illustrazione del quadro di pietro novelli

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illustrazione del quadro di pietro novelli
ILLUSTRAZIONE DI UN QUADRO DI PIETRO NOVELLI
DEL SIG. SAVERIO SCROFANI
Lettera del padre D. Giovan Battista Tarallo
al Marchese Haus
circa l’illustrazione di un quadro di Pietro Novelli
altrimenti il Morrealese – di Saverio Scrofani
Estratta dal giornale di scienze, lettere e arti per la Sicilia, n.° CVIII
TESTO RICOPIATO INTEGRALE
Pietro Novelli nacque a Monreale il 2 marzo 1603 da Pietro Antonio Novelli ed Angiolina Balsano.
Morì a Palermo il 27 agosto 1647.
Il quadro che si ammira fu eseguito dal pittore nel 1635. E’ lungo palmi 19 alto 14. Il suo costo,
come rilevasi dal nostro archivio, fu di once cento, delle quali dieci si pagarono dal monastero,
cinquanta dai deputati della fabbrica, e quaranta da un certo Cesare Balsano, forse congiunto
materno del pittore.
Comincia egli difatti dal far conoscere al lettore la maestrevole disposizione delle figure di mezzana
grandezza, le quali, divise quasi egualmente nelle due parti di dritta e di manca, fanno cerchio e
corteggio al prelato sedente nel mezzo, e miransi poi formar tutte tre piani, sette nel primo, quattro
nel secondo e cinque nel terzo; facendo anche ammirare la fine intelligenza con cui si tengono
strette all’azione le due teste alla dritta dello spettatore; mentre che tutte le altre, procedendo
circolarmente d’ambo i lati del pastore, chiudono la corona sul dinante del loro capo, locchè è a
sommo artificio da lui attribuito, onde la confusione evitare, che nei gran quadri di composizione
suol nascere essere inevitabile.
Fa ammirare quindi quanto maestosa e veneranda sia nella sua stessa semplicità la figura del s.
Abate; ne descrive minutamente il vestire, ne osserva il costume, ne addita le mosse, ne mostra la
posizione, e coll’incanto della sua elegante penna produce nel lettore quel senso di piacere e di
rispetto, che fa provare allo spettatore la dipintura.
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Dalla descrizione del personaggio primario passa ad additare l’azione degli altri, facendo rilevare la
meraviglia degli uni, la gioia degli altri, la gloria di appartenere a sì illustre famiglia in uno, lo
spirito di raccoglimento nell’altro, il piacere, l’ansia, la fiducia in tutti, ed in mezzo poi a tanti
personaggi vestiti di larghe cocolle ad ampie maniche, che presentano rase le loro teste, fa ammirare
il contrapposto della giovine donna, la quale con un velo gittato come a caso sulle spalle, ma prima
ad arte intorcigliato sulla fronte, ed in graziosa giacitura nell’abbracciare il minor dei figliuoli, stassi
in atto di chi prostrasi in uno e si raccomanda, mentre i due putti, com’è loro uso, si trastullano
insieme.
I COLORI DEL QUADRO = Oltre del poco giallo, rosso e pochissimo turchino, i colori, che
principalmente sembrano dominarvi, sono il bianco e il nero, e pure sono così uniti e frammisti tra
loro che l’occhio vi scorre senza essere arrestato da qualche tono duro discorde; come del pari,
sebbene fra diciannove figure ve ne sono undici colla testa rasa, pure son sì ben combiante, che non
offendono punto né l’occhio, né il decoro. E poi senza portici, osserva saggiamente , senza templi,
alberi, fiumi, ma con un solo edificio dirupo in lontananza, con un albero secco, e sfrondato, ha dato
un chiaroscuro nella sua tavola, una luce sì larga e chiara, che sembra passeggiare tra le figure; e
determinare l’ora stessa del giorno, fiacchè si vede che il sole non più dardeggia, ma si conosce che
la sera è lungi tuttavia.
