Sulla via di un thistle Un Sogno

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Sulla via di un thistle Un Sogno
Ezio Orrù
Sulla via di un thistle
Un Sogno
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Finalmente a casa
“La notte del 19 marzo 1286 il re Alessandro III convocò il Consiglio dei Lord presso
il castello di Edimburgo e alla riunione seguì una ricca cena. Il salone era riscaldato dal
fuoco di un grande camino di pietra, un enorme tavolo di legno era stracolmo di selvaggina
e il vino scorreva a fiumi. Era una notte fredda e il boato dei tuoni si univa alle risate, alla
musica e ai brindisi dei calici. Nel cuore della cena Alessandro si alzò e brindando alla pace
e alla prosperità del suo regno chiese che fosse preparato il suo cavallo. Lo aspettava il
calore dell’amata giovane Yolanda nella tenuta reale di Kinghorn. Seguito da tre guardie
Alessandro si congedò dalla riunione e cavalcò fino a Dalmeny per essere traghettato
dall’altra parte del fiordo. Sotto fulmini, vento e pioggia, i cavalli affondavano i loro zoccoli
nel fango, il gruppo dei quattro si divise e la mattina seguente il corpo del re fu trovato
senza vita, con il collo rotto, sulla riva del mare.
Il re moriva lasciando come unica erede al trono una nipote, la piccola Margaret, detta “La
fanciulla di Norvegia”, nata dall’unione fra l’omonima principessa, deceduta mettendo al
mondo la piccola, ed Erik di Norvegia. Per la prima volta nella sua storia, vecchia di
cinquecento anni, la monarchia scozzese avrebbe avuto al suo comando una regina, così
come lo stesso Alessandro aveva deciso anni prima, nel 1284, a Scone. Di fronte alla pietra
del destino, il grande masso sul quale tutti i sovrani scozzesi ricevevano la loro solenne
incoronazione, re Alessandro, alla presenza dei nobili di Scozia, aveva dichiarato la piccola
Margaret la legittima erede al trono. La fanciulla avrebbe regnato dapprima sotto la tutela
di sei lord protettori di Scozia e poi da sola. Dopo la morte di Alessandro, Edoardo I, re
d’Inghilterra e cognato del defunto sovrano, incontrò i nobili scozzesi a Salisbury. In quel
giorno, il 6 novembre del 1289, fu sancito che Margaret, bambina di sei anni, avrebbe
sposato il principe Edoardo II di Inghilterra, di soli cinque anni d’età e figlio del re inglese.
Fra inglesi e scozzesi la pace durava ormai da cento anni e questo matrimonio avrebbe dato
ulteriore garanzia di stabilità. Ma nel viaggio tra la Norvegia ed Orkney, il 26 settembre
1290, la piccola morì lasciando Alessandro senza discendenza. Tre famiglie allora si
contesero il trono di Scozia, i Balliol, i Bruce ed i Comyn. Edoardo I di Inghilterra fu scelto
dagli scozzesi, come garante di giustizia, per presiedere il consiglio che avrebbe eletto il
nuovo re. Con il trattato di Birmingham del 1290, firmato dallo stesso Edoardo I, doveva
essere garantita alla Scozia piena libertà nei secoli. L’ambizioso re inglese guidò la scelta
su John Balliol, ma il nuovo sovrano scozzese fu eletto alla stregua di un re fantoccio.
Forse tramite una clausola nascosta ad arte, Edoardo I fece sì che John Balliol, firmando il
documento con il quale saliva al trono, accettasse anche il sovrano d’Inghilterra come
proprio Lord superiore.
John Balliol, ultimo re scozzese a essere eletto davanti alla pietra del destino, nell’abbazia
di Scone, senza il supporto delle altre più nobili e potenti famiglie del paese, cercò di uscire
dal giogo di Edoardo e strinse alleanza con i francesi. Edoardo venne a sapere dell’alleanza
e invase la Scozia; la battaglia fu fatale a John che, sconfitto e imprigionato nella torre di
Londra, abdicò lasciando il suo regno nelle mani del sovrano Inglese. Furono anni di
intrighi e crudeltà, di umiliazioni e privazioni per un intero popolo. Anni di prigionia e di
fame, di ferocia e guerra, di roghi e amori spezzati. Persino la pietra del destino fu
trafugata dall’abbazia di Scone e portata via dagli inglesi. Tutti gli scozzesi,
indipendentemente dal ceto sociale, vennero derubati delle proprie tradizioni, dei più
preziosi valori e infine della propria identità. In quegli anni vissero contadini che
diventarono schiavi e contadini che divennero cavalieri. Ci furono nobili che scesero a
compromessi e nobili che pur di non piegarsi all’invasore persero le loro terre e videro
uccisi i tutti i loro cari. Nobili che misero in vendita il loro popolo per un po’ di denaro o
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per qualche terra in più e nobili che combatterono in prima fila animando le folle. Furono
gli anni di Robert The Bruce e di Sir James Douglas, di William Wallace e di Andrew
Moray.”
Che storia, questa che leggo per l’ennesima volta. Mi avvicino alla finestra, ad un angolo del
salone e vedo che inizia a nevicare. Chiudo il mio libro preferito e lo poggio sulla panca sotto
la finestra. Il nuovo anno è appena iniziato e una settimana di lavoro è appena finita,
guardo i fiocchi che cadono giù sulla piazza mentre il Tolbooth, il vecchio campanile,
comincia a diventare bianco.
Il caminetto è acceso e la legna scoppietta, sento le voci dei bambini che giocano nella loro
stanza e continuo a guardare fuori dalla finestra tenendo la mia tazza di caffè fumante
poggiata sulle labbra. Oggi è un giorno speciale ed io mi fermo a guardare fuori, oltre i
palazzi, più in la dei grattaceli, i miei pensieri volano sulle montagne.
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Sulla Via
Anni fa venivo a sapere che Riccardo tornava dalla nostra Scozia dopo una lunga
permanenza e ricordo che andai a casa sua il giorno stesso del suo arrivo, una sera, con
Emma.
Racconti avanti al caminetto acceso, su nella mansarda, a casa dei suoi genitori. Il tempo si
ferma parlando dei suoi giorni a lavorare all’Inveroran Hotel, lungo il percorso della West
Highland Way.
Le foto delle sue escursioni, quando camminava da solo fra le nuvole sugli stretti sentieri
delle Highlands. Su per i monti verdi e marroni fra la nebbia, le pozze d’acqua, ma anche sui
laghi.
Sono passati altri anni e altre visite in Scozia prima di pensare a un viaggio, tutto di noi tre,
nel paese di William Wallace e di Robert The Bruce, del Celtic e dei Rangers.
Dopo anni, appunto, ci volle una cena, delle testine di agnello arrosto e qualche bicchiere di
Carignano del Sulcis davanti al caminetto per parlare nuovamente di West Highland Way.
Rivolto a Riccardo, uscì a me la frase: “Non siamo mai stati in Scozia insieme noi due”.
Riccardo capì subito cosa stessi per dire, un altro bicchiere di vino e il progetto nacque
ufficialmente.
Purtroppo però Riccardo non ottenne le ferie quella volta e ci volle un’altra cena ancora,
maialetto arrosto e vino Carignano per vedere finalmente, con un anno di ritardo, che il
progetto cominciava a concretizzarsi.
Con la certezza delle le ferie di Emma, di Riccardo e di almeno una parte delle mie nel
periodo stabilito, le cene diventavano incontri di studio oltre che di parole e risate. La West
Highland Way andava esaminata per il suo percorso, per l’abbigliamento da usare e per gli
ostacoli che avremmo affrontato. Tra un bicchiere di vino, una risata e il maialetto che
cuoceva, si stava ore a confrontare le ricerche fatte su internet e le nostre interpretazioni.
La West Highland Way, 95 miglia da percorrere a piedi da Glasgow a Fort William,
camminando tra valli, laghi e sugli altopiani delle highlands.
I pericoli o fastidi, secondo come li si voglia prendere, sono tre: le zecche, i midges e la
pioggia. Le zecche per la malattia di Lyme, ma ci controlleremo e nel caso ce ne trovassimo
una addosso avremo con noi la scorta di antibiotico. I midges per le fastidiose punture; sono
insetti che si muovono a milioni in sciami e compaiono al tramonto o quando smette di
piovere, ma avremo con noi l’antistaminico. Infine la pioggia, ma avremo le mantelle, la
tenda impermeabile e poi sul percorso ci sono tanti Bed and Breakfast. Riccardo scherzando
mi dice che c’è anche la tarantola delle highlands, per un attimo ci credo preoccupato, poi
scoppiamo tutti e tre in una risata.
Non vedo l’ora, il venerdì notte da Riccardo è un vero rifugio, fatto di calore, profumo e
sogni, alla fine di un’interminabile settimana. Dieci ore di lavoro al giorno e poi anche dopo
cena, dubbi e confusione, ma davanti al caminetto tutto si ferma, anche se devo dire
all’amico qualcosa su quello che mi capita, che mi tormenta.
Un sabato usciamo a comprare le ultime cose; le calze da trekking, i tappetini, le torce e una
maglia in micropile per Riccardo. Acquistiamo anche i sacchi a pelo, quelli più caldi ma i più
leggeri.
A casa proviamo la tenda che trasporteremo divisa in tre parti, una per ciascuno. La
montiamo e proviamo a starci dentro, si sta benissimo anche in tre.
Come avevo richiesto arriva anche l’autorizzazione scritta per la quarta settimana delle mie
ferie e mi riprometto di rimandare le mie angosce per ora o perlomeno di separarle dal resto.
30 di luglio
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Appuntamento alle 2 del pomeriggio all’aeroporto di Cagliari Elmas per il check-in
del volo diretto a London Luton, prima tappa del viaggio aereo che ci porterà al
Glasgow City Airport.
Prima di uscire di casa, indossando lo zaino da settanta litri, mi rendo subito conto di
cosa dovrò trasportare. Le mie spalle sono spinte all’indietro dal bagaglio che porto e
il peso si scarica poi sul mio bacino. Penso ai racconti di Riccardo e a come mi terrò
in equilibrio quando affronteremo la ripida Devil’s Staircase, voglio credere di non
aver stretto bene le cinghie e gli spallacci dello zaino e che il giorno dopo andrà
sicuramente meglio.
All’aeroporto facciamo confezionare gli zaini insieme alle tre parti di tenda e ai
materassini che trasportiamo e andiamo verso il check-in. Fumo con Riccardo l’ultima
sigaretta prima della partenza e ci dirigiamo all’imbarco con passo sicuro e con il
nostro abbigliamento da trekking pulito, ben stirato e abbinato nei colori. Al gate della
low cost inglese, fasce di nastro arancione delimitano le corsie di imbarco a gruppi.
Avendo fatto il check-in fra i primi trenta passeggeri, ci imbarchiamo sul Boeing 737700 con il primo gruppo.
Io scelgo la fila, poco più avanti delle ali verso la cabina di pilotaggio, Riccardo
rapidamente si aggiudica il posto finestrino. Emma, seduta nel posto corridoio, dorme
per quasi tutto il viaggio e a tratti legge, Riccardo guarda fuori dal finestrino, io
mangio biscottini al burro, patatine e guardo giù attraverso l’oblò.
Dopo due ore e mezzo di volo arriviamo al London Luton Airport, ritiriamo e
reimbarchiamo i nostri bagagli, ci rifocilliamo con qualche panino stracolmo di
formaggio cheddar filante e ci prepariamo al nuovo imbarco per Glasgow.
Dalle vetrate del gate si vede l’aerbus 319 sul quale stiamo per salire e quando oramai
fuori è già buio decolliamo. Questa volta prendo io il posto finestrino.
Dopo quaranta minuti di volo appaiono sotto di noi le luci di una grande città sul
mare, allora richiamo Riccardo: “Guarda, Edimburgo!”. L’aereo gira verso sinistra e
compare una distesa di luci ancora più grande, è Glasgow! Le due città distano solo un
centinaio di chilometri l’una dall’altra, l’aereo scende sempre di più e vedo i
grattacieli, gli alti palazzi, e il River Clyde con i suoi ponti illuminati.
All’aeroporto ci viene a prendere Dave, il cugino scozzese di Riccardo, che si è offerto
di accompagnarci alla Guest House dove alloggeremo questa prima notte di viaggio.
Trovare il nostro albergo, nell’intrico di sensi unici tra gli alti palazzi del centro,
vicino alla stazione degli autobus, non sarebbe stata cosa facile senza il nostro amico
scozzese.
Lasciamo a Dave un bagaglio ciascuno, la roba pulita per i giorni che passeremo a
Bridge of Allan, vicino a Stirling, alla fine del nostro trekking.
Giusto il tempo di prendere possesso della stanza e siamo distesi sotto i piumoni a
dormire.
31 di luglio
Ci svegliamo e facciamo la prima colazione scozzese, sistemiamo nuovamente tutto il
nostro equipaggiamento negli zaini e Riccardo mi spiega come legare il tappetino sul
fronte dello zaino piuttosto che in alto sopra la mia testa. Chiudiamo dietro di noi la
porta della Guest House e camminando fra i palazzi del centro ci dirigiamo verso la
Buchanan bus station. Sono i primi cinquecento metri con lo zaino sulle spalle,
finalmente riesco a regolare gli spallacci e sento un grande sollievo alla colonna
vertebrale, anche se rimane la sensazione di cadere all’indietro.
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Alla stazione facciamo scorta d’acqua e compriamo le batterie per la macchina
fotografica, poi andiamo subito verso la corsia dell’autobus numero 8 per Drymen. Ci
sono già altri ragazzi con gli zaini e vestiti come noi, mi chiedo da dove vengano e
quanto trekking facciano, penso che loro saranno sicuramente più allenati di noi.
Mentre rifletto sul nostro stato fisico, vedo Emma che si siede sulla pensilina e il suo
zaino che cade all’indietro portandosi appresso anche lei, riesco ad acchiapparla
giusto in tempo per evitarne la caduta e arriva il nostro bus.
Passiamo di fronte allo stadio del Partick Thistle, la più antica squadra di calcio di
Glasgow, attraversiamo zone residenziali e tanta periferia, penso alle comodità che
stiamo lasciando e arriviamo alla piazza principale di Drymen.
Scendiamo e ci chiediamo da dove si prenda la West Highland Way. Ci guardiamo
intorno e vediamo che anche gli altri ragazzi se lo chiedono, alcuni in tedesco, altri
forse in olandese. Riccardo va a raccogliere informazioni in un hotel che sta proprio
sulla piazza e gli viene indicata la strada che dovremmo seguire per circa due miglia.
Prima di noi si incammina una coppia di ragazzi che prende una via diversa dalla
nostra. Seguiamo l’indicazione ricevuta ma chiedo comunque a Riccardo se ha capito
bene, lui mi risponde sicuro con un sì. Mi metto in bocca una gomma da masticare per
la mia perenne gastrite e siamo in marcia. Camminiamo per dieci minuti lungo la
stretta strada asfaltata che permette il passaggio di una sola auto per volta, ma di
macchine nemmeno l’ombra. Ai lati la via è accompagnata da alberi e chiusa da
recinzioni, al di là delle quali ci osservano grosse mucche che mi incutono un po’ di
timore. Da bambino non mi sarei preoccupato per la presenza degli animali, mi sarei
inginocchiato per raccogliere qualche pinolo e forse, alla fine, ne avrei riempito una
busta. Avrei schiacciato qualche pigna e poi sarei corso a cercare qualche mora,
pensando alla marmellata che avrebbe confezionato una vecchia zia. Seguiamo la
strada e tutto scorre veloce, finalmente viene verso di noi un’auto con a bordo due
anziani signori, li fermiamo e chiediamo informazioni ottenendo la conferma che siamo
sulla strada giusta. Continuiamo sulla nostra via fino a che non raggiungiamo
l’ingresso di un bosco e arriviamo davanti a un cartello che ci indica di svoltare su una
strada sterrata per incrociare la West Highland Way.
Forse ci siamo, camminiamo per altri venti minuti, poi ci superano tre ragazzi, i primi
“walkers” che incontriamo. Sono tedeschi, li salutiamo e si stupiscono quando gli
diciamo di essere italiani. Intuiamo che non devono essere molti i nostri connazionali
dediti al trekking. Ci raccontano che loro hanno percorso anche la prima tappa, quella
che saltano tutti, e che l’hanno trovata noiosa, tutta strada dritta attraverso la zona
industriale di Glasgow e piccoli agglomerati urbani. Salutiamo i ragazzi e ci diamo
appuntamento al pub per qualche birra a fine tappa. Riprendiamo la marcia e dopo
altri venti minuti raggiungiamo un largo sterrato nel mezzo del bosco. Finalmente
scorgiamo il primo paletto di legno che indica la via da seguire e sul quale è dipinto in
bianco un “Thistle”, il cardo viola scozzese. Nello spiazzo ci sono dei grossi tronchi
ricoperti di muschio, sopra i quali stanno seduti i tre tedeschi che mangiano qualcosa.
Mi chiedo se le miglia che abbiamo percorso fino a questo spiazzo siano incluse nei
venti chilometri e cinquecento metri da fare nella tappa, non si capisce dalla mappa di
Riccardo. Mi viene già da pensare a mangiare e considero che il primo posto dove
incontreremo un pub sarà Balmaha, a undici, forse nove, chilometri da qui. Scattiamo
qualche foto e riprendiamo la marcia. Guardando la cartina si capisce che il bosco è
in realtà una grande foresta, la Garadhban Forest nel Queen Elizabeth Forest Park. Il
sentiero si percorre facilmente, camminiamo a tratti nel fango, attraversiamo ruscelli e
per quarantacinque minuti continuiamo la marcia dentro il bosco, per poi uscire nella
campagna. Il sentiero continua fra basse colline disseminate di mucche e pecore. Fra
tutti gli animali, su un piano più alto, c’è la “highland cow”, la grossa vacca dal
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lungo manto rosso e dalle lunghe corna. L’enorme mucca sta seduta a lato del
sentiero, mastica e ci osserva arrivare. Vedo Riccardo che le passa a fianco per primo
con passo spedito ed Emma che cammina indifferente. Io smetto di canticchiare e pian
piano vado incontro al grosso animale. Facendo finta di niente e cercando di non
incrociarne lo sguardo, passo vicino alla vacca e sento che mi osserva. Senza
movimenti bruschi e camminando lentamente la lascio alle mie spalle. Che tipo strano,
avrà pensato l’animale. Lungo il sentiero apriamo e chiudiamo tanti piccoli cancelli di
legno, quelli che servono a non fare scappare gli animali. Provo una sensazione di
impotenza qui nella campagna e mi sento un intruso in un quadro. Un tempo mi sarei
fermato a sentire gli odori, avrei preso in mano una spiga di grano, sarei stato ad
ascoltare il ronzio degli insetti e quello strano cicalìo che, nella campagna colpita dal
sole, non si capisce mai da dove venga. Sembra che questo mondo non mi appartenga
più e mi chiedo cosa mi spinga a proseguire nel mio cammino, per poi rendermi conto
che semplicemente sto andando avanti. In lontananza compare la “Conic Hill”, la
prima vera difficoltà del percorso, una verde collina con un dislivello di
trecentosessanta metri. Il nostro sentiero, dopo una lunghissima curva, si dirige verso
quel colle, per andare a scavalcarlo e a perdersi chissà dove dall’altra parte. Ricordo
di aver letto che nel periodo della gestazione delle pecore la collina viene chiusa e la
West Highland Way deviata, ma oggi la si può passare. Andando incontro alla collina,
la salita mi spaventa un po’. Quando ci siamo sotto guardo verso la cima e sento lo
zaino pesante sulle spalle. Riccardo è già su per la collina, Emma ed io stiamo
iniziando a salire, realizzo che devo seguire solo il mio ritmo ed accelero. Preoccupato
mi accorgo che Emma scompare dalla mia vista in basso, dietro di me. Continuo a
salire sul ripido sentiero e sento il cuore che accelera, le gambe molli e il fiato che va
via. Devo fare grossi respiri e la testa sembra che giri, spingo sulle gambe veloce e
guardo giù fino a valle. Il cuore è a mille, ma se mi fermo mi gira la testa. Prendo un
po’ di fiato, guardo dietro e Emma non c’è, aspetto un attimo, penso che starà
arrivando e continuo, dovrà finire questa salita, siamo quasi su, penso. Ma poi non è
vero, è un’illusione, sale ancora. Sono bagnato dal sudore ma non posso svestirmi, c’è
vento e mi si ghiaccerebbe addosso. Mi fermo di nuovo, mi piego in avanti sulle gambe
per non rovesciarmi all’indietro, prendo fiato e riparto, altri dieci minuti e sono in
piano, sulla cima. Vedo altri ragazzi che vengono in senso inverso al mio, devono
essere quelli che fanno solo la passeggiata del giorno. Aspetto Emma in cima e dopo
un po’ la vedo spuntare fra i thistle, tutta rossa in viso, quasi viola come i cardi, ma
con più fiato di me. Raggiungiamo Riccardo che si è fermato ad aspettarci e ci
rendiamo conto che abbiamo superato la prima fatica. Incrociamo dei signori che ci
dicono che per scendere dall’altra parte, a Balmaha, per ragazzi come noi, ci vorrà
circa un’ora. Riprendiamo il cammino, il sentiero gira e scende con un forte dislivello.
Pian piano ci affacciamo su una gigantesca vallata verde, nel cui mezzo domina
l’azzurro di Loch Lomond. Lontano, sulla sponda del lago, sta il villaggio di Balmaha
e più in fondo, oltre il lago, ci sono i monti, il cielo e le nubi bianche. Seguo Riccardo
che scende avanti a me e vedo il suo Kway continuamente sbattuto dal vento. E’ la
prima ripida discesa, lunga e pesante. “Ascolto” le mie ginocchia e le sento a posto,
scendiamo veloci ma Emma rallenta, sente le sue gambe tremare.
Alle 15.00, dopo un’ora e quarantacinque minuti dall’ incontro con quei signori, siamo
a Balmaha. Emma ed io entriamo subito in uno shop e compriamo le retine contro i
midges, il repellente e la guida della West Highland Way. Riccardo entra nel negozio e
affamato reclama il pranzo: “Dai, ci pensiamo dopo a comprare quelle cose, andiamo
a mangiare!”. Ci fermiamo al primo pub che incontriamo e ci diamo sotto con crostini
all’aglio ricoperti da formaggio cheddar fuso, cheeseburger, salmone e patate. Mentre
mangiamo, schiena sudata e zaini poggiati ai lati delle sedie, ci guardiamo e ridiamo:
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“Mamma che fame!”. Con piacere mi alzo da tavola per andare a fumare una
sigaretta, vado fuori e penso al resto del cammino che ci attende e a dove passeremo
la notte. Quando torno al tavolo sorseggiamo un caffè con latte da una tazza “mug” e
poco dopo le 16.00 ripartiamo. Sembra tutto in ordine, le gambe, le braccia, tutto
risponde alla perfezione. La West Highland Way si dirige verso il lago e ne tocca una
sponda. Costeggiando Loch Lomond passiamo da una piccola spiaggia pietrosa ad
un’altra, sono tante le spiagge e quando ci troviamo sulla più lunga sentiamo dei passi
che si avvicinano sempre più e che ci stanno per raggiungere. I due ragazzi che
avevano sbagliato strada a Drymen ci affiancano, ci salutano e ci superano.
Continuiamo a camminare sui sassi lungo la sponda del lago e decidiamo di fermarci.
Poggiamo gli zaini e seduti sulle pietre ci concediamo un attimo di pausa. Quando sto
per rendermi conto di dove sono, dall’acqua arriva un’anatra che scuote le sue piume
e si guarda intorno. L’animale ci osserva da due metri di distanza e si guarda
nuovamente intorno, prima di ributtarsi fra le acque del lago e sparire lontano. Siamo
già all’imbrunire, dobbiamo ancora camminare per circa dieci chilometri, siamo
lontani e mi chiedo a che ora arriveremo. Poi è Riccardo ad analizzare la situazione e
a portarmi nella giusta dimensione: “Non ci sono problemi, non dobbiamo per forza
arrivare a Rowardennan perché abbiamo la tenda, abbiamo tutto quello che ci serve!
Dobbiamo solo procurarci qualcosa da mangiare, che compreremo a Cashell fra tre
chilometri. Poi possiamo fermarci dove vogliamo, dove troviamo un posto bello, no?”.
Per un istante vorrei fermarmi ancora a guardare la papera che si allontana tra le
ondine del lago, poi, invece, mi alzo di scatto e dico: “Dai, muoviamoci, andiamo.”.
Riprendiamo il cammino costeggiando il lago, calmo a riva, che sembra mare per
quanto è grande. Il sentiero si allontana dalle acque per continuare dieci metri più in
alto, sotto le colline. Percorriamo i tre chilometri che ci separavano da Cashell e
giungiamo in un grande spiazzo, dove ci sono un’azienda agricola ed un campeggio.
