breve scritto è portare un
piccolo contributo a questa improcrastinabile ricerca.
In un suo recente saggio2 Zygmunt Bauman, il teorico della “modernità liquida”, parla
della “voglia di comunità” che, a suo dire, caratterizza le città e società del mondo globalizzato. La nostra vita, afferma Bauman, è contraddistinta soprattutto da due elementi: isolamento e insicurezza. La globalizzazione soffre di contraddizioni sistemiche e, di conseguenza, pone dei problemi comuni, ai quali però, a causa dell’isolamento in cui vive, ciascuno di
noi tenta di trovare delle soluzioni personali, che, in quanto tali, non incidono sulle cause sistemiche dei problemi e sono, quindi, votate al fallimento, andando in questo modo ad accrescere il senso di isolamento ed insicurezza iniziali.
“La comunità ci manca […] Ma la comunità resta pervicacemente assente”3 perché da
una parte desideriamo il calore e la sicurezza promessi dall’immagine mitizzata della comunità perduta, dall’altra non vogliamo rinunciare a nulla della nostra libertà individuale, libertà conquistata nel corso dei secoli proprio grazie alla dissoluzione delle comunità e che ha
portato alla condizione di isolamento ed insicurezza da cui vorremmo, contraddittoriamente,
uscire.
Esiste quindi, secondo Bauman, un’antinomia, tra libertà e sicurezza, a causa della quale
non riusciamo ad uscire dalla insoddisfacente situazione in cui ci troviamo.
Libertà e sicurezza sono, secondo il grande sociologo polacco, due esigenze fondamentali dell’uomo. L’uomo non può vivere senza libertà, ma neppure senza sicurezza, tuttavia tra
le due c’è un rapporto inversamente proporzionale: più cresce l’una, più diminuisce l’altra.
Il destino dell’uomo, quindi, è quello di dover sempre ricalibrare il rapporto tra questi due
beni indispensabili, senza poter mai raggiungere un punto di equilibrio pienamente soddisfacente. Nelle società più sicure l’uomo soffrirà a causa di una carenza di libertà, viceversa in
quelle più libere, ed è, secondo Bauman, il caso delle nostre società globalizzate, si troverà a
disagio a causa del “senso di insicurezza”.
Tale presupposta antinomia tra libertà e sicurezza ci indirizza sulla strada da percorrere
per tentare di individuare le radici dell’attuale crisi economico-finanziaria; esse non vanno
ricercate all’interno dell’attuale sistema economico-finanziario, perché questo sistema è un
effetto, non la causa del problema.
Le radici della crisi odierna affondano, a mio avviso, nella cultura moderna e, in particolare, in quella concezione di uomo come individuo autonomo ed autosufficiente che, dopo
2 Voglia di comunità, Laterza, Bari 2001.
3 Bauman, cit. Prefazione, pag. V.
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essere stata elaborata ed essersi affermata nell’ambito di tale cultura, ha dispiegato concretamente tutti i suoi effetti nell’ambito della contemporaneità.
Prima di illustrare che cosa intendo con l’espressione “individuo autonomo ed autosufficiente” e di evidenziare i motivi per cui ritengo che questa immagine dell’uomo stia alla
base della attuale crisi, vorrei ancora far riferimento al già citato saggio di Bauman.
Nel quarto capitolo, intitolato La secessione dell’uomo affermato4, Bauman, parlando
della nuova élite globale, introduce il concetto di “extraterritorialità”: “La nuova élite non è
definita da alcun luogo geografico, è completamente extraterritoriale. Solo l’extraterritorialità garantisce l’esistenza di un’area priva di comunità, ed è proprio questo tipo di area che
la nuova «élite globale» […] desidera”.5
Gli esponenti della nuova élite globale, dunque, non hanno alcuna “voglia di comunità”,
anzi, desiderano uno spazio in cui la comunità non esista, per un motivo molto semplice:
“…non vedono più cosa lo stare nella e con la comunità possa offrire loro che essi non abbiano già acquisito o sperano di poter acquisire in modo autonomo, mentre, per contro, vedono fin troppo bene tutti i vantaggi che l’assolvimento degli obblighi di solidarietà comunitaria rischierebbe di far perdere loro.”6
I membri di questo ristretto gruppo di privilegiati si considerano, e per molti aspetti sono,
degli individui autonomi ed autosufficienti, che seguono leggi proprie e non hanno bisogno
degli altri per vivere ed affermarsi. Ma questo loro ritenersi (assolutamente) ed essere (in
parte) autonomi ed autosufficienti dipende dal fatto che questi soggetti non percepiscono
più, perché li hanno il più possibile allentati, i legami con le comunità da cui provengono e
con le culture e tradizioni che “sorvolano”. Questi dirigenti globali7: “vivono e lavorano in
un mondo fatto di continui viaggi tra le principali metropoli del globo […] Trascorrono non
meno di un terzo del loro tempo all’estero. Quando sono all’estero, la gran parte dei convenuti ha dichiarato di tendere ad interagire e socializzare con altri “globalizzatori” […] Ovunque vadano, alberghi, centri di salute, ristoranti, uffici ed aeroporti sono tutti praticamente
identici. In un certo senso vivono in una sorta di bolla socioculturale, avulsa dalle principali
differenze che caratterizzano le culture nazionali.”
