pelle che abito _la_ pdf - Lo Spettacolo del Veneto
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Federazione [email protected] Italiana Cinema d’Essai [email protected] wwww.spettacoloveneto.it Associazione Generale Italiana dello Spettacolo In concorso al festival di Cannes, 2011 INTERPRETI: Antonio Banderas, Elena Anaya, Marisa Paredes, Bárbara Lennie, Blanca Suárez SCENEGGIATURA: Pedro Almodóvar FOTOGRAFIA: José Luis Alcaine MUSICHE: Alberto Iglesias MONTAGGIO: José Salcedo DISTRIBUZIONE: Warner Bros. NAZIONALITA’: Spagna, 2011 DURATA: 120 min. di Pedro Almodóvar PRESENTAZIONE E CRITICA Trama intricatissima per Pedro Almodóvar che, con LA PELLE CHE ABITO, si inoltra nel terreno dell’horror/thriller e del noir, senza mai perdere di vista i suoi colori e tratti di regia. C’è un chirurgo plastico, Robert Ledgard che, dopo anni di ricerche, ha scoperto il segreto per la "creazione" di una pelle artificiale, capace di resistere alla bruciature e alle punture di insetti. E c’è una bellissima donna, prigioniera dell’uomo, che trascorre le sue giornate da sola, chiusa in una stanza, a scrivere sui muri, fare yoga e scolpire, in una magione di lusso, El Cigarral. Il film si apre con una lunga e insistita carrellata su provette, campioni di sangue e sul corpo della donna. Poi il flashback, in un intento di spiegazione che non è mai così lineare in Almodóvar: una moglie morta per le ustioni riportate in un incidente stradale, una figlia violentata, un uomo - il chirurgo - reso pazzo dal dolore e cieco per l’istinto di vendetta, inviso, per i suoi esperimenti transgenici, alla comunità scientifica. La realtà poi sarà differente: per esempio differente da quella che il dottore si è figurato. Ma dire troppo sarebbe un vero peccato. È un film che ammalia, come sempre sa fare Almodóvar, che riesce a farci inorridire e ridere, forte anche di una cura formale che ricalca i topoi del suo autore; con un attore, Antonio Banderas, che ritorna dopo dodici anni (Legami!) a lavorare con il regista castigliano, regalandoci una figura di uomo algido, compassato, che nasconde in sé un mostro, una crudeltà che neppure il più grande dolore può giustificare. Letture molteplici, riferimenti all’oggi, alla medicina estetica, alle mutazioni genetiche, soprattutto riflessioni sul dentro e fuori dell’essere umano, che non è - solo - corpo e pelle, che ha pensieri e intenzioni che sono influenzati dal sesso, ma che lo travalicano. Almodóvar riesce a trasmettere il gelo della mente di Ledgard, novello Frankenstein, gelo che la casa pare condensare, nella sua perfezione di forme moderne, in cui tutto ha un ordine preciso e meticoloso. Il surreale e il grottesco sono sempre lì, tra le pieghe del film, così come i temi cari al regista e la trama complessa, dalle svolte continue. (http://filmup.leonardo.it) Quando il film si apre su una bella ragazza con un'attillatissima tutina color carne, che fa yoga come fosse una ballerina di Pina Bausch e crea sculture ispirate a quelle di Louise Bourgeois, ci appare immediatamente chiaro dove ci troviamo: di fronte ad un Pedro Almodóvar al cento per cento, tutt'altro che transgenico, piuttosto ormai manierista. Il resto del film si occuperà di confermare senza sosta questa prima impressione. La scrittura, come in quasi tutti gli ultimi titoli del regista, è anche qui un meccanismo perfetto, rotondo, nella quale i dialoghi servono spesso ad alleggerire una trama ritagliata con chirurgica perizia, come fosse fatta di pezzi di un puzzle (Gli abbracci spezzati) o di lembi di pelle da far combaciare senza che si noti la cicatrice. Battute come “Mi chiamo Vera. Vera Cruz”, solleticano la risata in pubblici diversi e stratificati, strizzando l'occhio tanto ad un'epoca ________________________________________________________________________________ di Pedro Almódovar (gli anni Cinquanta) e ad un cinema di genere fatto di continui colpi