Azzeruoli Vanessa e Perrotta Mimmo - sociologia

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Azzeruoli Vanessa e Perrotta Mimmo - sociologia
L’intermediazione informale di manodopera in agricoltura in Italia: un
confronto tra i caporali burkinabé in Puglia e Basilicata e i mediatori panjabi
nella Pianura Padana
Vanessa Azzeruoli (Università di Padova)
Mimmo Perrotta (Università di Bergamo)
Draft per il Convegno nazionale AIS-ELO, “La regolazione dell’economia tra formale e
informale”, Milano Bicocca, 11-12 settembre 2014
Indice
1. Introduzione
2. Metodologia
3. La mediazione di manodopera in agricoltura in Europa
4. Caporali burkinabé e mediatori panjabi
4.1. Caporali burkinabé
4.2. Mediatori panjabi
5. Differenze tra le due forme di mediazione
5.1.
Mansioni differenti
5.2.
Il mutevole rapporto tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro
5.3.
Sulle “reti”: lavoro familiare vs. squadre di soli maschi
5.4.
I concorrenti dei caporali
6. Analogie tra le due forme di mediazione
7. Conclusioni
Riferimenti bibliografici
1. Introduzione
Oggetto di questo contributo è la mediazione informale nel mercato del lavoro agricolo in Italia. Il
paper intende proporre una comparazione tra due casi. Da un lato, quello dei caporali originari
dell’Africa occidentale, e in particolare della regione del Boulgou nel Burkina Faso, rispetto ai quali
verrà descritta soprattutto l’attività di intermediazione di manodopera relativa alla raccolta del
pomodoro da industria nel foggiano e nel Nord della Basilicata; dall’altro lato, il caso dei mediatori
di nazionalità indiana, provenienti dalla regione del Panjab, e delle loro attività di intermediazione
in relazione al settore dell’allevamento e alle filiere del Parmigiano Reggiano e del Grana Padano
nella Pianura Padana (soprattutto tra le province di Mantova, Cremona, Modena, Reggio Emilia).
La comparazione verrà preceduta da un breve paragrafo introduttivo che contestualizza la questione
dell’intermediazione di manodopera in agricoltura a livello europeo: si descriverà come in varie
regioni dell’Unione Europea (soprattutto Provenza, Andalusia, Sassonia, Peloponneso e, in Italia, la
Pianura Padana e le pianure costiere del Mezzogiorno) si sia sviluppato un modello di agricoltura
intensiva che richiede ampie quantità di manodopera, talvolta stagionale (ad esempio nelle
raccolte), talaltra più stabile (come nella serricoltura e nell’allevamento), e come a questa richiesta
rispondano migranti originari dell’Est Europa, dall’Africa, dall’Asia, dall’America Latina.
Tuttavia, nei diversi paesi le forme della mediazione nel mercato dell’impiego assumono forme
molto diverse. La peculiarità più evidente del caso italiano è forse il fatto che la mediazione
avvenga soprattutto in maniera informale, in quanto in agricoltura le agenzie formali della
mediazione (centri per l’impiego, decreti flussi, agenzie di lavoro temporaneo, forme di subappalto)
sono utilizzate dalle imprese in maniera minima. D’altro canto, l’intermediazione informale – il
“caporalato” – in Italia è illegale da molti decenni e, dall’agosto 2011, rappresenta non più un
illecito amministrativo ma un reato penale (cfr. l’art. 12 del decreto legislativo del 13 agosto 2011
n° 148, che istituisce il reato di “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”)1. Siamo quindi
di fronte a una attività, quella dei mediatori informali, senza la quale molti lavori agricoli non
verrebbero effettuati, che però è considerata un reato penale, e a forme legali di mediazione di fatto
non utilizzate.
D’altro canto, se ci si ferma al dibattito pubblico, sembra che il caporalato sia una realtà presente
soltanto nel Sud Italia (dalla Capitanata alla Piana del Sele, dal Salento a Rosarno); anche negli
studi scientifici sono state approfondite soprattutto le forme di mediazione presenti nel
Mezzogiorno. Eppure, anche in altre regioni italiane sono presenti forme di mediazione informale di
manodopera [Ferrero & Perocco, 2011, p. 15; Bertolani, 2003a, 2003b]. In agricoltura, ad esempio,
1
In altri paesi europei si è tentato invece di “regolamentare” l’attività dei mediatori: nel Regno Unito, ad esempio, nel
2004 è stata istituita la “gangmaster licensing authority”, per regolamentare l’attività dei gangmaster, figure di “capi
squadra” non troppo dissimili dai nostri caporali.
casi di caporalato sono stati recentemente rilevati per la raccolta della frutta nel cesenate e nel
mantovano.
È necessario e urgente, dunque, procedere ad analisi comparative delle diverse forme di
mediazione. La mediazione informale, infatti, va analizzata in relazione a una complessa rete di
questioni, relative alle caratteristiche delle filiere agricole e a quelle del mercato del lavoro, alle
strategie di mobilità dei migranti e alle normative che intendono regolarla e controllarla.
In questo paper, a partire dalla comparazione tra due aree geografiche italiane, due forme di
mobilità, due filiere produttive, mostreremo dapprima alcune differenze tra i due “casi” (in merito
alle tipologie di mansioni e di organizzazione del lavoro, alle esigenze dei due settori produttivi,
alle forme prese dalle reti sociali coinvolte, alla regolarità o meno delle assunzioni, ecc.); in seguito,
ragioneremo su ciò che accomuna le due forme di mediazione (la tendenza delle aziende a
comprimere il costo del lavoro, dovuta alla conformazione delle filiere agro-alimentari, la necessità
della “fiducia” per oliare i meccanismi delle assunzioni in agricoltura).
2. Metodologia
Il paper si basa su due ricerche condotte separatamente dai due autori, utilizzando metodologie
etnografiche e qualitative. Vanessa Azzeruoli, nell’ambito della ricerca per la tesi di dottorato in
Scienze Sociali, ha studiato, tra il 2011 e il 2013, la costruzione degli intermediari nella migrazione
panjabi indiana in Italia in particolare in merito all’arrivo, alla stabilizzazione e allo spostamento in
un paese terzo. Per questa ricerca sono state effettuate 52 interviste a migranti panjabi (e 42 a
testimoni privilegiati) e sono state condotte osservazioni nei contesti di vita e di lavoro sia in Panjab
indiano sia in Italia. Domenico Perrotta ha studiato, tra il 2010 e il 2013, il lavoro in agricoltura dei
migranti, in particolare di nazionalità rumena e burkinabé: sono state realizzate circa 45 interviste in
Puglia e Basilicata (e circa 25 in Emilia Romagna, con intento comparativo) a braccianti, caporali,
imprenditori agricoli, operai di industrie conserviere e testimoni privilegiati e sono state condotte
osservazioni etnografiche dei contesti di abitazione e lavoro dei migranti africani nelle zone
considerate, in particolare dei “ghetti” e delle baraccopoli nei quali sovente essi vivono durante le
stagioni di raccolta.
3. La mediazione di manodopera in agricoltura in Europa
Le migrazioni internazionali sono un fenomeno di rilevanza strutturale per l’agricoltura di molti
paesi nord-europei da molti decenni: centinaia di migliaia di polacchi lavorano in Germania almeno
dalla seconda metà dell’Ottocento (Weber, 2005); spagnoli e italiani sono stati impiegati nei vigneti
francesi dall’inizio del Novecento, affiancati e sostituiti dai maghrebini a partire dal secondo
dopoguerra. Nell’Europa meridionale, invece, i migranti “stranieri” hanno sostituito gli stagionali
“interni” soltanto a partire dagli anni Settanta del Novecento.
Negli ultimi 25 anni, secondo molti studi, nei paesi dell’Europa settentrionale e in quelli
dell’Europa meridionale sono riscontrabili alcuni processi analoghi; uno dei concetti più utilizzati
per descrivere le trasformazioni del lavoro nell’agricoltura europea, ad esempio, è quello di
“modello californiano” (es. Berlan, 1986; Pugliese, 1991; Ferrero-Perocco, 2011, p. 18), che denota
come l’agricoltura europea abbia assunto nel corso degli anni caratteristiche simili a quella
californiana: processi di intensificazione della produzione di ortofrutta e prodotti per l’industria
conserviera basati sul lavoro migrante (spesso stagionale e irregolare) e sulla concorrenza (e
sostituzione successiva) tra migranti di diverse nazionalità.
All’affermazione del “modello californiano” in agricoltura si sono sovrapposti due processi. Sul
piano delle politiche migratorie, si è verificata una progressiva chiusura delle frontiere europee, che
ha portato all’affermazione di un “modello mediterraneo delle migrazioni” (Pugliese, 2002;
Papageorgiou, 2011; King & Rybaczuk, 1993) – in cui l’irregolarità di parte dei migranti è un
elemento tra i più rilevanti – e di quello che De Genova ha definito il “Deportation regime” (De
Genova, Peutz 2010) – la vulnerabilizzazione dei migranti nei paesi di arrivo dovuta alla precarietà
della loro presenza e dei loro documenti di soggiorno. L’agricoltura è parte di un sistema di
sostituzione che si è verificato, con modalità e tempi differenti, anche negli altri settori produttivi e
ha messo in evidenza la creazione di un mercato del lavoro segmentato nel quale il sistema
occupazionale risulta articolato in nicchie e livelli poco comunicanti tra loro in cui gli autoctoni e i
migranti tendono a trovare lavoro in ambiti diversi (Castles & Miller, 2009). Ad emergere è una
stratificazione civica (Morris, 2003; Bertolani, Rinaldini & Tognetti-Bordogna, 2013) nella quale
l’accesso ai diritti di cittadinanza viene gerarchizzato da due componenti. La prima vede come
centrale lo status della persona: cittadino del paese di residenza, cittadino UE, extra-comunitario. La
seconda nella tipologia di documento di residenza: senza documenti, permesso di soggiorno (Pds)
stagionale, Pds a tempo determinato, Pds a tempo indeterminato, cittadinanza. La stratificazione
civica influisce sul grado di vulnerabilità dei lavoratori ed è un elemento centrale per comprendere
il processo di razzializzazione del mercato del lavoro intrinseco al meccanismo di sostituzione
(Grappi, 2012).