Questi dirigenti hanno completamente perso il contatto con le loro società e culture di
appartenenza e, nonostante i loro continui viaggi, non entrano mai veramente in relazione
con le culture e società di quei paesi in cui insediano le filiali delle proprie imprese. È ovvio,
di conseguenza, mancando la relazione, che questi soggetti si sentano e siano irresponsabili
nei confronti di tali culture e società.
Tale mancanza di relazione e di responsabilità, però, non riguarda solo questa ristretta
élite, ma, in forme diverse (che non implicano i privilegi di questo piccolo gruppo di dirigenti, anzi, producono solitamente l’isolamento e l’insicurezza di cui parlavo precedentemente) interessa sempre più un numero sempre maggiore di persone.
4 Espressione tratta, come ricorda lo stesso Bauman, da The Work of Nations, di Robert Reich.
5 Bauman, cit., pag 53.
6 Bauman, cit., pag 50.
7 Come emerge dalle interviste fatte dai ricercatori della University of Virginia nell’ambito di uno “Studio sulla
globalizzazione culturale”; cfr. The Cultural Globalization Project, in Insight, 2000, University of Virginia, Institute of
Advanced Studies in Culture, pp. 3-5.
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Il concetto di extraterritorialità introdotto da Bauman presenta numerose analogie con
quello di “nonluogo”, formulato dall’antropologo e sociologo francese Marc Augé.
Gli esponenti della nuova élite globale passano la maggior parte del loro tempo in quelli
che Augé definirebbe nonluoghi e la stessa “bolla socioculturale” citata dai ricercatori della
University of Virginia potrebbe essere definita complessivamente come un grande nonluogo.
I nonluoghi di cui parla Augé sono ad esempio gli aeroporti, o le stazioni dei treni e del
metrò; ma anche gli autogrill, i supermercati o le catene di fast food, oppure i parchi divertimento come Disneyland o Gardaland. Ma anche le periferie delle città o i centri storici possono essere o diventare, in determinate circostanze, nonluoghi, così come i villaggi vacanze
o le mete predilette del turismo di massa.
In generale i nonluoghi sono i luoghi del transito e del consumo di massa, contraddistinti
da incontri casuali e fugaci, dalla instabilità delle relazioni che vi si intrecciano, dall’anonimato reciproco di coloro che vi si incontrano, dalla standardizzazione estetica delle strutture, dalla ripetitività e meccanicità dei gesti che vi si compiono; sono spazi che non consentono, o rendono problematico ed improbabile, l’instaurarsi di relazioni stabili e, quindi, di
identità solide, di storicità, di responsabilità.
Il concetto di nonluogo è stato elaborato da Augé in contrapposizione a quello di “luogo
antropologico”, che, invece, è lo spazio: “…occupato dagli indigeni che vi vivono, vi lavorano, lo difendono, ne segnano i punti importanti, ne sorvegliano le frontiere, reperendovi
allo stesso tempo la traccia delle potenze ctonie o celesti, degli antenati o degli spiriti che ne
popolano e ne animano la geografia intima…”8.
Il “luogo”, antropologicamente inteso, è uno spazio contrassegnato da relazioni forti e
stabili, perché vi si nasce, vi si cresce e vi si muore; uno spazio identitario, perché coloro
che lo abitano si conoscono e si riconoscono vicendevolmente come simili ed appartenenti a
quel luogo e come diversi da chi non ci vive e non vi appartiene; uno spazio storico, perché
porta scritta su di sé la memoria degli avvenimenti passati e fornisce il senso degli avvenimenti futuri.
Il luogo antropologico è, in sintesi, uno spazio comunitario: è quel posto – in parte reale,
in parte mitico – in cui tutti si conoscono e si aiutano reciprocamente; in cui chi cade trova
sempre qualcuno che lo aiuta a rialzarsi; in cui l’altro non è uno “straniero”, un nemico da
temere o un concorrente da sconfiggere, ma un amico di cui ci si può fidare. È quella dimensione contraddittoriamente sospirata da chi vorrebbe goderne i frutti (la sicurezza) senza pagarne il conto (i legami e la responsabilità nei confronti degli altri). È quello spazio che è
considerato inutile da chi, ricco e potente, pensa di poterne fare a meno.
