Non solo la Marsigliese: da Caslavska e Norman alle Coree unite

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Non solo la Marsigliese: da Caslavska e Norman alle Coree unite
Non solo la Marsigliese: da Caslavska e Norman alle Coree unite, quando lo sport
promuove la pace
La scorsa settimana i tifosi inglesi hanno cantato la Marsigliese a Wembley in gesto di solidarietà verso i
nazionali francesi. Oggi, nel nostro viaggio nella storia olimpica, scopriamo quattro episodi di grande valore
simbolico per la storia dello sport e non solo, dal Black Power alla Germania unita, anche se divisa da un muro,
durante gli anni '60
Tra le tante immagini tristi che si sono susseguite in queste ultime settimane ce n'è una che ha colpito in
positivo, quella dei 90.000 tifosi inglesi che cantano la Marsigliese in occasione del match amichevole fra
Francia e Inghilterra disputato pochi giorni dopo gli attentati di Parigi.
Potrebbe sembrare una cosa da niente, una goccia in quell'oceano di paura che dal 13 novembre sembra aver
invaso le vite di tutti, eppure l'impressione è che si tratti di uno di quegli episodi che, col tempo, si vanno a
sedimentare nella memoria collettiva. Per questo motivo il nostro viaggio nella storia dei Giochi Olimpici di
questa settimana ci porta a scoprire, o a ricordare, quattro episodi di grande valore simbolico non solo per la
storia dei cinque cerchi, ma per l'intero movimento sportivo e per il percorso di crescita e di democratizzazione
di tutta la società moderna.
Sydney 2000– La sfilata delle due Coree unite
L'esperimento è durato il tempo di una sfilata, ma l'ingresso della delegazione delle due Coree unite nello
stadio di Sydney durante la cerimonia di apertura dei Giochi del 2000 rimane, a mio parere, uno dei più bei
momenti di sport degli ultimi anni. Due alfieri, la giocatrice di basket sudcoreana Chun Un Song e l'allenatore di
judo nordcoreano Park Chong, e una sola bandiera, sfondo bianco e il profilo della penisola coreana colorato in
azzurro. Si trattava del primo passo di un processo che avrebbe dovuto portare i due Paesi a presentare una
sola squadra in occasione dei Giochi Olimpici di Pechino 2008, ma a pochi mesi dall'Olimpiade cinese i Comitati
Olimpici del Nord e Sud Corea decisero di non intraprendere una strada comune.
Nonostante i molti alti e bassi la speranza di una riunificazione coreana non si è comunque ancora spenta e non
è escluso che ancora una volta le Olimpiadi possano essere un canale di riavvicinamento. Nel 2018 la Corea del
Sud ospiterà i Giochi Olimpici invernali e il Nord ha chiesto a più riprese di essere coinvolto nell'organizzazione.
Purtroppo, questo non va dimenticato, la Corea del Nord è oggi governata da un regime violento e oppressivo,
ma se un riavvicinamento con Seul potesse portare a una maggiore democratizzazione della Repubblica
Popolare di Corea allora i tanti sforzi dei comitati olimpici nazionali e del Comitato Olimpico Internazionale non
sarebbero stati vani.
Da Melbourne 1956 a Tokyo 1964 – La squadra unificata tedesca
Di Germanie, nel 1956, ne esistevano già due, eppure per otto anni uno sforzo diplomatico mostruoso dei
dirigenti sportivi tedeschi fece sì che per otto anni durante i Giochi Olimpici la squadra tedesca fosse una sola.
La selezione degli atleti, in tutti e tre i casi, non fu per nulla facile, soprattutto negli sport dove era più difficile
stabilire dei valori assoluti. Molte situazioni portarono a delle controversie, ma il risultato, quantomeno dal
punto di vista agonistico, fu un successo visto che ai Giochi di Roma 1960 e a quelli di Tokyo 1964 la Squadra
Unificata Tedesca si classificò quarta nel medagliere alle spalle solo di Stati Uniti, Unione Sovietica e della
nazionale di casa. Quella di Tokyo 1964 fu l'ultima uscita della Germania unita sotto il vessillo olimpico, dal
1968 ognuno per la sua strada, almeno fino alla caduta del muro di Berlino, ma questa è un'altra storia.