Sul piano del mercato del lavoro, si è assistito a progressive liberalizzazioni e deregolamentazioni,
tanto sul piano nazionale (si pensi ai provvedimenti del cosiddetto “pacchetto Treu”, L. 196/1997, e
poi della “Riforma Biagi”, L. 30/2003) quanto sul piano europeo.2
2
Da un lato il legame tra la stratificazione civica e la ricattabilità che ne deriva, dall’altro le liberalizzazioni del mercato
del lavoro, influiscono sull’inserimento dei migranti in quei lavori che in letteratura vengono definiti delle tre D, cioè
Dirty, Dangerous, Demanding (Abella, Park & Bohning, 1995), tradotta e contestualizzata in Italia da Ambrosini (2005,
Da un lato, dunque, i produttori agricoli – sottoposti alle pressioni dei commercianti, delle industrie
conserviere e della grande distribuzione (van der Ploeug 2009) – hanno bisogno di grossi
contingenti di manodopera, il più possibile flessibile e a basso costo, specialmente in alcuni
momenti dell’anno;3 dall’altro lato, i migranti, spesso precarizzati da leggi sulle migrazioni per loro
penalizzanti, seguono le proprie reti, privilegiando (o disertando) alcuni territori nella loro ricerca di
lavoro. I legami interpersonali e le conoscenze sono infatti un canale molto importante di ricerca e
miglioramento della propria situazione occupazionale, in particolare in un mercato del lavoro
frammentato come quello attuale (Reyneri, 2002).
Per collegare queste due istanze, si sono sviluppate in Europa diverse forme di mediazione,
pubbliche e private, top-down e bottom up, formali e informali. Anzitutto, i governi nazionali sono
diventati mediatori attivi, attraverso programmi di reclutamento per lavoratori stagionali: i contratti
ONI/OMI/ANAEM, utilizzati dal governo francese sin dal 1945 per reclutare braccianti nel
Maghreb e, negli anni novanta, in Polonia (Morice 2008), attraverso uffici gestiti direttamente dal
governo francese nei paesi di origine; i “contratos en origen”, attraverso i quali il governo spagnolo
delega le associazioni datoriali a organizzare il reclutamento degli operai agricoli nel paese
d’origine, in collaborazione con i locali uffici di collocamento (Hellio, 2008); il Seasonal
Agricultural Workers Scheme nel Regno Unito (Rogaly, 2008), i “decreti flussi” per lavoro
stagionale in Italia4.
In secondo luogo, vi sono gli intermediari privati “formali”, quali le agenzie di lavoro interinale o
ditte private (e, in Italia, cooperative) che offrono servizi in subappalto (ad esempio, la raccolta),
talvolta operando in diversi paesi europei. Mésini (2013) ha descritto ad esempio il caso della
agenzia di lavoro interinale “Terra fecundis”, con sede a Murcia, che nel 2010 impiegava 1.700
lavoratori temporanei, soprattutto ecuadoregni residenti in Spagna, 1.300 dei quali distaccati in 123
aziende agricole nel Sud della Francia.
In terzo luogo, vi sono i brokers “informali”, quali i caporali e i mediatori che descriveremo in
questo articolo, presenti in quasi tutti i paesi europei (per il Belgio, cfr. Boels 2013).
p.59) attraverso l’acronimo delle cinque P (pesanti, pericolosi, precari, poco pagati, penalizzati socialmente). È quindi
in atto un processo strutturale e multidimensionale di crescente segmentazione, razzializzazione (Grappi 2012) e
gerarchizzazione del mercato del lavoro (Perocco, 2011) prodotto dal legame tra permesso di soggiorno e contratto di
lavoro che alimenta la vulnerabilità e ricattabilità dei lavoratori migranti (Raimondi & Ricciardi, 2004; Sacchetto &
Vianello, 2013).
3
Nei casi delle “grandi raccolte” stagionali di prodotti agricoli (ad esempio i pomodori in Puglia, gli agrumi in Calabria,
le fragole a Huelva e nel Peloponneso), si tratta soprattutto di reclutamento di braccianti stagionali; nei casi invece della
serricoltura (ad esempio nelle zone di Almeria in Spagna e di Vittoria in Sicilia) e dell’allevamento è necessario
reclutare operai che risiedano stabilmente sul territorio. Naturalmente, vi sono anche situazioni miste, in cui contingenti
di braccianti stagionali si aggiungono a quanti risiedono con più continuità sul territorio.
4
Nel caso dei decreti flusso, l’intento di “regolare la migrazione” si perde a causa della “delega” ai datori di lavoro
nella scelta degli operai; essi diventano di fatto sanatorie ex-post, regolarizzando chi già presente in Italia (FerreroPerocco 2011, p.48). La compravendita di contratti di lavoro fittizi ai fini della regolarizzazione è quindi divenuta una
prassi per i migranti senza documenti in Italia [per la zona di Salerno cfr. Avallone 2013; per Torino vedi Semi 2004].
Talvolta vi sono processi di formalizzazione o di informalizzazione, e forme di mediazione “miste”.
Ad esempio, i gangmaster britannici (Brass 2004, Rogaly 2008) svolgevano la propria attività di
mediazione in maniera simile ai caporali del Mezzogiorno d’Italia, fino a che, nel 2004, il governo
britannico decise di istituire una Gangmaster Licensing Authority e di chiedere a tutti i gangmaster
di formalizzare la propria posizione, facendoli in questo modo diventare simili ad aziende che
lavorano in subappalto. Michalon e Potot (2008) hanno descritto il caso degli intermediari polacchi
che operavano per agricoltori del Sud della Francia i quali formalizzavano l’assunzione di lavoratori
stagionali attraverso i contratti OMI, anche se di fatto la mediazione informale ricopriva un ruolo
essenziale nella scelta dei braccianti e per “oliare” l’intero sistema delle assunzioni “formali”.
In molti casi si è notato che, accanto a forme di mobilità irreggimentate nei vari tipi di reclutamento
operati dai governi (ad esempio i contratti OMI e i contratos en origen), restano spesso operativi, e
talvolta in maniera vigorosa, gli spostamenti autonomi di gruppi di migranti (Castles & Miller
2009), che si muovono attraverso le proprie reti e spesso lavorano “in nero” e senza documenti di
soggiorno, a fianco ai propri connazionali “in regola” (Massey et. al. 1993; Portes, 1997),
generando quelle che vengono definite nicchie etniche5 (Portes, 1998; Ambrosini, 2001).
4. Caporali burkinabé e mediatori panjabi
4.1. Caporali burkinabé
Nelle regioni del Mezzogiorno considerate da questa ricerca (la Capitanata in Puglia e il MelfeseAlto Bradano in Basilicata), i caporali burkinabé (così come quelli di altre nazionalità dell’Africa
Occidentale) operano stagionalmente, tra maggio e ottobre, per la piantumazione e la raccolta
manuale del pomodoro, organizzando squadre di alcune decine di braccianti, soprattutto loro
connazionali e appartenenti alle loro reti sociali, occupandosi non solo della mediazione lavorativa,
ma anche dell’alloggio in casolari abbandonati e della fornitura di una ampia serie di servizi,
solitamente a pagamento (fornitura di cibo e acqua nei casolari e durante il lavoro, trasporto in vari
luoghi, credito, ecc.), in un contesto di sostanziale segregazione (spaziale, sociale, politica) della
manodopera migrante rispetto alle popolazioni locali (Perrotta 2013; Perrotta, Sacchetto, 2014).
Alcuni caporali burkinabé risiedono nei territori interessati dalla raccolta del pomodoro. Altri, la
maggior parte, risiedono in altre città d’Italia – nell’area “rururbana” tra Napoli e Caserta (Caruso
2013, Filhol 2013) o in alcune province del Nord, soprattutto in Lombardia, Veneto e Friuli. Essi
iniziano a muoversi in vista della raccolta del pomodoro in primavera, quando sta per cominciare la
piantumazione del prodotto, per proporre le proprie squadre agli agricoltori e trovare abitazioni per i
5
Sulla definizione di economia etnica e sulle distinzioni fra “enclave” e “nicchia” Cfr. Portes (1995); Waldinger (1994),
Wilson & Portes (1980) e Wilson & Martin (1982).
braccianti. Solitamente, i caporali costruiscono le proprie squadre anzitutto con parenti e uomini di
fiducia e in secondo luogo, di solito al picco della richiesta di manodopera, nella fase più intensa
della stagione di raccolta, con altre persone, presenti nei “ghetti” o nelle baraccopoli, che cercano
qualche giornata di impiego.