In un mondo, come quello odierno, sempre più globalizzato e standardizzato, sempre più
caratterizzato dall’eccesso9, dalla velocità con cui si spostano merci, persone, informazioni,
8 Marc Augé, cit. pag. 43.
9 Augè definisce la contemporaneità non come postmodernità (che viene dopo la modernità e la nega), ma come surmodernità (dal francese surmodernité, che si potrebbe tradurre anche con “sovramodernità”), cioè come “supermodernità”, che non nega la modernità, ma la invera radicalizzandola. La surmodernità, secondo Augé, è caratterizzata da
tre “figure dell’eccesso”: l’eccesso di tempo, l’eccesso di spazio e l’eccesso di ego.
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denaro (soprattutto virtuale), sempre più “liquido” e precario, i luoghi e le comunità sono in
via d’estinzione, mentre si assiste, per converso, ad una proliferazione dei nonluoghi.
Io ritengo che tra la proliferazione dei nonluoghi, l’extraterritorialità della nuova élite e
l’attuale crisi economico-finanziaria ci sia un rapporto molto stretto, in quanto tutti questi
fenomeni sono figli di una concezione individualistica dell’uomo che è stata prefigurata dalla cultura tardo-medievale e umanistico-rinascimentale, si è affermata nel corso dell’epoca
moderna ed è giunta a piena maturazione nel corso del XX secolo; quella concezione che
rappresenta l’ “Io”, il “Soggetto”, come “individuo autonomo ed autosufficiente”.
Questo modo di rappresentare l’io è il frutto di una serie di astrazioni, della separazione
del soggetto dalla “rete” di relazioni in cui si trova gettato e rapportandosi alla quale si sviluppa e si afferma; in particolare è frutto della astratta separazione tra il soggetto e la comunità (o società), tra l’ “Io” e l’ “Altro”.
Gli intellettuali dell’epoca moderna tendono a presentare l’uomo come un soggetto astorico, fornito di un’identità sostanzialmente monolitica, compiuta e stabile: un individuo che
pensa ed agisce “spontaneamente”, fondandosi esclusivamente su regole interne; un “io
puro”, perfettamente autonomo ed autosufficiente, che è sempre uguale a se stesso e che entra in relazione con altri soggetti puri, altrettanto autosufficienti ed autonomi. Da qui, da
questa concezione dell’uomo, deriva il concetto di libertà come “possibilità di fare tutto ciò
che non nuoce agli altri”, presente nella costituzione francese del 1793 e ancora largamente
alla base delle nostre costituzioni e democrazie.
Tale concezione della libertà implica che gli uomini siano pensati come delle specie di
monadi, le cui “sfere di libertà” si limitano vicendevolmente. Questo modo di pensare la libertà rende impossibile o, comunque, molto problematica un’autentica “apertura
all’Altro10”, proprio perché presuppone un “io” concepito come qualcosa di monolitico e in
sé conchiuso. L’Altro, di conseguenza, non viene accolto e accettato per ciò che è, non viene
considerato realmente (al di là della retorica e dei discorsi politically correct) come
“un’opportunità” e “una risorsa”, ma viene concepito come un limite, di fronte al quale si
possono assumere atteggiamenti diversi, ma tutti comunque volti a negarne il diritto ad esistere in quanto Altro. L’Altro, pensato e percepito come limite e “non-io”, può essere “tollerato”, come se fosse una specie di “male necessario” da sopportare con cristiana rassegnazione; oppure può essere, per quanto possibile, evitato e rimosso, e quindi, nel caso in cui
questo Altro sia un essere umano: ignorato, emarginato, segregato, o, al limite, fisicamente
eliminato; infine, la terza opzione fondamentale disponibile nei confronti dell’Altro-limite è
quella dell’assimilazione, cioè il tentativo, che può essere perseguito in modi molto diversi a
seconda dell’alterità da assorbire e, in alcuni casi, addirittura spacciato come un atteggiamento altruistico, di “togliere l’Altro rendendolo come l’io”.
Tale concezione della libertà e dell’io, che pensa e percepisce l’Altro fondamentalmente
come limite e non-io, si scontra con un'altra “contraddizione”, con un altro e più subdolo li10 Con il termine “Altro”, scritto con l’iniziale maiuscola, intendo significare tutto ciò che si presenta come altro rispetto all’ “Io” e, di conseguenza: innanzitutto tutti gli altri uomini; in secondo luogo il “mondo”, cioè la “realtà esterna
all’io e ad esso correlata”, e quindi ciò che potremmo chiamare “natura”, ma anche le “cose” prodotte dall’uomo; in
terzo luogo, per chi ne ammette l’esistenza, la dimensione sovrannaturale e trascendente; infine il cosiddetto “inconscio”, cioè quell’altro interno all’io con il quale quest’ultimo costantemente e variamente si relaziona.