Incontriamo di nuovo i due ragazzi della spiaggia, sembra che stiano pensando a cosa
fare, ma poi continuano la loro marcia. Ci guardiamo fra noi, ci consultiamo e
decidiamo di fermarci. Recupereremo domani la strada non percorsa oggi, siamo
veramente esausti ed è buio. Ho dubbi sul fatto di riuscire a camminare per trenta
chilometri nel giorno seguente, oggi forse ne avremo fatto quindici, ma ora non ci
voglio pensare, voglio montare la tenda, farmi una doccia e cenare.
Alla reception del campeggio paghiamo cinque sterline a testa per la notte in tenda e
chiediamo dove si possa mangiare qualcosa. Ci dicono che c’è un pulmino che parte
dal campeggio alle 18.30, va al Rowardennan Hotel per la cena e poi torna indietro a
Cashell alle 21.30. Abbiamo solo un’ora di tempo, ma è l’unica soluzione per poter
cenare, quindi accettiamo.
Il campeggio sta proprio sul lago, le tende e le roulotte sono disseminate su grandi
prati che arrivano fino alla riva e tanti alberi, sparsi qua e là, sono mossi da un
leggero venticello. Subito ci adoperiamo a montare la tenda, Emma consiglia di
posizionarla in discesa, Riccardo dice che in discesa dormiremmo scomodi, io guardo
il cielo e dico che non pioverà, decidiamo di metterla in piano. Una volta montato il
nostro rifugio per la notte ci guardiamo intorno e ci rendiamo conto di essere al centro
di una conca. Tutte le altre tende stanno in cerchio sopra di noi e qua in mezzo non c’è
neanche un albero, stanno tutti più su. Io sono certo che non pioverà, il cielo è stellato.
In tutta fretta ci organizziamo per farci una doccia. Riccardo e Emma vanno prima di
me, lui torna e mi dice di andare alla “family room” che è una “figata”. Seguo il
consiglio e in effetti il bagno familiare è pulitissimo, viene voglia di poggiare i vestiti
sui servizi, il borsello sul lavandino, di entrare scalzi sotto l’acqua, poi però le mie
fisse sull’igiene mi fanno stare cauto. Ultimata la fase doccia, tremando dal freddo,
con ai piedi le mie ciabatte da piscina, corro verso la tenda per cambiarmi mentre
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Emma e Riccardo bloccano il pulmino. Riusciamo nell’impresa di salire sul mezzo che,
dopo aver raccolto altre persone da vicini Bed & Breakfast e dopo aver percorso dieci
chilometri di strada, che noi tre faremo di nuovo domani a piedi, ci scarica davanti ad
un grande caseggiato in pietra, il Rowardennan Hotel. Entriamo nel pub e ci troviamo
finalmente al caldo, in una taverna piena di gente dove risuonano tanti linguaggi e si
viene avvolti dalle risate sorseggiando birra e mangiando abbondanti pietanze
rustiche. Alle pareti c’è appesa qualche testa di cervo e di cinghiale, sui bordi del
camino ci sono delle statuine a caricatura dei temuti midges, gli insetti che hanno fatto
si che partissimo con sei scatole di antistaminici.
Il barista ci chiede da dove arriviamo, fa due battute sul calcio e sorridente ci chiede
se sia uno sport praticato anche da noi in Italia. Ci domanda poi della mafia ed io gli
rispondo che in Sardegna abbiamo i sequestri di persona. Il discorso va a finire sul
Cagliari e ovviamente anche sul Celtic e sui Rangers, le due squadre rivali di Glasgow.
Il barman dice di essere per il Celtic, la squadra dei cattolici, nata nel lontano 1888
proprio dalla comunità irlandese di Glasgow, che porta come colori il verde ed il
bianco ed ha come simbolo il quadrifoglio. Mai nessuno nomina il Partick Thistle, la
squadra più antica della metropoli scozzese, quella con la maglia di colore giallo,
rosso e nero, ormai relegata a giocare nelle serie inferiori. Alla TV stanno
trasmettendo una partita dei Rangers, forse i preliminari di Champions League, dal
tavolo vedo il barista che esulta e penso che stia facendo il tifo contro la squadra
rivale.
Riccardo ed io beviamo le prime birre e andiamo fuori a fumare, comincia a piovere e
a fare freddo e noi abbiamo addosso solo una felpa. Alle 19.45, a quindici minuti dalla
chiusura delle ordinazioni, scegliamo carne di manzo, patate, salmone e “garlic
bread”, il nostro amato pane all’aglio.
Mentre aspettiamo il cibo, giunge al nostro tavolo un ragazzo che dice di venire da un
paese dell’est, racconta di essere sposato con un’italiana e di essersi avvicinato a noi
perché ha sentito la nostra lingua. Mentre il barista continua a imprecare verso la
televisione, quel ragazzo ci dice che non percorrerà tutta la West Highland Way, ma
solo un’altra tappa ancora. Per lui domani sarà solo una piccola escursione fra i monti
con la famiglia, durante il loro viaggio estivo. Sul muro di fianco al nostro tavolo c’è
appesa una mappa con tutte le tappe della West Highland Way, non posso fare a meno
di pensare che domani dovremo camminare per circa trenta chilometri e recuperare la
strada non fatta oggi. Dal tavolo accanto si avvicina una signora bionda e di
corporatura grossa, tutta truccata e ingioiellata dal collo alle braccia e fino alle mani.
Dice di essere di Glasgow e ci chiede da dove veniamo, poi ride e fa qualche battuta,
scatta una foto e canta qualche canzone. Nasce un vero e proprio gemellaggio fra i
tavoli, finiamo di cenare e salutiamo con un brindisi, dicendo “slanch” in gaelico.
Aspettando l’arrivo del pulmino, appena fuori dal locale, mi guardo intorno. Su alcuni
alberi ci sono appese le locandine con le foto di due ragazzi scomparsi qualche anno fa
e sul muro della taverna c’è una targa che chiede ai viandanti di fare il proprio
cammino di preghiera lungo la West Highland Way e di sentire il respiro della natura
senza arrecarle per nulla del male, praticamente dice di non buttare la spazzatura in
giro. Guardo verso il pub e sento arrivare un’auto, mi volto e rimango impietrito
vedendo un rottweiler che scende dalla macchina. Molto lentamente mi giro, faccio
finta di niente e pian piano mi dirigo verso i miei compagni dall’altra parte della
strada. Riccardo segue ogni smorfia del mio viso e scoppia a ridere, così come fanno
anche altri due ragazzi che aspettano il nostro stesso pulmino. Quando arriviamo al
campeggio non piove più, tuttavia, per maggior sicurezza Emma ed io portiamo gli
zaini con noi, al coperto. Riccardo, invece, lascia fuori il suo bagaglio, sotto la tenda,
ma fuori dall’ambiente dove dormiamo, sotto la tela, ma poggiato sul prato. Per terra è
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più duro di quanto pensassi, lo spazio è poco e la testa non ha base d’appoggio, fino a
che non ci metto sotto una felpa in pile arrotolata. Mi addormento dopo essermi più
volte rigirato da una parte e dall’altra, ma dopo qualche ora la tenda è un rifugio
caldissimo, soprattutto quando comincio a sentire il ticchettio della pioggia sulla tela
che ci dà riparo.
1 di agosto
Il ticchettio aumenta sempre più e diventa quasi rumore, mi sveglio, mi riaddormento e
mi risveglio, sento Emma che esce dal sacco a pelo a fianco al mio e Riccardo che
dice: “Minchia! Sta piovendo!”.
Assonnato e sorpreso sento che Emma prende da fuori lo zaino di Riccardo ed
esclama: “E’ tutto bagnato per terra!”.
Come niente fosse ci sdraiamo di nuovo e per la prima volta, preoccupato, mi chiedo se
la tenda reggerà alla notte. Dopo qualche ora comincio ad avvertire l’acqua sotto di
noi, non penetra ma si sente, Emma apre la tenda e l’acqua sta quasi per entrare, ad
un pelo dalla cerniera. Non so cosa fare, in un attimo vengo preso dallo sconforto, poi
mi agito, ma Emma prende subito in mano la situazione: “Smontiamo la tenda
dall’interno, così non si bagna nulla!”. Io non ho la minima idea di cosa Emma voglia
dire ma eseguo i compiti senza fare domande. Dentro la tenda e fuori sotto la pioggia,
prendo roba dall’interno e la porto fuori, tengo un lembo di tela e passo un asta di
plastica, Emma mi dice cosa fare ed io lo faccio, non so se per Riccardo sia lo stesso.
Emma continua a dirigere le operazioni e noi rispondiamo prontamente, le nostre voci
nella penombra scandiscono tutti i tempi dell’operazione. Quando la tenda è
completamente smontata, nella speranza che sia rimasta asciutta all’interno,
rimangono solo le ciabatte infradito di Riccardo a galleggiare nell’acqua, le aveva
lasciate fuori.
Andiamo al coperto sotto un piccolo tetto davanti alla reception, ci sono due panche
ma la porta è ancora chiusa. Dove eravamo accampati c’è una specie di acquitrino e
in cerchio, più in alto, stanno tutte le altre tende ancora chiuse. Sono le sei e cinquanta
del mattino e tutti ancora dormono tranquilli, al caldo, magari avranno solo sentito
qualche voce, noi ci rendiamo conto che è meglio fare silenzio. Mi accendo una
sigaretta e tiro un sospiro di sollievo per come ce la siamo cavata. Ora ci aspettano
trenta chilometri da percorrere e la tenda non può essere riposta bagnata nei nostri
zaini. In ogni caso, anche se riuscissimo a trasportarla, non potrebbe asciugare in
tempo per la prossima notte. Aspettando l’apertura della reception, ci consultiamo sul
da farsi e propongo di chiedere una lista dei Bed & Breakfast per prenotare una stanza
per la notte. Riccardo, vista la lunghezza della tappa e i suoi polpacci doloranti,
consiglia di ricorrere al trasporto bagagli e la sua proposta viene accettata
all’unanimità. Incrociamo le dita sulla possibilità di trovare una camera libera dove
dormire e aspettiamo al riparo dalla pioggia. Finalmente dopo un’ora possiamo
rifocillarci con una tazza di caffè, una ciambella e riusciamo anche a prenotare una
camera ad Inverarnan, dove hanno stanze libere, forse proprio grazie al mal tempo.
Lasciamo gli zaini, che verranno portati dal servizio trasporto bagagli direttamente
alla destinazione finale della nostra tappa e ci incamminiamo sotto le nostre mantelle.
Camminiamo liberi e leggeri, come bagaglio abbiamo solo delle buste con qualcosa da
bere e da mangiare e le medicine; ora non vale più il pensiero di Riccardo sulla
possibilità di fermarci dove vogliamo, quando non ce la facciamo più, ora la tappa
dobbiamo farla per forza tutta perché la tenda e i nostri zaini li ritroveremo solo a
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Inverarnan. Mi auguro di rientrare veramente in possesso dei bagagli alla fine della
giornata, mi immagino cosa accadrebbe se andassero perduti, avremmo finito la West
Highland Way. Lasciamo Cashell e riprendiamo il sentiero, che per un piccolo tratto
cammina tra l’erba alta costeggiando Loch Lomond e poi si inerpica e penetra in
mezzo ad un bosco. L’odore della vegetazione mi fa tornare il buon umore, saliamo a
passo spedito, poi lascio andare avanti i miei compagni e faccio una pausa.
Mi siedo su un masso e guardo il sottobosco, poi riprendo il cammino e raggiungo
Emma e Riccardo. Ho letto che in questa tappa passeremo per i luoghi dove Rob Roy,
il fuorilegge, ha vissuto la sua storia. Passeremo anche vicino alle grotte dove teneva i
suoi prigionieri, non penso però che potremo fermarci per una visita, altrimenti altro
che il ritardo dovuto alla paperella di ieri! Saliamo per circa un’ora e poi cominciamo
la discesa tra gli alberi. Mentre scendiamo il bosco sembra non finire, poi scorgo il blu
del lago. Siamo tornati sulle sponde di Loch Lomond e ci troviamo a costeggiare una
spiaggia che nasce proprio ai piedi degli alberi e che mi sembra quella dove è
ambientato il film su Rob Roy, quello con Liam Neeson. Chiedo a Emma se si ricorda
delle scene del film, girate sicuramente su questa spiaggia, ma lei già dormiva quando
arrivammo a guardare le sequenze sulla riva del lago. Comunque ne sono sicuro, era
proprio ambientato qui. Rientriamo nel bosco e presto ne usciamo di nuovo per
trovarci su un’altra riva e poi su un’altra ancora. Il sentiero lascia le spiagge, sale
verso la foresta e prosegue in piano. Sento un forte sollievo, si cammina facilmente, a
passo spedito, in una larga mulattiera nel mezzo della foresta, è anche una bella
giornata e ci accompagna la luce del sole. Se i trenta chilometri fossero tutti così li
faremmo alla grande, altro che ieri; dalla cartina sembrerebbe che almeno altri cinque
li cammineremo su questa mulattiera, quindi in scioltezza.
Sul lato sinistro le spiagge non si vedono più, ma in lontananza ci accompagna la vista
del lago. Emma ed io camminiamo avanti e voltandoci indietro non vediamo più
Riccardo. Decido di aspettarlo, mentre Emma prosegue con il suo passo lento e
costante, e dopo poco lo vedo spuntare sulla strada bianca, in compagnia della coppia
conosciuta ieri al pub. “Cacchio!”. Penso: “Sa quanti chilometri dobbiamo fare e che
dopo le otto di sera nei pub non si mangia più, non può mettersi a perdere tempo in
chiacchiere con questi due!”. Mi avvicino a Riccardo e sento con piacere che il
polacco e l’italiana con il bambino hanno in programma di deviare dalla strada per
un’escursione alle prigioni di Rob Roy. Presto li salutiamo e non li incontreremo più, i
tre non proseguiranno sulla West Highland Way.
Cammino rilassato al fianco di Riccardo, lui mi offre una sigaretta e mi fa: “Non ci
credo, mi sta facendo male il ginocchio!”. Preoccupato gli rispondo:“ Prendi una
bustina di antidolorifico, ho portato il nimesulide”. Ma lui, stoico: “No, continuo ora e
vedo come va, Emma dov’è?”. “E’ avanti la mia dolce metà: zitta zitta e pian piano ci
sta surclassando…e se questa mattina non ci fosse stata lei come l’avremmo finita?”,
gli rispondo.
Riccardo sorride e continua:“Fabio, siamo scoppiati noi due! Ascolta, ma te lo
mangeresti un pollo arrosto con le patatine adesso?”.
“Asco’…, cammina!”, gli dico mentre lui ride.
Proseguiamo il cammino e Riccardo mi fa: “Ma prima di partire te lo sei ripassato il
film su William Wallace?”.
“Beh, la storia che conosco io è molto diversa.”
“ Perché?”
“Mah, innanzi tutto la Scozia è sempre stata libera e indipendente fino alla parentesi di
Wallace, Bruce, Edoardo I e via dicendo. Anzi, la monarchia scozzese è più antica di
quella inglese. Quindi non capisco perché, nel film, Wallace dica a Bruce che lottando
avrebbero potuto avere un regno tutto loro, come mai nessuno scozzese aveva avuto
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prima.”. Riccardo mi guarda stupito e mi chiede ancora: “Ma la storia di Wallace?”.
In quel momento penso al personaggio che più di tutti mi ha fatto innamorare di questa
storia scozzese e gli rispondo: “Wallace non era figlio di un contadino ma di un
cavaliere ed era legato con il clero. Non ha iniziato la rivolta perché gli hanno ucciso
la moglie ma è avvenuto il contrario. L’hanno ammazzata proprio perché lui da tempo
dava battaglia agli inglesi.”
Vedo che Riccardo, mentre cammina, mi ascolta, allora continuo: “Tra l’altro lui è
quello che è diventato famoso, ma in realtà non era il solo a portare avanti
l’insurrezione, c’era un certo Andrew Moray, che però non si è filato nessuno perché
non aveva un biografo come quello di Wallace”.
Riccardo è interessato e mi chiede: “Ma quando ha vinto a Stirling era da solo?”.
“No..”. Gli rispondo: “A Stirling c’era anche Andrew Moray, uno conduceva la sua
guerriglia nel nord, l’altro nel sud del paese. A Stirling erano insieme, Andrew Moray
è morto proprio in quello scontro.”. Camminiamo e continuo raccontare: “Tra l’altro
la battaglia di Stirling che è stata rappresentata nel film non c’entra per nulla con
quella avvenuta in realtà. Non c’è stato uno scontro in campo aperto, ma in un
piccolissimo spazio intorno al ponte di Stirling, che tu conosci bene.”
Riccardo ride e mi ricorda: “Eh si, te l’avevo detto di quella volta che siamo usciti per
andare al pub con Dave, siamo passati a fianco del ponte e il fiume scorreva. Poi,
siamo ripassati di là per tornare a casa e il fiume era ghiacciato! Le tubature
dell’acqua scoppiate, un casino!”. “Si, mi ricordo”. Rispondo e continuo:
“Ecco, immaginati lo spazio stretto, la battaglia è avvenuta là.”. Riccardo mi guarda
stupito e mi chiede ancora: “Altri errori?”. Mi viene in mente un lungo elenco, poi
scelgo cosa citare: “Mah, quando ha perso a Falkirk, non è stato sconfitto perché
qualcuno l’ha tradito, ma ha semplicemente sbagliato tattica perché preso di sorpresa
dagli Inglesi. Non si aspettava l’attacco, pensava che i nemici fossero più lontani, ma
invece fu aggredito senza che potesse nemmeno attuare un piano di battaglia”.
Riccardo ci pensa e mi chiede: “Perché?”. “Le spie non l’hanno informato, non si
spiega. Molti addirittura pensano che lui non fosse in mezzo alla battaglia, ma stesse
osservando da lontano. Non si riesce bene a spiegare come si sia salvato senza sforzo,
mentre gli altri siano morti.”
Riccardo mi chiede: “Beh, ma cosa c’è di vero allora?”. “Tanto. I suoi valori, il suo
coraggio, il sacrificio per la libertà senza condizioni. E’ vero che in gioventù uccise lo
sceriffo di Lanark e che dopo la vittoria di Stirling fu nominato Cavaliere e Guardiano
di Scozia. Con Wallace e con il suo martirio nasce per la prima volta, nel popolo, il
sentimento di identità nazionale. Le sue parole agli inglesi, quando si rifiuta di
scendere a compromessi prima della battaglia di Stirling, sono vere. Come è stato
portato davanti ai giudici a Londra tra sputi e uova, è vero. Come si sia rifiutato di
giurare fedeltà al re inglese, dicendo di non aver mai giurato nulla a un sovrano che
non era il suo, è vero.”.
Riccardo mi interrompe e mi chiede: “E come è morto, è vero quello?”. Senza batter
ciglio rispondo:” Si, e non si è visto tutto. Gli hanno strappato gli occhi e li hanno
buttati nel fuoco, poi la stessa sorte è toccata ai testicoli. Infine, le lame hanno scavato
nella sua pancia, prima che fosse decapitato. La testa è stata esposta a Londra mentre
le altre parti del corpo sono state mandate ai quattro capi del regno. Non so se
morendo abbia urlato veramente la parola… Liberta!”.
Uno zio prete di Wallace un giorno disse al nipote: “Ti dico la verità, la libertà è la
cosa più preziosa. Non vivere mai sotto un giogo servile, figliolo.” L’eroe di sicuro
portò sempre con sé quelle parole.
Accelerando il passo non faccio fatica a raggiungere Emma. Secondo i nostri calcoli,
in base alla mappa, fra un po’ dovremmo cominciare a scendere di nuovo verso la riva
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del lago. Emma propone di fermarci per mangiare e per aspettare Riccardo, che arriva
zoppicante: ”Fabio, me lo dai il nimesulide?”. Sento che ho fatto bene a portare tutte
quelle medicine e gli consiglio: “Si, ma prima mangia qualcosa”. “No, dammelo
subito”. Io insisto: “Richi, devi mangiare qualcosa prima!”. Riesco a convincere
Riccardo a buttare giù qualche snack e gli porgo la bustina di anti-dolorifico e una
bottiglietta d’acqua semi vuota in cui sciogliere la polvere. Riccardo la prende e mi
dice: “No, senza acqua!”. Fatto questo, si svuota la bustina in bocca e mi dice: “Così
fa effetto prima!”.
“Tu sei tutto rincoglionito!”. Gli faccio io e continuo: “Ma lo sai che è il contrario? Si
scioglie nell’acqua perchè più le particelle sono fini meglio vengono assorbite...”.
Emma mi interrompe di botto: “Fabio non cominciare con la lezione…!”. Rassegnato,
osservo Riccardo che conclude la sua opera.
Riprendiamo il cammino, il sentiero si restringe e prosegue a salti verso il basso. In
certi punti, per muovere un passo sul terreno, ci sorreggiamo agli alberi e carichiamo
su una gamba. Penso al ginocchio di Riccardo e mi chiedo quanto indietro stia
camminando, il mio amico, nel bosco in cui ci troviamo. Ogni volta che gli alberi si
aprono, avanti a noi appare lo scenario del lago, e ogni volta la vista sembra più bella.
Viene voglia di fermarsi. Attraversiamo tante cascate passando su ponti di legno per
poi ritrovarci di nuovo sul lago, maestoso come sempre, anche se ora sembra più
stretto. Ci fermiamo per una pausa, il lago è calmo e il sole è quasi scomparso.
Notiamo che il sentiero prosegue costeggiando l’acqua, ma poi rientra nella foresta;
giusto il tempo di una sigaretta e di un sorso d’acqua e ripartiamo. Riccardo dice che
il nimesulide ha fatto effetto, ma che però sta cominciando a sentire dolore a un
tendine, forse per le scarpe nuove, comprate appena prima di partire.
Rientriamo fra gli alberi, il sentiero sale a salti, impervio, ripido e stretto. Anche per
salire ci sorreggiamo agli alberi, la fatica comincia a farsi sentire sui muscoli delle
gambe, ma dobbiamo andare avanti. Non c’è tempo per pensare perché ci appare
avanti un’altra fatica. Nel mezzo della foresta, il sentiero svanisce ai piedi di una
collina da scavalcare, ci aspetta un’arrampicata sulle rocce. Preoccupato chiedo a
Emma : “Ma le pietre saranno stabili?”. Lei fa una smorfia: “Certo, dai! Riccardo
dov’è?”. “E’indietro.”. Le rispondo.
Effettivamente le rocce sono ferme e stabili, saliamo per un centinaio di metri,
passiamo dall’altra parte della collina e il suolo, in discesa, non è fatto solo di roccia.
Il sentiero rientra nuovamente nella foresta e ci fermiamo ad aspettare Riccardo.
Ricominciamo la marcia fra gli alberi, la via prosegue completamente immersa nella
foresta, con tanti sali e scendi e salti su piccole cascate.
Dopo l’ennesimo paletto, che segnala che siamo sulla West Highland Way e mostra il
“Thistle”, arriviamo a un cartello che indica la nostra posizione. Mancano ancora tre
o quattro chilometri per arrivare a Inversnaid, poi altri undici per Inverarnan.
Comincio a pensare che forse è impossibile per le mie forze fare altri quindici
chilometri, ma Emma e Riccardo sono più fiduciosi e proseguiamo camminando più
veloci.
Il sentiero diventa più impervio nel mezzo del bosco, camminiamo ancora per qualche
chilometro e poi comincia a scendere ripido. Lo sforzo sulle ginocchia è sempre più
grande, per sostenere il mio peso in discesa, a ogni passo, mi devo ancora sorreggere
agli alberi.
Vedo che la luce penetra sempre più intensamente fra la vegetazione, in breve tempo ci
troviamo a uscire dal bosco. Compare nuovamente Loch Lomond, ci troviamo in uno
spiazzo asfaltato su cui sorge un grande albergo in pietra. Siamo ad Inversnaid.
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Sotto il piazzale, di fronte all’hotel, c’è una scogliera e un molo dove è ormeggiata una
barca, in lontananza un battello sta attraversando il lago e sembra dirigersi verso la
nostra sponda.
I monti intorno sono completamente ricoperti da boschi e l’albergo sembra parte della
montagna che gli sta dietro.
I muscoli delle mie gambe sono bloccati, non riesco a muovere un passo, ad ogni
movimento sento dolore, niente sembra più naturale per il mio corpo. Trascinandomi a
piccoli passi, camminando con la schiena dritta e cercando di muovere il bacino il
meno possibile, mi dirigo verso l’ingresso dell’albergo.
Ad ogni passo mi sembra che le caviglie, rigide ed immobili, scendano dalla loro
posizione e tocchino l’asfalto. E’ impossibile che possa camminare altri undici
chilometri fino ad Inverarnan, per fortuna anche Emma e Riccardo sono nelle mie
stesse condizioni.