Nel periodo della raccolta, i caporali operano in un mercato del lavoro fortemente concorrenziale,
ma che, nei vari comuni della zona considerata, si struttura in modi differenti. Anzitutto, vi è la
concorrenza delle macchine raccoglitrici del pomodoro, utilizzate da una parte non piccola dei
produttori di pomodoro pugliesi e lucani e che consentono di impiegare pochissima manodopera e
di raccogliere il prodotto rapidamente a prezzi contenuti: il caporale, quindi, deve proporre la
propria squadra di braccianti a un prezzo (misurato a cassone o a camion di pomodori raccolti) che
sia concorrenziale con le macchine raccoglitrici. In secondo luogo, vi sono altri caporali, di molte
nazionalità diverse (nel corso del lavoro sul campo ho incontrato, oltre che caporali burkinabé,
anche sudanesi, ghanesi e rumeni) a offrire i medesimi servizi.
In alcuni casi, un’organizzazione strutturata di caporali tende a monopolizzare il mercato del lavoro
agricolo in un’area: in questo caso, i singoli caporali – che organizzano una o più squadre di
braccianti e la logistica dell’abitazione/trasporto degli operai nei campi – sono costretti a lavorare
per altri caporali e a dividere con loro i propri profitti. In altri casi, invece, i caporali lavorano in
concorrenza e, talvolta, in collaborazione tra loro (cfr. Perrotta, 2014, per un’analisi più puntuale).
Ad esempio, nell’area di Boreano (nel comune di Venosa, in Basilicata), dove i braccianti sono
quasi tutti di nazionalità burkinabé, i 5-10 caporali burkinabé presenti riescono a lavorare senza
ulteriori mediazioni, facendosi concorrenza sul prezzo del cassone; in maniera diversa, nella vicina
Borgo San Nicola i due o tre caporali burkinabé attivi devono lavorare per una coppia di “soci” (un
sudanese e un italiano) i quali impongono il proprio monopolio sul mercato del lavoro locale, ai
burkinabé e ai mediatori di altre nazionalità. Oltre il confine pugliese, nel cerignolano, opera un
altro caporale burkinabé, che alloggia i propri braccianti in un casolare isolato dagli altri e che cerca
di far concorrenza ai propri “vicini”; in questa zona, però, così come nel nord della provincia di
Foggia, sono attivi anche braccianti e caporali di origine esteuropea, in particolare rumeni e bulgari.
Tra le funzioni del caporale c’è anche quella di contrattare – per quanto possibile – il salario dei
braccianti. Un caporale deve avere esperienza sufficiente, ad esempio, per valutare le condizioni del
terreno e del prodotto e per capire se è possibile chiedere al datore un cottimo più alto, ad esempio
se c’è troppa erba sul terreno, se ci sono condizioni metereologiche difficili, se – a causa della
pioggia – l’agricoltore è costretto a non utilizzare le macchine raccoglitrici o se il datore di lavoro fa
richieste particolari, ad esempio riguardanti una maggiore selezione del prodotto.
Per gli agricoltori, il caporalato presenta tre tipi di vantaggi: una maggiore facilità nel reperire la
manodopera, in quanto spesso basta una telefonata al caporale di riferimento, fatta la sera prima
della raccolta, per ottenere una squadra di braccianti sul campo desiderato; una delega
nell’organizzazione, nella gestione e nel controllo della manodopera (il caporale talvolta funge da
caposquadra e soprattutto “garantisce” sul comportamento dei suoi braccianti); un abbassamento dei
costi dovuto non solo ai bassi salari ma anche al fatto che i braccianti sono disponibili, spesso su
pressione del caporale, a orari di lavoro più lunghi (o più corti) e in generale a lavorare secondo le
esigenze dell’agricoltore.
Quando presenti sul territorio, i caporali, avendo un quasi-monopolio sul trasporto dei braccianti nei
campi, tendono ad acquisire il controllo di un numero sempre maggiore di operazioni agricole (es.
vendemmia, raccolta delle olive), sottraendo così spazio alla ricerca di lavoro effettuata
autonomamente dai braccianti e abbassando il livello dei salari.
Quanto ai salari, essi variano a seconda che si tratti di paga oraria o a cottimo. Nel primo caso, le
paghe si differenziano a seconda delle mansioni (es. piantumazione e zappatura del pomodoro,
raccolta dei peperoni, dell’uva e delle olive) e vanno dai 25 ai 40 euro al giorno (dai 3 ai – nei casi
migliori – 5 euro l’ora). Nel secondo caso, preponderante per la raccolta del pomodoro da industria,
il salario del bracciante dipende dalla sua forza, abilità e velocità: chi riesce a raccogliere un grosso
quantitativo di cassoni (anche 30-40 in una giornata) può portare a casa, al netto della tariffa del
caporale, anche più di 100 euro; chi invece non va oltre i 10 cassoni guadagna poco più di 20 euro.
Dalla paga del bracciante, il caporale trattiene dai 3 ai 7 euro per il trasporto giornaliero nei campi;
il corrispettivo dovuto per il pasto – spesso cucinato dalla moglie del caporale o da persone alle sue
dipendenze (dai 3 ai 5 euro) e una tariffa sulla paga oraria (ad esempio 50 cent all’ora) e a cottimo
(tra 50 cent e 2 euro per ogni cassone raccolto). Secondo alcuni calcoli effettuati a partire dalle
testimonianze raccolte sul campo, un caporale può guadagnare tra 250 e più di 1.000 euro al giorno
nel periodo della raccolta, a seconda del numero di squadre e di braccianti che controlla.
Se fino a qualche anno fa il lavoro si svolgeva spesso “in nero”, negli ultimi anni si è affermata una
forma di contrattualizzazione “in grigio”: le aziende aprono i “fogli di ingaggio” con i braccianti,
ma, al termine del periodo di impiego, dichiarano (e versano i contributi relativi a) solo una piccola
parte delle giornate effettivamente lavorate. In questo modo, le aziende risparmiano sui contributi e
i braccianti vedono fortemente ridotta la possibilità di ottenere i sussidi di disoccupazione e di
collegare il proprio permesso di soggiorno al lavoro svolto in agricoltura.
I rapporti tra agricoltori, caporali e braccianti non sono privi di conflitti, anzi: il ruolo di mediazione
dei caporali – il loro potere – non è mai dato per scontato ma è spesso a rischio di essere messo in
discussione. Essi devono far fronte alle esigenze dei datori di lavoro e a quelle dei braccianti, il che
può causare problemi: ad esempio, se un caporale serve più datori di lavoro può non avere a
disposizione la manodopera necessaria – e promessa – a uno di questi, perché tutti i braccianti sono
impegnati altrove. O, specularmente, se un datore di lavoro (o un altro caporale, più in “alto” nella
gerarchia) non paga quanto stabilito, il caporale non riesce a pagare i propri braccianti, i quali
possono effettuare scioperi spontanei durante la raccolta, denunciarlo o passare ad altri caporali
ritenuti più affidabili.
D’altro canto, però, la situazione di segregazione dei lavoratori nelle campagne (cfr. Perrotta,
Sacchetto 2013) e il fatto di vivere lontani dai centri abitati e “separati” dalle popolazioni locali
rende molto difficile scalfire il potere del caporale, che si poggia anche sul monopolio dei contatti
tra braccianti stranieri e cittadini locali.
4.2. Mediatori panjabi
Nelle regioni della Pianura Padana considerate da questa ricerca (la provincia di Mantova, la bassa
Parmense, Reggiana, Modenese, cremonese e il Basso Bresciano e Bergamasco), gli intermediari
panjabi nel settore dell’allevamento sono principalmente lavoratori inseriti dagli anni ’80 e ’90 nelle
aziende zootecniche in qualità di mungitori di bovini da latte, i quali reclutano e formano
connazionali (spesso parenti) e in cambio acquisiscono capitale economico e/o sociale (cfr.
Bertolani, 2003a, 2003b, 2005, 2009; Lum, 2012; Sahai & Lum, 2013; Olivieri, 2012).
Il lavoro nelle stalle, in particolare la mungitura, è svolto su doppia turnazione a distanza di 12 ore e
comprende un turno notturno e uno diurno (solitamente dalle 4 alle 8 e dalle 16 alle 20). È un lavoro
che richiede capacità di lavorare in autonomia e specializzazione, in quanto la mungitura è sempre
più tecnologizzata. Di solito, il lavoro è contrattualizzato e prevede una casa in comodato all’interno
della proprietà padronale nelle vicinanze della quale è sita l’azienda agricola. Il salario varia dai
1800€ ai 2500€ mensili; rispetto al salario, occorre mettere in luce due fattori. Anzitutto, il contratto
a tempo indeterminato ha permesso al lavoratore di regolarizzare la propria posizione attraverso una
delle emersioni (dette volgarmente sanatorie) effettuate dallo stato italiano e, grazie alla casa in
comodato e al salario cospicuo, è stato possibile ricongiungere in breve tempo moglie, figli e,
talvolta, i genitori. In secondo luogo, negli ultimi anni, in coincidenza con la crisi economica e la
compressione dei posti di lavoro nella zona, i salari sono cospicuamente diminuiti e non è raro
trovare persone che lavorano in azienda per salari inferiori ai 1000 €, dove vengono segnate solo
parzialmente le ore svolte (vengono segnate 6 ore invece delle 8-10 ore realmente lavorare) o in
alternativa è stato aumentato il numero di capi da mungere, lasciando invariato il numero di
mungitori.