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mite che mi sembra strettamente connesso con questa crisi e, più in generale, con le crisi che
hanno interessato il capitalismo dalla rivoluzione industriale in poi: si tratta del limite, strutturalmente ineliminabile, che l’io incontra in se stesso.
“L’io è un rapporto che si rapporta a se stesso”, diceva Kierkegaard e, rapportandosi a sé,
incontra il proprio limite, scoprendosi finito. La scoperta della propria finitezza porta l’io,
secondo il grande filosofo danese, ad una doppia, ma in fondo unica, disperazione: la disperazione che l’io vive nel momento in cui tenta di farsi infinito e la correlativa disperazione
che esso vive quando tenta di eliminarsi, di togliersi di mezzo, pur rimanendo se stesso.
Il tentativo dell’io, strutturalmente destinato al fallimento, di diventare infinito, coincide
con il contraddittorio tentativo di eliminarsi pur continuando ad esistere, perché è impossibile per l’io diventare infinito fino a quando rimane io.
Tale contraddittorio sforzo o, per dirla fichtianamente, streben, deriva, a mio parere, dal
concepirsi dell’io come qualcosa di autonomo e autosufficiente.
Per essere veramente autonomo ed autosufficiente l’io dovrebbe essere infinito, dovrebbe essere (esista o non esista effettivamente) Dio; ma così non è, e la propria finitezza è,
contemporaneamente, un dato di fatto con cui l’io quotidianamente si scontra (dato di fatto
rappresentato dall’Altro con cui l’io è costantemente in relazione) e l’orizzonte ultimo in cui
è inserita la sua esistenza, cioè la consapevolezza che l’io ha della sua morte, la certezza di
non poter sfuggire a questa “possibilità di tutte le possibilità”.
Tale consapevolezza di non essere infinito, unita all’impossibilità, derivante dal suo concepirsi come autonomo ed autosufficiente, di accettare la propria finitezza, porta l’io non
solo a non poter mai restare “presso l’Altro”, anzi, a cercare costantemente di rimuoverlo,
ma anche, e forse soprattutto, a non poter mai restare “presso di sé”, perché per un soggetto
che concepisce se stesso in questo modo, il proprio limite è l’alterità più inaccettabile, quella che deve essere ad ogni costo eliminata o, almeno, costantemente allontanata. L’io autonomo ed autosufficiente quindi, paradossalmente, passa la propria esistenza a cercare di fuggire da se stesso e dai propri limiti (innanzitutto il dolore e la morte) percependoli e pensandoli come “altro” rispetto a sé. E’ un soggetto che quanto più tenta di autofondarsi e di fissare in se stesso il proprio centro, tanto più sfugge a se stesso. In questa impossibile impresa di
autofondazione l’io incontra costantemente in se stesso i propri limiti e, interpretandoli
come altro da sé, costantemente cerca di espellerli, dando vita ad un infinito processo di autofagia dell’io e di autopoiesi dell’altro.
Da questa impossibilità di sostare, di risiedere presso di sé derivano, a mio parere, molte
delle contraddizioni del sistema economico capitalista e della contemporaneità, a partire dalla loro necessaria ed inarrestabile “tensione verso il futuro” e verso il “nuovo”.
Osserviamo, ad esempio, il funzionamento delle borse: è vero che il valore di un’azione
viene determinato sulla base di una serie di parametri che tengono in considerazione il presente e la storia di una determinata società (ciò che quella società è stata ed è), ma tali indicatori vengono presi in considerazione soltanto per cercare di prevedere se e quanto quella
società potrà crescere in futuro e, di conseguenza, se e quanto potrà apprezzarsi il valore
delle sue azioni.
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Facebook e la Apple, recentemente, nonostante i loro passati successi e il loro florido
presente, hanno avuto alcune disavventure; il valore dei loro titoli, in borsa, ha subito delle
flessioni: quello di Facebook perché, nel momento in cui la società è stata quotata in borsa, i
“mercati”, questi soggetti anonimi e non identificabili, hanno giudicato il valore delle sue
azioni troppo alto rispetto alle previsioni di crescita; quello della Apple perché, nonostante
siano stati venduti diversi milioni di Iphone 5 nel primo giorno del loro lancio sul mercato,
le previsioni di vendita erano superiori a quanto si è verificato.