Prima della descrizione vera e propria del quadro IL SIG. Scorfani, ha voluto spargere dubbii circa
il soggetto del dipinto. Desso, secondo una costante tradizione di due secoli, non mai contraddetta,
altro non rappresenta, che la grandezza, il trionfo di s. Benedetto nella ramificazione del suo rodine,
e l’azione principale del quadro è il s. Patriarca, che, sotto il simbolo del pane, porge la sua regola a
varii capi d’ordini e monastici ed equestri, che hanno il suo istituto seguito, e che gli fanno intorno
corteggio e corona.
Or l’Autore non persuadendosi che si fosse il Novelli tanto studiato in una pittura allegorica invece
che in un quadro d’istoria, e credendo perciò malfida la tradizione, si pone con ogni diligenza ad
investigare quale avesse potuto esserne il concetto, e si persuase che rappresentasse il miracolo di
san Benedetto, fatto a preghiere del monaco Oterio ed in favore di Ugone signore di Gargialissa: ed
ecco come espone il suo parere.
“ Nell’antica Aquitania intorno al 1000 di nostra era, guerreggiavano tra loro Guglielmo conte di
Patti e Ilderberto conte di Petragorico. Per questo ultimo parteggiava il sopraindicato Ugone, uomo
quando in armi possente, tanto per religione cospicuo e devoto a s. Benedetto, del di cui ordine era
in quelle contrade illustre il cenobio di sale, che per disavventura nel contrastato confine giacendo,
a nuovi danni sottoponeasi: avvegnachè, poco innante, per rabbia del nemico Ademare, restate
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erano non che le sue terre, ma il monistero istesso tra il fuoco e l’armi devastato e distrutto.
Presedeva in esso l’Abate Oterio, personaggio chiarissimo per integrità di vita, sotto il cui governo,
presente lo stesso Ugone e la moglie, aveva Iddio due miracoli testè mostrati per intercessione del
Patriarca; l’uno, d’un cavallo, che caduto in profonda cisterna, ritorna a riva e quasi da sé
medesimo: e l’altro con poche forze, guidate dal vessillo del Santo, vinti numerosi eserciti, trucidati
e dispersi. Dopo sì fausti avvenimenti, prima che Ugone si muovesse colle sue genti in pro
d’Ilderberto, conosciuto che il ss.nostro padre Benedetto, soggiunge Aimonio istorico Floriacense,
sovveniva a coloro che con piena fiducia l’imploravano, non solo nei civili, ma più ancora nei
bellici affari, indirizzandosi all’or detto Oterio, umilmente il pregò che almeno dar gli piacesse due
pani, di quelli onde nutriansi i suoi monaci; del qual pane, prima che venisse alla pugna, intendeva
mangiare tanto esso che i suoi soldati; avvegnachè molti fra questi assicuravansi con vera credenza,
potersi con quel cibo, più validamente in ogni conflitto, da qualunque pericolo, riparare. Intanto che
Ilderberto attendeva sì Ugone che gli altri aiuti (fra quali il maggiore era Falcone conte di Angiò) i
Pitti riuniti con repentino impeto si sforzarono di assalirlo; pensando che lui superato, che n’era il
duce, prima che l’esercito si raccogliesse in intero, il rimanente l’abbandonerebbe nell’impresa.
Non fu però tardo Ilderberto a farsi loro incontro, e con quei pochi, che seco aveva, ricevuti
coraggiosamente i nemici, pugnò con essi due volte in campale giornata. Ciò non di manco, già
opprimevalo la moltitudine, e fuggivansi per sino da lui gli stessi suoi veterani, quando eccoti
sopraggiunto Ugone, che scoperto nella contraria fortuna abbattuto l’animo degli amici, divisi in un
subito i due pani, che impetrati avea dal monistero di s. Benedetto, e persone egli il primo, il resto
distribuì ai soldati; allora unitesi ad Ilderberto, batte e fuga il Pitti, che troppo di sé sicuri, già
credenvansi vincitori. Certo egli è, che di coloro, ai quali toccò di mangiar di quel pane, quantunque
in piccola porzione si fosse, niuno fuvvi, che ricevesse letale ferita, che anzi tutti sani e salvi ne
ritornarono”.