Fare due scalini per entrare in albergo è un’impresa, ma ho fame! Emma e Riccardo
sono già dentro e voglio mangiare!
Ordiniamo dei cheeseburger, prendiamo due birre e ci accomodiamo nel pub.
Riccardo va a chiedere informazioni sul battello che porta dall’altra parte del lago,
viene verso il tavolo a piccoli passi zoppicanti e ci informa: “Parte fra un’ora, dai che
per mangiare andiamo a sederci in un tavolino fuori che c’è il sole.”.
Il battello che avevamo visto prima è oramai attraccato al piccolo molo, lascia
sbarcare un gruppo di anziani e riparte. Seduti ai tavolini, introno a noi, ci sono tanti
vecchietti, le signore con i grandi cappelli di paglia, i signori con il bastone ma con le
scarpe da trekking. Emma battezza l’albergo Villa Arzilla, consumiamo il nostro pasto
e torno dentro a comprare qualche tramezzino per la notte, nel caso non trovassimo un
pub dove cenare.
Emma e Riccardo sono già sul molo, lui mi vede scendere con i tramezzini in mano, a
piccolissimi passi, dalla breve scalinata che porta al lago e sorridente mi fa:
“Tramezzini? Oggi mangiamo al “Drover”! Il più antico pub della Scozia! Animali
imbalsamati, caminetto, non è mai stato ristrutturato, sembra tutto diroccato, è pieno
di ragnatele, ma vedrai! A volte non trovi posto perché è pienissimo di gente, ma è da
vedere.” Io faccio appello alla mia gastrite notturna e rispondo : “Li ho comprati per
sicurezza, se di notte mi viene fame... Mamma che dolore le gambe, ahia”. Emma
allora interviene nella nostra discussione: “Si, si.. stiamo barando! Adesso lasciamo
Villa Arzilla, prendiamo il battello, poi il bus, stiamo “imbrogliando” di dieci
chilometri! Però va bene, ma chi se ne frega!”.
Dopo una mezzora arriva il barcone che ci porterà dall’altra parte del lago. Poggiati
al muro, a lato del molo, aspettiamo mentre sbarca un altro gruppo di anziani
vacanzieri e poi saltiamo a bordo. Sul battello ci sono anche i tre “walkers” tedeschi
che abbiamo già visto al campeggio di Cashell, due ragazze e un ragazzo.
La traversata dura circa dieci minuti ma Emma riesce comunque ad appisolarsi.
Quando arriviamo dall’altra parte ci troviamo in un piccolo porticciolo. Ci sono due
moli in legno, sui quali sono ormeggiate alcune barchette. Nell’acqua nuotano tante
anatre, mentre altre ancora riposano sopra i legni. Saliamo una piccola scalinata e ci
troviamo su un piazzale circolare, c’è un ufficio turistico, ma è chiuso. Attraversiamo
lo spiazzo e avvistiamo la fermata dell’autobus per Inverarnan, abbiamo un’ora di
attesa prima che passi il nostro mezzo. I tre tedeschi si fermano ad aspettare sulla
strada, noi torniamo sul piazzale e attendiamo seduti sulle panchine dell’ufficio
turistico, godendoci la vista del lago. Il battello è già ripartito per Inversnaid, il sole è
andato via e soffia un vento freddo. Arriva una vecchia auto dalla quale scende una
famiglia dai tratti indiani, due bambini e un ragazzino si dirigono verso il parapetto
sopra il lago e iniziano una gara nel colpire le anatre con la ghiaia che sta al lato delle
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aiuole del piazzale. I genitori ridono divertiti, penso che forse è un appuntamento fisso
per loro, quello di venire a lanciare sassi alle povere anatre. Dopo aver buttato per
terra qualche cartaccia di cioccolati alle arachidi, patatine e qualche bottiglietta,
l’allegra famiglia sale di nuovo in macchina e va via.
Mi alzo dalla panchina, raccolgo qualche sassolino e prendo di mira i pali di legno che
escono dall’acqua, Riccardo mi segue e fa lo stesso. Andiamo avanti così per un po’,
Emma ci sta a guardare.
Quando ci dirigiamo verso la fermata dell’autobus, i tre tedeschi, o forse olandesi,
sono ancora là. Dopo pochi minuti arriva la corriera che ci lascerà a Inverarnan e che
proseguirà fino a Fort William. Troviamo posto a sedere ed è un grande sollievo per i
nostri corpi a pezzi.
In mezzo ai monti, scendiamo proprio di fronte al “Drover”, l’antico pub in pietra
grigia. Riccardo vuole entrare subito a vederlo. E’ pieno di animali imbalsamati, il
fuoco è acceso dentro più di un caminetto, si intravedono le ragnatele sui soffitti ed è
stracolmo di gente. Appese sul bancone del bar ci sono le magliette del locale con la
scritta “pub dell’anno 1705”, penso che ne acquisterò sicuramente due, per Emma e
per me. Potremmo aspettare che si liberi un tavolino e trattenerci a mangiare, ma
siamo troppo stanchi e sporchi per fermarci. Chiediamo al barista dove si trovi il
nostro campeggio e ci ripromettiamo di tornare al “Drover” per la cena.
Camminiamo per una decina di minuti a bordo strada, con gli scarponi che affondano
nel fango, poi, finalmente, ci ritroviamo in un enorme campo verde disseminato di
tende. Su un lato c’è il market, una casa in pietra e un pub, mentre su una collinetta,
nella parte più alta del campo, c’è una schiera di quattro casette in legno con tanto di
patio che le unisce . Sopra di noi, sui monti che racchiudono questa valle, in mezzo
alla foresta, mi sembra di sentire e vedere i cervi. Sotto un pergolato, a fianco del pub,
sono state allestite lunghe tavolate dove i “walkers” possono cucinare e mangiano. Ci
saranno almeno una quarantina di persone provenienti da ogni parte del mondo e non
si distinguono gli odori del cibo sul fuoco. Cerchiamo i nostri zaini e li troviamo
poggiati, insieme a tanti altri, sotto la tettoia vicino alla zona cucina, dobbiamo
semplicemente prenderli senza chiedere niente a nessuno. Entriamo nel pub per
prendere le chiavi della nostra casetta di legno. Saliamo qualche scalino, sull’ingresso
mi tolgo gli scarponi coperti di fango, dentro mi sfilo pantaloni bagnati, mi sento a
casa. Guardo le mie gambe e non ricordo di aver mai visto e sentito i miei muscoli
così tonici. Emma stende sulla ringhiera del patio la tenda ancora umida. Il
riscaldamento è acceso e i letti sono coperti da soffici piumoni bianchi e marroni. Sono
il secondo a farmi la doccia, poi mi sdraio sul letto e massaggiandomi le cosce cerco di
mandare qualche messaggio per descrivere dove mi trovo. Vorrei raccontare del
calduccio, parlare della foresta e far sentire i cervi, ma il cellulare non prende, non c’è
segnale. Forse sono riuscito ad inviare solo un messaggio a Gabriele, mio fratello.
Vorrei andare a mangiare al “Drover” e comprare le magliette, ma i miei compagni si
sentono troppo stanchi e Riccardo non ha un altro paio di scarpe oltre a quelle da
trekking. Si è portato solo le ciabatte infradito, quelle con bandierina del Brasile, con
le quali camminare nel fango è impossibile. I piedi di Riccardo non sono in condizione
di poter calzare di nuovo gli scarponi.
Decidiamo quindi di andare a mangiare al pub del campeggio. Una calda zuppa di
verdure è il massimo per iniziare la nostra cena, poi passiamo al salmone, alle patate
arrosto e al pane all’aglio con formaggio, sorseggiando birra chiara.
Esco fuori a fumare e per la prima volta vedo arrivarmi in faccia uno sciame di
midges. Indosso prontamente la mia reticella nera e guardandomi intorno noto che
nessuno ha il viso coperto oltre me. Ma io non voglio essere punto da quegli insetti, so
quanto sono sensibile anche semplicemente alle zanzare!
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Finito di mangiare, Emma ci saluta per andare a dormire, Riccardo ed io, invece,
rimaniamo un altro po’ al pub, da soli. I nostri discorsi e commenti sono quelli di
sempre. Questa volta, però, qualche riferimento va ai tre tedeschi, o forse olandesi, che
ci portiamo dietro da qualche giorno e che entrano nel pub.
Riccardo è convinto che le ragazze siano sorelle e che il ragazzo sia il fidanzato di una
delle due, io sostengo, invece, che siano amici e basta o che magari quello ne abbia
due insieme.
Lui, alto, pallido, biondo e grasso è proprio banale e brutto. Le due ragazze, invece,
non sono niente male, anche se nessuna delle due è il mio tipo. I nostri discorsi vanno
avanti come sempre, appunto, tra quadretti impossibili e nemmeno voluti.
Le sigarette nel pacchetto stanno finendo e il rifornitore automatico dispensa solo
tabacco sfuso, buttiamo giù un altro bicchiere e andiamo a letto anche noi.
Sono stanchissimo, ma non riesco ad addormentarmi. Qui intorno è un paradiso, ma
domani ripartiremo. Il tempo scorre, ma l’angoscia riaffiora. I pensieri sono gli stessi
in questo posto immobile. Mi giro e mi rigiro dentro il letto e risento quelle parole,
quelle cose ingiuste, insopportabili, intollerabili che mi irritano e non mi fanno
respirare. L’ansia sale e mi rigiro ancora. I muscoli delle gambe si irrigidiscono e il
cuore batte forte accorciandomi il respiro. La mia scelta è certa, ma mi soffoca,
piccolo e impotente oltre la prepotenza, l’ingiustizia, lo strapotere, il sistema, il giogo e
la risata.
Poi sale la rabbia, non devo decidere questa notte cosa fare e come andare avanti
quando non potrò più tornare indietro. Cosa succederà e che sarà di me, il tempo mi
sfugge, passa in fretta, mentre qui tutto è fermo.
Sento le sue risate, ma poi sento anche me stesso quando rispondo.
2 di agosto
Iniziamo la giornata con la solita colazione scozzese a base di uova e bacon, funghi e
salsicciotti, pomodori arrostiti e “black pudding”. Quest’ultimo è una specie di
sanguinaccio italiano. L’impasto è costituito da avena, grasso di rognone, cipolla e
sangue di pecora o di maiale. Il preparato ottenuto viene posto dentro delle budella e
viene fatto cuocere fino a che non si solidifica. Il salsicciotto viene poi, all’occorrenza,
tagliato a fette, arrostito in padella e servito caldo. Con la pancia piena di tutto quello
che abbiamo mangiato ci accingiamo a partire. Ma prima di consegnare gli zaini al
servizio trasporto bagagli, facciamo una visita al market del campeggio per comprare
qualcosa da mangiare. Tra le banane e le mele, notiamo che vendono anche materiale
da trekking. Compriamo due piccoli zaini che, nei prossimi venti chilometri che ci
separano da Tyndrum, sostituiranno le buste con le quali ci stavamo portando dietro i
nostri viveri, le medicine e gli indumenti di emergenza. Riccardo compra anche il
tabacco sfuso perché, anche qui, non hanno le sigarette.
Alle 10.30 lasciamo il campeggio di Inverarnan e ci incamminiamo per la mulattiera ai
piedi del monte di Ben Lomond. Il sentiero prosegue in piano tra le colline verdi e a
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tratti si lascia andare in dolci salite e discese. Alla nostra sinistra compare un fiume che
sfocia in Loch Lomond ed è difficile riuscire a non fermarsi a contemplare il panorama.
Noi “uomini” camminiamo non senza fastidio, a me fa male una caviglia e a Riccardo
un tendine. Sulla destra scendono dal monte tante piccole cascate, guardo il cielo ed è
grigio e coperto di nuvole, sembra stia per piovere. Il sentiero prosegue tra gli alberi,
cammino alla testa del gruppo seguito da Emma, mentre Riccardo arranca cento metri
più indietro. Camminando mi viene in mente che oggi passeremo per posti che mi
faranno respirare un po’ di storia scozzese, la chiesa di St Fillan e il piano della
battaglia di Dalrigh. Luoghi oscuri per le lotte interne e gli intrighi che vi presero atto
nel 1300.
In quegli anni alcuni nobili vedevano in un nuovo re scozzese la riconquista della
libertà. Altri volevano accaparrarsi il trono in maniera fittizia; il sovrano inglese
avrebbe comunque mantenuto il controllo dell’intera isola britannica appoggiando il
nuovo sovrano scozzese e facendogli dono di terre.
Alcuni nobili, da una parte, finanziavano o partecipavano attivamente alle battaglie e
alle rivolte contro gli inglesi, da un’altra, mantenevano buoni rapporti con il vicino
re al fine di assicurarsi i suoi favori, nuove terre e il suo appoggio nella corsa al
trono. Emblematico rimane il rapporto fra Robert the Bruce e suo padre, il conte di
Carrick. Quando il vecchio, connivente con gli inglesi, ordinò al giovane guerriero
passionale di andare a fronteggiare, combattendo contro il proprio popolo, la rivolta
che era stata iniziata da William Wallace, il giovane Robert arrivò al Douglas Castle
con i suoi vessilli al vento e in testa ai suoi cavalieri disse: “Nessun uomo tiene in
odio il sangue del proprio sangue, ed io non sono l’eccezione. Devo stare al fianco
del mio popolo e della nazione in cui sono nato”.
Quando gli fu imposto di non affiancare William Wallace nella infausta battaglia di
Falkirk, con la quale, dopo anni di vittorie, gli scozzesi tornarono alla sconfitta, la
cavalleria di Robert The Bruce era l’unica schierata in campo dagli scozzesi.
Ed ancora lo era quando, dopo la sconfitta di Wallace a Falkirk, Robert the Bruce
andò a distruggere tutti i castelli dove gli inglesi vittoriosi avrebbero potuto stabilire
le loro basi o trovare rifugio.
Nel 1304, il conte di Carrick morì e Robert the Bruce divenne capo della casata,
libero da quel momento di realizzare un sogno. I Bruce, i Comyn e i Balliol, famiglie
discendenti da uno stesso antico ceppo, si contendevano il trono scozzese. Dopo la
cattura di William Wallace nei pressi di Glasgow e la sua esecuzione a Londra nel
1305, la Scozia era a ferro e fuoco. Con la sua tremenda fine, l’eroe scozzese divenne
subito un martire, il sentimento di indipendenza nazionale crebbe più forte che mai e
tutto il paese era in rivolta. Nell’ottobre del 1305, Robert the Bruce pensò che fosse
giunto il momento di incoronare un nuovo re, si doveva giungere ad un
compromesso fra le famiglie; allora, incontratosi con il cugino Comyn the Red, gli
propose un accordo – “E’ giunto il momento che la Scozia abbia un nuovo sovrano,
sono disposto a cederti tutte le mie terre se tu mi aiuterai a diventare re. Oppure dai
tu a me le tue terre e sarai tu il nuovo re.”- Comyn the Red finse di accettare
scegliendo di cedere le proprie terre a Bruce e salire al trono di Scozia. Spedì il
trattato in Inghilterra per informare Edoardo I del piano di Robert the Bruce,
pensando che, così facendo, il suo rivale sarebbe stato accusato di alto tradimento e
che il trono sarebbe stato comunque suo, ma con il benestare del sovrano inglese.
Ma un uomo di Bruce riuscì a intercettare quel documento prima che arrivasse in
Inghilterra e Robert venne a sapere del piano del cugino.
Bruce chiese un incontro a Comyn presso la chiesa di Greyfriars a Dumfries, a sud
del paese, ai confini con l’Inghilterra.
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Era un giorno d’inverno del 1306, Robert entrò nel Sacro Luogo e aspettò l’arrivo
del cugino, fuori poche decine di cavalieri presidiavano la chiesa. Comyn the Red
giunse all’incontro con il suo seguito, ma entrò in chiesa accompagnato da un solo
uomo di fiducia. Lì, fu assassinato da Robert. Le urla si sentirono fino a fuori ma
gli uomini di Comyn irruppero in chiesa quando ormai era troppo tardi, Robert The
Bruce riuscì a fuggire e la strada per il trono era spianata.
Robert sapeva che l’incoronazione doveva avvenire entro pochi giorni, prima che la
notizia dell’omicidio giungesse a Roma e che partisse la scomunica da parte del
Papa.
La chiesa scozzese giustificò l’assassinio perché perpetuato per il bene del paese e del
suo popolo, in nome della libertà. Il 25 marzo del 1306, la “Domenica delle Palme”,
fu proclamato il nuovo re scozzese, King Robert the Bruce.
Alla cerimonia, tenutasi come da tradizione presso l’abbazia di Scone, parteciparono
il vescovo William Wishart di Glasgow e quello di St Andrew William Lamberton.
Da quel giorno, la chiesa scozzese aprì una profonda frattura con Roma e con il
Papa. Il vescovo di Glasgow non solo partecipò all’incoronazione, ma diede anche
l’assoluzione a King Robert, opponendosi in questo modo alla scomunica del sovrano
da parte di Papa Clemente V.
Al fianco di Robert stava la sua sposa Elizabeth the Burgh. Figlia di Richard, conte
dell’Ulster; quattro anni prima, a diciotto anni di età, aveva sposato il ventottenne
Robert. Si dice che il giorno dell’incoronazione sussurrasse al suo amato: “Mi
sembra che, come dei bambini, stiamo giocando a fare il re e la regina”.
All’incoronazione, tra i nobili fedeli a Bruce, era presente Sir James Douglas, che
presto sarebbe stato conosciuto come “Il Nero”, The Black Douglas.
Era figlio di William Douglas, nobile che appoggiò William Wallace e Andrew
Moray nei loro anni di resistenza e guerra contro gli Inglesi e che per questo, dopo la
sconfitta di Falkirk, fu imprigionato nella torre di Londra, dove morì nel 1298.
James, negli anni di guerra e di prigionia del padre, fu mandato in Francia sotto la
protezione del vescovo di St Andrew e fu educato a Parigi.
Nel 1306, James tornò in Scozia insieme al vescovo e trovò le sue terre confiscate e
Castle Douglas, il castello da sempre della sua famiglia, in mani inglesi.
Quando venne a conoscenza dell’imminente incoronazione del nuovo sovrano, Sir
James saltò sul suo cavallo e partì al galoppo verso Scone per essere presente alla
cerimonia. Sulla via per l’abbazia Sir Douglas incontrò Bruce e stringendo la mano
al futuro sovrano gli giurò la sua fedeltà.
Edoardo I, venuto a conoscenza dell’omicidio di Comyn e dell’incoronazione di
Robert The Bruce, organizzò un fortissimo esercito che, al comando del Conte di
Pembroke, invase la Scozia. Ogni possibilità di insurrezione nazionale doveva essere
troncata sul nascere. Le armate inglesi avanzarono razziando i villaggi e bruciando
tutto quello che incontravano, fu attaccata anche la Chiesa di Scozia e i vescovi
Lamberton e Wishart furono catturati, deportati in Inghilterra e quindi imprigionati.
Dopo solo qualche mese dall’incoronazione di King Robert, il 19 giugno del 1306, gli
scozzesi furono travolti dalle formidabili armate inglesi. La battaglia e la
conseguente disfatta degli scozzesi ebbe luogo a Methven, a nord della città di Perth.
In poche ore di combattimento veniva disintegrato il sogno di un nuovo regno libero.
Bruce e una piccola parte delle sue forze scapparono verso le highlands, tanti nobili
e cavalieri di Scozia furono catturati e portati oltre confine, fra questi Thomas
Randolph, nipote e cavaliere di Bruce.
Da ieri sera il cellulare non prende più e mi sento proprio fuori dal mondo. Tra la
mulattiera sulla quale camminiamo e il bosco costeggiamo una piccola valle
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disseminata di tante capre bianche con la testa nera. Il sentiero pietroso gira verso
l’interno fra prati e alberi bassi per poi continuare su dolci colline, dove ci accompagna
un forte puzzo di escrementi. Scavalchiamo un recinto, passiamo su un ponte in legno
sopra un ruscello e ci fermiamo ad aspettare Riccardo, che oggi proprio non ce la fa.
Quando arriva ci esorta ad andare avanti al nostro passo abituale, ci dice che sta bene,
ma che deve camminare pianissimo, i tendini gli fanno molto male per colpa delle
scarpe nuove. “Risaliamo il fiume controcorrente”, come mi immagino stiano facendo i
salmoni nell’acqua, passiamo altri piccoli ponti su ruscelli e attraversiamo tanti
boschetti.
Il fiume scorre arrabbiato, vorticoso, va a salti sulle rocce a un centinaio di metri sulla
nostra sinistra, passiamo da una radura all’altra ed è tutto verde, a parte la strada
pietrosa. Poco più in alto, sulla nostra destra, sta seduta una capra che si gira a
guardarci.
Il fiume è largo circa dieci metri, attraversiamo un ponte in legno, tutto storto ma che
sembra solido, passiamo su una piccola cascata e poi su un altro ponte ancora, prima
di entrare nel bosco. Tutti i ruscelli arrivano al fiume che stiamo risalendo, che si fa
sempre più potente. Avanti a noi compare una salita ripida, poi il sentiero continua
pietroso fuori dal bosco su dolci e lisce colline. Ci accompagnano ancora tante altre
piccole cascate sul fiume, mentre piove a piccole gocce e l’aria si fa pungente. Il
cammino e l’umido mi fanno sudare sotto il kway e continuo ad andare avanti fino a
raggiungere un alto ponte e delle potenti cascaste che prima, in lontananza,
sembravano tanto piccole. Guardando verso il basso, mentre le lasciamo al nostro
fianco, il salto che fanno quasi toglie il fiato. Camminiamo ai bordi del bosco e il fiume
è sotto di noi, su un lato. Attraversiamo un piccolo cancello di legno tra mucche
bianche e marroni, saliamo di nuovo sulle colline ed è tutto verde, a parte la nostra
strada marrone. Ha smesso di piovere, stiamo camminando da un’ora e continua a
dolermi la caviglia, penso a quanti chilometri possiamo aver fatto.
Per Crianlarich erano dieci e altrettanti saranno da lì a Tyndrum. Un grande bue rosso,
a lato della strada, sopra di noi, mi guarda e mi incute timore. In lontananza cime
montuose verdi, spoglie di vegetazione e noi giù sulla campagna. Passiamo altri piccoli
cancelli per gli animali e le cime lontane si infilano nelle nuvole. Penso che fra circa sei
chilometri dovremmo incontrare le rovine della chiesa dove Robert the Bruce si era
rifugiato dopo un’importante battaglia. Su questi colli si radunavano e si organizzavano
gli uomini di Wallace per dar battaglia agli inglesi, nei boschi sotto le colline. Li
immagino mentre saltavano questi ruscelli e preparavano le loro spade in silenzio.
Attraversiamo una fattoria e torniamo a costeggiare il fiume. Sono isterico, non ho
sigarette e il tabacco lo tiene Riccardo, che non so di quanto sia indietro. Abbiamo il
bosco a sinistra e il fiume a destra, passiamo su ruscelli e vediamo avanti a noi una
coppia di “probabili tedeschi” e poi altri tre walkers ancora. Una cascata, con un salto
di una decina di metri, si riversa nel fiume e finalmente un po’ di sole rompe la
nebbiolina. Avanti a noi ci aspetta una salita ripida di almeno cento metri, che
superiamo, seppure con il “fiatone”, poi inizia una discesa. Il sudore si ghiaccia sotto il
kway, intravedo una strada asfaltata che si fa sempre più vicina, la attraversiamo
tramite dei sottopassaggi, poi ci troviamo di fronte a una nuova salita. Il sole è andato
via e il vento è freddo, sui colli si vede qualche bosco di pini e la strada torna piana.
Grandi nuvole inghiottono le cime dei colli e dei monti, Emma avvista un topolino che
attraversa la strada e io penso ancora a quanto potrà essere rimasto indietro Riccardo.
Decidiamo di aspettarlo più avanti, quando saremo arrivati a Crianlarich.