Il capitalismo è un sistema economico che, per sopravvivere, ha bisogno di una crescita
continua, perché, come ha scritto Marx nel capitale quasi un secolo e mezzo fa, la formula
riassuntiva del ciclo economico capitalista è D-M-D’ (denaro - merce- più denaro), il che significa che lo scopo del capitalismo, in generale, è la creazione di un capitale sempre maggiore rispetto a quello di partenza e lo scopo del singolo capitalista, in particolare, è la realizzazione di un guadagno. Realizzare un guadagno significa realizzare un plusvalore, cioè
un capitale superiore rispetto a quello investito; per fare ciò, però, bisogna costantemente incrementare la produzione e le vendite, tuttavia le vendite non possono essere costantemente
aumentate se non aumenta costantemente la capacità di assorbimento del mercato, vale a
dire se non aumenta costantemente il potere di acquisto dei consumatori. Ma il potere di acquisto dei consumatori non può aumentare costantemente se non vi è un’adeguata redistribuzione della ricchezza prodotta; in caso contrario si verifica necessariamente una sovrapproduzione che porta, prima o poi, ad una crisi economica generale (come quella attuale o
quella del 1929).
Il problema fondamentale consiste nel fatto che la concezione dell’uomo che sta alla
base del sistema economico capitalista, che identifica l’uomo con l’individuo, cioè con l’io
autonomo ed autosufficiente, non è compatibile con un’adeguata redistribuzione della ricchezza, ma porta al suo esatto contrario, poiché spinge necessariamente verso una competizione sfrenata e priva di regole effettivamente riconosciute e rispettate (al di là della forma e
delle dichiarazioni pubbliche) e verso una concentrazione della ricchezza la quale poi provoca, inevitabilmente, le crisi economiche.
Se io mi concepisco come individuo autonomo ed autosufficiente, perché dovrei tenere
conto degli altri e delle loro esigenze? Se l’Altro è qualche cosa di esterno a me, che con la
sua presenza mi limita e mi comprime, perché non dovrei espandermi il più possibile? Perché non allontanare sempre di più questo limite? In un’ottica capitalista: perché non dovrei
ricercare semplicemente il profitto, cioè di guadagnare il più possibile nel minor tempo possibile? Per un mero calcolo economico, cioè, ad esempio, perché so che se pagassi troppo
poco i miei dipendenti essi non potrebbero comprare ciò che producono e, di conseguenza,
le mie speranze di vendita e di profitto si ridurrebbero (ragionamento fatto da Ford nel momento in cui i suoi stabilimenti producevano il modello “T”)? Perché dovrei rinunciare a
parte dei miei profitti oggi, alzando i salari o rispettando le norme inerenti la sicurezza sul
posto di lavoro? Per consentire una migliore redistribuzione della ricchezza che mi possa assicurare un profitto minore, ma più durevole? Ma così facendo potrei non riuscire ad avere
alcun profitto oggi, perché (e questo è vero soprattutto in un mondo caratterizzato da una
sempre maggiore e più selvaggia globalizzazione economica guidata dal paradigma neoliberista) potrei essere surclassato da una concorrenza meno scrupolosa o anche solo meno prudente. E del resto uno dei “dogmi” fondanti del neo-nato pensiero economico liberista è che
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il “libero mercato”, la concorrenza (che per essere veramente tale deve essere il meno regolamentata possibile) genera sempre due effetti positivi: seleziona i soggetti migliori (è meritocratica) e, grazie alla “mano invisibile” di smithiana memoria, produce automaticamente
la realizzazione dell’interesse generale a partire dall’egoistico perseguimento dell’interesse
individuale (e quanto più tale interesse individuale viene perseguito).
La scelta dunque, all’interno di questa prospettiva, è chiara: se voglio fare il mio bene e
contemporaneamente (ma come effetto collaterale non ricercato) il bene degli altri devo perseguire nel modo più determinato, anzi, nel modo più spietato possibile il mio interesse personale. D'altronde: se io sono un imprenditore e la concorrenza premia i migliori, perché
non dovrei concorrere, e nel modo più spregiudicato e rischioso? Se non lo facessi dimostrerei, a me stesso e agli altri (di cui, da un punto di vista economico, ho bisogno perché potrebbero decidere di investire su di me), di non avere fiducia in me stesso. Ma allora non sarei un vero imprenditore, non sarei dotato di un vero spirito d’iniziativa.
Lo sviluppo del capitalismo, quindi, porta all’affermarsi di una competizione sempre di
dura e selvaggia, ma i risultati non sono quelli previsti dalla dottrina neoliberista, cioè la diffusione (fatte salve le “giuste” differenze tra ricchi e poveri) di una ricchezza generalizzata,
bensì il ciclico ripetersi di disastrose crisi di sovrapproduzione, dalle quali deriva (su questo
punto mi sembra che la storia stia dando ragione a Marx) una sempre maggiore concentrazione della ricchezza e del potere e il diffondersi di un impoverimento generalizzato (spesso
identificato, nei paesi economicamente sviluppati, con la cosiddetta “scomparsa del ceto
medio”).