Narrato così il fatto non dubita punto il signor Scorfani, che questo avesse voluto rappresentare
nella sua tela il Novelli, e che quindi il tema da lui scelto sia l’istante, in cui Oterio porge al
cavaliere un dè due pani, additando che l’altro era in pronto; che ilo cavaliere che lo riceve sia
Ugone il quale, com’è uso di duce e signore, accompagnasi con due suoi militari o scudieri, ed in
fine che la fabbrica, la quale diruta si vede in lontananza, sia il monistero in ruina.
Da questo principio partendo s’insegna il chiosatore d’illustrare chi fossero coloro, che in abito
cavalleresco, o monacale stanno intorno al personaggio primario; e in riguardo ai primi suppone che
fossero Gaufredo e Gualdo, amici e commilitoni di Ugone nella guerra felicemente contro Ademare
terminata; e in riguardo ai monaci, quello che sostiene il modello d’una chiesa dice poter essere
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Odone, che fabbricò o rifabbricò il cenobio di sale; l’altro colla tiara Majolo, che ricusò il papato, o
Girberto, che fu papa sotto il nome di Silvestro II, o almeno qualche altro pontefice aquilano o
francese; crede potersi trovare fra gli altri i due monaci celebri di quel cenobio Annone e Ruggero, e
in tal guisa riunisce in questo quadro i religiosi appartenenti allo stesso monistero di Sale, i quali
erranti dopo la sua caduta, circondano qui il loro capo, e sperano nella difesa che sta per prendere
Ugone.
“Il dubbio del sig. Scorfani par che fosse nato principalemente dal non creder verisimile, che il
Novelli, molto giudizioso nelle sue composizioni, si fosse tanto studiato in una pittura allegorica
invece, che in un quadro d’istoria. Ma è forse la prima volta, che valenti artisti han dipinto nelle
loro tele allegorie e figure? Fra tanti quadri allegorici, che comunemente si vedono, il sig. Scorfani
parlò di uno solo, la cui vi si ammira un’allegoria, non che consimile, ma la stessa precisamente di
quella del Novelli, e forse servì di esempio al nostro pittore. E’ dessa in un quadro di Francesco da
Ponte, detto altrimenti il Bassano, eseguito sul cadere del secolo XVi, per il refettorio di Monte
Casino, ove tutt’ora si ammira dai forestieri non meno, per la sua grandezza e per il gran numero dei
personaggi, che per la disposizione, bellezza e perfezione del disegno. (“ la vista di questo quadro in
un viaggio da me fatto sino al Monte casino servimmi di ultima spinta a scriver questa lettera (1775
– quadri del refettorio). La lunghezza del quadro è di palmi trenta. In esso rappresenta la
moltiplicazione dei pani nel deserto, a cui allude la distribuzione della regola, che fa s. Benedetto a
tutti gli ordini regolari e militari sotto il simbolo del pane, ed in lontananza, quando s. Benedetto
dimorava in Subiaco. Descrizione istorica del regio monistero di Monte Casino”).
Per cui, le due tele erano uguali?; poiché l’uno e l’altro dei pittori ha rappresentato la ramificazione
dell’ordine benedettino; l’uno e l’altro ha dipinto la sua tela per un refettorio, l’uno e l’altro si è
servito del simbolo del pane per figurar la regola: perché dunque dovrebbe imputarsi a mancanza di
giudizio nella dipintura del Monrealese ciò che fu permesso, e si ammira in quella di Bassano?
Altronde poi volendo un giudizioso pittore rappresentare la moltiplicazione, o per dir meglio, la
ramificazione della regola benedettina in una tela destinata per un refettorio, non potrebbe usare
miglior figura, più naturale allegoria non potrebbe scegliere che quella del pane.