di scena, quanto, fuori dallo schermo, alla rinuncia dell'attrice feticcio di Almodóvar, Penelope, che era stata pensata per il ruolo finito poi in sorte a Elena Anaya (e la mancanza della Cruz qui non si sente, poiché la sua “seconda pelle” se la cava benissimo). A livello estetico, accade esattamente la stessa cosa: dentro un impianto visivo algido ed elegante, irrompe volutamente grottesco- un uomo vestito da tigre. Almodóvar, dunque, rifà se stesso: insieme kitsch e affascinante, artista matur(at)o ed énfant prodige birichino. E poi telecamere nascoste, primi piani congelanti, scambi di sesso ma non di identità, madri con segreti mai confessati, figli/fratelli ignari l'uno dell'altro. Il mito di Frankenstein espressione da sempre della paura nei confronti dei progressi della tecnologia e della scienza, e mito gotico per eccellenza -, più che oggetto di un'indagine o di una riflessione sembra servire ad Almodóvar come un semplice contenitore, un involucro funzionale e intonato nel colore, resistente e compatibile con la celebrazione di sé e del proprio gusto. (www.mymovies.it) Per la prima volta in carriera, il regista spagnolo si cimenta col thriller e l'horror: un orrore cronenberghiano, volendo, fatto di ossessioni medico-sentimentali, chirurghi psicopatici, stupri e relative vendette. E altro, che non citiamo per non minare la visione del film. E certo, per la prima volta in carriera Almodóvar rinuncia quasi del tutto a quell'impianto formale ultrapop che l'ha reso celebre in tutto il mondo. Ma se queste impressioni superficiali non si possono negare e vanno anzi sottolineate, lo stesso va fatto con il fatto che LA PELLE CHE ABITO presenta fortissimi elementi di continuità con le opere che l'hanno preceduto. Formalmente, LA PELLE CHE ABITO è una diversa declinazione dell'eleganza fluida che t'aspetti dal suo regista. E l'abito nuovo di Almodóvar è comunque disseminato di sfumature e dettagli che tradiscono in maniera quasi inequivocabile la firma del suo autore. Lo stesso vale per le tematiche e il contenuto di un film che tratta di questioni (trans)genetiche, di genere, identitarie, familiari. Proseguendo con toni e modi diversi un cammino che è stato iniziato da tempo. (www.comingsoon.it) Ad un tempo dark, rocambolesco e divertente, LA PIEL QUE HABITO è un nuovo, eccellente tassello in una filmografia davvero varia come quella del regista castigliano, che riesce a esplorare territori sempre diversi rimanendo fedele a uno stile riconoscibile e personale. E anche nelle scelte di casting, Pedro non tradisce e non si tradisce: ritrovare Banderas a oltre vent'anni da Legami! si rivela un'idea eccellente, perché gli vale uno dei più riusciti personaggi maschili della sua carriera; quanto alle donne, come sempre, sono forti e magnetiche, a cominciare da Elena Anaya, già incantevole in Parla con lei, ma qui alle prese con un ruolo ambiguo e memorabile. (www.movieplayer.it) Il tocco di Almodóvar non manca: dalla trama inverosimile alle ambiguità sessuali disseminate dentro il nucleo di una famiglia pazzoide e surreale. In più ci sono diverse scene di sesso dai toni ironici, secondo alcuni involontariamente umoristici, travestimenti assortiti, corpi mutanti, flashback… Ben poco è rimasto del romanzo di Thierry Jonquet Tarantula, a cui è ispirata la sceneggiatura, ottimi e abbondanti sono invece i riferimenti cinefili, che comprendono Bruñel, Hitchcock, Fritz Lang e Georges Franju tutti cuciti in una nuova pelle assolutamente almodovariana. Inoltre la pelle del titolo non è solo il tessuto artificiale a cui lavora Ledgard nel suo laboratorio e che cuce addosso alla sua cavia Vera, ma anche la stoffa strappata e rielaborata da lei nelle sue opere, che sono ispirate alle sculture dell’artista franco-americana Louise Bourgeois. (C. Paternò in Vivilcinema 4/2011) ________________________________________________________________________________