Di fronte a tutto ciò gli alfieri del neoliberismo non si scompongono e, per risolvere le
diverse crisi economiche, inclusa quella attuale, propongono una serie di aggiustamenti tecnici: un deciso taglio alla spesa pubblica consistente, in particolare, in una doverosa cura dimagrante per il sempre obeso “Welfare State”; un aumento delle privatizzazioni; una serie di
riforme che servano per rendere più flessibile e competitivo il mercato del lavoro e, di conseguenza, le imprese.
Mi sembra che la storia stia dimostrando che questi accorgimenti, che sicuramente rispondono agli interessi del “mercato”, cioè della élite globale che si arricchisce anche grazie
alle crisi economico-finanziarie, non sono in grado di risolvere i problemi e anzi non fanno
che perpetuarli ed aggravarli.
La crisi del ’29, che per certi aspetti è stata anche più spaventosa di quella odierna, aveva
prodotto almeno un risultato positivo: aveva portato a mettere in discussione il liberismo
economico allora imperante e a sostituirlo, soprattutto negli USA, con il modello keynesiano.
Al di là delle soluzioni tecniche che proponeva e che sono in larga misura state seguite
dai diversi governi dell’epoca per cercare, con risultati solitamente positivi, di risolvere la
crisi, la dottrina economica keynesiana è stata importante perché ha fornito una diversa interpretazione del capitalismo.
Il capitalismo non veniva più concepito, fondamentalmente, come mezzo per conseguire
il profitto individuale, ma come strumento per creare e redistribuire la ricchezza.
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Come scrisse Adolf A. Berle, uno dei componenti del “Brain Trust”, in un celebre articolo del 193311: “Prima d’ora si presumeva che l’industria fosse fatta di imprese, dirette a fini
privati di guadagno […] invece è molto più di questo. È infatti uno dei canali principali attraverso i quali si distribuisce il reddito nazionale sotto forma di stipendi, salari, dividendi,
interessi sulle obbligazioni e così via”.
Questo modo di concepire il capitalismo implicava una ridefinizione dei rapporti tra economia e politica. Implicava, per quanto attiene alla politica economica, il passaggio dalla
concezione di uno “Stato assenteista”, che si doveva occupare esclusivamente di rimuovere
gli ostacoli al libero mercato, a quella di uno “Stato interventista”, che poteva e doveva agire all’interno della sfera economica, per regolare il mercato nel caso in cui (con buona pace
della mano invisibile) si fossero verificati degli squilibri, come quelli che avevano dato origine al Wall Street Crash, tra produzione, consumo e disoccupazione.
La nuova dottrina economica elaborata da Keynes ed il New Deal, mettevano in luce, più
in generale, la necessità di passare da un paradigma in cui la politica, e di conseguenza la
società, venivano pensate come subordinate all’economia e finalizzate all’individuo, ad un
paradigma in cui si riconosceva all’ambito economico il compito di creare la ricchezza e
all’ambito politico quello di formulare le regole atte a redistribuire la ricchezza prodotta per
il bene di tutta la società.
In altri termini: il profitto economico individuale (e il capitalismo, ad esso connesso in
modo inscindibile come mezzo necessario per realizzarlo) non veniva più considerato come
il fine ultimo da perseguire, ma semplicemente come un mezzo finalizzato al bene comune.
Alla politica, e di conseguenza alla società (di cui la politica dovrebbe essere espressione in
un regime effettivamente democratico), veniva restituita la responsabilità di deliberare intorno ai fini.
Ciò che successivamente fece degenerare la dottrina economica keynesiana, con la grande importanza che essa giustamente attribuiva alla politica e allo Stato sociale, nello statalismo e nell’assistenzialismo che oggi affliggono tanti paesi europei (Italia in primis) e che
sono tra le cause della “crisi del debito sovrano”, è costituito dal fatto che questo cambiamento di paradigma economico non si è fondato sul cambiamento di paradigma antropologico che logicamente implicava. Detto in modo più semplice: la rivoluzione keynesiana è stata
adottata in modo strumentale semplicemente come mezzo per uscire dalla crisi economica,
ma la concezione individualista dell’uomo che era sottesa a tale crisi è rimasta ed anzi, dopo
l’avvento del keynesianesimo, ha “colonizzato” anche l’ambito politico e sociale dando vita
appunto (tra le altre cose) allo statalismo e all’assistenzialismo.
Come uscire, quindi, dalla crisi attuale?