Sono le 12.30, altre caprette ci osservano mentre passiamo loro accanto, prima che il
sentiero riprenda a salire verso infinite colline. Tutto, intorno a noi, è di colore verde,
marrone scuro o violaceo, fatta eccezione per le capre, disseminate dappertutto. Ogni
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tanto si affaccia la preoccupazione per quello che accadrà dopo le ferie, ma poi mi
guardo intorno, penso a quanto sia bello e imponente tutto ciò che mi circonda e mi
concentro sul fatto che questa sera devo arrivare a Tyndrum. Cerco di buttare da una
parte tutte le mie angosce e mi riprometto che, finite le vacanze, lotterò e prenderò il
comando della mia vita, ma poi? Ora devo mettere tutto da una parte e guardare
quello che mi circonda, ma la bellezza che mi sta intorno mi sfugge e velocemente ne
sarò fuori, non riesco a fermarmi. Rabbia o angoscia, riscatto o impotenza, ancora
mesi al confine, mi aspettano ancora mesi da “equilibrista”! Il sentiero continua
costeggiando una collina e dall’altro lato è delimitato da un muretto a secco ricoperto
di muschio. Nella valle, sotto di noi, si susseguono tante fattorie e si sentono abbaiare
cani. Incontriamo altre persone, forse danesi, ferme a riposarsi, ci salutiamo con un
“hi!” ed un sorriso e proseguiamo. Vorrei poter chiedere alle pecore quanta strada
manchi ancora per arrivare a Crianlarich; oltre all’abbaiare dei cani si sente solo il
rumore dei ruscelli, il belare delle pecore e i nostri scarponi che battono, e a volte
strisciano, sul terreno. Scambiamo un altro “hi”, forse con un inglese, e passiamo un
altro piccolo cancello in legno per poi immergerci in una foresta di pini. In uno spiazzo
troviamo un cartello che indica due direzioni: Crianlarich, e Tyndrum. Come stabilito,
aspettiamo Riccardo, e quando arriva ci troviamo a dover a prendere una dura
decisione: allungare la strada di quattro miglia per andare allo shop di Crianlarich a
comprare le sigarette o mangiare e proseguire sulla nostra strada per Tyndrum. Nel
primo posto le vendono sicuramente, mentre non sappiamo cosa troveremo nel
secondo, dove si concluderà la nostra tappa. Alla fine, valutiamo che abbiamo pur
sempre il tabacco sfuso, non troviamo il coraggio di allungare il tragitto.
Finito di mangiare una banana e un cioccolato, mentre preparo una minima scorta di
tre sigarette con il tabacco sfuso di Riccardo, vedo arrivare dalla direzione di
Crianlarich un uomo e una donna, una coppia di anziani. Chiedo loro se vengano dallo
shop e quanto tempo ci voglia per arrivarci, lui mi risponde venti minuti. Dico che era
solo per le sigarette e lui mi risponde che c’è andato per quello. Non ho il coraggio di
chiedergli di offrirmene una...se le è proprio sudate! Finisco di “girarmi” un’ultima
sigaretta e ripartiamo. Affrontiamo una lunga salita all’interno della foresta, e
immagino una bella tazza di caffè con latte seguita da una sigaretta, penso che sarà la
prima cosa che farò una volta arrivato a Tyndrum, bere e fumare, seduto ad un
tavolino. Intanto, camminando fra i colli e accompagnati in lontananza dalla vista dei
monti, passiamo più volte da una radura a un bosco. Questa è l’antica concezione
britannica della foresta, gruppi di fitti boschi alternati a radure e fattorie. Il sentiero
taglia in due la distesa di alberi nel mezzo della foresta e guardando a lato, sotto gli
alti pini, è buio pesto. Si sollevano sciami di midges, ma non ci fermiamo per indossare
le reticelle, non vogliamo rallentare la nostra marcia e ci teniamo le punture. Inizia
una discesa ripida che si perde fra gli alberi e si fa sentire sulle nostre ginocchia. Ogni
tanto spunta un thistle e dopo una curva comincia un altro “discesone”. A lato, mentre
scendiamo, il sentiero si affaccia su un altro grande bosco che finisce sotto i monti che
abbiamo di fronte. Dopo poco, ci troviamo sotto agli alberi, ai piedi del monte. Lungo
la discesa sento delle fitte al quadricipite sinistro e mi sembra che le ginocchia stiano
cedendo. Nel mezzo del bosco attraversiamo un ponte su un fiume e i midges non si
vedono più. Riccardo ha ritrovato le forze, cammina più spedito ed è vicino a Emma.
Sono io ora ad essere rimasto indietro. Attraversiamo un altro passaggio sul fiume e
poi un’altra salita ripida dentro il bosco. Mi sento “sfatto”, stremato, vado avanti per
inerzia, non riesco più nemmeno a immaginare la tazza di caffè e la sigaretta. Ci pensa
il sottobosco a farmi tornare il buon umore, il muschio e le piantine, sotto gli altissimi
alberi, sono talmente verdi che tutto sembra finto, come in un cartone animato dei
“puffi”. Ci sono persino i funghi rossi con le chiazze bianche. Dopo poco ci ritroviamo
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di nuovo all’aperto e mentre attraversiamo un’altra radura, una grande libellula verde
e gialla vola a pelo del suolo, sotto i raggi del sole. Ci fermiamo un attimo ad
ammirarla, ma noi dobbiamo andare, dobbiamo rientrare nel bosco. Ripreso il
cammino Riccardo con aria sconsolata mi confessa: “Non ne posso più di queste
sigarette, voglio un caffè, una birra, voglio fumare!”. In quel momento mi sento
sollevato nel pensiero di non essere il solo ad avere quei desideri, poi camminando al
fianco dell’amico gli faccio: “Senti, ma, sigarette a parte come mi vedi?”. Mantenendo
lo sguardo dritto sui suoi passi, Riccardo mi risponde:“In che senso?”. “Richi, sento
che questi giorni cambieranno la mia vita. Sai cosa vuol dire svegliarti tutti i giorni
alle sei del mattino per un lavoro che ti fa schifo, in un mondo che ti fa schifo?
Lavorare dodici ore al giorno, cercare con tutte le tue forze di dare comunque il
massimo, ma vedere che quello che fai non basta mai? Un giorno sei un campione, un
mese dopo sei giudicato un peso morto, uno che non serve. Le aziende devono
guadagnare sempre di più e tu sei sempre inadeguato, qualsiasi cosa faccia. Non ne
posso più dei falsi sorrisi, del fatturato, dell’incremento delle vendite e del profitto, io
ho solo studiato farmacologia e fisiologia, sono dipendente della direzione medica e mi
si parla sempre di vendite! Le aziende farmaceutiche devono crescere, in un paese a
pezzi, dove tutto crolla, tutto decrementa, non c’è più potere d’acquisto, loro vogliono
fare ugualmente un più 20% di fatturato!”. Devono prendere, guadagnare e gonfiarsi
fino a che non scoppia tutto, poi si metteranno a fare mortadella. “Ma Fabio, lo sai
che in fondo sei un rappresentante!”. “No. Sono un informatore! Devo vivere
comunque.”. Riccardo si volta a guardarmi e mi fa: “Perché, questo è vivere? Tu eri
vivo quando eri all’università, quando andavamo allo stadio, quando seguivamo gli
U2, quando stavi con i disabili durante il servizio civile, non se devi trovare un rifugio
da me il venerdì!”. “E’ vero, la notte vado a letto con la rabbia, pensando o sognando
di mandare tutti “affanculo” ma poi la mattina mi sveglio con l’ansia perché mi
sembra di non avere alternativa, che cazzo faccio se non questo in Sardegna?”.
Riccardo scuote la testa: “Non lo so Fabio, ma perché questi giorni devono cambiare
la tua vita?”. “E’ una sensazione, magari mi riporteranno alla vita”. Gli rispondo,
mentre comincia una nuova discesa e sento le gambe che vanno per inerzia; non riesco
a controllarne bene il movimento e mentre scendo, mi concentro sulle caviglie, misuro
ogni passo per paura di storcerle. Mi lascio nuovamente dietro Riccardo e penso che
se comunque avessi la forza di uscire dal mio mondo, potrei fare pur sempre il
commesso, potrei fare il manovale, tante cose. Dovrei diminuire le uscite con gli amici,
magari ricominciare a dividere con loro la benzina, sarei costretto a rinunciare ai
viaggi per i tornei di “calcio da tavolo”, ridurrei i costi delle vacanze, però darei un
servizio alla nostra società e la sera, finito di lavorare, sarei sereno, senza altri
pensieri, senza telefonate sul cellulare aziendale, senza esaminare dati vendita, libero
di gustarmi la luce dei lumi di candela e una coppa di vino rosso con Emma. Ma prima
di trovare una qualunque occupazione, che sarei senza la mia identità sociale? Il senso
di inutilità nello stare a casa a fare niente, mentre gli altri lavorano, il pensare che è
finita, che non si possa più offrire nulla ai propri cari, che si stia solo diventando un
peso scomodo. Non si vede via di uscita, si pensa che mai più si potrà guadagnare una
pagnotta. Il fastidio nell’uscire di casa per paura di incontrare qualcuno che chieda:
“Cosa stai facendo?”. L’ansia di dover dire qualcosa, di trovare una spiegazione da
dare, di inventarsi che si sta valutando una proposta interessante, per la vergogna di
dover rispondere: “Niente.”. Li ho già vissuti quei momenti e l’idea di ripiombarci
dentro a trentacinque anni mi spaventa. Ma rischio adesso o mai più, non posso
continuare a violentarmi. Metto nuovamente da parte questi pensieri e continuo a
camminare. Cercando ancora il richiamo della natura, scambio un altro“hi” con un
ragazzo, forse inglese, che mi raggiunge, mi sorpassa e con passo spedito “mi molla
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dietro di brutto”. Ed io che pensavo che quei passi fossero di Riccardo tornato alla sua
andatura normale! Alle 15.00 rientriamo nel buio, il sentiero si inoltra fra gli alberi e
si sentono le voci del bosco, i cinguettii e tanti rumori non identificati, comincia anche
fare freddo. Poi il bosco diventa più luminoso e appare tutto verdissimo perchè ne
stiamo uscendo fuori. A lato il fiume scorre tortuoso, Emma ci ha “mollato” ed è molto
più avanti. Mi tornano le “idee” sul da farsi dopo le ferie e mi risale l’ansia. Ora, il
mio stimolo per andare avanti è quello di arrivare alla chiesa di Bruce, poi, quando
l’avrò raggiunta, tutto si esaurirà all’istante e dovrò cercarne un altro. Usciti dal
bosco passiamo sotto un massiccio ponte in pietra grigia, siamo ai lati di una cascata,
ci sono altri due walkers, penso tedeschi, ai quali chiediamo di farci una foto. Lasciato
il bosco, margherite e thistle accompagnano il nostro cammino ai lati di una strada.
Riccardo mi si avvicina e mi dice: “Questa sera Rose viene a Tyndrum, così ci
incontriamo e beviamo qualcosa insieme.”. Io sto zitto un attimo e gli domando: “Ma
l’aveva capito dalla nostra prenotazione che potevi esserci tu dietro?”. “No, non lo
immaginava, è contentissima!”. Gli chiedo ancora: “Ma scusa non avevi detto che
volevi farle una sorpresa ad Inveroran?”. Riccardo si sofferma un attimo a pensare e:
“Si.., ma questa mattina, camminando dietro tutto solo, non ce l’ho fatta e l’ho
chiamata.” Poi ridacchiando aggiunge :“Fatti i cazzi tuoi!”. Siamo a Ewich e
dobbiamo attraversare di corsa un’autostrada a due corsie per rientrare nel bosco.
Finire investiti da una macchina sulla West highland Way sarebbe veramente assurdo!
Aspettiamo una, due, tre auto e corriamo dall’altra parte. Un fiume sulla destra e di
fronte un cavallo marrone che mangia dell’erba e ci guarda da lontano. Dobbiamo
attraversare la fattoria tra i cavalli, proseguo con passo gelato per paura che si
arrabbino, siamo nella fattoria vicino alla chiesa, attraversiamo un ponte su un largo
fiume e spuntano le rovine della St Fillan Church, con l’attiguo cimitero. Qui,
nell’agosto del 1306, trovò rifugio l’appena incoronato Robert the Bruce, che vagava
per le proprie terre dopo la distruzione del suo esercito ad opera degli inglesi.
Minacciato, nel suo stesso paese, dalla famiglia nemica dei Comyn e dai loro alleati
Macnab e Macdougall, Robert fu accolto e benedetto dall’abate di St Fillan,
nonostante fosse già stato scomunicato dal Papa per l’omicidio del cugino.
E’ tutto in rovina, solo un muro si innalza ancora in quasi tutta la sua interezza, il
resto sono solo pietre sparse. Ma se guardo la terra e l’erba ed ascolto il vento, posso
ancora sentire i cavalieri che arrivano e smontano da cavallo per poi andare a bussare
su un portone di legno. Incontriamo un’altra fattoria e con sorpresa vediamo che c’è
uno shop con un punto di ristoro, dove troviamo altri walkers in sosta. Beviamo un
caffè e mangiamo un muffin, oltre a comprare le sigarette. Vediamo anche i signori
incontrati al bivio per Crianlarich. Dieci minuti e riprendiamo il cammino, a ogni
passo mi fa male il quadricipite sinistro, avanti a noi un altro attraversamento di
autostrada per poi rientrare nella boscaglia; come prima, passiamo dall’altra parte di
corsa. Riccardo ipotizza altri quattro chilometri, quello scatto sull’autostrada mi ha
distrutto, mi trascino, il sentiero continua su un viale lungo il fiume, volano le libellule,
stiamo per arrivare a Lochan, dove si dice abbia perso la spada Robert the Bruce.
Troviamo una pietra in ricordo della battaglia di Dalrigh del 1306, arriva vento molto
freddo e scuote tutto, mi metto anche la felpa e continuo per il sentiero nella valle. Qui
dove cammino, King Robert e James Douglas, con le poche forze sopravvissute alla
disfatta di Methven, appena lasciata la chiesa di St Fillan, furono attaccati dai Mac
Dougalls e dai Mac Nabs. Il sentiero gira nella stessa valle e sulla destra, dietro i
cespugli, compare un piccolo lago color argento, attorniato da gruppi di alberi. Le sue
acque sono così calme e lucide da sembrare uno specchio, all’orizzonte, oltre la piana,
vedo i monti. Prima dei cespugli, guardando verso il lago, si scorge una pietra su cui è
incisa la sagoma di una spada. Mi inchino a toccare la lastra e sento la roccia fredda.
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Penso alla cruenta battaglia che si svolse qui intorno, ai cavalieri, alle lame una
contro l’altra. Bruce e buona parte dei suoi uomini riuscirono a salvare le loro vite
nella battaglia di Dalrigh e si dispersero sulle Highlands. Secondo la leggenda,
durante la battaglia, King Robert perse la sua spada, che non fu più ritrovata. Mi
soffermo a guardare il lago, sento il vento e penso ad una spada, a zoccoli di cavallo, a
stendardi e battaglie. Da bambino avrei anche sognato di cercare e ritrovare la spada
perduta, ma ora penso solo che devo rimettermi in marcia. Riccardo, più avanti, si
ferma ad aspettarmi, mi guarda e mi chiede: “ Ma è Robert The Bruce che ha tradito
William Wallace?”. “Assolutamente una cazzata!”. Gli rispondo. Sto zitto un attimo e
continuo:”E’ una falsa voce, all’epoca messa in giro dai Comyn, una delle famiglie
rivali.”.
Erano veramente anni di intrighi ma la svolta stava per arrivare, seppure nel modo
più tragico.
Dopo la tremenda disfatta di Methven, King Robert fu costretto a trasferire a nord le
sue due sorelle Mary e Cristina, la sua regina Elizabeth the Burgh, la figlia Marjorie
e la Contessa Isabella di Buchan. Trovarono tutte rifugio nella contea di Aberdeen,
nel Kildrummy Castle. Il re pose il gruppo sotto la protezione di suo fratello Neil
Bruce e del Conte di Atholl, ma in un breve lasso di tempo il castello fu messo sotto
assedio dagli inglesi. Neil Bruce riuscì a respingere il nemico per giorni e forse il
castello non sarebbe stato espugnato se non ci fosse stato un traditore fra gli stessi
scozzesi. Fu il fabbro della fortezza ad appiccare un incendio che bruciò il portone e
permise agli inglesi di sfondare la resistenza. Neil Bruce fu subito catturato e
giustiziato, Elizabeth e il resto della corte cercarono di scappare ancora più a nord,
verso Orkney, ma furono subito fermati dagli inglesi grazie alla collaborazione di
una delle tre più potenti famiglie Scozzesi, quella dei Balliol, che in un tempo non
lontano regnava sulla Scozia e che aveva avuto come ultimo rappresentante sul trono
John, l’ultimo re prima dell’invasione inglese, costretto ad abdicare dopo la cattura e
l’imprigionamento a Londra.
Il Conte di Atholl fu trasportato a Londra e decapitato, il suo corpo bruciato e la
testa impalata ed esposta in pubblico sul London Bridge.
Mary e la Contessa Isabella furono portate a Berwick, al confine fra i due paesi,
messe dentro gabbie di legno pendenti dalle mura del castello ed esposte al pubblico.
La pubblica umiliazione fu riservata anche alla dodicenne Marjorie, la piccola venne
esposta a Londra.
La Regina Elizabeth fu confinata in Inghilterra e scampò alla gabbia di legno perché
figlia del Conte dell’Ulster, potente alleato degli inglesi.
Cristina Bruce fu imprigionata in Inghilterra e anche lei scampò alla pubblica
umiliazione.
Robert The Bruce, nel frattempo, fuggito per le highlands, raggiunse il castello di
Dunaverty senza aver idea della sorte toccata ai suoi cari. Presto dovette scappare
ancora perché informato dell’imminente arrivo degli inglesi e braccato prese il mare
per rifugiarsi nelle isole verso l’Irlanda del Nord.
Il re trovò il supporto di Angus Macdonald delle Isole, la cui flotta dominava il mare
d’occidente fra la Scozia e l’Irlanda, e ottenne uomini e finanziamenti. Edward
Bruce, altro fratello di Robert, fu inviato a raccogliere somme in denaro e uomini
dalle terre di famiglia della contea scozzese di Carrick, e da quelle possedute in
Irlanda. Altre forze furono reclutate nel Londonderry e dalle Isole Occidentali,
territori governati da nobili imparentati con i Bruce. Solo allora, attraverso Sir
Robert Boyd, un nobile riuscito a scampare alla cattura da parte degli inglesi al
Kildrummy Castle, King Robert venne a conoscenza del rapimento dei suoi familiari
e dei suoi amici.
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Fu un colpo durissimo per il re ricevere quelle notizie e non sapere cosa ne fosse
stato dei suoi cari. Arrabbiato, infuriato, il leone rosso scozzese ruggiva sulla
bandiera gialla e si preparava all’invasione, al rientro in patria. Da parte sua, il
sovrano inglese, venuto a sapere che Bruce si era rifugiato nelle Isole, inviò una
flotta per intercettare il nemico scozzese, ma era troppo tardi, King Robert era già
salpato, l’invasione della Scozia era imminente.
Bruce ora poteva diventare un vero re, aveva la furia e la forza del guerriero, lo
spirito e i valori necessari per prendere la mano del suo popolo inerme e sopraffatto e
per guidare e unire una nazione che non sapeva nemmeno dove fosse finito il suo
sovrano.
Saggio e astuto, oramai era un grande stratega attorniato da fidati capitani. Discusse
in riunione con i suoi e pianificò l’azione. King Robert diede le ultime direttive a
Edward Bruce, agli altri fratelli più giovani Alexander e Thomas e a James Douglas,
il giorno dell’attacco era vicino.
Il luogo ideale per lo sbarco in Scozia era la contea di Carrick e il primo obiettivo
doveva essere il castello di Turnberry, dimora da sempre dei Bruce.
James Douglas fu il primo a partire; con il suo gruppo di uomini salpò verso l’isola
di Arran, a un passo dalla contea di Carrick e dal castello di Turnberry.
Gli scozzesi sbarcarono nella notte e si nascosero in una insenatura proprio sotto il
castello. La sera prima, un gruppo di navi inglesi, cariche di rifornimenti per la
fortezza, era a sua volta attraccato sull’isola e aspettava il mattino perché le merci
fossero trasportate al castello. Alle prime ore del giorno le porte della fortezza si
aprirono e una trentina di inglesi scesero a riva per prendere i rifornimenti da
portare al castello. A quel punto James Douglas diede l’ordine di attaccare, i suoi
uomini piombarono sugli inglesi e li massacrarono in pochissimo tempo. Il
governatore di Arran, accortosi di quello che era appena successo, diede ordine agli
inglesi di uscire dal castello e di respingere gli scozzesi, ma Sir James e i suoi
guerrieri ebbero la meglio. Anche il governatore inglese fu ucciso prima che potesse
tornare a rifugiarsi nel castello. Sir James Douglas e il suo gruppo entrarono in
Scozia e si stabilirono sui monti vicino alla costa ad aspettare e a sorvegliare l’arrivo
del re. Dopo dieci giorni, Robert the Bruce, al comando di una flotta di trenta galee
sbarcò sull’isola di Arran, riunì le sue forze e pianificò il ritorno in patria. Il re si
preparava a sbarcare ad Ayr, al confine con la contea di Carrick, ma prima inviò
degli informatori a vedere quale era la situazione nei suoi territori e se c’erano le
condizioni per l’insurrezione del popolo contro gli inglesi. Il re sarebbe partito solo al
segnale di un fuoco acceso da uno dei suoi inviati in prossimità del castello di
Turnberry. Nello stesso tempo Alexander e Thomas, i due fratelli minori del re, al
comando di venti navi da guerra e di qualche centinaio di uomini, lasciarono
l’Irlanda per dirigersi verso il sud della Scozia e per sbarcare sulle coste del
Galloway. Alexander e Thomas avevano il compito di interrompere le comunicazioni
degli inglesi fra il nord dell’Inghilterra e le contee scozzesi di Carrick, in modo da
favorire il rientro di King Robert nel suo paese. Tuttavia i due fratelli Bruce
incrociarono gli inglesi durante la loro navigazione e furono sconfitti, catturati e
portati in Inghilterra per essere decapitati.
Qualche giorno dopo si accese un fuoco nei pressi di Turnberry e Robert The Bruce
partì alla volta della Scozia.
Sbarcato ad Ayr, il re apprese che il fuoco, quello che pensava fosse il segnale, non
era stato acceso da un suo soldato ma da qualcun altro. Il Turnberry Castle era
fortemente presidiato dagli inglesi e l’impresa di conquistarlo non poteva essere
presa in considerazione.
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Con pochi uomini al seguito, male armato e privo di risorse economiche, sembrava
che King Robert non avesse più scampo. La missione a sud dei sui due fratelli era
fallita e il re era braccato dagli inglesi nelle sue stesse terre, completamente nelle
mani del nemico. Ad un passo dal ributtarsi in acqua per tornare in Irlanda, fu
fermato dalle parole del fratello Edward: “Nessun pericolo mi riporterà indietro
verso il mare. Qui mi giocherò tutto, comunque vada a finire!”
Da quel momento Robert the Bruce, insieme al fratello e al fido James Douglas,
diede vita alla più grande, mai vista prima in Scozia, campagna di battaglie contro
gli inglesi, con un metodo di combattimento usato già negli anni passati dall’eroe
William Wallace, la guerriglia. Piccoli attacchi improvvisi e fuga nei boschi o per le
highlands, reclutamento di gente comune, spinta all’insurrezione popolare, questo
stavano per sperimentare.
Camminiamo per circa quindici minuti tra l’erba alta e fra i thistle, il sentiero arriva
in uno spiazzo e un cartello ci dice che qui un tempo c’era l’industria del piombo di
Tyndrum. Rientriamo nel bosco, sono le 17.10, sentiamo rumore e pensiamo possa
provenire dal campeggio, non dovrebbero essere delle allucinazioni! Poco dopo
compare un fiume ai bordi del quale c’è una roulotte e i resti di vecchie miniere e
fabbriche abbandonate. Sembra di trovarsi in un villaggio fantasma, ma poi,
continuando a costeggiare il fiume, sbuchiamo nell’abitato. C’è una strada larga a
quattro corsie e ai suoi lati qualche schiera di case e negozi. Avvistiamo subito un
cartello che segnala la via per il campeggio e ci trasciniamo sulle gambe fino al suo
ingresso.
Non abbiamo voglia di montare la tenda e decidiamo di pernottare in una casetta in
legno. Il tetto è spiovente come quello di una tenda e dentro c’è lo spazio giusto per i
sacchi a pelo e per gli zaini. Quando accendiamo la luce ci accorgiamo che è tutto
pieno di polvere e ragnatele. In terra ci sono quattro materassi dove organizzare i
nostri letti e su un lato della capanna c’è una piccola finestra. Sta facendo buio e la
luce accesa diventa indispensabile per predisporre le nostre docce, e per cambiarci.
Con molta attenzione cerchiamo di evitare che la casetta si riempia di midges e stiamo
attenti a chiudere in fretta la porticina ogni volta che dobbiamo entrare, o uscire. Mi fa
senso poggiare le mie cose in quella sporcizia, anche se forse è solo terra. Mi
immagino pure che ci potrebbero essere topi, ma poi penso che nel caso sarebbero di
campagna. I bagni del campeggio sono veramente luridi e io non ho il coraggio di
farmi la doccia, cosa che invece fanno Emma e Riccardo, io mi pulisco con le salviette.
Tyndrum è un piccolo villaggio che sorge ai lati della strada dalla quale siamo
arrivati. Prima ne abbiamo visto solo un pezzo, ora andiamo dall’altra parte. A bordo
strada troviamo uno shop e un bancomat, dal quale possiamo prelevare un po’ di soldi.