Né a capriccio poi usò il Novelli una tale allegoria, ma fu quasi dalla circostanza necessitato a
servirsene; poiché non è fuor di proposito il credere, che il Novelli, il quale tanto bene, poco
innante, era riuscito nel trattare questo tema per la chiesa di s. Martino, non è fuor di proposito,
dico, il credere che avesse voluto, o che gli sia stato imposto di replicare l’idea di quello, che a
giusta ragione tenevasi per uno dei suoi migliori dipinti, e che poi, tanto per non attirarsi la marca di
copista, quanto anche per alludere al refettorio, ove dovea situarsi, avesse allontanata l’idea di
spada, che trovasi in quello di s. Martino, e sostituito vi avesse il pane, onde figurar la regola; la
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quale è altronde un cibo spirituale per l’uomo. L’allegoria dunque, che nel quadro del Novelli si
osserva, non parmi valevole ragione da rigettare una costante tradizione di due secoli, e supporre
che tutt’altro rappresenti che la ramificazione dell’ordine benedettino.
Dimando poi quale interesse, qual premura potea spingere o i monaci, o il pittore a rappresentare in
questa tela il momento, in cui Oterio dà ad Ugone i portentosi pani? Avvegnachè non fu questo un
miracolo vivente il Santo Padre avvenuto, ma cinque secoli dopo di lui; non fi né anco ai tempi del
pittore, ma occorso era sei secoli innanzi; non può dirsi dei più ovvii e dei più strepitosi; né
accaduto era se non in una contrada assai dalla nostra discosta. Come dunque muoversi a dipingere
questo fatto, quando non l’invitava a farlo né la vicinanza del luogo, né quella del tempo, né
finalmente la celebrità del portento?
I PERSONAGGI = A due o tre personaggi (fra tanti che se ne scorgono nel dipinto) sembra che il
sig. Scrofani di poter competere il titolo di capi d’ordine, né sarebbe ragionevol cosa, secondo lui, il
prescegliere senza ragione più l’uno che l’altro. “Mi riserbo però di mostrare più sotto, che possa
competere il titolo di capi d’ordine al maggior numero dei personaggi, mi contento di far per ora
osservare su quello che mi si potrebbe opporre, cioè che non tutti vi si scorgono gl’istitutori: mi
contento, dico, di far osservare, che non tutti i capi d’ordine (dei quali più di trenta ne conta la
regola benedettina per asserzione del sig. Scrofani istesso), necessario era, che comparissero in
questa tela; ma ragionevol cosa era a mio avviso il prescegliere fra lo studio numeroso di questi
istitutori quei che renduti si erano più cospicui o per le loro virtù, o per il numero dei loro figli, o
per il bene maggiore, che ne avean ricavato la chiesa, le lettre, la società, onde evitare quella
confusione, quel disordine, che avrebbe moltissimo diminuito l’effetto e la semplicità della
dipintura. In tal guisa infatti avea praticato il Bassano nel suo quadro del refettorio di Monte Casino
sopra mentovato, ed in tal guisa del pari avea fatto lo stesso Novelli nella sua tela dipinta per la
chiesa di san Martino.
Si avvisa di più il sig. Scrofani, che i religiosi, i quali vedonsi nel dipinto, appartengano allo stesso
monastero di Sale, e ciò sembra a lui il miglior partito per darne una ragionevole spiegazione.
Non può negarsi, che giusta sarebbe l’idea, anzi volentieri mi arrenderei al parere del dotto scrittore,
quando (supposto anche che fosse Oterio il personaggio primario) quando, dico, i monaci fossero
tutti e nel vestire, e nel costume uniformi, come conviensi alla famiglia dello stesso monistero, ma
quando si osserva tanta varietà nel costume, nel colore e nella forma del vestire, poiché parecchi
sono in veste bianca, altri in cinericia, e molti in nera; varii sono della barba adornati, mentre i più
ne sono privi, come potrà asserirsi in tanta differenza di costume, e di vestire, che siano tutti dello
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stesso cenobio? Come mai un giudizioso pittore, che visse, non già nell’infanzia di quest’arte, ma
nel secolo XVII poteva trascurare questi distintivi?
Quella fabbrica, che in lontananza, si osserva, raffigura, secondo il sig. Scrofani, il monistero di
Sale, il quale per rabbisa del nemico Ademare restato era, poco distante, tra il fuoco e le armi
devastato e distrutto. Chi però di questo potrà persuadersi, laddove non pare affatto una fabbrica
distrutta dal ferro e dal fuoco, ma piuttosto diruta dagli anni e dal tempo, a tal segno che l’erbe e le
piante selvatiche miransi verdeggiare sopra quel cadente casamento”?