Peter Norman, l'eroe dimenticato della lotta contro il razzismo
Aveva tanto da perdere e, a livello personale, poco da guadagnare, eppure questo velocista australiano, bianco,
mise a rischio la sua carriera per sostenere la lotta di altri atleti contro la discriminazione razziale. Olimpiadi di
Città del Messico, 1968. La finale dei 200 metri piani viene vinta dall'afro americano Tommie Smith davanti a
Peter Norman e al campione panamericano John Carlos. La medaglia d'oro e la medaglia di bronzo avevano
deciso di inscenare sul podio una protesta contro le discriminazioni razziali che le persone di colore subivano
negli Stati Uniti e Norman decise di unirsi a loro indossando la spilla inneggiante al black power, perché, così
pare abbia detto“a questo mondo nasciamo tutti uguali”.
Oggi, a distanza di quasi cinquan'anni da quegli avvenimenti, tutti ricordano il pugno alzato di Smith e Carlos, in
pochi ricordano la sua ribellione silenziosa, eppure dei tre Peter Norman fu quello che pagò il suo gesto più
caro di tutti. Fu escluso dalla nazionale e, nonostante avesse realizzato per ben 11 volte il tempo limite per la
qualificazione, non fu convocato per i Giochi di Monaco 1972. L'Australia non tollerava l'intromissione della
politica nello sport. Finì la sua carriera senza onori e fu pian piano dimenticato dal grande pubblico, ma non si
scordarono di lui Smith e Carlos che, alla sua morte, si recarono in Australia per portare la bara durante il
funerale. Tre anni fa, inoltre, la sua storia ha finalmente trovato una sorta di lieto fine perché il governo
australiano, dopo aver analizzato tutta la sua storia, gli ha rivolto delle, seppur postume, scuse ufficiali.
Emil Zatopek, Vera Caslavska e il manifesto di 2000 parole
Città del Messico, 1968. Sul gradino più alto del podio della gara del corpo libero ci sono due atlete, la sovietica
Larissa Petrik e la cecoslovacca Vera Casvlaska. Due mesi prima dell'inizio dei Giochi il paese natale di
quest'ultima ha visto terminare l'esperimento democratico della Primavera di Praga sotto l'invasione
dell'Armata Rossa e al momento dell'esecuzione dell'inno la Caslavska distoglie lo sguardo dalla bandiera
sovietica in segno di protesta.
Si tratta di un gesto eclatante (a compierlo è una delle ginnaste più quotate del momento), ma per nulla
improvvisato visto che nel giugno del 1968 Vera era stata una delle firmatarie del manifesto di 2000 parole
dello scrittore Ludvik Vaculik, un testo che, esaltando l'esperienza democratica della Primavera di Praga,
condannava la dittatura comunista. Il manifesto era stato sottoscritto da una settantina di volti noti dello sport,
dell'arte e della politica della Cecoslovacchia. Fra di loro spiccava il nome dell'ex corridore Emil Zatopek, la
"locomotiva umana" leggenda vivente in patria in virtù delle tre medaglie d'oro di Helsinki 1952.
Non è difficile immaginare che i loro gesti di protesta non furono visti con clemenza da parte del regime
comunista. Una volta tornata da Città del Messico, Vera Caslavska fu forzata a mettere fine alla sua carriera e
per diversi anni le venne impedito di prendere aerei o presenziare a competizioni sportive, andò peggio a
Zatopek, che fu espulso dal partito e dall'esercito e fu spedito a lavorare in miniera per tre anni.
Capire profondamente gesti come quelli di cui vi abbiamo appena parlato non è semplice e soprattutto non è
immediato perché spesso i risultati di certe scelte non si vedono nel beve termine e, al contrario, ciò che
appare a prima vista sono dei mezzi fallimenti. Eppure oggi, dopo tanti anni, la Germania è tornata ad essere
unita, negli Stati Uniti abbiamo un Presidente di colore, la Repubblica Ceca e la Slovacchia sono due stati
democratici e, pur tra alti e bassi e in mezzo a mille difficoltà, il processo di pacificazione fra le due Coree è
ancora in corso.
Siamo troppo spesso abituati a pensare al mondo che ci circonda solo in senso negativo, ma tante realtà e
tante conquiste che noi diamo per scontate di scontato hanno davvero ben poco e se, a volte, col tempo le
cose migliorano, il merito è di coloro che non si tirano indietro davanti alle sfide e che rischiano in prima
persona anche solo per essere da esempio agli altri, di personaggi come Vera Casvlaska, Emil Zatopek e Peter
Norman e di tante persone comuni come i 90.000 tifosi di Wembley, che nonostante i rischi hanno voluto
essere lì, a manifestare la loro solidarietà alla Francia e a ricordarci che, nonostante tutto, nonostante la paura,
la vita deve andare avanti. Ci vorrà del tempo, ma anche questa volta, la storia darà loro ragione.
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