Quando sono venuti quelli di Brescia [nuovi proprietari dell’azienda agricola, N.d.R.] loro volevano
pagarmi 6 ore... dicevano che erano 300 vacche... dicevano: “il computer di mia figlia dice che ci
vuole questo tempo per mungerle”. Poi le vacche sono aumentate in più c’erano i vitelli... e il
computer non ha detto niente.... e siamo rimasti lì... Poi hai quello malato, perdi tempo, devi curarlo...
gli facevo le punture, gli facevo tutto... Quando è morto mio marito ne hanno voluto un po'
approfittare perché oramai il mondo funziona così... mi hanno aiutato tanto sono sempre stati bravi...
poi dopo voleva più lavoro con la stessa paga... e ho detto no... perché io lascio a casa i miei figli... io
il mio lavoro lo faccio. Però non lavoro a gratis. Perché prima io la domenica facevo festa non andavo
a lavorare... dopo mi hanno chiamato ad andare a lavorare anche domenica e per me non c'è
problema.... Poi non è che quando finisco il lavoro mi dai un pezzo di formaggio... e mi dai 10 uova.
No tu mi dai quello che mi spetta le uova le vado a comprare io [Sunny, F, vedova, 49 anni, non
credente, Talvan (Kapurthala), Prov. Reggio Emilia, 09-04-2012].
Gli intermediari sono tutti maschi, pionieri della migrazione panjabi, assunti per primi all’interno
della stalla. Le motivazioni della costruzione di un sistema di intermediazione devono essere
contestualizzate all’interno delle diverse modalità di mobilità internazionale delle persone, di
regolarizzazione amministrativa dei migranti sul suolo italiano e di reclutamento lavorativo. Infine
la mungitura, come del resto l’intero settore dell’allevamento bovino, è interessata da un forte
trasformazione delle modalità di produzione: l’ingresso di un massiccio uso di tecnologia e
computerizzazione della mungitura è affiancato da un aumento della produttività dei capi a
discapito della loro durata di vita e provocano, di conseguenza, la necessità di una continua
formazione del personale e un allargamento del parco bestiame all’interno della stalla.
Partendo dal punto di vista dei datori di lavoro, la richiesta rivolta ai panjabi di fornire il nominativo
di un ulteriore lavoratore è divenuta una prassi sia nel caso di allargamento della propria forza
lavoro all’interno dell’azienda agricola, sia per le sostituzioni temporanee e definitive. Il “cappello
culturalista” costruito dai datori di lavoro locali in merito alla presunta propensione vocazionale
nella mungitura dettata dalla sacralità della vacca (sfatata anche dal fatto che la maggior parte dei
mungitori è sikh o ravidassia, religioni per le quali non vi è nessuna sacralizzazione della mucca)
nasconde la scelta, dopo aver “testato” lavoratori di diverse provenienze, dei migranti indiani
proprio per il loro sistema di sostituzione che garantisce la continuità della produzione.
Gli indiani sono un fenomeno positivo della globalizzazione. Negli anni 80 nessuno più si fermava
nella stalla ed è impossibile trovare dei ragazzi che si svegliano alle 4 di mattina ad andare nella stalla,
non li trovi. Ti dicono sì sì e dopo... non son capaci di lavorare pensano solo allo stipendio […] e
chiedono se sabato son liberi, domenica... quanto gli dai... in un'azienda agricola non esiste il sabato e
la domenica... ok non schiavizziamo... un ragazzo di Modena ha lavorato 6 mesi e non ha mai lavorato
una domenica... andava a Carpi... e poi se proprio avevamo bisogno lo avvisavamo molto prima... ma
l'approccio mentale è: “sabato sono libero domenica sono libero?” […]. Gli indiani hanno usato una
strategia. Negli anni ‘80 sono arrivati i filippini e vietnamiti... noi non li abbiamo mai avuti... e gli altri
ci han detto che erano inaffidabili ed era vero... venivano e il giorno dopo andavano via... e uno
rimaneva così... poi sono venuti i neri ed è peggio che andar di notte... ne abbiamo avuti, alcuni
incapaci, quello ci sta, bianchi, neri... se uno non ha voglia di lavorare, non conta la pelle! Abbiamo
avuto uno del Congo, un'altro senegalese, uno della Costa d'Avorio che non possiamo dire che abbiano
lavorato male... tranne uno che era un disgraziato... erano bravi ma l'indomani arrivava l'amichetto
della comunità che diceva che alla TNT gli davano 10€ in più e andavano lì... E ne ho visto tanti...che
mi rincontravano dopo quando erano alla TNT e mi dicevano “Son sempre per strada”. Ci dovevi
pensar prima, devi aver l'attitudine, loro quando si presentano dicono che non hanno mai problemi e
fanno qualsiasi cosa... poi non è vero sono uomini come tutti... alcune cose sono più propensi altri no...
e da lì cos'è successo... che hanno iniziato a proporsi gli indiani... guarda che son bravi! Ne abbiamo
avuto uno all'inizio veramente bravo, era il 1997-8, ha lavorato 4 anni e poi era un po' un esaltato, gli
piacevano i muscoli ed è andato a fare il buttafuori... se è contento lui! Poi ce ne han proposto un
altro... ha lavorato benissimo... anche lui ha fatto la scelta di fare il corriere di notte, gli piace
distribuire i giornali, questo nel 2004-5... Però gli indiani hanno un'accortezza che altre etnie non
hanno... quella di preoccuparsi del posto che lasciano... è una tendenza che mi han detto anche gli altri
[agricoltori]... si preoccupano del posto che lasciano... si preoccupano del datore di lavoro... cambio
lavoro ma attenzione se vuoi io c'avrei tizio che potrebbe venire al posto mio... ti vedi di fronte un
operaio che lavora bene, che ti dice, e ti propongo lui... ovvio se è bravo come te fallo venire... poi...
questo ragazzo qui aveva 2 fratelli uno bravissimo che ha lavorava con noi copriva i buchi quando non
c'era lui e andava in ferie... e l'altro fratello è quello che vive di su... questo qua... ha la passione del
bere, ciucca un po' e ha rischiato il licenziamento anche se siamo molto pazienti... perché non sono
lavori facili e cerchi di avere il massimo della comprensione... ma abbiamo piazzato la figlia... che è
maggiorenne ha detto che sarebbe venuta volentieri... è una ragazza straordinaria... lei lavora con il
papà. Della mungitura si occupa della stalla con una precisione una cura... capisce tutto al volo e ti dà
soddisfazioni... ha grosse difficoltà a capire l'italiano... ma ha intuito... siamo contenti e il padre si
affida a lei fa da parafulmine...anche lui è bravo... sono persone che magari hanno dei vizi fuori dal
lavoro... per dire... ha rischiato il licenziamento perché è arrivato a lavorare sbronzo... ma nel lavoro in
sé quando è sobrio lo fa bene... non fa cazzate [Datore di lavoro, Prov. Parma, 01/10/2012].
In questo modo il datore di lavoro può contare sull’assunzione di un lavoratore formato e
disciplinato: l’intermediario è responsabile della formazione e della condotta del nominativo fornito
e qualora non fosse all’altezza delle aspettative agli occhi del datore di lavoro ne pagherebbe le
conseguenze, perdendo il suo ruolo e, talvolta, il posto di lavoro stesso. Nel caso di ampliamento
della forza lavoro, oltre a lavoratori formati e disciplinati, il datore di lavoro può veder garantita una
gerarchia interna, nella quale l’intermediario ricopre il ruolo di caporeparto, e assumere lavoratori
con scarsa conoscenza linguistica che difficilmente potranno lamentarsi della condizione lavorativa.
Per i fruitori degli intermediari, il lavoro come bergamino è molto ambito perché permette di
ottenere un contratto di lavoro e una casa in comodato; all’interno del quadro normativo vigente tali
caratteristiche risultano fondamentali durante la prima fase del percorso migratorio. I panjabi negli
anni ’80 e ’90 arrivavano in Italia senza documenti amministrativi attraverso viaggi rocamboleschi
via terra o via nave; dagli anni 2000 l’approdo irregolare è stato sostituito dall’arrivo via aereo con
visto turistico a cui sussegue la condizione di overstayer. I maggiori controlli dei documenti in Italia
settentrionale hanno portato alla creazione di un bacino di panjabi senza documenti amministrativi
nella zona del parco del Circeo (Latina) con dinamiche simili al caso dei Burkinabé, descritto in
questo paper. Infine, il reclutamento mediante intermediario permette di ottenere un lavoro regolare
anche senza aver prima acquisito sufficienti conoscenze della lingua e della società italiane; tale
dinamica provoca d’altra parte una dipendenza del fruitore nei confronti dell’intermediario che si
prolunga nel tempo, aggravata dall’isolamento geografico dettato dall’atomizzazione delle aziende
agricole in Pianura padana.
I mediatori sono quindi pionieri panjabi che hanno acquisito conoscenze linguistiche e del sistema
produttivo e locale italiano. Devono godere della fiducia sia del datore di lavoro sia dei fruitori, e
provvedere all’addestramento.
Anche in questi giorni che c'è crisi gli ho fatto avere un contratto indeterminato... gli indiani possono
dirmi grazie. i titolari mi chiedono perché è mio amico, perché lo conosco, perché gli trovo lavoro...
l'unica cosa che chiedo ai miei connazionali è che non voglio rotture di maroni... che mi chiamate a
casa e mi dite che mi ha lasciato a casa... vorrei che il titolare mi dicesse mandami un'altra persona...
devi dare le persone che ti chiedono... prima devi prendere quello giusto... devi dare le persone non
quelle che capitano ma quelle che veramente hanno bisogno e che hanno voglia di lavorare... se no non
ce la fai tu perdi... la seconda volta non ti chiede più se non andava bene...