Il vestire inoltre dei cavalieri ci convince benissimo, che non possano rappresentare Ugone e i suoi
commilitoni Gaufredo e Gualdo, poiché non avrebbe mancato di presentarli. Il pittore convertì di
usbergo, di cimiero, di scudo e di altre armi convenienti a duci, che partivano già per la pugna, e
quel ch’è più da osservarsi, conformi al costume di vestire dell’antica cavalleria. Il distintivo stesso
della croce, di cui vedonsi decorati quei personaggi neanche usatasi dagli antichi cavalieri,
s’escludere se ne vogliano i soli crociati, i quali per altro non presero quel segno, che portavano
cucito sulla spalla, che sul finire del secolo undicesimo dopo il concilio di Clermont, e per
conseguenza quasi un secolo posteriore all’epoca di Ugone.
Ammessa poi per un momento l’opinione del sig. Scrofani, quanto non sarebbe stato ragionevole
che il pittore avesse rappresentato in lontananza la battaglia, che si combatteva tra Ilderberto e i
Pitti, mentre Ugone riceveva i pani da Oterio, onde portarsi in quella a pugnare; e pure nessun
segno di guerra, nessuno apparecchio militare osservasi in tutto il dipinto.
Basta inoltre mirar la testa del prelato, che siede nel mezzo, per vederla cinta di quello splendore,
del quale avevano fatto credere al sig. Scrofani, ch’era privo; di quello splendore, ch’è bastante
indizio, come osserva il rispettabile Autore, ed un segno sicuro e convenuto fra i pittori, onde
annoverare chi ne va adorno fra il numero dei santi. Ma Oterio, quanto voglia supporsi insigne per
pietà, quantunque proposto al cenobio di Sale da s. Abbone, quantunque per di lui mezzo erano da
non guari tempo succeduti alcuni miracoli, pure non trovasi né nel martirologo romano, neanche nel
bendettino, e ciò che più vale, né pure è nominato nell’accurata e voluminosa raccolta dei santi
benedettini fatta dal dotto e diligente Mabillon; sarebbe stato quindi un grossolano errore del pittore
(che non avrebbero alcerto tollerato i monaci di quell’epoca) il dipingere Oterio cinto di quello
splendore, che nelle tele suol caratterizzare i santi. Altro soggetto dunque ha voluto rappresentare in
quel santo personaggio il Novelli.
Aggiungasi a questo, che il vario colore delle tonache, la differenza delle loro forme, il vedersi i più
senza barba, laddove taluni ne sono adornati, ci fè conchiudere poco sopra, che quelli non sono
monaci di un solo monastero, ma piuttosto individui di varii cenobii, di varie congregazioni e per
una legittima illazione di varie età ancora; per qual motivo dunque Oterio (che alla fine non era che
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superiore di una semplice cella, dovea esser corteggiato da monaci, che non appartenevano al suo
monistero, né alla sua congregazione, né alla sua età? Non è questo un argomento piuttosto da far
conchiudere, che quel santo prelato, sedente nel mezzo, sia un patriarca, sotto la di cui regola
militano diverse congregazioni, e che meritamente gli fanno intorno corona, onde rendere omaggio
al loro capo e padre? Quanto una tale supposizione non è più naturale di quella, che questi religiosi
difformi nel costume, nel colore e nelle forme delle tonache, appartengono allo stesso monistero di
Sale, e che erranti dopo la sua caduta circondano qui il loro capo?
Conviene di più l’illustre chiosatore, che il monistero di Sale dipendeva da quello Floriacense, oggi
Fleury, anzi secondo l’antica denominazione, altro non era che una sua cella, e sappiamo da annali
di Mabillon, che ambo i due indicati cenobii professavano l’ordine di Clunì. Ora i monaci di quella
riforma non portavano barba, anzi le costituzioni di Clunì a tal segno la proibiscono, che vi si legge
il cap. 40 “De rasura Fratrum”, in cui prescriversi il tempo, e per dir così il rito come levar la barba
e farsi la corona monacale.