Vicino al negozio c’è qualche pub e un distributore di benzina. Andiamo a mangiare in
un locale chiamato “Paddys’ e finito di cenare arriva Rose, la ragazza che lavora al
Bed&Breakfast di Inveroran, che “non vedeva l’ora” di abbracciare Riccardo. Poco
dopo, fa il suo ingresso nel pub anche un certo Mr. Macduff, proveniente ugualmente
da Inveroran, che vede Riccardo e ride contento passandogli una mano sui cortissimi
capelli, tutto è per me commovente, ma veramente…non così per dire! Giusto il tempo
di fare le presentazioni ed entra anche la signora bionda con i suoi amici, quella tutta
ingioiellata e “schizzata” del gruppo che abbiamo già incontrato al pub di
Rowardennan. Presto la signora diventa l’anima anche di questo pub. Fra una risata e
l’altra ci saluta, poi riempie il suo bicchiere e viene a sedersi con noi. Sembra che con
Rose e Mr. Macduff si conosca da sempre, è proprio incredibile questa signora che
prima ride, fa qualche battuta e ci dice del dolore alle sue gambe per la tappa che ha
appena percorso, poi all’improvviso diventa seria, si rattrista e scoppia a piangere.
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Racconta che giorno per giorno, lungo il cammino, sta raccogliendo fondi che
serviranno per la lotta contro il cancro. Spiega che due suoi amici stanno combattendo
contro una grave forma di tumore e altri due, che stanno percorrendo la West
Highland Way, si sono appena ripresi dopo aver subito un operazione alla prostata.
Non capisco se stiano facendo il cammino come ringraziamento o solo per raccogliere
soldi, ma non fa molta differenza. Dopo aver contribuito alla raccolta con un offerta,
riprendiamo a bere e ridere insieme. Dalla birra passiamo a ordinare whiskey, che a
me non è mai piaciuto. Tocca a Riccardo offrire il “giro” di bibite e mi dice: “Ma
scusa prenditi un Drambuie, lo conosci? E’ whiskey al miele, una specie di liquore.”.
Incuriosito lo assaggio ed è fenomenale! Poi esco fuori a fumare con Rose, rientriamo
e riprendiamo con un altro giro di birre.
Rose e Mr. Macduff vanno via e ci danno appuntamento per il giorno dopo a
Inveroran, noi ci avviamo verso il campeggio alla luce dei tanti lampioncini che
illuminano il villaggio. Arrivati alla capanna, l’operazione del cambiarmi i vestiti è
veramente ardua. Sotto una luce soffusa, chinato per non sbattere la testa sul soffitto,
cerco di stare in equilibrio, di non poggiare nulla sulla sporcizia e di toccare il meno
possibile. Cado un paio di volte all’indietro sul mio sacco a pelo sistemato sul
materassino e ridacchio. Emma si arrabbia e allora mi stendo. Continuo a ridere e
anche da sdraiato, chiudendo gli occhi, perdo l’equilibrio. Mi addormento, ma presto
mi sveglio con un prurito incredibile in tutto il corpo, forse perchè non mi sono fatto la
doccia o forse per qualcosa che ho mangiato o bevuto. Devo andare in bagno, ma che
schifo quelli del campeggio, vabbè…, fuori è buio e vado dietro la capanna. Quando ho
trovato un posto tranquillo, vedo un’ombra che cammina, giù vicino alla capanna.
“No, che figuraccia! Qui in mezzo al campeggio!”. Penso. Faccio per rientrare e come
sto chiudendo la porticina qualcuno spinge per entrare, allora chiedo deciso: “Oh, che
vuoi?”. Sento ridere…è Riccardo! Cavolo che batticuore, mi sdraio di nuovo, ma
vengo preso da un forte senso di fame, devo mangiare qualcosa, prendo la luce da
fronte comprata a Cagliari, faccio uno scatto, si accende ma si spegne di nuovo, non
sta accesa, schiaccio e rischiaccio, ma non rimane, va bene, ho individuato lo zainetto,
prendo la banana, la sbuccio e cazzo, mi cade! “Vabbè..., la lascio lì, prendiamo i
biscotti…che casino…ora mi dovrei lavare di nuovo i denti in quel bagno! No,
dormo.”.
3 di agosto
Ci svegliamo e Emma mi chiede cosa abbia combinato questa notte con il cibo. Spiego,
seppure non del tutto convincente, che la pila non funziona e dico della banana, che è
ancora per terra fra me e Riccardo, il quale esclama: “Ecco cosa era l’odore di
banana tutta la notte!”. Facciamo una ricca colazione scozzese, dalla quale devo
eliminare i pomodori, ai quali forse sono allergico, e andiamo allo shop a comprare
acqua, cioccolati, sigarette, felpe in micropile di ricambio e due sottobicchieri con il
logo della West Highland Way, che poi scopriamo essere calamite. Il prossimo shop lo
troveremo fra quarantacinque chilometri. Il sentiero si inerpica verso le montagne
tagliate a metà dalle nuvole.
Sono le 11.00, fa freddo e pioviggina, passati i dolori ai quadricipiti oggi mi fa male la
caviglia destra. Camminiamo tra colline e di fronte abbiamo una montagna. Sul lato
destro la valle è percorsa da un fiumiciattolo e coperta da boschetti di pini. Passiamo
su ponti in pietra nella vallata e saltiamo più volte il fiumiciattolo, attraversiamo la
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vecchia ferrovia nella valle di Beinn Odhar e continuiamo a costeggiare i binari sotto
il monte. Piove molto, il sentiero si fa sempre più stretto e si perde fra le colline,
all’orizzonte i monti, la pioggia scende sempre più forte, ma abbiamo gli incerati. Le
nuvole ci accompagnano, passiamo le colline, il sentiero scende, incontriamo fattorie e
vediamo avanti a noi una coppia di signori con mantelle verdi, Riccardo è di nuovo
indietro. La strada continua a costeggiare la ferrovia e poi la aggira, il sentiero
diventa mulattiera, continuiamo a camminare dietro i due signori e piove sempre più
forte. Scambiamo un altro “hi” con due, forse, canadesi. Tanti ruscelli e caprette
intorno a noi, sono le 13.10 e smette di piovere, a sinistra abbiamo la ferrovia e a
destra una valle sotto un monte, avanti ancora le montagne fra le nuvole. Cammino
insieme a Emma e Riccardo è ancora indietro. La caviglia destra continua a farmi
male, compaiono tre caprette e poi altre due che si stanno scornando, altre ancora
stanno sedute ai lati del sentiero. La nebbia scende verso di noi dal monte a destra e ne
scopre la cima, cala veloce, sembra quasi fumo. I miei scarponi si immergono in un
ruscello e poi in un altro, quasi non riesco a poggiare il piede destro a terra, ogni
passo sento una morsa ai lati della caviglia, ma cammino. In discesa il dolore
aumenta, poi provo sollievo quando la strada riprende in piano e attraversiamo un
altro ponte in pietra. Mi tornano in mente i brutti pensieri, il tormento che non riesco
ad allontanare, penso a cosa mi aspetterà quando le ferie saranno finite o anche solo a
quando sarà finita la nostra avventura qui. Mi viene in mente quando pochi giorni
prima della nostra partenza andai a trovare Federica in farmacia. E’ vivo il momento
del pianto abbracciato a lei e la notte seguente insonne, a rigirarmi nel letto. Il giorno
dopo dovevo andare a giocare il Torneo Internazionale di Dolo con la mia squadra di
“Calcio da Tavolo”, l’ACS Bergamo. I biglietti aerei erano fatti, ma parlando con
Federica e raccontandole quello che stava succedendo, tremando, nel panico, le dissi
che non mi sentivo di andare a giocare. D’altra parte, però, non potevo lasciare da soli
i miei compagni di squadra e questo mi metteva ansia. Anche l’idea di salire su un
aereo, cosa per me abituale, mi metteva un angoscia incredibile. Sembrava quasi che
partire da casa in quel momento volesse dire non tornare più. Lei mi guardò e mi
disse: “Non prendere una decisione ora. Torni a casa, bevi un bicchiere di vino, prendi
due compresse di alprazolam e dormi. Domani mattina, quando suona la sveglia,
decidi.”. Mi tranquillizzò con quelle parole, anche se non ho il ricordo di aver
percorso nessuno degli ottanta chilometri che mi separavano da casa quella sera. Non
ne è rimasta traccia nei miei pensieri. La sveglia suonò alle 4.30 del mattino, salii
sull’aereo e raggiunsi i miei compagni di squadra. Vinsi tutte le partite e ci
aggiudicammo il torneo. Ricordo l’urlo che lanciai quando, in finale, a due minuti
dalla fine, segnai e nella palestra rimbombò il mio grido liberatorio: “Si!” . Ora, il
dolore che sento al piede allontana quei pensieri. Arriviamo a delle piccole case e
sento delle voci, delle persone aprono un piccolo cancello sul sentiero, dietro gli alberi
c’è una piccola stazione, Bridge of Orchy. Piove molto ma troviamo riparo sotto una
pensilina, dove aspettiamo Riccardo. Mangiamo dei panini e qualche dolcetto seduti su
una panchina di legno a lato dei binari, sfilo un piede dallo scarpone per farlo
riposare. Continua a piovere e mentre mangio tornano i soliti pensieri e ripeto a
Emma, per l’ennesima volta, la solita domanda : “ Cavolo, allora che faccio quando
torniamo? Ma allora secondo te se io…”. Emma, capendo già dove stanno andando le
mie parole, mi interrompe subito : “Basta Fabio! Non ne posso più, sono mesi che non
viviamo con questa storia! Almeno qua…”. Non accetto quella risposta e continuo:
“Certo, ne posso parlare con Federica e non con te! Ma ci sei?”. Emma, di rimando,
cerca di spiegarsi: ”Ah, allora vai da Federica! Io ti ascolto tutti i giorni e mi dici
sempre le stesse cose! Te ne rendi conto che torno a casa e non ti si può parlare,
usciamo e sei incazzato, il fine settimana vai a giocare e torni sempre arrabbiato. Ogni
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scusa è buona!”. Le parole di Emma, mi fanno uscire di testa e continuo: “Ok, allora
quando torniamo a casa ognuno per la sua strada, sei un egoista e non capisci
niente…non te ne frega nulla? Sono solo problemi miei, vero?”. Emma sta un attimo a
guardarmi e poi: “Dai, non voglio dire quello, ma puoi stare in pace un momento?”.
Sono proprio arrabbiato, quando mi arriva un messaggio al cellulare, Riccardo è al
pub del Bridge of Orchy Hotel che ci aspetta, è passato e non ce ne siamo accorti.
Guardo ancora Emma e seccamente le dico: ”Dai alzati, andiamo..”. Lasciamo la
stazione, il sentiero scende verso l’hotel, davanti al quale c’è una strada asfaltata.
L’albergo è una vecchia costruzione fatta di mattoni di pietra e ha tanti comignoli dai
quali esce fumo. Sulla strada asfaltata, di fronte all’hotel, c’è parcheggiato il furgone
rosso del trasporto bagagli. Vedo Emma che cammina da sola con il suo incerato
azzurro, sotto la pioggia, pochi metri avanti, con il cappuccio che le copre il capo. Ha i
capelli raccolti e bagnati, cammina sul sentiero e attraversa la strada che costeggia
l’albergo. Il tracciato della West Highland Way passa a fianco all’albergo e sale verso
le montagne, lasciando giù nella valle quel gruppetto di case che è Bridge of Orchy.
Emma però va verso l’hotel, fa qualche scalino ed entra. Ci ricongiungiamo con
Riccardo e seduti di fronte a un camino acceso beviamo un caffè caldo. Emma ed io
non ci diciamo nemmeno una parola. Riccardo forse sente che c’è qualcosa che non
va, ma fa finta di niente. Ci dice che è già passato a salutare Rose in una delle casette
qui a fianco.
Con i pantaloni ancora zuppi esco dal pub e senza guardarmi indietro riprendo il
sentiero. Piove, e arrabbiato, senza voltarmi, lascio Emma dietro di me, cammino
veloce sul sentiero che si inerpica avanti a noi, passo il ponte in pietra sul largo fiume
e mi immergo nel bosco. La strada va in salita, il sentiero esce dagli alberi e si
inerpica stretto fra i monti. Passo nella nebbia, le colline intorno sono ricoperte da
prati, continua a piovere e il sentiero pietroso si riempie di pozze. Nel verde dei prati
mi circondano cespugli marroni e tanti fiorellini gialli e viola. Alla mia sinistra, giù in
una valle, c’è un bosco di pini. Il sentiero gira a destra sui prati disseminati di ciuffetti
marroni. Sotto le nubi, sale sempre più stretto fra i monti e si perde a vista d’occhio tra
la nebbia. Giù alla mia destra, mentre attraverso un ruscello, compare un lago fra
boschi di pini e io lo guardo dall’alto mentre salgo sul sentiero, piove e l’aria è umida.
Ora giù vedo anche un fiume che arriva al lago. Mi fermo e accendo una sigaretta, mi
siedo su una pietra e fisso lo sguardo verso il lago. Continuo a guardare in basso,
anche quando Riccardo mi passa a fianco. Mentre mi supera, semplicemente gli dico:
”Eh, mi sto fumando una sigaretta”. Mi supera anche Emma, ma a lei non dico nulla.
Dopo qualche minuto riprendo a salire, gli alberi vanno scomparendo e anche i fiori
non ci sono più. Continuo a salire fra i prati puntando verso le colline, una e poi
un’altra, in lontananza i monti fra le nubi. Tira vento freddo e continuo a salire, mi
giro indietro e non si vede più nulla, se non i tratti di sentiero che ho appena percorso,
mi rigiro e cammino, forte sulle ginocchia e sulla roccia dura salgo nell’umido e nel
vento freddo, mi rigiro e dietro c’è una collina, quella che ho appena passato. Tutto
intorno silenzio, cammino, mi rigiro e dietro vedo un’altra collina più alta della prima,
mi giro di nuovo e riprendo a salire, gli scarponi pestano sul terreno e salgo ancora,
passo un’altra collina e sui monti in lontananza, fra la nebbia, vedo spuntare prima
Emma, poi Riccardo, poi ancora Mr. Macduff e un cagnone peloso, bianco e grigio,
che gli gira intorno. Salendo ancora vedo che il cane, di tanto in tanto, fa
un’escursione sui prati, fra i ciuffetti marroni, verdi e viola. Guardo intorno e mi rendo
conto di essere in un infinito di colline, ovunque, da tutte le parti, fino a tutti i possibili
orizzonti. Mr. Macduff si ferma su una cima, al cui apice c’è un cumulo di pietre, il
cane ci gira intorno, arrivano anche Emma e Riccardo e lo salutano. Poco dopo,
raggiungo anche io la cima, saluto e accarezzo il cane, lancio una pietra che l’animale
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si butta e cercare e guardo giù e tutto intorno. Lascio che gli altri comincino a
scendere e continuo a girarmi da una parte e dall’altra. Mi fermo qua, in piedi fra le
infinite colline. Ovunque vada la mia vista appare un mare di rigagnoli, di pozze
d’acqua e di laghetti grigi. Guardo da una parte verso il basso e vedo, in una valle,
l’albergo di Inveroran e due case al suo fianco. Riprendo a camminare ma mi fermo su
un’altra cima. Vedo gli altri che scendono e arrivano sull’ultimo tratto di sentiero
prima dell’albergo. Il cane corre avanti a loro per tornare a casa. Il vento muove i
prati, guardo i compagni che scendono per il sentiero e giù nella valle, vicino
all’albergo, vedo un lago. Riprendo il cammino a piccoli passi, sento il cane che
abbaia, i miei compagni sono arrivati in albergo ma mi rigiro, sento il vento e guardo
lontano all’infinito, sento la pioggerellina che bagna i miei capelli e qualche goccia
che scende sul mio volto, apro la braccia e continuo a “guardare il vento sui prati”
mentre tutto il resto è fermo, dalle curve ai sali e scendi che fa il sentiero girando
intorno alle colline, dalle pozze d’acqua a quel cumulo di pietre, da qui fino
all’infinito. Ho ancora le braccia aperte e guardo in terra tra i miei piedi, vedo un
ramo, mi chiedo da dove venga, poi mi accorgo che è caduto da un albero che è
proprio qua, vicino a me, l’unico albero fino all’infinito.
Cammino a piccoli passi, poi mi fermo ancora ad ascoltare il vento, ad ammirare, a
diventare parte del quadro. Piove, quando poggio il piede a terra sento dolore, il mio
viso è bagnato, il cappuccio è abbassato. Non vorrei scendere, vorrei fermare questo
momento, mi sembra che qui il tempo possa interrompersi. Poi faccio qualche altro
passo, guardo in basso giù nella valle, mi aspetta una doccia calda. Comincio a
scendere zoppicante, penso a mia madre e mio fratello, dovrebbero vedere, penso a
quanto questo sia impossibile, mi sento solo. Arrivo in albergo e bevo subito un caffè
caldo. Emma è già in camera che mi aspetta, una stanza tutta per noi due, qui ad
Inveroran. Quando entro guardo la mia compagna e la abbraccio. Le chiedo scusa e
lei mi racconta di essere caduta, mentre usciva dall’albergo di Bridge of Orchy. Mi
dice di essersi fatta male e di aver pianto. Io non mi ero accorto di nulla, camminavo
più avanti e poi, quando lei, salendo per le colline, mi ha superato, non mi sono
neanche girato a guardarla. La abbraccio di nuovo e ci promettiamo di risalire sulle
highlands domani, insieme. Mi siedo davanti alla finestra e guardo verso i monti da
quali siamo appena scesi. Fermo il mio sguardo e vorrei essere ancora lì, sulle colline
che ci stanno sopra e che fra le nubi e la nebbia salgono verso il cielo, poi mi volto
verso Emma: “Sarebbe stupido prometterti che non accadrà più, ma ti giuro che voglio
rincominciare a vivere, per noi.”. Lei mi guarda e mi risponde: “Fabio, sono sempre
stata qui con te.”.
Dopo una doccia calda e dopo aver lavato qualche indumento, Riccardo ci propone di
andare a trovare Albert. Vive nella valle in una casa fatta di pietra, circondata da un
giardino e chiusa da un recinto di legno. Albert è l’unico abitante della valle, è alto,
porta capelli lunghi, codino e barba bianca curata. Lavora fra la valle e i piccoli
villaggi lontani della contea, ma a volte si estranea dal mondo e vive solo di pesca.
Nella sua casa ogni cosa ha il suo posto, il camino, le canne per pescare appese alle
pareti, i giubbotti da pesca ma anche il lettore “dvd” poggiato in terra sotto il
televisore. L’elenco telefonico, sotto una piccola finestra in legno, avrà si e no quattro
pagine. Da un cortile sul retro della casa viene a salutarci anche il suo cane bianco e
nero. Ci fermiamo in quattro chiacchiere sulla vita, faccio mia qualche parola saggia
del nuovo amico scozzese e ci diamo appuntamento per questa sera, al pub. Sento che
per Albert tutto è rimasto invariato negli anni. Sembra che per lui il tempo passi più
lentamente, ma l’impressione è che Albert viva come una cosa normale che Riccardo
sia passato a trovarlo, come se si fossero visti ieri. Forse perché ha sempre saputo che
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prima o poi sarebbe tornato. Tra i monti, ho visto la contentezza in occhi vivi. Dolci
espressioni per aver rivisto l’amico Riccardo e grande calore per ospiti mai visti, tutto
con un po’ di timidezza. A cena la cosa più buona è il paté di cervo, oltre al salmone
fresco, ovviamente. Al pub arriva, anche oggi, la signora bionda, con la quale ridiamo
ancora una volta. Anche a Inveroran riesce ad animare la serata, Albert la guarda e
sorride con discrezione verso i suoi amici, poi ci offre da bere. Consumiamo birra,
whiskey e Glayva, una specie di Drambuie al limone. La bionda è completamente fuori
di testa, mi chiede se Riccardo sia fidanzato, le rispondo di no e lei mi dice: “Ancora
per poco...”. In realtà la signora sta andando a dormire, tiene in mano una bottiglia di
vino che si sta portando via e ci saluta. Non la vedremo più, domani lei prosegue, noi
ci fermiamo qua.
Tramite Rose ci arriva la notizia che questa mattina è stato trovato morto un signore a
Bridge of Orchy. Ieri sera, finita la tappa, dicono sia andato a mangiare e bere al pub.
Poi sarebbe tornato nella sua tenda. Forse è stata una congestione o forse lo sforzo
della marcia, aveva una sessantina di anni. Prima di andare a dormire non fissiamo un
orario al quale svegliarci e programmiamo una giornata di pieno relax nella valle.
Magari faremo una passeggiata nei dintorni. Domani vedremo.
4 di agosto
Emma ed io ci alziamo quando Riccardo ancora dorme, facciamo colazione e lo
aspettiamo davanti al caminetto, nel piccolo salone dell’albergo. Quando arriva
mangio di nuovo. Alle 10,15 ci incamminiamo per la strada nella valle, costeggiamo la
casa in pietra bianca dei Macduff e superiamo il cottage di Albert. Passiamo il ponte
sul fiume e camminiamo per il sentiero nella campagna verde in mezzo alle highlands.
Saliamo su un colle fino alle rovine della casa di “Donnchadh Ban Mac Ant-Saoir”,
poeta che visse fra il 1724 ed il 1812 e che qui scrisse le sue poesie, il suo nome è
scritto in gaelico su una targa. Le pietre della casa sono coperte di muschio e l’erba è
alta.
Sono le 10.50, fa freddo ma ha smesso di piovere. Si sente il vento, che scuote l’erba e i
pini di un bosco vicino, il rumore del fiume e le nostre voci. Chiacchieriamo seduti
sulle pietre della casa. Vedo un grosso volatile fermo sulla stradina sotto di noi, chiedo
a Riccardo cosa possa essere, l’uccello prende il volo e ci passa sopra, fa un giro e va
a infilarsi nel bosco. Io penso di aver capito cosa fosse, ma la conferma mi arriva da
Riccardo che dice: “E’ la grouse! finora l’avevo vista solo su qualche bottiglia di
whiskey…”. Finisce la frase e scoppiamo in una risata, Riccardo si riferisce a un
whiskey che prende nome dal volatile e che con il suo marchio fa da sponsor alla
nazionale scozzese di rugby. La “scottish grouse” sembra un misto fra una pernice e
una gallinella selvatica, è ormai in estinzione e purtroppo viene ancora cacciata in
molte tenute. E’ rara da vedere e quando arriva sul tavolo di qualche ristorante, fra
settembre e febbraio, può costare cifre incredibilmente alte. Gli italiani sono fra i più
accaniti cacciatori e arrivano a spendere cento sterline a capo abbattuto per poter
uccidere qualche grouse e placare i loro stimoli. Sono rimasto “allucinato”, qualche
tempo fa, nel leggere su un sito internet di un’associazione italiana di caccia, che
promuove “safari” in Scozia, una frase che dice più o meno così: “In passato abbiamo
fatto carnieri incredibili con le grouse, fino a centinaia di capi in una sola battuta.
Oggi, purtroppo, sembra che quel magnifico animale sia in via di estinzione, il numero
degli esemplari rimasti è ridotto a tal punto che in molte tenute non ne possano più
essere abbattuti. Nella speranza che quello splendido volatile torni numeroso a volare
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e a popolare le sue terre, chi volesse prenotare telefoni al…i posti si stanno
esaurendo.”.
Proseguiamo nel cammino tra l’erba alta e prendiamo la stradina che continua, tra le
pozze e il fango, nel verde della valle. Appare un altro lago e realizzo che il nostro
albergo si trova fra le due distese d’acqua, in comunicazione fra loro tramite un fiume,
sul quale ci sono tanti ponti in pietra. I monti, anche oggi, sono tagliati a metà dalle
nuvole.
Il lago è contornato da gruppi sparsi di pini, e su un lato, da un fitto bosco che scende
dalla montagna di Beinn Dòrain, immersa fra le nubi. Gli alberi arrivano fino
all’acqua. Sono le 11.40, tra il fango e le pietre del sentiero costeggiamo il lago verso
il “Victoria Bridge”, un ponte in pietra sul fiume, che gli scorre sotto prima di
terminare in una potente cascata. Continuiamo sulla strada e arriviamo alla “Forest
Lodge”, la casermetta della forestale, costruita in pietra grigia, con il tetto, gli infissi
e le finestrelle rosse.
Esce il sole e con esso gli sciami dei midges. Ci tratteniamo ancora per poco,
prendiamo una strada asfaltata e torniamo verso l’albergo. Quando arriviamo noto
sull’insegna la scritta “Inbhiroran”, il nome del posto in gaelico. Ci dirigiamo al pub e
pranziamo con una zuppa calda e un panino.