E con i datori di lavoro com'è iniziata?
Sì tipo io vado al ristorante da qualche parte e gli dico se vuoi ho degli indiani da darti. Una volta...
Nel 2007 uno mi ha chiesto un cameriere... mandato e ha detto tu devi lavorare un mese... oggi
lavorano 7-8 persone indiane al ristorante [Manjit, M, separato, hindu, Ludhiana, Prov. Padova, 18-062012].
I migranti in Panjab sono generalmente agricoltori e ben conoscono le esigenze di un datore di
lavoro, essendolo loro stessi a diverse latitudini. Il sistema di legittimazione utilizzato agli occhi dei
datori di lavoro è la parentela, reale o fittizia che sia; quest’ultima è una pratica sociale frequente in
Panjab per legittimare il legame uomo-donna e nel territorio d’emigrazione assume una valenza
ulteriore. Ai datori di lavoro poco importa il reale legame di parentela, rimane il fatto che tale
legame permette la legittimazione di qualsiasi rapporto tra intermediario e fruitore agli occhi del
datore di lavoro e la deresponsabilizzazione di quest’ultimo, utilizzando la logica dei “panni
sporchi lavati in famiglia”.
Vi sono due tipi di intermediari: l’occasionale e il professionista. Il primo opera secondo quattro
tipologie di intermediazione, mentre il secondo, generalmente, si colloca all’interno dell’ultima
tipologia: 1) sostituzione temporanea: permette al mediatore di usufruire delle ferie; 2) sostituzione
permanente: permette di cambiare lavoro (il licenziamento dal posto di lavoro comporterebbe un
diretto sfratto dell’abitazione all’interno dell’azienda); 3) allargamento della forza lavoro: permette
di cambiare mansione; 4) reclutamento per azienda terza: professionalizzazione del ruolo di
intermediario.
Il sistema permette in ogni caso all’intermediario di acquisire potere simbolico all’interno del
proprio network; questo significa che l’accesso rimane legato a determinate famiglie da più tempo
sistemate nel territorio. Nel caso della professionalizzazione, oltre al potere simbolico, viene
accumulato capitale economico, mentre i fruitori possono essere anche persone al di fuori della
propria famiglia.
Inoltre, se il contratto di lavoro ha permesso l’emersione dall’irregolarità amministrativa e
l’ottenimento dei documenti, il pagamento da parte del fruitore della prestazione è assicurato; infine
se il contratto ha permesso l’arrivo diretto dall’India attraverso un decreto flusso l’importo
decuplica, superando talvolta i 20 000€, e implica una connessione con un agente in India, l’accordo
del datore di lavoro e altre figure sul territorio. Negli anni della crisi si è aperto un importante
mercato del lavoro di contratti fittizi al fine del mantenimento del titolo di soggiorno,
esclusivamente a pagamento, gestito da intermediari professionisti e slegato dalle reti familiari.
I panjabi detengono buona parte degli accessi al reclutamento nelle stalle; la concorrenza tra i
diversi intermediari è alta e, trattandosi di un lavoro particolarmente ambito, la strategia per
mantenersi sul mercato è abbassare il costo del lavoro, arrivando a salari talvolta inferiori agli 800€
mensili.
5.. Differenze tra le due forme di mediazione
In questo paragrafo confronteremo i due casi poc’anzi descritti focalizzandoci in primo luogo su
alcune differenze che abbiamo riscontrato tra essi. Ci soffermeremo dapprima sulle differenze nelle
mansioni dei mediatori informali, dovute alla tipologia di lavoro agricolo per il quale essi prestano i
propri servizi; in secondo luogo tratteremo del diverso rapporto tra permesso di soggiorno e
contratto di lavoro nei due casi; in terzo luogo analizzeremo le differenze tra le reti sociali
considerate e i diversi rapporti tra queste reti e il mercato del lavoro locale; infine, cercheremo di
capire se, nei due contesti considerati, i mediatori informali hanno dei concorrenti che li sfidino sul
terreno della mediazione di manodopera.
5.1.
Mansioni differenti
Una prima serie di differenze da descrivere riguardano le caratteristiche del lavoro agricolo nei due
contesti descritti: in particolare abbiamo individuato sei dimensioni, che ci sembrano
particolarmente rilevanti e che caratterizzano le due situazioni analizzate.
a) Lavoro senza contratto vs lavoro contrattualizzato;
b) impiego stagionale vs. non stagionale;
c) lavoro non specializzato vs specializzato;
d) trasporto a lavoro vs abitazione in azienda;
e) grosse squadre da trasportare per la raccolta vs pochi operai nelle stalle;
f) mediazione per conto di molte aziende vs. rapporto privilegiato con una sola azienda.
Nel caso dei burkinabé abbiamo un lavoro non contrattualizzato e stagionale, non specializzato e di
facile apprendimento (sebbene molto faticoso), l’alloggio distante dal luogo di lavoro e
raggiungibile solo mediante mezzo privato (gestito dallo stesso caporale), grosse squadre di operai
da trasportare al lavoro. Nel caso panjabi un lavoro contrattualizzato svolto 365 giorni l’anno,
specializzato, che richiede una formazione, continui aggiornamenti e capacità di lavorare in
autonomia; inoltre, l’abitazione è all’interno dell’azienda e nel luogo di lavoro vi sono pochi operai.
I tipi di mediazione vengono quindi influenzati dalla tipologia del lavoro: i caporali che lavorano
per la raccolta del pomodoro di solito operano al servizio di molte aziende, trasportano grosse
squadre di operai da abitazioni fatiscenti al luogo di lavoro, non si occupano della “formazione” dei
propri braccianti, procurano impieghi solitamente in nero o contrattualizzati solo in parte. I
mediatori che operano nelle stalle della Pianura Padana spesso hanno rapporti con una sola azienda,
reclutano uno o pochi operai alla volta, non si occupano del trasporto, procurano all’operaio non
solo l’impiego – quasi sempre regolare, anche se soltanto per un membro della famiglia – ma anche
l’abitazione.
Questa capacità di adattamento alle esigenze delle aziende e della produzione è probabilmente uno
dei punti di forza dei mediatori informali, in quanto tali esigenze sono spesso in contrasto con una
possibile regolamentazione e con la gestione burocratica che altre forme di mediazione
comporterebbero.
5.2.
Il mutevole rapporto tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro
La Legge l89/2002, meglio conosciuta come legge Bossi-Fini, lega il permesso di soggiorno al
contratto di lavoro. È interessante notare, quindi come, nonostante i migranti in entrambi i casi qui
analizzati abbiano tra gli obiettivi del proprio percorso di stabilizzazione sul territorio italiano
l’ottenimento e il mantenimento dei documenti di soggiorno, le due situazioni siano completamente
differenti. Il sistema d’intermediazione, quindi, viene influenzato dal mercato del lavoro locale e
dalle esigenze del reclutamento e si relaziona in maniere differenti a quanto richiesto ai migranti
dalle leggi sull’immigrazione.
Nel caso dei burkinabé, il caporale procura l’impiego, ma, trattandosi di lavoro spesso in nero o in
“grigio” (in cui solo una piccola parte delle giornate lavorate viene dichiarata dal datore di lavoro),
è difficile per il bracciante legare il proprio permesso di soggiorno a questo impiego. Il caporale,
quindi, non fa da mediatore anche per l’ottenimento del permesso di soggiorno e il lavoratore deve
cercare per esso altre vie. In particolare, quanti tra i braccianti sono richiedenti protezione
internazionale cercano attraverso ricorsi vari di conservare questo status, mentre molti tra coloro
che possiedono un Pds per lavoro subordinato spesso usano i guadagni del lavoro agricolo anche
per pagarsi un Pds in altri settori e in altre regioni, pagando mediatori o datori di lavoro altrove. Da
un lato, quindi, c’è un rapporto lavorativo “in grigio”, mediato da un caporale; dall’altro un
contratto di lavoro fittizio, con un datore di lavoro connivente (e talvolta un mediatore) che
consente di conservare il permesso di soggiorno6.
Nel caso dei panjabi, il lavoro generalmente è legato al Pds. Il lavoro contrattualizzato in una stalla
è quindi un modo non solo per ottenere un lavoro ma anche per regolarizzarsi e, grazie al contratto a
tempo indeterminato e la casa in comodato, ottenere in breve tempo il permesso di soggiorno di
lunga durata e il ricongiungimento della famiglia. La casa permette inoltre alla famiglia stabilizzata
sul territorio di ospitare parenti e conoscenti, chiedendo al datore di lavoro, o ad un datore di lavoro
locale, l’assunzione e, nel caso in cui fosse privo di documenti, la regolarizzazione. L’ottenimento
dell’impiego, nel caso di un lavoratore in possesso di Pds, in passato raramente veniva pagato,
mentre la crisi attuale porta sempre più spesso al pagamento di contratti, spesso fittizi, per
mantenere i documenti. Il pagamento della regolarizzazione rimane invece costante nel tempo e gli
introiti vengono spartiti tra datore di lavoro, intermediario, ed eventualmente altre figure.