Né ciò potea ignorarsi dal Novelli e dai monaci di Morreale, giacchè anche questo monistero
appartenne sino al declinare del secolo XV all’ordine di Clunì, e con diligenza si conservano sin ora
nella nostra biblioteca le costituzioni di quell’ordine in un bel codice manoscritto in pergamena,
recato dalla Cava dai primi monaci, che vennero ad abitare nel XII secolo questo monistero. Tanto è
vero infatti che quivi si conoscevano gli usi di Clunì, che non più di un mezzo secolo dopo l’epoca
del nostro quadro, l’abate del Giudice, il quale diede alla luce i rami dei primi tre prelati di questo
monistero, e di questa chiesa, li rappresentò, a seconda delle costituzioni di Clunì, senza barba, e
conformi ai ritratti che allora si conservavano nella chiesa. Che diremo dunque, che era sì poco
giudizioso nel comporre il Novelli da dipingere colla barba Oterio monaco Cluniacense? L’avrebbe
a sdegno certamente lo stesso illustre chiosatore, se si volesse incolpare di poco giudizio il Novelli.
Due monaci finalmente nel nostro dipinto stanno dietro al s. Prelato, i quali in piedi a manca e a
destra sostengono la mitra e il bacolo. Ma come potranno competere queste insegne prelatizie,
queste decorazioni abbaziali ad Oterio, il quale non era altro che un priore?
Che tal era difatti lo sappiamo da Mabillon, e dallo stesso passo dei Bollandisti riferito dal sig.
Scrofani, giacchè dall’uno e dagli altri non viene mai nominato abate o prelato, ma soltanto
Preposito. Ora per questo nome di preposito nell’ordine benedettino non s’intende che il priore:
evvi difatti nella regola di s. Benedetto il cap. 64 “de ordinando Abate” a cui segue il cap. 65 “de
Praeposito Monisterii”, nel quale vengono prescritti i dritti e i doveri che riguardano il priore. Un
pittore dunque sì giudizioso come il Novelli, avrebbe potuto incorrere in simili errori? Avrebbe così
ignorantemente dipinto il priore Oterio colle insigne abbaziali?
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Tenendo presente tutto questo fa d’uopo in verità confessare, che qualunque altra interpretazione è
più ingegnosa che giusta. Pare dunque che il quadro non rappresenti Oterio, nell’atto di dare i
portentosi pani ad Ugone, ma san Benedetto, che sotto la figura del pane porge la regola a diversi
capi di ordini, che da quella dipendono, e supposto questo il soggetto del dipinto più naturale
riuscirà la spiegazione dei personaggi, che vi figurano.
Cominciando infatti da quel personaggio di carattere, la di cui testa è degna di Raffaello, al dir del
ch. Rezzonico, e che vestito di giallo piviale porta nelle mani la tiara.
Secondo lo Scrofani figura “Majolo rinomatissimo abate del monistero Foloriacense”, sono le sue
stesse parole, … oppure il monaco Girberto, prosegue egli, poi papa col nome di Silvestro II,
professore nello stesso monistero Floriacense,… o finalmente, conchiude, qualche sovrano
pontefice o aquilano o francese dello stesso istituto.
Duolmi però di non aver potuto rinvenire nelle istorie monastiche, che Majolo sia stato abate
Floriacense, ma piuttosto di Clunì, monistero, che non aveva né dipendenza, né superiorità su quello
di Fleury, e sarebbe stata altronde un’improprietà, che un santo venerato da tutta la chiesa, qual era
Majolo; che il quarto abate di Clunì; che colui che rifiutato avea e mitre e tiara, fosse posto in scena
dal Novelli per far corteggio al priore di una cella, quale era Oterio. Né posso dall’altra parte
indurmi a credere, che rappresenti Girberto o sia Silvestro II, avvegnachè trovo in Mabillon, ( che
senza dubbio è il più illustre scrittore degli annali benedettini) trovo, che Girberto sia stato monaco
non di Fleury. Diremo alla fine, che figuri qualche sovrano pontefice o aquilano o francese?