Da un punto di vista filosofico la soluzione mi sembra evidente (ma questo non significa
affatto che sia semplice o anche solo possibile, date le condizioni concretamente esistenti,
poterla attuare): per evitare che si ripetano in futuro crisi economico-finanziarie devastanti
come quella odierna dobbiamo attuare quel cambio di paradigma antropologico che la dottrina keynesiana implicava, ma che non è stato realizzato. Dobbiamo passare dalla astratta
concezione dell’io come individuo autonomo e autosufficiente ad un modo più concreto di
11 Articolo riportato anche su molti dei nostri manuali scolastici.
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percepire e pensare l’uomo, per indicare il quale si potrebbe usare il termine: “soggetto in
relazione”.
“La persona si costituisce nella relazione. E’ relazione. […] La persona, prima ancora di
avere piena coscienza di sé e del mondo, e quindi di individuarsi, di farsi individuo, si è formata in una rete di relazioni parentali e sociali. Crescendo, acquisisce le proprie competenze
e la propria identità/unicità in un continuo interscambio con altre persone. Nessuno si forma
da solo. Ciò che ciascuno è, è il risultato di una molteplicità di interazioni, di incontri, di
conflitti, di dialoghi muti e parlati.”12
Queste parole illustrano bene ciò che intendo con “soggetto in relazione”. Il soggetto in
relazione, a differenza dell’individuo autonomo ed autosufficiente, è un io nel cui orizzonte
è presente già-da-sempre e costitutivamente l’Altro. Non si identifica con l’Altro, perché
tale identificazione porterebbe a due esiti opposti, ma altrettanto deleteri: o la perdita del
soggetto in ciò che è altro da sé, o l’assimilazione dell’Altro da parte del soggetto. Se questo
avvenisse verrebbe meno l’aspetto della relazione a favore di uno dei due estremi di essa e
si ricadrebbe in quella concezione monolitica dell’io (e di conseguenza dell’Altro) da cui invece è opportuno uscire.
Il soggetto in relazione è un io che si costituisce nella relazione con l’Altro e, quando è
pienamente tale, cioè pienamente soggetto, è consapevole di questo suo costituirsi nella relazione. Di conseguenza il soggetto in relazione sa di non poter espungere l’Altro fuori dal
suo orizzonte; sa di non poter eliminare (in qualsiasi modo questa eliminazione avvenga)
l’Altro perché è consapevole che, così facendo, eliminerebbe anche sé stesso. Questa consapevolezza porta il soggetto in relazione a desiderare la presenza dell’Altro e la relazione con
esso, a stare presso l’Altro (e quindi anche presso di sé), nella relazione.
Il soggetto in relazione, consapevole della sua relazione costitutiva con l’Altro, non tenta
di affermarsi a spese dell’Altro, perché sa che così facendo danneggerebbe anche sé stesso,
ma desidera affermarsi nel rapporto con l’Altro e, quindi, desidera anche l’affermazione di
questo Altro.
Viene meno, così, l’antinomia tra libertà e sicurezza. Il soggetto cessa di percepirsi e di
pensarsi come dotato di una sfera di libertà limitata dalle sfere di libertà altrui e, quindi,
smette di contrapporsi agli altri. L’Altro non è più visto come qualcosa di esterno a sé e alla
propria sfera di libertà, ma come qualcosa di interno; da elemento che limita e impedisce
l’espansione dell’io, diventa effettivamente opportunità e risorsa, interlocutore che favorisce
l’affermazione del soggetto. La libertà smette di essere percepita e pensata come “libertà
da”, come assenza di limiti e di legami, e inizia ad essere percepita e pensata piuttosto come
“libertà di”, come realizzazione di sé e delle proprie possibilità insieme all’Altro e grazie ai
limiti ed ai legami.
Il concetto di soggetto in relazione ha delle implicazioni positive riguardo al modo di
concepire e costruire il rapporto tra bene individuale e bene comune, perché consente di tenersi lontani dai due estremi dell’individualismo, che tende astrattamente a subordinare la
società all’individuo, e del comunitarismo (o socialismo o totalitarismo) che tende a far annegare il soggetto nella comunità.
12 Carlo Penati, La restituzione.
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Entrambe queste concezioni sono figlie di quella astratta separazione tra soggetto e società, tra io e altro, che ha prodotto il concetto di individuo autonomo ed autosufficiente.
Tale separazione e contrapposizione tra io e altro non può che portare ad un’analoga separazione e contrapposizione tra bene individuale e bene comune, con il risultato che al soggetto
viene sempre sottoposta l’astratta necessità di scegliere tra l’uno e l’altro. Da questa prospettiva non si potrà mai fare altro che affermare che il bene individuale deve essere preferito al bene comune (presupposto, spesso implicito, su cui si basano liberalismo politico e liberismo economico) oppure il contrario (presupposto su cui si fondano i diversi totalitarismi).