Nel pomeriggio, mentre Emma ed io siamo seduti davanti al fuoco, alla quiete del
camino, Mr. Macduff entra nella stanza e ci chiede: “Ci sono i cervi, li volete
vedere?”. A noi non sembra vero e usciamo subito fuori. Sono scesi a valle, saranno a
duecento metri di distanza da noi. Cerchiamo di avvicinarci, ma indietreggiano come
noi avanziamo. Scatto qualche foto con la speranza di aver immortalato qualcosa. Più
tardi viene a trovarci Dave con la sua famiglia e io ne approfitto per fare due tiri con il
pallone da rugby in compagnia del figlio. Su un prato, di fronte all’albergo, il
ragazzino mi insegna a fare un passaggio con il pallone ovale. Mi spiega che bisogna
mettere una mano su una punta, tenendola aperta come se stesse impugnando una
penna, l’altra deve tenere la parte opposta del pallone, poi si può effettuare il
passaggio. Torno dentro, quando veniamo chiamati per la merenda. La signora
Macduff ha preparato un’enorme torta al cioccolato e una quantità “esagerata” di
frittelle che divoriamo sorseggiando il tè. Davanti ai dolci penso che saremo le uniche
persone a tornare ingrassate dalla West Highland Way. Rimaniamo tutta la sera a
parlare e vedere i bambini giocare e mi faccio inviare sul cellulare, dal nipote di
Riccardo, l’inno scozzese, la melodia di “Flowers of Scotland”, suonata con la
cornamusa. Quando i parenti di Riccardo vanno via, andiamo a cenare…siamo
proprio “senza fondo”, ma è così stimolante questa isola di pace in mezzo ai monti! Ci
avrebbe potuto saziare anche solo l’antipasto di salmone, ma arriviamo fino al dolce.
Finito di mangiare ci rifugiamo al pub, Albert c’è già, poi arrivano altri walkers e
arrampicatori. Tante persone vengono a scalare le montagne nel weekend, c’è un tipo
che ha “conquistato” tutte le cime qui intorno. I Macduff ci propongono di rimanere a
dormire anche domani. Il loro piano è di farci camminare per la tappa fino a
Kingshouse e poi di venirci a prendere per riportarci qui da loro. Continuano a
spiegarci che dopodomani ci accompagneranno di nuovo a Kingshouse per farci
riprendere la nostra via da dove la lasceremo. Ci chiedono solo una cortesia, di
portare con noi Max, il cane.
5 di agosto
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Partiamo per Kingshouse con il cane, percorriamo la strada nella valle, è pieno di
midges e infiliamo la testa nelle reticelle. Max corre avanti a noi, si ferma e riparte di
nuovo, prima va in una direzione e poi in un’altra. Capiamo subito che non dobbiamo
avere paura di perderlo perché in realtà è lui che sta guidando noi. Riccardo gli dà un
biscottino, Max lo addenta “al volo” e riprende a correre, si immerge in una pozza per
un bagno, poi scuote il pelo e noi facciamo un salto indietro per evitare una doccia
inaspettata. Sta piovigginando e la reticella che porto sul volto si ricopre di tantissimi
midges. La piccola strada costeggia il Loch Tulla, attraversiamo il Victoria Bridge e
Max all’improvviso corre indietro spaventato. Non capiamo il motivo fino a che non
vediamo un uomo in tenuta da pesca, vestito di nero e con il cappuccio della mantella
scura sulla testa. Max ha paura e non vuole riavvicinarsi, allora lo richiamiamo con
un altro biscottino, al quale non resiste. Superiamo la caserma della forestale e
prendiamo il sentiero per Kingshouse entrando nel bosco. Sono le 10.05, iniziamo una
lunga salita che sembra dolce e costante, sulla destra costeggiamo un bosco, a sinistra
ci sono sempre i monti fra le nubi. Saliamo fra gli sciami di midges. Il bosco che
fiancheggiamo è a un metro da noi e si sentono i ruscelli che ci scorrono dentro, ci
giriamo intorno e lo vediamo finire. Passiamo un ponte in pietra su una piccola
cascata e arriviamo su un altro altopiano nel mezzo delle highlands, intorno, ancora
una volta, non si vede niente se non le infinite colline. Salendo, rimango
volontariamente indietro e dal mio cellulare faccio suonare “Flowers of Scotland”.
Emma, sentendo quella musica, solleva la testa e guarda in giro, cento metri avanti a
me, pensa a una cornamusa in lontananza. Quando si accorge che sono io, mi dice
ridendo: “ Ma sei scemo, io mi ero immaginata Antony di Candy Candy!”
Continuiamo a camminare, mi fa male la caviglia destra quando tocca la scarpa, il
sentiero gira e continua a salire per le highlands. Ci sono ruscelli, pozze d’acqua e
qualche gruppetto di alberi. Max è tutto bagnato. Se mi fermo e mi tolgo la reticella i
midges mi divorano. La caviglia destra mi fa malissimo, stiamo scendendo in una valle
e si vede un piccolo lago paludoso fra le pozze d’acqua, poi risaliamo e giungiamo su
un altro piccolo altopiano, il sentiero prosegue verso altre colline fra le nuvole.
Incrociano due uomini in senso contrario al nostro e ci salutiamo con altri due “Hi!”.
I monti si avvicinano e fra poco saremo in mezzo alle nuvole. Per ora proseguiamo
sull’altopiano coperto di pozze, laghetti, rocce sparse un po’ ovunque e qualche
gruppetto di pini. Poggio il tallone per terra e stringo i denti, la reticella sul viso è
ancora ricoperta di midges. Passiamo le cascate di un fiume che scende dalla
montagna e di nuovo: “Hi! Hi!”. Altri due walkers che scendono. Prendo un attimo per
riflettere e mi dico: “Mondo di falsità, ambizione e arrivismo! Non so cosa accadrà se
dirò di no alle logiche del fatturato, anzi lo so, non so cosa sarà della mia vita. Arrivo
a pensare che ci vuole poco a diventare “barbone” in Sardegna, ma poi rifletto sul
fatto che ho tante persone intorno e che si può anche decidere di andare via,
rimanendo soli però. Forse la cosa migliore è prendere una posizione e aspettare di
vedere quello che succede, sento che il mio cuore è libero qui su.”.
E’ pieno di midges, camminiamo per un’ora sull’altopiano, siamo di nuovo nel mezzo
di un infinito di colline, alcune verdi ed altre marroni, niente altro. Troviamo un ponte
in pietra sopra un fiumiciattolo e ci fermiamo a mangiare qualcosa. Come mi tolgo la
reticella per addentare un muffin mi assale uno sciame di midges. Quegli animaletti si
poggiano anche sulla mia merenda, però rassegnato continuo a mangiare, gli insetti mi
pungono ma io me li mangio! Proseguiamo sul sentiero per un’altra mezz’ora fino a
che si apre sotto di noi la valle di Glencoe, così grande da contenere tre o quattro città
di Cagliari, penso. E’ un enorme distesa piatta dal manto marrone e disseminata di
pozze d’acqua e rigagnoli. Fra le montagne che danno sulla valle svetta alla nostra
sinistra il “ volgarmente” detto Ben Coe, il Buachaille Etive Mor, il monte più alto
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che abbiamo intorno, che si innalza roccioso fino al cielo con la sua incredibile forma
di cono e la punta che si perde fra le nuvole. Penso che per scendere nella valle ci
vorrà un’altra ora, la caviglia mi fa male e quasi non posso poggiare il tallone per
terra, ma stringo i denti e cammino. Man mano che scendiamo la valle sembra sempre
più grande e i monti che la circondano più alti. Le pozze d’acqua che si vedevano
dall’alto ora sembrano laghetti, tira vento freddo e il cielo è scuro. Dalla nebbiolina,
sopra di noi, cadono goccioline a bagnarci il volto. Scendendo, cominciamo a vedere
una grossa costruzione grigia che dovrebbe essere l’albergo di Kingshouse. Il sentiero
lascia il costone montuoso ed entra nel fondo della valle. La costruzione vista mentre
scendevamo dal monte appare ora lontanissima, quasi al centro della valle.
Camminiamo per un altro quarto d’ora e il sentiero arriva a una piccola casetta in
pietra bianca, che prima non avevamo notato. All’improvviso, Max parte veloce in
direzione della casa e salta su una jeep parcheggiata in un piccolo spiazzo sterrato. Ci
è venuto a prendere Mr. Macduff. Partiamo per una strada a due corsie che attraversa
la valle e ci dirigiamo verso Inveroran. Dall’alto, quella striscia d’asfalto, immersa in
una valle grande come un mare, non si notava. Immagino che, percorsa in senso
opposto al nostro, arrivi fino a Fort William, di sicuro è trafficata. Sulla “via di
casa”, Mr. Macduff si ferma in uno spiazzo asfaltato che si affaccia sulla vallata del
lago Tulla. Mentre ammiriamo il panorama inizia a suonare una cornamusa. Il lago è
contornato da boschi di pini e fra noi e gli alberi, tra l’erba alta, stanno fermi più
gruppi di cervi. Dopo aver ringraziato Mr. Macduff, per lo spettacolo offertoci,
saliamo nuovamente sulla jeep ed entriamo in una strada sterrata, che penso ci porterà
fino all’hotel. Superiamo una grande villa, così grande da sembrare un castello, la
casa dei proprietari dell’immensa tenuta nella quale sorge lo stesso albergo di
Inveroran. La strada è contornata da alberi alti e prosegue nel verde. In un punto c’è
una panchina che i proprietari terrieri hanno fatto costruire per zia Katy, una
vecchietta ottantenne che vive nella tenuta e che ogni giorno ci si va a sedere quando
porta il suo cagnetto a fare la passeggiata. Passiamo di fronte alla casetta della
vecchia signora per poi lasciare dietro di noi anche la caserma della forestale. Ancora
un miglio e arriviamo all’Inveroran Hotel. Il pranzo è pronto, una caldissima zuppa di
patate dolci e peperoni, formaggio cheddar stagionato di Orkney, prosciutto e salmone
affumicato, il tutto accompagnato da tanti tipi di pane e da vino bianco. Attorno al
lungo tavolo, che sembra essere stato apparecchiato da Mackintosh per quanto è
curato, siamo radunati proprio tutti. Ci sono i Macduff, Rose e una coppia di anziani
signori di Bridge of Orchy.
Dopo il pranzo Emma ed io ci congediamo per regalarci un riposino pomeridiano, non
riceveremo l’augurio di “sogni d’oro” ma di “twenty wings”, venti battiti d’ali.
Dopo anni mi trovo a riposare di pomeriggio, nella pace più totale, accoccolato sotto
un soffice piumone.
Di sera andiamo al pub, Emma ed io siamo i primi ad arrivare, seguiti da due signori
inglesi in pensione che stanno girando la Scozia in camper. Dopo essersi bevuti un
paio di birre e un po’ di whiskey, i due si mettono a cantare vecchie ballate, da non
credere. Portano cappelli in pile, hanno facce paffute e guance rosse, cantano ubriachi
e si dondolano abbracciati dietro il tavolo.
Più tardi entrano due walkers bagnati fradici che ordinano una birra. Arriva Albert e
poi anche Riccardo. Fuori piove, ma per poter fumare al coperto si può usare una
piccola stalla a lato della porta d’ingresso.
Una birra e andiamo a cenare. Questa è l’ultima sera a Inveroran e dopo aver
mangiato torniamo nuovamente al pub per i saluti finali. Arriva anche Max, che subito
inizia a scodinzolare tra i tavoli facendo “le feste” a chiunque entri nel locale.
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Per l’occasione i Macduff aprono una bottiglia molto speciale di un vecchio whiskey
fuori produzione. Emma ed io, che non ne beviamo, brindiamo con un bicchiere di
Glayva: “ Slanch!”.
6 di agosto
Mr. Macduff ci accompagna a Kingshouse e alle 11.30 riprendiamo la nostra strada da
dove l’avevamo lasciata.
Camminiamo per uno stretto sentiero nell’immensa valle di Glencoe, che tende a
stringersi solo all’orizzonte. Sulla sinistra abbiamo il roccioso monte di “Ben Coe”,
più lo guardo e più sembra un cono perfetto, che dalla metà in su si perde, anche oggi,
fra le nuvole. A destra c’è una catena montuosa, sempre fra le nubi. Avanti,
all’orizzonte, uno spicchio di cielo fra i monti che convergono. Fa freddo, c’è vento, le
mani cominciano a diventare fredde. Alle 11.55 lasciamo la stradina per prendere il
piccolo sentiero pietroso che sale sui monti, il naso è ghiacciato, la caviglia destra
oggi va bene. Una lunga salita, rocce qua e là, erba alta e ruscelli. Continuiamo a
salire, Emma in testa, alla nostra sinistra compare un fiume. L’orizzonte si sposta
molto più avanti e si vede come le due catene montuose continuino affiancate
stringendo la valle a perdita d’occhio.
Passiamo ruscelli, piccole cascate e il sentiero prosegue in piano spostandosi sempre
più verso il lato destro della valle. I nostri scarponi si immergono continuamente
dentro l’acqua. Sulla sinistra compare una casetta vicino a un ponticello sul fiume.
Camminiamo a passo spedito, costeggiamo un bosco di pini e un’altra casetta con il
tetto in legno. Attraversiamo un ponte su una cascata che scende dal bosco. Aggiriamo
gli alberi e il sentiero si dirige verso la catena montuosa destra. Alle nostre spalle
lasciamo la valle, che gira a sinistra e lascia vedere la sua fine, una stretta gola
seguita da un lago blu. Spalle alla valle iniziamo una ripida salita, il sentiero prosegue
a “scalini”, siamo sulla mitica Devil’s Staircase, la parte più difficile della West
Highland Way per la pendenza del suo tracciato e la lunghezza della salita. Il fiato si
fa corto, ruscelli e cascate da tutte le parti, inizia a piovere, il sentiero scompare in
alto fra la nebbia. Ogni volta che mi fermo il cuore batte forte e sudo freddo, ad ogni
pausa che faccio, trovo ferme anche altre persone che riprendono ossigeno. Guardo
giù, saremo saliti di cento cinquanta metri e avanti c’è ancora un altro dislivello di
forse altri duecento. Sono le 13.00, i polpacci durissimi riescono a dare sempre
un’altra spinta. Se guardo dietro, mi sembra di stare a precipitare. Alle 13.20 avvisto il
cumulo di pietre sulla cima, ancora dieci minuti di salita e l’apice di pietre si
arricchisce di altri tre sassi. Cominciamo la discesa nella valle, nuovamente
nell’infinito di monti e colline, sopra di noi le nuvole. In lontananza, nella grande
vallata, compare una lunga fila di persone a cavallo che sale verso di noi.
Attraversiamo due torrenti poggiando i passi su delle grosse pietre e ci fermiamo per
lasciar passare il gruppo. Iniziamo un’altra salita nella valle e fra i monti a sinistra, a
chilometri di distanza, vediamo spuntare un grande lago. Continuiamo a salire,
secondo Riccardo quel lago è un fiordo, io penso che non possa esserci il mare da quel
lato e affermo con sicurezza: “Ma se la costa è dall'altra! E’ un lago!”. Notoriamente
io non sono mai stato dotato di un grande senso di orientamento e infatti, raggiunta
un’altra cima, Riccardo esclama: “Hai visto che è un fiordo?”. Effettivamente non
posso dire di no.
Davanti a noi montagne, entriamo in una nuova valle e poi in un’altra ancora, sempre
con il fiordo alla nostra destra. Io non ho ancora capito come può essere che abbiamo
il mare a destra, ma accetto rassegnato di continuare a vedermelo da quella parte. Più
lo guardo e più ci penso. Ci fermiamo a mangiare, l’acqua da bere è ghiacciata, quasi
nel vero senso della parola. Continuiamo a scendere per chilometri sotto un forte
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acquazzone, quando, alle 14.20, le case di Kinlochleven compaiono ai piedi dei monti,
sotto di noi nella profondità della valle ricoperta dai boschi.
Dalle case, la nebbia sale verso la luce. Continuiamo a scendere e il villaggio
scompare perché il sentiero continua nei boschi. Siamo completamente zuppi e le mani
sono ghiacciate, attraversiamo due ponti su forti cascate e continuiamo a scendere.
Passiamo a lato di una centrale idroelettrica che sorge su un fiume e arriviamo ad un
gruppo di case bianche e marroni. Superiamo delle cascate attraverso un ponte di
legno e ci troviamo su una sponda dell’ampio River Leven, il fiume che bagna
Kinlochleven. Le case del paese hanno tutte coloratissimi giardini, che i proprietari
riempiono di pupazzi, dai Sette Nani a Paperino, a Yoghi e Bubu. Per raggiungere la
nostra Guest House dobbiamo attraversare nuovamente il fiume, che ha un corso molto
tortuoso dentro il paese, fa un sacco di curve e ne separa gli isolati. Alle 16.00
troviamo la pensione.
Anche il “nostro” giardino è colorato e pieno di statuine. Gnomi, folletti e i Sette Nani.
Suoniamo il campanello e ci apre una signora bionda e grassa che registra i nostri
nomi e ci indica il piano della nostra stanza.
Passiamo tre rampe di scale fra collezioni perfette di “ninnoli” e bomboniere, fatine,
uccellini, ed ancora folletti, gnomi e farfalle. Ogni serie è fatta di ceramica ed è
disposta con meticoloso ordine su mensole stuccate, nei pianerottoli che ci separano
dalla nostra camera.
La stanza è zeppa di coccarde e pupazzi, da quelli dei miti nordici a quelli della
“Disney”; mi stendo e prendo fra le braccia un “Babbo Natale”, leggo e aspetto il mio
turno per la doccia.
Riccardo indossa le sue ciabattine infradito con bandierina del brasile e siamo pronti
per uscire.
I miei scarponi hanno ceduto ai chilometri sotto l’acqua, si sono immersi per ore nel
suolo del sentiero diventato fiume. La gomma si è scollata vicino alle punte e spero che
resistano agli ultimi ventiquattro chilometri di West Highland Way.
Compro qualcosa da mangiare per eventuali attacchi di fame notturna e ci rintaniamo
nel primo pub che capita. E’ squallidissimo, il barista sembra proprio“lercio”, ci
sediamo in una saletta arredata stile anni settanta, con la moquette, i divani di finta
pelliccia azzurra e cubi a specchio come sedie. Il tizio del bar ci dice che è prevista
pioggia anche per domani, Emma è molto stanca e Riccardo ha forti dolori alle
ginocchia. I miei compagni valutano di finire qui la West Highland Way, di prendere
l’autobus per Fort William e di goderci la giornata di domani in rilassatezza. Il
“lercio” afferma che l’ultima tappa che ci attende è noiosa e quando Riccardo
propone di fermarci qua, io ribatto: “No Riccardo, siamo arrivati fino a qua, io
domani arrivo a Fort William anche strisciando!”. Sono sicuro di essere stato
convincente, ma Riccardo mi risponde: “Dai, domani vediamo, se non sta piovendo
troppo fa piacere anche a me arrivare fino in fondo, ma altri ventiquattro chilometri
sotto la pioggia non lo so…”. Beviamo una birra e andiamo via. Ci spostiamo in un
centro commerciale, ma il pub-ristorante non ha niente di tipico, potrebbe sembrare di
stare a Cagliari. Ci facciamo un’altra birra, usciamo e andiamo in un ristorante, dove
finalmente troviamo la cucina del luogo: zuppe, salmone, cervo e ovviamente il garlic
bread, il pane all’aglio.
Vado a dormire pensando che ora niente mi può impedire di arrivare alla fine.
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7 di agosto
Nella sala della colazione c’è un unico tavolo per tutti gli ospiti della Guest House. Di
fronte a noi si siedono due walkers inglesi, padre e figlio. Il padre biondo, alto e “ben
messo” fisicamente, il figlio che sembra il papà in miniatura. Sulla tavola c’è proprio
di tutto, dai cereali alle more, quello che manca è il pane da toast abbrustolito, che
l’inglese “grande” prontamente chiede alla signora. L’albergatrice, avara
evidentemente di pane, ne prepara solo tre fette e le poggia sul tavolo fra noi e gli
inglesi. Non appena il cesto è a portata di mano, Riccardo ed io addentiamo una fetta
per uno e il signore non gradisce, sbuffa e ci guarda malissimo. Noi vorremmo
restituirle, ma non è più possibile, allora, facciamo finta di niente e davanti alla sua
faccia che sbigottisce, prendo pure la terza fetta. Prima di lasciare la stanza cerco di
portare via con me un “Babbo Natale”, ma Emma si accorge della testa del pupazzo
che sporge dal mio zaino e mi impedisce di completare l’opera.
Piove, ma rinvigoriti dalla notte, anche Riccardo e Emma non hanno dubbi sul
percorrere l’ultima tappa, fino a Fort William. Comincio a immaginarmi quando sarò
di fronte al cartello finale e alla scritta: “Qui finisce la West Highland Way. Benvenuti
dal Centro Visitatori di Ben Nevis”. Da un lato, mi mette già malinconia il pensiero di
quel momento, dall’altro, fremo dalla voglia di arrivarci.
Alle 9.30 lasciamo la Guest House, attraversiamo il villaggio e proseguiamo sulla
strada asfaltata, costeggiamo il fiume ed entriamo nel bosco, il sentiero va in salita fra
ruscelli. Usciamo dal bosco e sotto di noi si inizia a vedere un fiordo, stretto come un
fiume. Riconosciamo che è un fiordo perché la corrente va verso l’interno. Il sentiero
gira, rientra sotto gli alberi e ricomincia a salire. Non piove ma è pieno di nuvole.
Usciamo ancora una volta dal bosco, continuiamo a salire, mi giro ed a valle, tra i giri
del fiume, vedo le casette di Kinlochleven. Dall’alto è ben visibile come il River Leven
tocchi il mare in un punto paludoso e si vedono le due correnti d’acqua che procedono
in senso opposto fino a incontrarsi, fino a mischiarsi fra loro. Continuiamo a salire e il
fiordo si apre ancora di più. L’acqua del mare è centinaia di metri sotto di noi e vedo
un molo sul quale è ormeggiato un peschereccio, che da qui su sembra un giocattolo.
Le montagne sono alte, continuiamo a salire girando verso l’interno e il fiordo non si
vede più, lo lasciamo alle nostre spalle. Arriviamo su una cima e sotto, quando mi giro,
vedo Kinlochleven nella sua interezza. Il paese occupa tutta la profonda valle e le case
stanno una attaccata all’altra sulle sponde del fiume, che ci gira in mezzo prima di
uscire dalla valle. I tre gruppi principali di case sono separati da boschetti e da
qualche prato. Mi giro di nuovo e riprendo il cammino salendo per le colline, ancora
più su ci sono i monti, continuo a salire per il sentiero pietroso. Giù a sinistra, fra i
monti che vanno avanti fino all’orizzonte, il fiordo si allarga ancora e prosegue,
sembra un fiume stretto fra montagne che toccano il cielo e infilano la loro vetta tra le
nuvole. Inizia a piovere, in lontananza continuo a guardare il fiordo fra i monti, ma il
sentiero inizia a scendere verso l’interno in una valle, poi gira e sale su una collina,
dalla quale subito riscende. La strada prosegue con agevoli salite e discese per colline
verdi, piove e fa freddo, il vento tira forte, aggiriamo le ultime cime per sbucare in una
profonda e lunga valle fra due catene montuose. Il sentiero va avanti per chilometri in
un’immensa vallata verde piena di ruscelli, disegnando una curva che si chiude solo
all’orizzonte. Smette di piovere ma continua a soffiare un forte vento. Costeggiamo due
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case in pietra diroccate, e intorno a noi, fino ai piedi dei monti, è pieno di capre.
All’orizzonte le catene montuose si stringono fino a toccarsi e tra loro c’è il sole, come
nel disegno di un bambino. Oltre l’incontrarsi dei monti, sotto il sole, c’è Fort William.
Come non mai il sentiero è pieno di walkers, formano un serpente di gente tra le due
catene montuose, camminano a gruppi, a coppie o da soli. Alcuni ci superano, altri li
superiamo noi. Andiamo avanti a passo spedito e attraversiamo continuamente
ruscelli. Nella valle si infilano raffiche di vento freddo e camminiamo nella vallata per
altri dolci “sali e scendi”. Il sentiero costeggia un potente fiumiciattolo e passa in
mezzo a gruppetti di case di pietra diroccate. Ci sono anche tanti piccoli ponti in pietra
in parte crollati. Penso che un tempo ci doveva essere un villaggio attraversato dal
fiume e che i ponti mettessero in comunicazione tra loro abitazioni, botteghe e fattorie.