Ma provato che il personaggio primario non sia Oterio, provato che non sia il tema del quadro i due
prodigiosi pani dati ad Ugone, cade da sé l’incerta interpretazione del chiosatore. Non avvisa poi il
signor Scrofani, che quel personaggio possa rappresentare san Gregorio il grande, sulla ragione, che
non fu istitutore di alcun ordine: e ciò è vero, ma è vero altresì, che meriterebbe quel santo pontefice
un posto in questo quadro per la santità della sua vita, per la dignità del suo posto e per l’estensione
del suo sapere, circostanze, che l’han reso il primo personaggio dell’ordine. Lo meriterebbe di più,
perché fondò in Sicilia sei monasteri, fra i quali contasi quello di s. Giovanni Ermete di Palermo,
volgarmente detto degli Eremiti, che dipende da questo di Morreale, e per tali riflessi la tradizione,
che ci ha tramandato quel personaggio come rappresentante s. Gregorio il Grande, meriterebbe
l’omaggio dell’imparziale posterità. Ciò non di manco, se per un eccessivo rigorismo non si
vogliano ammettere che soli capi d’ordine, e per questo non dar luogo a s. Gregorio, chi potrà dire
che non rappresenti s. Pier Celestino, detto pria Pietro Morone, il quale fu istitutore dei Celestini, e
rinunziò dopo sei mesi il papato? E con questo ben si combina ciò che saggiamente osserva il sig.
Scrofani, che al veder ch’egli non abbia sul capo la triplice corona, si potrebbe dire che il pittore
avesse voluto per deliberato avvedimento esprimere in uno la sua elezione e il suo rifiuto.
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Quel vecchio inoltre, che in nera cocolla e folta barba stassi a canto di colui che porta la tiara,
dirigendo la parola all’altro vestito di bianco, desso è certamente s. Roberto istitutore dei
Cistercensi, i quali su la tonica bianca, vestono lo scapolare e la cocolla nera, e quantunque quella
riforma usi tosar la barba, pure gli antichi Cistercensi, secondo rapporta il dotto P. Calmet, si
radevan soltanto sette volte in un anno; dovevano dunque avere di tempo in tempo la barba alquanto
prolissa, né potea quindi vietarsi al pittore il presentare con quella il loro istitutore.
La forma del cappuccio ed il colore bianco della cocolla di quel monaco, che segue da vicino, e che
ad un sasso appoggiato presenta allo spettatore le spalle lo annunziano chiaramente per il beato
Bernardo Tolomeo, istitutore degli Olivetani, nominati comunemente Benedettini bianchi, e col
libro che tiene nella destra avrà forse voluto indicare il pittore la regola di s. Benedetto, che fu data
al Tolomeo dal vescovo di Arezzo, secondo narra Arnoldo Wion, dopo il comando avutone in
visione da Maria Vergine.
L’altro religioso, che sta giusto dirimpetto al Tolomeo, e che coperto di bianca cocolla mostra ambe
le orecchie, ed il mento senza barba, non v’ha dubbio, che sia s. Brunone, che istituì i Cartusiani,
detti con altro nome Certosini, i quali non solo vestivano di bianco, ma usavano anche di tosar la
barba, e così sono infatti rappresentati questi Brunoniani in tutte le pitture, delle quali molto è ricca
la chiesa e la sagrestia di s. Martino di Napoli.
Dietro a questo un quinto religioso vedesi in piedi, il quale dirige il discorso ad un altro che gli sta
non lontano, ed alla sua veste cinericia o grigia mostra di essere s. Giovan Gualberto, istitutore dei
monaci di Valleombrosa, e stassi egli vicino al suo maestro s. Romualdo fondatore dei Camaldolesi,
il quale cogli occhi rivolti al cielo sembra indicare quella contemplazione, ch’è l’istituto primario
dei suoi discepoli. Desso è annunziato primariamente dalla barba, poiché sappiamo dai due scrittori
della sua vita s. Pietro Damiani e Girolamo Eremita di Camaldoli, che non volle mai che il rasojo
tosasse la sua barba, ma raramente da sé stesso colle forbici la tagliava, e convengono i dotti
scrittori degli Annali Camaldolesi, che il loro s. Istitutore vien sempre colla barba dipinto. Il vestire
inoltre, che nonostante l’oscurità delle ombre e la lontananza del personaggio, pure mostra, che sia
bianco, vie più mi accerta di tale opinione, trovandolo conforme all’istituto di quell’ordine; e
finalmente non lascia luogo a dubitare quel tempietto, che sostiene nelle mani, col quale vuolsi
accennare senza dubbio l’Oratorio da lui eretto in quel sito romito, ove in visione apparsa gli era
una scala, che si ergeva dalla terra alle nubi, e molti vestitini bianca tonica, che salivano e
scendevano per quella. Né mancano pitture infatti, in cui viene rappresentato il s. fondatore di
Camaldoli, con quel tempietto nelle mani.