Io conosco qua uno che è di Modena e lui quando chi ha bisogno di contratto che adesso fanno
contratto di soggiorno, adesso non si chiama più permesso di soggiorno ma contratto di soggiorno! E
fanno contratto di lavoro, finché hai lavoro ti danno il permesso. Quando scade il permesso di
soggiorno oltre non puoi fare il contratto, è una cosa proprio illegale! Ed è questo il problema! E qua
c’è proprio gente che vendono questo contratto di lavoro per 1000 euro, 2000 euro e … Se non lo
rinnovi, se per esempio il mio scade se non lo rinnovo allora scattano solo 60 giorni dopo 60 giorni
quello lì automaticamente finisce, poi un’altra volta se lui vuole farla ci vogliono altri 9000, 10000
euro! L’Italia dovrebbe essere una democrazia e invece sanno benissimo quello che c’è e non è dovuto
alle persone che comprano, ma è dovuto alle leggi, alla gente che vende sta cosa! [Tommy, M, 31
anni, sikh, Khanna (Patiala), Prov. Modena, 08-04-2013].
Questa differenza tra i due casi qui considerati è dovuta non solo alla maggiore quantità di controlli
sulla regolarità del lavoro e del permesso di soggiorno nel Nord Italia rispetto al Mezzogiorno ma
anche e soprattutto alle necessità della produzione e delle aziende. Nel caso delle stalle si tratta di
lavoro stabile e specializzato, quindi per un’azienda è importante avere rapporti di lavoro stabili e
affidabili con i propri dipendenti: il Pds serve anche per fidelizzare il lavoratore e per la sicurezza
del datore. Al contrario, nel caso della raccolta stagionale del pomodoro, il rapporto tra bracciante e
datore di lavoro è molto debole: alla fine del periodo di raccolta, infatti, gli operai e i caporali si
spostano a lavorare per altre aziende e dopo poche settimane addirittura in altre regioni; inoltre, il
lavoro non è specializzato ed è di facile apprendimento; in questo senso all’azienda interessa poco
che il raccoglitore sia regolare o meno ed essa non si occupa delle questioni legate al permesso di
soggiorno.
6
Secondo alcune inchieste (es. Botte 2009; Semi 2004), alcuni caporali possono unire alla mediazione sull’impiego
anche l’attività di mediazione relativa ai permessi di soggiorno, ad esempio attraverso decreti flussi; si tratta soprattutto
di ricerche relative a migranti maghrebini.
5.3.
Sulle “reti”: Lavoro familiare vs. squadre di soli maschi
In entrambi i casi qui considerati emerge l’importanza delle reti sociali nel mercato del lavoro. In
particolare, visto il basso grado di regolamentazione del mercato, si osserva un certo grado di
autonomia, da parte dei caporali – in quanto “nodi” delle reti che uniscono migranti e autoctoni –
nella scelta delle persone da mettere al lavoro. Sono i singoli migranti, oltre ai governi, a dare forma
alle migrazioni internazionali: le decisioni prese da individui, famiglie e comunità (spesso con
informazioni imperfette e con una gamma di opzioni a disposizione estremamente ristretta) giocano
un ruolo essenziale nel determinare il processo migratorio [Castles & Miller, 2009, p. 299].
L’approccio definito della New Economics of Migration [Massey et. al. 1993; Portes 1993] ha
sottolineato l’apporto fondamentale delle reti familiari e comunitarie nel determinare tutte le fasi del
processo migratorio e ha dato nuovo impulso a un insieme di ricerche sulle forme “etniche” di
impresa che si concretizzano all’interno degli spazi diasporici e transnazionali costruiti dalle
migrazioni, dove sono proprio le reti familiari e “comunitarie” che procurano il capitale sociale.
Allo stesso tempo l’arrivo e la permanenza dei migranti sul suolo italiano sono regolamentati dalla
legge Bossi-Fini, che lega il permesso di soggiorno al contratto di lavoro e gerarchizza i migranti
secondo l’accesso ai diritti di cittadinanza. Il concetto di stratificazione civica di Lookwood [1996],
rielaborato da Morris [2003], mette in luce come l’accesso a tali diritti possa variare a seconda dello
status legale dei migranti: dal soggiornante senza documenti, al possesso del permesso di soggiorno
a tempo determinato, per poi passare al permesso di soggiorno di lunga durata e infine
all’ottenimento della cittadinanza formale nel paese di residenza.
Lo studio dell’intermediazione ci permette di cogliere se e in che modo i mediatori e caporali
utilizzano e strutturano le reti sociali già esistenti, mettendo in luce le disparità di potere dei singoli
migranti all’interno del network e la frizione tra interessi individuali e collettivi. L’arrivo e la
sistemazione sul territorio sono infatti favoriti dalle “teste di ponte”, rappresentate dai congiunti già
insediati e dal loro inserimento in una rete più o meno fitta e coesa di relazioni con i connazionali e
i locali [Massey & Espinoza, 1997; Ambrosini, 2001] e, tra questi ultimi, gli imprenditori alla
ricerca di manodopera [Krissman, 2005]. Occorre però puntualizzare come l’associazione tra gruppi
etnici e nazionali non sia una forma naturale e disinteressata di capitale sociale [Dahinden, 2005]:
nel caso dei caporali burkinabé e, in alcuni casi, degli intermediari panjabi siamo di fronte a veri e
propri professionisti [Ahmad 2011, p.134] che offrono un servizio previo pagamento. Le reti sociali
non fondono l’interesse individuale dei diversi attori in modo armonioso ed egualitario. Esse sono
invece caratterizzate da poteri ineguali, coalizioni strategiche e collaborazioni opportunistiche in un
potere asimmetrico nel quale includere il senso d’obbligazione morale. E quella che sembra fiducia
tra connazionali è più una conseguenza della dominazione, della mancanza di alternative, o della
semplice mutua dipendenza [Sayer, 2001, p. 699].
È interessante allora descrivere le differenze tra le reti migranti e i diversi rapporti che si
costituiscono tra queste e il mercato del lavoro locale.
Per costruire le proprie squadre di raccoglitori di pomodori, i caporali burkinabé reclutano
soprattutto parenti, amici e connazionali (anche se poi magari lavorano a loro volta per caporali di
altre nazionalità). Questo garantisce al caporale e al datore di lavoro sull’affidabilità e disciplina
della squadra. Si tratta quasi esclusivamente di giovani maschi, dato che il lavoro nella raccolta del
pomodoro è particolarmente faticoso. In alcuni casi, le mogli (o altre familiari) dei caporali si
occupano della cucina per la squadra di braccianti, i quali sono in questo caso obbligati a consumare
i propri pasti pagando il caporale e la sua partner. Per il resto, nel periodo della raccolta, i braccianti
burkinabé (contrariamente, ad esempio ai rumeni, tra i quali vi sono anche delle donne) sono tutti
maschi. Va rilevato come una serie di fattori rendano particolarmente difficile per gli operai agricoli
burkinabé il ricongiungimento familiare. Fino a quando il bracciante non si è emancipato dal lavoro
agricolo, è per lui difficile far arrivare in Italia anche moglie e figli: il permesso di soggiorno non è
“sicuro”; non vi è un’abitazione adeguata agli standard richiesti per il ricongiungimento; non vi è
possibilità di impiego agricolo per le donne di questa nazionalità. In questo senso è possibile
affermare che vi sia un’influenza reciproca tra le caratteristiche del lavoro bracciantile e la
strutturazione delle reti sociali di questi migranti.
Nel caso dei mungitori panjabi, i lavoratori contrattualizzati generalmente sono uomini, ma
all’interno della cascina vive l’intera famiglia. In continuità con il passato, la mansione di
mungitore nell’allevamento vede spesso solo l’uomo assunto, ma la moglie e le altre persone
ospitate all’interno dell’abitazione sono pronte a mobilitarsi in aiuto di chi è “formalmente”
dipendente nel caso di bisogno, garantendo la continuità della produzione. Lo schema migratorio
che vede il ricongiungimento familiare della moglie, unito alla segregazione spaziale della cascina
rispetto ai nuclei abitati porta ad una dipendenza per lo meno temporanea della donna nei confronti
del marito e un irrigidimento dei ruoli patriarcali all’interno delle famiglie. Per Michael Walzer
[1992] l'apporto delle "ondate migratorie" negli Stati Uniti consiste proprio nel fatto che i migranti
recano in dono alla società d’accoglienza quei correttivi comunitari, quel supplemento affettivo del
legame sociale, che lo sviluppo del capitalismo mette continuamente in discussione. La critica di
Mezzadra [2004] all'autore, prendendo spunto dal lavoro di Honing [2001], sottolinea come
l’ispirazione “progressista” di Walzer si presti ad essere obliterata senza difficoltà in una serie di
discorsi che pongono l’accento sull’importanza che i e le migranti rivestono nel ristabilire la
vigenza di ruoli e codici sociali che sono stati messi in discussione in Occidente (e non solo) dai
movimenti degli ultimi decenni. In questo modo la legittimazione della migrazione panjabi agli
occhi dei locali è basata proprio sulla costruzione di una famiglia nella quale i ruoli, in particolare in
riferimento al genere, sono ben definiti, Il diritto al ricongiungimento famigliare all’interno
dell’arrangiamento matrimoniale, largamente maggioritario nella migrazione panjabi, mette in luce
in primo luogo come la dipendenza della moglie nei confronti del Pds del marito protragga la
subordinazione femminile all’interno delle reti.