Da questa astratta scelta, che porta a non realizzare né il bene comune, né quello individuale, si esce tramite il concetto di soggetto in relazione, cioè ponendo la propria attenzione
sul fatto che l’esistenza dell’io implica sempre l’esistenza di un altro che fa già-da-sempre
parte del suo orizzonte e della sua sfera di coscienza e che l’io si costruisce mediante la relazione con l’altro: relazione che implica contemporaneamente la distinzione tra l’io e l’altro e
il loro rapporto reciproco.
In un’ottica come questa bene individuale e bene comune possono essere correttamente
concepiti come reciprocamente implicantisi, al punto da poter dire che nel momento in cui si
realizza veramente il bene comune si sta realizzando anche il bene individuale, e viceversa.
Tale modo di concepire il rapporto tra bene individuale e bene comune, però, implica un
profondo ripensamento di entrambe queste categorie, per non correre il rischio di formulare
ottimistiche ed irrealizzabili utopie o di ricadere, inconsapevolmente, nella prospettiva che
ho appena criticato, finendo con il subordinare, senza neanche averne la consapevolezza, il
soggetto alla comunità o la comunità al soggetto, inconsapevolmente perpetuando l’astratta
antinomia tra libertà e sicurezza.
Da un punto di vista teorico, quindi, la soluzione sembra chiara. Si pone tuttavia un piccolo problema: come realizzare concretamente questo cambio di paradigma antropologico?
Penso, ovviamente, che non esistano facili “ricette” da applicare e comunque, anche se
esistessero, io non sono in grado di indicarle.
Mi sembra tuttavia che si possano fare, sulla base di quanto ho affermato precedentemente, delle considerazioni di carattere generale.
Innanzitutto penso che un cambiamento così radicale nel modo di concepire, ma prima
ancora di percepire, l’uomo, non possa realizzarsi in modo repentino, ma che sia necessariamente legato ad un processo lungo e tortuoso, fatto di successi e di sconfitte, di corse in
avanti ma anche di ripensamenti, ritocchi, aggiustamenti in corso d’opera.
In secondo luogo penso che sarà un cambiamento che non avverrà in modo monolitico e
globale, ma che si realizzerà in modo diversificato, reticolare e policentrico, anche perché,
date le premesse del mio discorso, sono convinto di una cosa: tale mutamento antropologico, se avverrà, non potrà che sorgere “dal basso”, dai pochi “luoghi” ancora autentici in cui
si costruiscono le identità delle persone: dalle famiglie, dalle associazioni, dalle comunità
locali, dalla scuola, non in una prospettiva localistica (che si chiude all’altro), ma in un’otti-
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ca glocal, in cui il locale si apre al mondo, il particolare all’universale, l’individuo al genere
umano.
Se il percepirsi e il pensarsi del soggetto come un’entità autonoma ed autosufficiente nasce dalla distruzione di una serie di legami (con gli altri, con la natura, con il proprio corpo,
con il proprio inconscio, con la dimensione trascendente dell’esistenza umana), il percepirsi
e pensarsi come soggetto in relazione non può che avvenire attraverso la ricostituzione di
quei legami.
Prima ancora di essere una rivoluzione intellettuale o filosofica, cioè una rivoluzione nel
modo di pensare, il cambiamento di paradigma antropologico che auspico è una rivoluzione
nel modo di vivere e di sentire, che parte dalle relazioni concrete che il soggetto intesse nel
corso della propria esistenza e, prima ancora, dalle relazioni in cui si intesse il suo individualizzarsi, il suo farsi soggetto, e quindi dal contesto in cui tale soggetto nasce e cresce.
Per questo bisognerebbe valorizzare e difendere il più possibile le realtà in cui i soggetti
costruiscono relazioni stabili e positive tra loro, perché è in tali ambiti che gli uomini possono innanzitutto sentire e poi imparare a pensare gli altri come risorse e opportunità, come
qualcosa che fa parte del proprio io. In tali contesti (relazionali, identitari e storici) gli individui imparano ad essere responsabili, comprendono che le proprie azioni hanno sempre un
effetto (benefico o negativo) sugli altri e che i destini degli uomini sono sempre “destini intrecciati”.
Partire da questi “luoghi” e valorizzarli mi sembra l’unica alternativa credibile e realizzabile per opporsi alla proliferazione dei nonluoghi, al diffondersi dell’extraterritorialità e
dell’irresponsabilità, al dilagare dell’isolamento e del senso di impotenza e di incertezza.
Da qui potrà nascere anche un diverso paradigma economico e un diverso modo di produrre e distribuire ricchezza: più solidale, più cooperativo, più responsabile, più sostenibile
sotto il profilo ambientale, ma anche sociale, psicologico, umano e, non ultimo, economico.
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