E ciò par che basti in riguardo all’indicazione dei monaci, poiché in quanto agli altri tre, due dei
quali tengono la mitra ed il pastorale, ed un terzo che porge il pane, io credo che siano servente del
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s. Padre e non fondatori d’ordini, e par che la mia opinione possa convalidarsi al riflettere non che
all’azione servile che prestano, ma ancora ai loro aspetti, che sono molto giovanili, e non mostrano
quella canizie, o almeno quella maturità di anni, che si ricerca ordinariamente in un nuovo
fondatore, e che veramente si è verificata nei nuovi istitutori, che hanno adottata la regola
benedettina.
Tre ordini cavallereschi poi ha voluto soltanto rappresentare il Novelli, e ciò probabilmente per la
ragione di non confondere troppo la dipintura con moltiplicare le figure. Il primo, che riceve in atto
rispettoso e devoto dalle mani di s. Benedetto il pane, simboleggiante la regola di s. Benedetto, è
certamente un cavaliere di uno dei più antichi ordini cavallereschi benedettini, qual è quello di
Alcantara istitutito da Gomez dopo la metà del secolo XII. Vivono costoro sotto le costituzioni
Cistercensi, e ad imitazione di essi usano una lunga veste bianca, portando per distintivo una croce
verde gigliata nell’estremità, e situata nel sinistro lato; né punto differisce il vestire del cavaliere, di
cui io parlo, da quello di Alcantara già riferito, e descritto dal Bonanni, e da altri scrittori sugli
ordini cavallereschi.
Altri due cavalieri, a mio credere, appartengono a due ordini, uno di Montesia, che Giacomo II di
Aragona istituì nel 1320, i quali portavano una veste bianca ed una croce semplice nel mezzo del
petto; e l’altro all’ordine di Cristo istituito da Dionisio Re di Portogallo nella stessa epoca, ed erano
distinti i cavalieri da una croce semplice nel petto orlata d’oro sopra veste bianca e lunga. Entrambi
questi modi di vestire sono perfettamente simili a quelli degli altri cavalieri, dei quali uno è
applicato a mirare con guardatura interesse lo spettatore, mentre che l’altro par che a lui diriga la
parola, accompagnandola con un gesto.
Gli altri personaggi finalmente, che di ambo i sessi stanno dalla parte dei cavalieri, possono avere
anche un rapporto col tema della dipintura, poiché potrebbero indicare che la regola benedettina può
estendersi sino a quei villici conciosi, ed alle stesse donnicciuole, avvegnachè e gli uni e le altre
possono essere oblati, i quali sono ammessi a partecipare di varie indulgenze, privilegi e suffragi
dell’ordine, mercè taluni obblighi che indossano. Ma non lascio anche acchetarmi in ciò al parere
del ch. Sig. Scrofani, che li crede soltanto spettatori, e saggiamente nella quale sarebbe altrimenti
caduta la sua composizione.
Il concetto del Novelli è di fare vedere la grandezza di s. Benedetto nella ramificazione del suo
ordine, e quindi mirasi corteggiato da varii fondatori di congregazioni benedettine e rodini
cavallereschi, onde mostrare che il suo spirito si è diffuso in tanti altri, i quali non sono che rami di
quel grande albero, che ruscelli da quella fonte scaturiti, e in un quadro ha voluto così il pittore
rappresentare tutta la storia dell’inclito ordine benedettino.
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Morreale, 4 dicembre 1831.
D. Giovan Battista Tarallo
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