Ora ci sono solo ruderi, sui quali pascolano tante caprette. Lasciamo il “vecchio
villaggio” e il nostro tracciato va a sistemarsi su un piano più alto, sulla destra. Sento
lo sforzo sui polpacci e sui quadricipiti, ma sono tonici e rispondono bene, mi sembra
di doverli fare esplodere per una volata, penso manchino solo dieci chilometri
all’arrivo. Riccardo cammina canticchiando avanti a me, Emma è dietro. Sento che
siamo vicini all’arrivo. Il sentiero si sposta su un piano ancora più alto, guardo giù e
vedo che il fiumiciattolo è alimentato dai tanti ruscelli che scendono dalle montagne.
Molto spesso i nostri scarponi devono immergersi nell’acqua dei tanti corsi d’acqua
che attraversano il nostro sentiero, prima di scendere verso il piccolo fiume. Tutto
intorno un infinito di prati, muschio e verdi montagne che fanno bucare il loro
mantello solo da qualche roccia scura.
Il sentiero va ancora più in alto e continua la sua corsa a serpente. Verso le 12.30
incrociamo gli inglesi di questa mattina e ci salutiamo con due “hi!”. Stanno seduti sul
bordo del sentiero e il padre ci fa anche un amichevole cenno di saluto con la mano.
Avanti a noi sta finendo la catena montuosa di destra e da essa scende un bosco di
pini che arriva fino alla valle. Attraversiamo un ruscello circondato dai thistle ed
entriamo nel bosco, diviso in due dal sentiero che scende in un’altra valle verde. I
colori intorno sono il verde, il rosso e il marrone e la valle nella quale entriamo è
disseminata di alberi. Compare un altro monte, quasi completamente ricoperto di pini,
se non fosse per la sua cima a cono, di roccia violacea, che spunta oltre i boschi e va
tra le nuvole. Attraversiamo la valle, tutta quella vegetazione che prima ci circondava
va scomparendo e davanti a noi c’è una grande distesa di alberi tagliati e rovesciati,
di tronchi accatastati. Doveva esserci una grande foresta, un tempo. Sulla destra, in
alto, un camion raccoglie i tronchi, ci sono montagne di legname accatastato e pronto
per essere raccolto. Penso che il monte sopra di noi presto sarà spoglio, non mi viene
da pensare a un eventuale rimboschimento. C’è un mare di grigio dove prima c’erano
gli alberi. Rimangono solo dei piccoli boschetti sparsi, separati da distese, nelle quali
la terra sembra bruciata. Qualche centinaio di metri e vedo un piccolo gruppetto di
alberelli, penso che forse li ripiantino pure e mi sento sollevato. Ancora qualche passo
e incontro un cartello. La scritta dice che qui, vicino alle rovine del castello di Argyll,
il 2 febbraio del 1645, si svolse la battaglia di Inverlochy: “L’esercito reale di
Montrose contro le forze alleate di Argyll”. Leggendo quella incisione mi torna in
mente Robert the Bruce, che al Castello di Inverlochy portò a termine una delle
battaglie fondamentali per la riconquista del suo regno e per la libertà del suo popolo.
I miei pensieri avevano lasciato King Robert e i suoi soldati ad Ayr, a iniziare la loro
guerriglia per il paese.
Nell’aprile del 1307, Bruce, allontanatosi dalla contea di Ayr e rifugiatosi nei boschi
a sud del paese, con solo 300 uomini al seguito, aspettò il passaggio della cavalleria
inglese nella valle di Glen Trool e inferse una micidiale sconfitta ai 1500 inglesi
guidati dal Conte di Pembroke. Arrivarono rinforzi da tutto il paese, dalle Highlands
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e dal mare, clan interi, gente comune che si univa al re nella lotta di liberazione.
Sconfisse nuovamente il Conte di Pembroke nella battaglia di Loudon Hill e arrivò
il momento di riconquistare il castello di Turnberry. A questo punto Edoardo I,
sovrano d’Inghilterra, mise insieme un forte esercito che spedì in Scozia contro
Bruce, ma morì quando le sue armate non avevano ancora varcato il confine. Il
Principe del Galles, suo figlio Edoardo II, erede al trono d’Inghilterra, non si sentì di
mandare avanti la manovra e gli inglesi tornarono a casa, lasciando che a
combattere contro Bruce fosse quella parte di nobili scozzesi ostile al proprio
sovrano.
Nel 1307, King Robert iniziò la campagna verso il nord del paese, mentre James
Douglas, usando come rifugio e punto di partenza per i suoi attacchi la foresta si
Selkirk, diresse la sua guerriglia a sud.
Edward Bruce, invece, si rifugiò nei boschi di Huntly, stabilendovi un campo di
difesa, e fu attaccato dai Comyn, in una battaglia senza vincitori.
Nella sua campagna verso nord King Robert attaccò più volte le famiglie nemiche dei
Balliol e dei Comyn e inflisse loro pesanti sconfitte. Oramai il re scozzese guidava un
vero esercito e attaccò, conquistandolo con una dura battaglia, il castello di
Inverlochy, qui dove ci troviamo ora. Da qui, Bruce salì ancora più a nord e
conquistò il castello di Fort William, poi si diresse verso Loch Ness e prese
l’Urquhart Castle e la città di Inverness. Riconquistò il Balvenie castle e invertì la
marcia a sud, verso la contea di Aberdeen. Poi, marciò verso Inverurie e verso i
Comyn, che avevano appena attaccato il fratello Edward.
Inflisse loro una tremenda sconfitta nella battaglia di Barra Hill e costrinse il suo
grande rivale, il conte di Buchan, all’esilio in Inghilterra.
King Robert, allora, mise in atto un vero e proprio piano di annientamento dei
Comyn e dei loro alleati; i loro castelli vennero distrutti, le ricchezze confiscate, i
campi e i possedimenti bruciati. Si diresse poi verso nord-est e conquistò anche la
città di Aberdeen.
Un altro colpo durissimo agli inglesi fu inflitto, nella “Domenica delle Palme” del
1308, da parte di Sir James Douglas. Il cavaliere scozzese rientrava dopo tanti anni
in quelle che, fino alla cattura del padre William, erano state le terre della sua
famiglia. L’attacco al suo Douglas Castle era questione di ore. Sir James e i suoi
uomini rimasero nascosti fino a che non si aprirono le porte del castello e il
governatore, scortato dalla truppa inglese, uscì per raggiungere in processione la
vicina chiesa. Dopo tanti anni salì di nuovo alto l’urlo di guerra “Douglas!,
Douglas!”, la gente del paese insorse e si unì a Sir James, per gli inglesi non ci fu
scampo. Quelli che non rimasero uccisi nell’assalto furono fatti prigionieri e
rinchiusi nel castello. Nell’estate del 1308, rientrò sulla scena scozzese Thomas
Randolph, nipote di Bruce, catturato dagli inglesi dopo la battaglia di Methven.
Thomas fu risparmiato, in occasione della sua cattura, perché intimo amico di un
potente nobile inglese, ma a patto che combattesse per gli inglesi nella guerra contro
Robert The Bruce.
James Douglas lo catturò in estate e lo portò davanti a Bruce, che inaspettatamente
perdonò il nipote ponendolo sotto la custodia dello stesso Sir James.
Il giovane diceva dello zio Bruce: “Fa la guerra come un brigante invece di
combattere in campo aperto come dovrebbe fare un gentiluomo”. In un breve lasso
di tempo Thomas Randolph sarebbe diventato uno dei più grandi capitani di King
Robert.
Nell’agosto del 1308, Bruce ritenne fosse giunto il momento della resa dei conti con
un’altra famiglia nemica, quella dei Macdougall.
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L’attacco fu coordinato su due fronti, da una parte, King Robert puntava al castello
di Dunstaffnage vicino ad Oban, dall’altra, James Douglas si apprestava ad
attaccare il nemico in campo aperto. I Macdougall, rivolgendo la loro attenzione solo
a King Robert, pensarono di porgere una trappola al re scozzese nello stretto
passaggio di Brander ad Argyll, ma furono presi d’assalto dalla forza di James
Douglas.
Attaccati su due fronti i Macdougall furono annientati e Bruce fu libero di
conquistare anche il castello di Dunstaffnage.
Nel 1309, King Robert aveva annientato tutta l’opposizione interna scozzese e
deteneva il totale controllo del nord del paese, era giunto il momento di rivolgere la
sua manovra verso sud. Uno dopo l’altro caddero tutti i castelli che erano rimasti in
mani inglesi e vennero distrutti per evitare che il nemico potesse tornare a
rifugiarsici. Nel 1310 fu conquistato il castello di Linlithgow, nel 1311 quello di
Dumbarton, nel 1313 quello di Perth e di Caerlaverock. Nel 1314, infine, caddero le
fortezze di Roxburgh e di Edimburgo, rispettivamente per mano di James Douglas e
di Thomas Randolph.
La notte tra il 19 ed il 20 febbraio del 1314, alla vigilia del “mercoledì delle ceneri”,
Sir Douglas si apprestava ad assaltare il castello di Roxburgh. Fece nascondere i
suoi soldati sotto i loro mantelli e li fece strisciare fino ai piedi della fortezza. Gli
scozzesi in quella maniera furono scambiati per un gregge di bestiame, arrivarono
indenni sotto il castello, ne scalarono le pareti e lo conquistarono in brevissimo
tempo.
Nello stesso anno, Thomas Randolph arrivava a Edimburgo. Il giovane capitano,
accompagnato da un piccolo gruppo di uomini, si arrampicò per la parete nord della
rocca su cui si erge il castello, mentre il grosso delle sue truppe attaccava la porta
sud della fortezza. Dopo la silenziosa scalata riuscì a entrare nel castello e ad aprire
le porte agli scozzesi. Anche Edimburgo fu così riconquistata.
Il sentiero prosegue per la valle e continuano le distese grigie degli alberi tagliati, che
ora compaiono anche sul lato sinistro della valle. La via prosegue su una piccola e
ripida collina, sale e scende per poi prendere un’altra salita e un’altra discesa, poi
un’altra collinetta ancora. Usciamo dalla valle triste e subito entriamo in un’altra
vallata, sempre di alberi tagliati. Passiamo un’altra collina e il sentiero gira. Mi
fermo, mi guardo dietro e vedo che dove finiva la valle appena lasciata, ne iniziava
un’altra parallela, con un lago nel mezzo. Mi trovo all’incrocio di tre vallate. Mi volto
di nuovo e riprendo a camminare, in lontananza comincio a vedere la montagna di
Ben Nevis e ai suoi piedi, un’immensa foresta. Ai lati del sentiero compaiono altri
monti coperti da boschi immensi. Entriamo nella foresta di pini che arriva sotto Ben
Nevis, gli alberi sono altissimi, la luce filtra appena e quando gli spiragli si allargano,
si resta abbagliati dal sole. Tutto il suolo è ricoperto da muschio, il sentiero continua
per i boschi, attraversiamo cascate e continuiamo a salire, ancora immersi nella
foresta. Alle 15.00 ne siamo fuori, ai piedi dell’immenso Ben Nevis, che si infila nelle
nuvole. Guardo a nord e vedo un’infinita vallata, stretta fra alte catene montuose, che
si allarga all’orizzonte fino a Fort William, fino al mare. Il sentiero comincia a
scendere a valle, ogni tanto gira, ma sempre verso Fort William e all’ombra di Ben
Nevis. La strada sterrata, sulla quale camminiamo, è ampia e divide la foresta, avanti
a noi abbiamo sempre lo stesso orizzonte. Lungo la discesa i muscoli delle gambe mi
fanno male e sento una fitta al collo di un piede ogni volta che lo poggio sul suolo
pietroso.
In breve tempo, il sentiero esce definitivamente dalla foresta e va a costeggiare la
strada statale. Alla nostra destra, sempre sopra di noi, Ben Nevis. Mancheranno tre
chilometri all’arrivo, piove ma tolgo il cappuccio dalla mia testa e accelero, le gambe
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ci sono. Emma mi dice di rimettermi il cappuccio, io le rispondo di no, mi guardo
indietro e accelero ancora di più con ogni energia che mi è rimasta. Non sento più
dolori, mangio la strada senza cappuccio, sotto la pioggia, voglio arrivare soffrendo,
le macchine mi sfilano a fianco, le guardo e cammino a veloci falcate. Le prime case,
inizia il centro abitato, un cartello stradale, sono a Fort William. Mi fermo per un
attimo, mi giro e non vedo Emma, riprendo il mio passo, gli ultimi cinquecento metri,
senza cappuccio, sotto la pioggia. Mi trovo in mezzo al traffico cittadino, attraverso
una rotatoria, mi guardo intorno e passo a fianco dell’ultimo paletto di legno,
superando l’ultimo thistle bianco, il simbolo della West Highland Way, che porta
disegnato. Alzo lo sguardo e sono arrivato, un cartello indica la fine della West
Highland Way, un benvenuto dal Centro Visitatori di Ben Nevis. Sotto il cartello c’è
una panchina e ai suoi piedi due scarponi abbandonati. Mi siedo e vedo arrivare
Emma che sorride, ci abbracciamo, ci baciamo, si siede anche lei e mi dice: “Ci siamo
riusciti!”. Poi arriva Riccardo che stremato, sorreggendosi sul paletto di legno, ci
guarda e sorride. Scattiamo qualche foto, non rimane che andare al Centro Visitatori
per comprare la maglietta della West Highland Way.
Fatti gli acquisti andiamo al punto di raccolta per ritirare i nostri zaini, ci dicono che
non sono ancora arrivati e aspettiamo. Emma e Riccardo chiacchierano seduti su una
panchina, io cammino fra la strada e l’entrata di un albergo. Mi rendo conto che è
finita, qualche giorno ancora tra Bridge of Allan e Glasgow e poi saremo a casa. Il
prolungarsi dell’attesa ci fa perdere l’autobus che ci avrebbe portato direttamente a
Stirling, a un passo da Bridge of Allan. Quando rientriamo in possesso dei nostri
bagagli non ci resta che saltare su un treno, due cambi ferroviari e arrivo a
destinazione nella notte. Alla stazione dei treni non accettano pagamenti con carte di
credito italiane e non ci resta che andare a prelevare da un bancomat, in fretta perché
altrimenti rischiamo di rimanere a Fort William.
Il mercato vicino alla stazione è un fiume di gente fra bancarelle e giochi per i
bambini. Suona qualche cornamusa e nell’aria si sente il profumo di tanta roba da
mangiare, tanti odori che si mischiano fra loro. Un’atmosfera invitante, ma preleviamo
i soldi per i nostri biglietti, vorremmo fermarci, ma torniamo alla stazione e saliamo
sul primo treno per Glasgow.
In due ore ripercorriamo tutte le nostre tappe, lasciamo Ben Nevis e la sua foresta,
attraversiamo le Highlands coperte dalle nuvole e costeggiamo Loch Lomond
passando per Inversnaid, dove con le gambe a pezzi avevamo preso il battello.
Sulle Highlands il treno fa qualche fermata, un ragazzo scende in una minuscola
stazione, fa una ventina di metri, si inoltra in una valle e scompare dalla nostra vista.
Tutto intorno non c’è niente, solo le infinite colline e il cielo nuvoloso.
Tutto scorre, tutto svanisce, passiamo per la piccola stazione di Bridge of Orchy, per
Tyndrum e per Crianlarich. Passa qualche ora e ci ritroviamo sul mare, in un ampio
fiordo che il treno va a percorrere in tutta la sua ampiezza. Dal lato opposto a quello
in cui corriamo si comincia a vedere la città di Dumbarton, poi altri gruppi di
grattaceli, agglomerati urbani e frazioni di una grande metropoli che salgono su una
linea di colline al di là delle quali comincia Glasgow. Compare anche la foce del fiume
Clyde che si infila dietro la catena di colline per andare a dividere l’area
metropolitana di due milioni e trecentomila abitanti nella quale correrà il treno
quando avrà finito di costeggiare il fiordo.
Arrivati a “Glasgow Queen Street” prendiamo la coincidenza per Stirling e dopo un
altro cambio ferroviario ci troviamo a Bridge of Allan.
La nostra meta è l’Hotel Bologna, dove Riccardo ha lavorato per un breve periodo
qualche anno fa. Gli ultimi cinquecento metri sulle mie scarpe da trekking, che non
potevano finire meglio la loro vita se non camminando per la West Highland Way,
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quando hanno ceduto all’acqua arrivando a Kinlochleven. Arrivati in albergo,
Riccardo, senza nemmeno cambiarsi, va subito a bere una birra al bar. Emma ed io
saliamo in camera e ci togliamo i nostri abiti per indossare quelli puliti e profumati
che avevamo lasciato in custodia a Dave.
Ci facciamo una doccia, mettiamo sotto i denti i tramezzini comprati sul treno e sale in
camera anche Riccardo. Non mi nega il mio amico un’uscita fuori e quattro
chiacchiere quando gli chiedo: “Te la fai una birra?”.
Scendiamo giù al pub dell’albergo, ma non abbiamo neanche il tempo di finire la
nostra bevanda che il ragazzo del bar ci dice che sta chiudendo. Riccardo mi propone
un locale qua vicino dove aveva lavorato in un periodo passato e troviamo il tempo e il
luogo per un paio di birre e un whiskey, per i nostri discorsi sugli extraterrestri, sulla
potenza americana, sul mondo controllato e sui codici a barre che stanno oramai
ovunque. Alla televisione stanno trasmettendo la partenza dello “Shuttle”, della
navetta spaziale americana. Incredibile, quando vidi decollare il primo “ Shuttle”, nel
1982, la navetta spaziale era uguale a quella di oggi, mentre tutto il resto è cambiato.
Riccardo mi dice di aver lavorato in questo pub anche per una notte di capodanno,
ormai tanto tempo fa, io mi chiedo dove fossi stato in quel giorno e con chi fossi, ma
non me lo ricordo.
Suona la campana dell’ultima consumazione e ci dobbiamo preparare per uscire. La
ragazza al bancone non sa quante volte l’ha suonata Riccardo, quella campana. Due
passi e ci troviamo di fronte al nostro albergo, non ho voglia di andare a dormire.
Cerco di fermare quell’attimo guardando la staccionata dall’altra parte della strada e
Riccardo e mi dice : “Aspetta, fumiamoci una sigaretta”. Colgo l’attimo e gli chiedo:
“Cosa devo fare?”.
Lui mi guarda, fa un tiro con la sigaretta e mi risponde:
“Cosa farebbe Fabio? Cosa ti fa star bene pensare ora?”.
Io senza pensare gli rispondo:“Il litigio con Emma, giorni fa, non so se te ne sia
accorto, la solitudine dopo, mi hanno fatto capire che forse vale la pena di rischiare
tutto per non rovinare, di sicuro, le cose importanti della mia vita. Non so cosa farò,
ma so cosa non devo fare.”. Faccio una pausa e continuo: “Ci sono logiche che non
possono entrare a far parte della mia vita, senza condizioni. Altrimenti sarebbe come
violentarmi. Mi ero solo illuso di poter avere una vita in Sardegna.”.
Riccardo mi guarda, poi aggiunge:
“Vedi, io apprezzo le piccole cose che ci offre la vita, ringrazio ogni giorno per questo
e sto bene, prego e ringrazio per ogni cosa di cui Dio mi fa dono, su questa terra siamo
solo di passaggio. Dove vivo non importa, la mia dimensione è star bene con me
stesso.”.
Fa una pausa soffiando fuori il fumo e aggiunge: ”Non mi interessano i soldi, la bella
macchina, voglio solo sentirmi in pace. Siamo qui, cosa devo volere di più?”.
Un altro tiro di sigaretta e continua: “Ho raggiunto il mio equilibrio da qualche
tempo, niente e nessuno me lo deve rovinare. Vedi, se posso stare vicino a una persona
cerco di farlo, cerco di aiutarla e se ci riesco mi fa piacere, ma se quella persona viene
a rovinare il mio equilibrio chiudo, perché quello che ho raggiunto è intoccabile.”.
Lo ascolto, sospiro e continuo io: “Minchia, me ne rimarrei qua! A lavorare in un pub
in mezzo ai salmoni. Riccardo, non c’è alternativa in Sardegna, non c’e niente.”.
Guardo di nuovo la staccionata di legno, alzo lo sguardo verso Riccardo e gli chiedo
ancora: “OK, adesso però che lavoro mi invento?”
“Fabio, ti sei solo adagiato cinque anni, devi solo riaprire il libro”. Mi risponde
spegnendo la sigaretta. “A trentacinque anni?”. Gli chiedo io. “Si, a trentacinque
anni.”. Mi risponde, prima che parli ancora io: “Ma lo sai che potrei finire
barbone?”. “No, un piatto di minestra te lo preparo io e per la casa c’è sempre la tua
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mamma”. Mi dice sorridente, prima di aggiungere: “Dai, lo sappiamo che tu, in fondo,
sei scozzese!”.
Detto questo, con l’idea di una pazzo trasferimento in terra straniera e il sorriso sul
viso, saliamo in camera. Emma si sveglia per un attimo e con occhi semi chiusi e voce
assonnata ci domanda: “Beh, avete bevuto?”.
“Abbiamo visto partire lo Shuttle!”. Le rispondo prima che lei mi smorzi: “Dormi,
dormi, si…lo Shuttle..”.
Io ribadisco di aver visto partire la navicella spaziale guardando la televisione al pub
ma Emma si è già riaddormentata.
Bridge of Allan
La mattina, quando scendiamo a fare colazione, dà una sensazione strana trovare tanti
italiani che fanno chiasso seduti ai loro tavoli. Ridono mostrando tutti i loro denti,
criticano e fanno rumore. Fanno battute banali e disprezzano il caffè, che per loro
“non è caffè”. Sfottono, ovviamente in italiano, una cameriera che ieri notte era stata
tanto gentile e carina con noi. Provo una sensazione di fastidio a essere seduto lì, in
mezzo alla sala. Per fortuna presto arriva Riccardo e lasciamo quel branco di individui
per andare a prendere l’autobus per Stirling. Lasciamo Bridge of Allan, passiamo di
fronte all’università e dopo qualche chilometro abbiamo nuovamente davanti ai nostri
occhi un panorama che da sempre ci ha tolto il fiato, la cui vista ancora una volta mi
dà la pelle d’oca: la valle di Stirling. Da una parte, su un colle roccioso, si erge
imponente il castello, dalla parte opposta, su una collina, si innalza il monumento a
William Wallace. In mezzo, attorniato dai prati e isolato dalle zone abitate, c’è l’antico
ponte in pietra e il fiume.
Intorno a quel ponte, un tempo di legno, William Wallace e Andrew Moray sconfissero
gli inglesi nel 1297 nella battaglia, detta appunto, di “Stirling Bridge”. Il prato
circostante sembra sia stato lasciato così apposta e ora ci si può sdraiare sopra e
rimanerci per ore.
Arrivati nella cittadina, mentre Riccardo va a fare un po’ di compere per i suoi nipotini
scozzesi, che vedremo questa sera alla festa che Dave e gli altri hanno organizzato per
noi, Emma ed io ci dirigiamo verso la piana di Bannockburn. Per un motivo o per
l’altro non ci era riuscito mai, nelle nostre precedenti visite in questa zona, di recarci
sul luogo della battaglia più cruenta e importante che si sia mai combattuta in Scozia,
quella di Bannockburn. Un autobus ci porta fino alla nostra meta, acquistiamo i
biglietti per l’accesso al museo storico e al campo di battaglia, e mi chiedo se anche
Emma sia emozionata di trovarsi in questo luogo. La visita al museo passa in fretta,
spiego e racconto qualcosa a Emma e torniamo all’aperto, dove i miei pensieri
riprendono a volare e il tempo si ferma di nuovo.
Nella primavera del 1314 il castello di Stirling era ancora in mani nemiche, gli
scozzesi lo cinsero d’assedio e gli inglesi invasero la Scozia con lo scopo di salvare il
loro unico presidio oltre confine. Edoardo II d’Inghilterra, impegnandosi con tutte le
risorse economiche che aveva a disposizione, organizzò un fortissimo esercito.
Reclutò soldati da tutta l’Inghilterra e si mise in marcia con una forza di più di
25000 uomini. La cavalleria pesante inglese, nota per essere la più forte al mondo,
era composta da 2000 unità e vi facevano parte i più potenti nobili e cavalieri
d’Inghilterra. Gli arcieri di Edoardo, oltre che dal nord Inghilterra, venivano
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dall’Irlanda e dal Galles. Agli inglesi si unirono anche dei contingenti scozzesi messi
insieme dai superstiti delle famiglie dei Comyn, dei Macdougall e dei Macnab. Il 23
giugno del 1314, l’armata di Edoardo II giunse a sole poche miglia dal castello di
Stirling. Bruce stette ad aspettare e posizionò il suo esercito tra il castello e gli
inglesi, lasciandosi una via di fuga verso nord nel caso la battaglia fosse andata
male. Il Conte di Glouchester capitanava una delle due prime divisioni inglesi, l’altra
era guidata dal comandante Clifford e da De Beaumont. Il re Inglese, forte di 20000
uomini al seguito, si preparava a osservare lo svolgersi degli eventi dalle retrovie.