Focalizzandoci poi sul ruolo dell’intermediario, esso non si limita al reclutamento lavorativo. Il
capitale sociale accumulato durante l’intermediazione può essere infatti investito nella
contrattazione di un matrimonio con una sposa proveniente da una famiglia con uno status più
elevato. Baljeet [Baljeet, M, coniugato, 31 anni, sikh, saini, Pla Chak (Jalandhar), Prov. di
Mantova] trovando un impiego al padre della sposa si garantisce la stessa nonostante la sua famiglia
sia “caduta in disgrazia” dopo l’arresto del padre. Allo stesso modo Navtej [Navtej, M, coniugato,
sikh, jat, Kurukshetra, Prov. di Mantova] sposa la propria figlia con l’erede del più grande
proprietario terriero della città di provenienza. La mediazione mette in luce quindi una
gerarchizzazione e genderizzazione dei network; i matrimoni arrangiati transnazionali divengono
una modalità di negoziazione dei confini [Mooney, 2006, pp. 389-390] e allo stesso tempo il diritto
al ricongiungimento familiare perpetua la subordinazione della figura femminile all’interno del
network.7
In entrambi i casi qui considerati ad emergere è un’autonomia della migrazione nel reclutamento
lavorativo, effettuato dal caporale e dall’intermediario, che sceglie chi mettere al lavoro. Le reti non
vengono quindi determinate solo dai fenomeni strutturali come il mercato del lavoro e le politiche
migratorie; sebbene ne vengano influenzate: le norme “formali” influenzano la costruzione e le
caratteristiche della figura degli intermediari, nonché la conformazione delle reti; allo stesso tempo
contribuiscono alla formazione di determinate identità e soggettività tra i migranti, spingendo verso
una posizione privilegiata i pionieri stessi della migrazione e, più in generale, chi ha una
conoscenza approfondita del territorio [Qureshi et- al., 2012, p.8].
Il contratto del lavoro all’interno del quadro istituzionale influenza la tipologia d’intermediazione,
mentre la segmentazione [Ambrosini, 2005, p.59] e razzializzazione del mercato del lavoro in un
periodo di crisi occupazionale rendono la figura dell’intermediario fondamentale per vedere
garantito un lavoro.
7
Occorre in ogni caso ribadire come l’acquisizione della cittadinanza formale e le scelte dei figli della migrazione
panjabi stanno mettendo fortemente in discussione i ruoli all’interno delle reti.
5.4. I concorrenti dei mediatori informali
Un aspetto interessante da esplorare, anche con un intento comparativo rispetto alla situazione
europea brevemente descritta nel paragrafo 3, riguarda i possibili “concorrenti” dei mediatori
informali nei due casi considerati.
Bisogna qui tenere in considerazione il fatto che, dalla seconda metà degli anni Novanta, le aziende
agricole italiane non sono obbligate a utilizzare i centri per l’impiego pubblici per l’assunzione dei
propri dipendenti (la legge 608/1996 abolì le commissioni comunali di collocamento e sancì la
liberalizzazione del mercato del lavoro agricolo); d’altro canto, come detto, la mediazione informale
è considerata illegale e, dall’agosto 2011, essa non è più un “semplice” illecito amministrativo, ma
un reato penale. Le aziende agricole, quindi, dovrebbero rivolgersi a mediatori “formali” e “legali”
(le agenzie di lavoro interinale) o ad altre aziende (o cooperative) a cui subappaltare parte delle
mansioni svolte in azienda. Infine, lo Stato italiano, attraverso i decreti flussi annualmente emanati
per il lavoro stagionale, offre un ulteriore canale che le aziende possono utilizzare per assumere i
propri dipendenti.
In questo quadro, quali sono (se ci sono) i canali alternativi ai mediatori informali che le aziende da
noi considerate utilizzano?
I centri per l’impiego pubblici non sono utilizzati né dai datori di lavoro pugliesi e lucani né da
quelli della Pianura Padana: essi non vengono reputati dagli imprenditori agricoli in grado di
garantire l’efficienza e la rapidità che invece i mediatori informali offrono. In questo quadro, va
segnalato il fatto che, nel caso della Puglia e della Basilicata, negli anni settanta e ottanta gli uffici
di collocamento in una certa misura venivano utilizzati per “contrastare” i caporali (all’epoca
italiani): l’assunzione dei braccianti agricoli avveniva infatti nel quadro delle commissioni comunali
di collocamento, delle quali facevano parte rappresentanti delle organizzazioni sindacali, secondo il
criterio della “chiamata numerica” e non della chiamata “nominale”. Negli ultimi anni, è stata
soprattutto la Regione Puglia a tentare di reintrodurre il collocamento pubblico per l’assunzione dei
braccianti agricoli stranieri impiegati per le “grandi raccolte” (il pomodoro da industria, ma anche le
angurie nel Salento e le olive nel Nord Barese), dapprima con la prima Giunta Vendola (2006) e poi
nuovamente dopo lo sciopero di Nardò dell’agosto 2011 e le sollecitazioni della Cgil. La Regione
ha istituito a questo fine degli “elenchi di prenotazione” dei braccianti agricoli nei centri per
l’impiego, dai quali le aziende interessate possono essere incentivate (ma mai obbligate) ad
assumere i braccianti. Tuttavia, questo strumento normativo è stato finora utilizzato in misura
minima e non è riuscito a “competere” con la mediazione operata dai caporali. In maniera simile, il
collocamento pubblico non è un concorrente per i mediatori negli allevamenti padani, dove la
maggior parte del reclutamento è sempre stato gestito in maniera informale, anche quando i
mungitori erano di nazionalità italiana e il reclutamento avveniva attraverso il “vaccaro storico”
dell’azienda, che reclutava attraverso reti e legami familiari.
I mediatori informali panjabi hanno invece due possibili concorrenti, sebbene anch’essi poco
utilizzati (ma in misura maggiore rispetto a quanto avviene per la raccolta del pomodoro in Puglia e
Basilicata). In primo luogo, vi sono i decreti flussi per lavoro stagionale o subordinato. Se nessun
produttore di pomodori del Sud Italia sembra reclutare i braccianti necessari per la raccolta
attraverso i decreti flussi (abbiamo raccolto testimonianze di aziende che assumono attraverso
decreti flussi, ma non per le mansioni legate alla raccolta del pomodoro), gli imprenditori padani
fanno un uso maggiore di questo strumento. Tuttavia, in sostanza la mediazione informale non
viene del tutto scalzata dai “flussi”: accade infatti che il mungitore/mediatore indichi al proprio
datore di lavoro il nuovo dipendente (sovente un suo familiare) da assumere e l’imprenditore
formalizzi questa assunzione attraverso l’indicazione nominativa nella domanda di assunzione fatta
attraverso il decreto. In questo caso, la mediazione informale offre la fiducia necessaria per “oliare”
il meccanismo burocratico (per un caso simile, cfr. Michalon, Potot, 2008) e spesso il costo per
ottenere il permesso di soggiorno sicuro viene pagato fino a 20 000€. Va segnalato peraltro che i
mungitori, dall’ultimo decreto flussi (2014), non possono essere assunti nell’ambito delle “quote”
per lavoro stagionale, ma solo in quelle per lavoro subordinato. In passato invece era prassi
richiedere un lavoratore stagionale per facilitare l’arrivo di un “parente” del lavoratore già assunto;
il contratto spesso era fittizio mentre il datore di lavoro riceveva un indennizzo per l’espletamento
dell’iter burocratico. In questo modo era infatti possibile richiamare parenti collaterali (fratelli
maggiorenni, cugini ecc) non previsti dalla normativa in merito al ricongiungimento familiare. I
decreti flussi in questo modo divengono più un modo per regolamentare, legalizzare e allo stesso
tempo aumentare il prezzo dell’intermediazione e l’importanza del ruolo del mediatore stesso.
In secondo luogo, vi sono cooperative che operano in subappalto per le aziende: si tratta di uno
strumento che sembra si stia diffondendo in vari territori del Nord Italia, in agricoltura e non solo
(cfr. ad esempio Rouen, Claudon, 2013, sulla vendemmia in Piemonte e il settore serricolo nel
veronese). La Regione Lombardia con la delibera n°6839/2008 ha stanziato 550 000 euro per
coprire i finanziamenti delle cooperative che offrono servizi di sostituzione agricola (in gran parte
gli stessi sostituti sono panjabi); tuttavia, queste cooperative rimangono un costo per i datori di
lavoro che preferiscono di gran lunga il reclutamento informale perché privo di spese. Nelle aziende
lattiero-casearie da noi prese in considerazione, talvolta vengono utilizzati soci di cooperative
(anch’essi di solito di nazionalità indiana) per fare sostituzioni di mungitori temporaneamente
assenti, ad esempio perché in ferie. Si tratta in alcuni casi di cooperative gestite da altri allevatori,
alle quali si rivolgono i mungitori indiani alla ricerca di un impiego, in alternativa ai mediatori
informali. In questi casi, il dipendente impiegato attraverso la cooperativa non abita in azienda,
almeno fino all’assunzione “stabile”. Non abbiamo incontrato casi di questo tipo in Puglia e
Basilicata.
Infine, non abbiamo registrato, in nessuno dei due territori, casi di mediazione operata da agenzie di
lavoro interinale né da imprese non cooperative (anche estere) che operano in subappalto,
contrariamente a quanto accade in altre realtà europee (cfr. ad es. Mésini, 2013).