L’esercito scozzese era formato da quattro divisioni. Thomas Randolph guidava la
prima, costituita da 500 uomini provenienti dal nord del paese, dalla contea di Ross, e
da Inverness, da Elgin, da Nairn e dal Forres. Sir James Douglas e Edward Bruce ne
comandavano altre due, ognuna di 1500 soldati.
Douglas aveva con sé le forze provenienti dalle contee di Lanark e di Renfrew, da
Dumfries e dai Borders. Edward Bruce, invece, guidava uomini del Buchan e di
Mar, di Angus, Mearns, Strathearn e Menteith, del Galloway e di Lennox. King
Robert comandava l’ultima e la più forte delle quattro, con 2000 soldati al seguito.
La cavalleria leggera scozzese, capitanata da Sir Robert Keith, disponeva di 500
cavalli leggeri, palafreni di proprietà del re, tenuti nascosti alla vista degli inglesi e
pronti a intervenire di sorpresa durante la battaglia. C’erano poi gli arcieri, pochi a
dire il vero, che venivano dalla foresta di Ettrick.
King Robert poteva contare anche sulla cosiddetta “small falk”, una divisione
guidata da Duncan the Scout, formata da gente comune, operai, contadini, piccoli
proprietari terrieri, una folla eterogenea che spontaneamente si univa al re. Questi
uomini, arrivarono, giorno dopo giorno, dai villaggi più remoti della Scozia
raggiungendo, alla fine, le 2000 unità. Poiché la “small falk” non era ben armata e
non aveva seguito un addestramento, Bruce la tenne lontana dal resto dell’esercito e
nascosta dietro una collina.
Il 23 giugno del 1314, una forza di 6000 scozzesi armati e addestrati, uniti a 2000
persone comuni, si accingeva a fronteggiare un esercito di 25000 inglesi.
Bruce voleva che la battaglia si svolgesse in uno spazio stretto e su un terreno cattivo,
dato che le squadre di lancieri scozzesi si opponevano alla cavalleria pesante. Gli
inglesi si posizionarono su un campo paludoso tra il tortuoso fiume Forth e i tanti
ruscelli di Bannockburn. Il piano di Bruce era di schiacciare la cavalleria inglese sul
suolo paludoso. Il primo giorno di battaglia, alla luce, la cavalleria inglese, guidata
da Clifford e da De Beaumont partì all’attacco della divisione scozzese di Randolph.
Gli scozzesi rimasero fermi ad aspettare l’urto del nemico. Stettero immobili, disposti
in cerchio e tutti armati di lance. Quando la cavalleria fosse arrivata su di loro, le
prime file di soldati si sarebbero inginocchiate, quelle interne sarebbero rimaste in
piedi e tutti avrebbero rivolto le loro lunghe lance verso gli inglesi. I cavalli nemici
finirono la loro galoppata affondando nel fango, la loro corsa si arrestò di colpo
davanti agli scozzesi, lasciando cadere i cavalieri, che venivano trafitti dalle lance
prima di toccare il suolo.
Sir James Douglas chiese di andare in aiuto di Randolph, ma Bruce rifiutò, secondo
il re non c’era bisogno. In brevissimo tempo, infatti, i soldati di Randolph lasciarono
la posizione difensiva per contrattaccare. La cavalleria inglese fu distrutta e i soldati
superstiti scapparono indietro disordinatamente verso il corpo principale del loro
esercito, che osservava impietrito quello che stava succedendo. Durante quella prima
giornata di scontro, Henry de Bohun, un cavaliere inglese, avvistò Robert the Bruce
isolato sul campo. L’inglese andò velocemente alla carica puntando il re scozzese con
la sua lancia, ma King Robert prontamente girò il suo cavallo schivando l’inglese e
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roteando la sua ascia da battaglia, che poi scaraventò sulla testa del nemico,
frantumandogli elmo e cranio.
Il primo giorno di battaglia passava così, la cavalleria pesante inglese, risultata
inefficace, aveva subito un durissimo colpo. Il morale dei soldati inglesi era a terra,
Edoardo II convocò il consiglio di guerra e rimase ore a parlare con i suoi
comandanti sorpresi ed esterrefatti per quello che era capitato. Gli inglesi studiarono
il piano del giorno dopo convinti di poter schiacciare e annientare agevolmente gli
scozzesi. Gli arcieri avrebbero decimato gli uomini di Bruce e la cavalleria pesante
avrebbe annientato le formazioni immobili dei lancieri scozzesi.
Era una notte stellata e King Robert rimase da solo nella sua tenda, alla luce delle
candele. Vedeva riflesse sul tendone le ombre delle guardie che vegliavano su di lui,
una stava ferma sull’ingresso e un’altra camminava intorno alla tenda.
Non poteva fare a meno di pensare a quante vite dipendevano da lui e si chiedeva
con tormento quanti giovani avrebbe mandato a morire se avesse sbagliato anche
una sola cosa nel suo piano di battaglia. Dei suoi uomini, quanti erano lì perché
costretti a seguire i suoi ordini di re? Quanti perché credevano in lui? Sentiva di
incarnare il sogno e le speranze del suo popolo, ma non poteva non chiedersi quanto
questo fosse vero. E se quello che aveva vissuto negli anni appena passati fosse stato
solo determinato dalla sua rabbia e dalla sete di potere? Si chiedeva se fosse tutto
frutto di una personale follia che non poteva più arrestare o se fosse uno di quei
giorni giusti, ricercati per anni, che possono cambiare il mondo.
Pensò a Elizabeth, che non vedeva da otto anni, da quando era stata fatta
prigioniera dagli inglesi. Gli tornarono in mente i loro sogni, quando, come diceva la
sua sposa, stavano forse solo “giocando a fare il re e la regina”. Pensava a cosa le
avrebbe potuto dire e raccontare se l’avesse avuta nuovamente accanto, immaginava
il loro abbraccio e lo sguardo della sua sposa.
Si addormentò pensando alla sua regina, ma si svegliò tante volte nel corso della
notte, perché in realtà era impaziente di indossare la sua armatura.
All’alba del secondo giorno di combattimento, Bruce diede ordine ai suoi uomini di
avanzare verso gli inglesi. Quando giunsero a cento metri dal nemico si fermarono e
si raccolsero per qualche attimo in preghiera. Con il morale dei propri uomini alle
stelle e la disfatta del giorno prima che bruciava ancora sulla pelle del nemico, Bruce
era convinto che quello fosse il momento migliore per lo scontro finale. Tuttavia la
preoccupazione era grande per le migliaia la vite dei suoi uomini che sarebbero
andati a morire se si fosse sbagliato. Il Conte di Glouchester, al comando del grosso
del corpo d’armata inglese, diede l’ordine di caricare il fronte dei 1.500 uomini
guidati da Edward Bruce. Gli arcieri scozzesi generarono una grande pioggia di
frecce sulla cavalleria inglese e nel frattempo gli uomini di Edward Bruce si disposero
nelle formazioni a “schiltron”. Disposti in cerchio e armati di lance, tutte rivolte verso
l’esterno, gli scozzesi aspettavano fermi l’urto della cavalleria inglese. Quando i
cavalli giunsero ad un passo da loro, gli uomini che erano in prima fila nello
“schiltron” si abbassarono e conficcarono le loro lance nel terreno con la punta
rivolta verso i cavalli nemici che avanzavano con fatica nel fango. Nello stesso
momento, in piena coordinazione con la linea più esterna, anche gli uomini
all’interno dello “schiltron”, stando in piedi, rivolgevano le lance verso l’esterno
contro il nemico. La cavalleria inglese che riuscì ad arrivare sugli scozzesi cozzò su
un muro di punte di ferro, che si conficcavano nei corpi dei cavalli e dei cavalieri in
una vera carneficina. In quel momento Randoph avanzò con i suoi 500 uomini, si
portò sulla sinistra degli “schiltron” di Edward Bruce e attaccò il fronte inglese,
schiacciandone la cavalleria e creando la più completa confusione nello schieramento
nemico. Anche James Douglas avanzò con i suoi 1.500 soldati, portandosi sulla
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sinistra di Randolph e schiacciando a sua volta il fronte inglese, che ora veniva spinto
da tre divisioni scozzesi.
Tra gli scozzesi saliva alto l’urlo: ” Pressare! Pressare!”. I comandanti inglesi
tentarono di arrestare l’avanzata degli scozzesi chiamando all’azione i propri
arcieri. Senza preoccuparsi del fatto che quelle frecce avrebbero ucciso anche i loro
stessi soldati, contando di avere a disposizione tanti riservisti, diedero ordine di
scoccare, ma King Bruce, che stava dietro con i suoi 2000 uomini, ordinò a Keith di
manovrare la cavalleria leggera, di aggirare e attaccare gli arcieri inglesi, che furono
completamente massacrati. Allora, Bruce fece avanzare anche i suoi 2000 uomini e il
comando era ancora: “Pressare! Pressare!”. Gli inglesi arretrarono e si sentì ancora
di più urlare: “ Su di loro! Su di loro! Stanno cedendo!”. Le poche frecce inglesi che
ancora partivano si scagliavano sugli stessi invasori che venivano respinti, ricacciati
verso il fiume. L’urto subito dagli inglesi fu così violento che molti caddero
all’indietro morendo soffocati dal peso della loro stessa armatura. Anche la
cavalleria leggera scozzese irruppe allora sul campo e centinaia di spade colpirono a
morte gli inglesi rimasti in piedi.
A quel punto, Edoardo II decise la ritirata, ma quando le sue insegne furono viste
allontanarsi dal campo, la gente comune di Scozia, quei 2000 uomini, che erano
rimasti nascosti per tutta la battaglia dietro la divisione guidata da Bruce,
piombarono sugli inglesi. Vedendo che Bruce aveva ancora altri riservisti, la
compagine nemica, ancora sul campo, lasciò le sue posizioni, ma fu travolta dalla
folla scozzese. L’intera armata inglese fu così disintegrata.
Il campo di battaglia era completamente ricoperto da cadaveri, da corpi smembrati,
sfigurati e amputati. Il fango era diventato rosso per il sangue versato. Si sentivano
urla strazianti da tutte le parti, chi era senza un braccio, chi aveva la pancia aperta,
chi vedeva l’amico decapitato. La cavalleria leggera scozzese, camminando sul mare
di corpi, dava la caccia ad ogni inglese che si muovesse ancora e quasi nessuno
sopravvisse. Edoardo II cercò la fuga verso il castello di Stirling, ma gli fu negato
l’ingresso, scappò quindi verso il castello di Dunbar e da lì, per mare, raggiunse
l’Inghilterra. I soldati inglesi sopravvissuti alla battaglia cercarono di scappare a
piedi ma, passando per i piccoli villaggi della zona, la maggior parte di loro fu
assalita dai contadini, dalla gente comune che usciva dalle proprie case e capanne.
Il castello di Stirling tornò in mani scozzesi.
A seguito della battaglia, Elizabeth e gli altri familiari e amici di Bruce, dopo anni di
prigionia, furono finalmente liberati.
La regina, rincontratasi con il suo sposo gli disse: ”Ora possiamo costruire il nostro
regno”. Ci vollero, infatti, vent’anni perché la Chiesa Romana e la stessa Inghilterra
riconoscessero la sovranità di Robert the Bruce e il nuovo regno.
All’ingresso della grande distesa di prato c’è il monumento ai caduti, alto e circolare,
che deve essere attraversato nel mezzo prima di poter raggiungere la piana della
battaglia. Presi per mano, scaldati dai raggi del sole, camminiamo sul campo, poi
Emma si ferma perché mi vuole scattare qualche foto. Poco più avanti compare alla
nostra vista la statua di King Robert the Bruce e guardando lontano si vede l’imponente
castello sulla rocca di Stirling. Le paludi sono state prosciugate ed è tutto un immenso
prato fino a una lontana collinetta e anche oltre.
Mi siedo sul prato e sento solo un vento leggero.
Su una targa, vicino alla statua, c’è scritto qualcosa e mi avvicino a leggere:“Fino a
che un centinaio di noi saranno lasciati in vita, non ci piegheremo in nessun modo al
dominio inglese. Noi combattiamo non per la gloria, non per il denaro, non per
l’onore, ma solo e unicamente noi combattiamo per la libertà, per la quale nessun
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uomo giusto si arrenderà, se non con la propria vita.” (Dichiarazione di Arbroath,
1320).
King Robert The Bruce morì il 7 giugno del 1329, dopo ventiquattro anni di regno.
Proprio in quei giorni, il Papa, che per via dell’omicidio di cui Robert si era
macchiato, non ne aveva ancora riconosciuto la sovranità, si stava preparando a
scrivere una bolla che poneva avanti al suo nome il titolo regale. In punto di morte,
King Robert chiamò Sir James Douglas al suo confessionale e ansimante gli disse :
“Amico mio, solo una cosa rimpiango, di non aver potuto partecipare a una crociata
in Terra Santa. Dato che il mio corpo non è in grado di recarsi a Gerusalemme, fai
che ci arrivi il mio cuore”. Il re fece una pausa e continuò: “ Prendi il mio cuore,
portalo con te e seppelliscilo nel Sacro Sepolcro”. Detto questo, a cinquantacinque
anni di età, si spense.
James Douglas, secondo il volere del defunto sovrano, ripose il cuore in un
contenitore d’oro e si incaricò di portare la reliquia a Gerusalemme.
Tuttavia, mentre stava aiutando il re di Castiglia nella guerra contro i Musulmani, fu
ucciso dai saraceni nelle vicinanze di Cordoba, prima che si potesse recare a
Gerusalemme. Ma con le ultime forze rimaste, dopo essere stato colpito a morte,
lanciò il cuore del suo re lontano, sul campo della battaglia.
Il contenitore d’oro è tornato alla luce e poco tempo fa, quando dopo 700 anni dalla
morte è stato riesumato il corpo di Robert the Bruce, la salma era mancante proprio
del cuore, che per secoli è rimasto sepolto nei campi.
Ora King Robert the Bruce riposa a fianco alla sua Regina Elizabeth nell’abbazia di
Dunfermline. Sul sarcofago color rubino è disegnata in oro la figura di un guerriero,
mentre sulle torri dell’abbazia è scolpito un nome, King Robert Bruce, il Re degli
Scozzesi.
Abbracciato sul prato con Emma, non me ne andrei più, tuttavia si è fatto tardi e di
pomeriggio siamo invitati a casa di Dave.
Con l’impressione di non avere goduto appieno delle emozioni, la sensazione di stare a
lasciare qualcosa in sospeso in questo luogo e la speranza di portare via con me
qualcosa di nuovo, mi decido ad andare via.
Ci incamminiamo presi per mano, lungo la strada in discesa ci accompagna in
lontananza la vista del monumento a William Wallace, l’alta torre marrone costruita su
uno dei due colli che chiudono Stirling in una valle.
Svetta imponente verso il cielo e guardata da lontano riprende il viso di Wallace. Anche
l’Italia, all’epoca di Mussolini, contribuì economicamente alla sua costruzione. Ricordo
quando Emma ed io la visitammo, che fatica salire centinaia di scalini in una stretta
scala a chiocciola a doppio “senso di marcia”! Anche in quella occasione Emma volle
farmi delle foto, una accanto alla vera spada di Wallace, una su all’ultimo piano con il
panorama della valle sullo sfondo.
Tornati al centro di Stirling andiamo a mangiare al nostro pub preferito. Mentre
aspettiamo il piatto principale, sorseggiando una birra e gustando il pane all’aglio,
notiamo che anche qui sono state portate le macchinette del “video-poker”. Ci sta
giocando una signora che cambia continuamente le sue banconote per infilare nuovi
gettoni. Quando andiamo via, la donna sta ancora schiacciando pulsanti.
E’ ora di tornare in albergo, di ritrovarci con Riccardo e di andare alla cena, per la
quale l’appuntamento è alle 17.30.
Quando arriviamo le cugine di Riccardo stanno cucinando, mentre i tanti bambini
giocano sul prato del giardino. Nel salone Riccardo distribuisce tutte le magliette che
ha comprato per i nipotini, che le indossano subito, prima di tornare a giocare. Su un
grande tavolo è stato organizzato un buffet ricco di tutti i piatti scozzesi, che sempre
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hanno accompagnato le nostre visite in questa terra. Si mangia e si beve per ore,
attorno al tavolo nella sala sono radunate tre generazioni, dai bimbi alle nonne. Le
bambine, sul divano fra le loro mamme, cantano in coro seguendo le canzoni che
escono dalle casse dello stereo, noi adulti parliamo dell’avventura appena vissuta sulle
highlands. Dave e i suoi bambini ci hanno preparato una pergamena, una sorta di
attestato di merito per la fatica compiuta sui monti, firmata in nome della famiglia, una
per ognuno di noi. Le bambine continuano a cantare, intonatissime, per almeno un’ora,
ed io, fra i canti, mi sento proprio a casa.
Una delle vecchiette che stava seduta su un divano si alza per salutarmi, è stanca e
vuole andare via. Quella nonna era stata zitta a osservare e sorridere per tutta la sera e
prima di andar via, baciandomi, mi dice: “Quei tuoi occhiali gialli e neri sono
magnifici…”. Per me rimarrà sempre un mito quella anziana signora.
La serata sta andando via velocemente e fuori è buio, chiacchiero ancora per un po’
con Dave. Discutiamo di calcio, di Glasgow, con lui continuo a respirare ancora un po’
di Scozia, per poi salutarlo dandogli appuntamento a molto presto, qui nella sua terra.
Quando ci incamminiamo verso l’albergo il cielo è stellato, sento il profumo degli
alberi e dei fiori, c’e una leggera “brezzolina” nell’aria e mi sembra una notte d’estate
come tante altre, passate in campeggio in Sardegna, quando ero uno studente
universitario.
Dopo un bel sonno lasciamo la nostra camera, il nostro albergo e Bridge of Allan. Il
treno ci porta a Glasgow e dedichiamo una giornata allo shopping, a qualche ora in
giro per la città. George Square, la grande piazza rossa, è stupenda in una bellissima
giornata di sole come oggi, c’è tanta gente e un palco è pronto a ospitare un concerto.
Da George Square entriamo in “Merchant City”, il quartiere del mercato medioevale,
con i suoi eleganti negozi e i tanti bar con i tavolini all’aperto. Ancora una volta
vediamo, solo da fuori, la “Gallery of Modern Art”, una delle gallerie d’arte moderna
più visitate della Gran Bretagna, qui nella città di Charles Rennie Mackintosh. Per le
strade di Glasgow, come sempre, suonano le cornamuse, a volte anche insieme a
“bonghetti” africani, in straordinari e improvvisati spettacolini, nelle vie pedonali
stracolme di persone. C’è calca, come sempre, all’ingresso della metropolitana in
Buchanan street e il café di Mackintosh, dove tutto è rimasto come fu ideato e disegnato
dal grande artista, ha tutti i tavolini occupati. Nella Nelson Mandela Place tante
persone aspettano che scatti il semaforo per attraversare la strada, poi scendono in
Buchanan street per dirigersi nella caotica Argyle Street e verso il Tolbooth, l’alto
campanile medioevale con le finestrelle ad arco che la notte si illuminano, dall’interno,
di tante luci che cambiano colore a tempo, come in un presepio. Nella piazza circolare,
sotto il Tolbooth, tante persone chiacchierano fuori dai vecchi pub. Per il pranzo
andiamo nel nostro ristorante di fiducia, in una traversa di Buchanan street, a mangiare
lo stufato di cozze di Glasgow. La ricetta la conosco, anche se non ho mai provato a
realizzarla con le mie mani: i molluschi vengono fatti cuocere per un minuto con del
vino bianco, poi vengono scolati e si conserva il fondo della cottura. In un’altra pentola
si fa fondere del burro, si aggiungono cipolle e si mescola per dieci minuti a fuoco
basso. Quando le cipolle sono dorate si aggiunge farina e si continua a mescolare per
un minuto. Si aggiunge il fondo di cottura delle cozze e si porta il composto
all’ebollizione. A questo punto viene incorporato del latte e la crema che si ottiene viene
fatta cuocere per due minuti. Si aggiunge quindi panna, prezzemolo e limone, sale e
pepe e si mescola. Ad ultimo si versano le cozze nella crema ottenuta e si fanno cuocere
per tre minuti. Arrivano al tavolo immerse nella salsa in un’anfora di terracotta, chiusa
da un piattino con l’acqua per le mani. Tuttavia, quando si addenta il mollusco, si
mangia solo la cozza, non c’è traccia della salsa perché è liquida e scivola via, se ne
sente solo il retrogusto. Alla fine rimane l’anfora piena della salsa, dove si inzuppa del
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pane integrale. Finito di mangiare, quando lasciamo il locale, fuori suonano le
cornamuse.
In Argyle Street è d’obbligo una visita al negozio dei Rangers e poi anche a quello del
Celtic. Acquistiamo qualche maglietta per me, una felpa per Emma, e questa volta
anche un ricordo per un nipotino appena arrivato. In un piccolo e affollato negozio
compro anche un anello da pollice che subito indosso.
Poi saliamo verso l’ antica cattedrale di St Mungo, la chiesa dal tetto verde, dove le tre
confessioni cristiane vengono officiate insieme fin dalla seconda guerra mondiale,
quando, in una Glasgow bombardata, i fedeli vi si radunavano e partecipavano al
proprio rito al riparo dalle bombe, gli uni accanto agli altri perché in città non era
rimasta altra chiesa in piedi.
Scendiamo anche nella cripta di St Mungo, il santo protettore della città, visitiamo di
nuovo la necropoli e saliamo sul colle che gli sta dietro per rivedere il panorama di
grattacieli. Non c’è tempo per prendere la metropolitana, per andare a trovare gli
scoiattoli di Kelvingrove Park e per ammirare il Cristo di Dali, ora conservato alla Art
Gallery, vicino al parco.
Andiamo giusto a fare due passi sul fiume, il lungo e tortuoso “River Clyde”, da sempre
vissuto e sfruttato per la pesca, oltre che, ai nostri tempi, dall’industria e dai suoi tre
porti. Prendiamo una “boccata d’aria” camminando per piccoli vicoli ricchi di taverne
e minuscole botteghe e infine andiamo a cenare. Domani la sveglia è alle 4.00 del
mattino e si ritorna a casa.
A Casa
La tazza di caffè si è ormai raffreddata, vado verso il camino e apro il cofanetto di legno
che è sul ripiano. Dentro c’è un anello che prendo in mano un’altra volta ancora, ma che
non indosso più. Mi torna in mente il Caerlaverock Castle, vicino a Dumfries, vedo il
mare oltre le paludi e ancora più avanti, sotto una leggera nebbiolina, al di là del
fiordo, l’Inghilterra.
Guardo avanti, ma poi giro all’interno verso la campagna e attraverso i lunghi prati e i
campi coltivati, fino a che compare ai miei occhi il maestoso castello marrone, con tre
torri sul d’avanti e due che spuntano dalla parte opposta, il largo fossato pieno
d’acqua e il ponte levatoio abbassato.
L’interno del castello è in rovina, ma vedo l’antica cappella diroccata illuminata dai
raggi del sole.
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Sento arrivare il suono di una cornamusa, attraversa il cortile e poi si ferma. Compare
un uomo in kilt e al suo fianco una donna che indossa solo un vestito bianco di lino.
Un sacerdote avvicina i due, recita delle parole in latino, prende le loro mani e le mette
una sopra l’altra, ci avvolge intorno un panno di tartan su cui è disegnato un cardo
viola… la cornamusa continua a suonare.
Poi di colpo mi sveglio, sento che la piccola Alba corre ed entra in salone, richiudo
l’anello nel cofanetto e mi giro verso la bimba, che si ferma e mi dice: “Papà, papà…mi
racconti la favola di Robert ed Elizabeth?”.
Bibliografia
1) Robert The Bruce, Ronald McNair Scott, Ed. Cannongate Books Ltd, UK, 1996.
2) Wallace, Peter Reese, Ed. Cannongate Books Ltd, UK,1996.
3) A History Book For Scots, Walter Bower, University of St Andrew, Ed. Mercat
Press, UK, 2007.
4) Murder in Greyfriars, Sarah Crome & Doug Archibald, Pubblicato da The Robert
The Bruce Commemoration Trust, www.brucetrust.co.uk.
5) Robert The Bruce, Jane Drake & Alexander S.Grenfell, Pitkin Guides Ltd, UK,
1994.
6) British Kings & Queens, Snapping-Turtle Guides, Ticktock Entertainment Ltd, UK,
2004
7) Bannockburn, Pubblicato da Marketing and Customer Services Division of the
National Trust for Scotland, 2005.
8) Caerlaverock Castle, Pubblicato da Historic Scotland, 2004, www.historicscotland.gov.uk
9) The West Highland Way, Anthony Burton, Ed. Aurum Press Limited, UK, 2005
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