In sostanza, i mediatori in entrambi i casi operano in regime di quasi-monopolio e i loro principali
concorrenti sono altri mediatori informali; la concorrenza avviene solitamente attraverso
l’abbassamento del costo del lavoro e talvolta della mediazione.
6. Analogie tra le due forme di mediazione
Dopo aver analizzato alcune delle differenze tra le due forme di intermediazione informale di
manodopera qui prese in considerazione, proviamo ora a descrivere alcuni aspetti che le
accomunano. Ci pare interessante soffermarci soprattutto su tre punti: l’organizzazione delle filiere
agro-alimentari, il rapporto tra aziende e mediatori e la questione della fiducia.
Rispetto alle filiere agro-alimentari (o agro-industriali), molti degli studi realizzati a livello
internazionale negli ultimi anni (es. van der Ploeg 2009) concordano sul fatto che, negli ultimi 25
anni, si è andato strutturando un sistema che vede in molti casi fortemente penalizzati i produttori
agricoli, a scapito delle grosse corporations che acquistano e vendono i prodotti alimentari, sia nel
caso di prodotti freschi, sia – come nei due casi da noi analizzati – nel caso di prodotti trasformati8.
In particolare, le catene della grande distribuzione organizzata hanno un grosso potere di mercato (il
“buyer’s power”), che determina in larga parte non solo il prezzo corrisposto ai produttori agricoli
per i loro prodotti, ma anche, spesso, le modalità di produzione e di consegna e gli standard relativi
alla qualità e alla sicurezza dei prodotti (AGCM 2013).
L’analisi delle due filiere non è l’oggetto di questo paper; tuttavia, in entrambi i casi è possibile
ravvisare una pressione al ribasso sui profitti delle imprese agricole (nel caso pugliese-lucano) e
lattiero-casearie (nel caso padano) e una ristrutturazione dell’organizzazione della produzione che
spingono verso l’abbassamento del costo del lavoro. In entrambi i casi, dunque, l’utilizzo di
mediatori informali risponde anche alla necessità di adeguarsi alle pressioni delle filiere attraverso
una riduzione del costo del lavoro e una maggiore flessibilità da parte dei dipendenti.
8
Nel caso della Pianura Padana, il latte prodotto dalle aziende da noi considerate viene conferito a strutture cooperative
per essere trasformato in Grana Padano o in Parmigiano Reggiano e viene in seguito commercializzato attraverso vari
tipi di canali; nel caso della Puglia e della Basilicata, il pomodoro raccolto viene poi venduto (attraverso le
Organizzazioni dei Produttori) a industrie conserviere situate soprattutto in Campania e, in misura minore, in Puglia e
Basilicata, le quali producono conserve di pomodoro (pelati, passate, concentrati, sughi pronti, ecc.) talvolta a marchio
proprio, talaltra per altri marchi.
Tuttavia, va segnalato come alcune forme di organizzazione delle filiere possano tutelare
maggiormente le aziende agricole. Nel caso della produzione di formaggi nella Pianura Padana, ad
esempio, le aziende sono tutelate in due modi: da un lato, vi è la stessa “forza” del marchio
(soprattutto nel caso del Parmigiano Reggiano) che conferisce ai produttori agricoli un certo potere
di contrattazione anche dei prezzi del latte; dall’altro lato, vi sono casi di caseifici che optano per la
vendita diretta di almeno una parte della propria produzione (senza passare cioè per le catene dei
supermercati o altri mediatori), il che consente loro di controllare maggiormente l’organizzazione
della filiera. In questi casi, le aziende subiscono in misura minore la pressione degli acquirenti dei
prodotti; tuttavia, nelle aziende di questo tipo osservate nel corso di questa ricerca, le forme della
mediazione non sono apparse significativamente diverse dalle altre.
Nel caso della produzione di pomodoro nel Sud Italia, l’organizzazione della filiera rende quasi
impossibile per i produttori di pomodoro praticare altre forme di vendita del prodotto, a parte casi –
davvero minoritari – di piccole e piccolissime aziende che trasformano e vendono in proprio le
conserve di pomodoro. Per i produttori agricoli, quindi, si aprono poche altre strade: la
meccanizzazione della raccolta (che pure è resa difficile dalla stessa organizzazione della filiera,
cfr. Perrotta 2014b) o l’abbandono del pomodoro a favore di altri prodotti o altre attività agricole,
per i quali la pressione della filiera sia meno penalizzante per l’azienda agricola. È peraltro
interessante notare come in Emilia (nelle province di Parma, Piacenza e Ferrara) la filiera del
pomodoro da industria sia organizzata in maniera differente dal Sud Italia e la raccolta sia
interamente meccanizzata da ormai vent’anni (Perrotta 2014b).
Una seconda analogia riguarda il rapporto tra aziende agricole, mediatori e dipendenti di origine
non italiana: come abbiamo visto, in maniere diverse nei due casi considerati, l’attività dei
mediatori riesce in maniera “efficiente” a offrire un servizio fondamentale per l’impresa agricola, in
merito alla fornitura di operai nel momento in cui questi siano necessari. È possibile quindi
affermare che, attraverso i mediatori, le necessità delle aziende e le caratteristiche delle reti dei
migranti vengono ad adattarsi a vicenda, con poche spese per le imprese e in maniera più o meno
penalizzante per i lavoratori migranti. Nei due casi considerati, e pur in presenza di un
peggioramento delle condizioni di lavoro e di un abbassamento dei salari, la filiera del latte sembra
consentire ai lavoratori delle stalle condizioni di vita e di lavoro meno penalizzanti rispetto alla
filiera del pomodoro da industria: pur vivendo in condizioni di seclusione (Gambino 2003, Perrotta,
Sacchetto, 2013) nelle abitazioni adiacenti alle stalle, infatti, i mungitori panjabi ottengono di solito
un permesso di soggiorno, una abitazione stabile e la possibilità di ottenere ricongiungimenti
familiari, mentre i raccoglitori di pomodoro burkinabé abitano in case abbandonate o baracche nelle
campagne, lavorano sovente non in regola e non possono legare il permesso di soggiorno al proprio
impiego in agricoltura. Queste differenze non sembrano dovute tanto alle caratteristiche delle reti
(rispettivamente panjabi e burkinabé) o alla “qualità” dei mediatori, bensì, come abbiamo provato a
mostrare, alle caratteristiche del lavoro svolto e delle filiere agricole e al contesto economico nel
quale queste filiere sono inserite.
Un’ultima questione da affrontare riguarda il tema della fiducia. In entrambi i casi analizzati, infatti,
è possibile notare come i mediatori operino in una situazione di monopolio di fatto del mercato del
lavoro e dell’intermediazione. Né i centri per l’impiego, né le agenzie di lavoro temporaneo, né
eventuali cooperative di servizi riescono a effettuare in maniera efficiente l’intermediazione tra
dipendenti e imprese; inoltre, se nelle aziende lattiero-casearie della Pianura Padana talvolta gli
imprenditori utilizzano i decreti flussi per reclutare i mungitori direttamente in India, questo avviene
soltanto grazie alla mediazione preventiva di alcune persone di fiducia che individuano gli aspiranti
migranti utilizzando poi i decreti flussi per formalizzare le assunzioni: in questo caso, i mediatori
informali offrono l’ingrediente fondamentale della fiducia per oliare i meccanismi formali dei
decreti governativi.
Il ruolo dei mediatori informali, dunque, seppur espletato in maniere differenti, appare quasi
insostituibile. L’informalità sembra essere un ingrediente fondamentale nella mediazione di
manodopera in agricoltura: se questo viene spesso dato per scontato e appare quasi ovvio in
relazione al mercato del lavoro del Mezzogiorno d’Italia, dove l’informalità è considerata la regola,
meno ovvio è invece constatare quanto i mediatori informali siano pressoché insostituibili in una
delle filiere agro-alimentari più rinomate del Nord Italia, quella del Parmigiano Reggiano e del
Grana Padano.
A questo proposito, è possibile ipotizzare che la pervasività della mediazione informale non sia
dovuta alle caratteristiche dell’economia del Mezzogiorno rispetto a quella del Nord, ma alle
caratteristiche assunte negli ultimi anni dalle filiere agro-industriali e in particolare alla necessità
che i produttori agricoli hanno di adattarsi alle pressioni che gli acquirenti dei prodotti fanno in
merito ai prezzi dei prodotti e alla quantità e qualità della produzione: per questo, è necessario non
solo diminuire il costo del lavoro – attraverso l’assunzione di lavoratori migranti disponibili a bassi
salari e a flessibilità di orari e tempi di lavoro – ma anche realizzare un’organizzazione delle
assunzioni “just in time”, che corrisponda alle esigenze dell’azienda, che si tratti di trasportare in
pochi minuti una squadra di raccoglitori su un campo di pomodoro o di sostituire o affiancare
tempestivamente un mungitore.
7. Conclusioni
In un saggio del 1979 relativo ai “pivot” asiatici nelle fonderie inglesi – cioè operai che fanno
assumere connazionali e in questo modo acquisiscono una posizione privilegiata in fabbrica e nel
reparto, figure non dissimili dai mediatori qui analizzati – si ipotizzava che questo tipo di
mediazione emerge qualora si verifichino tre elementi: in primo luogo, i migranti possono accedere
solo a determinate mansioni nel contesto produttivo; in secondo luogo, i migranti sono isolati sul
territorio, conoscono poco la lingua e il paese di arrivo; in terzo luogo, i meccanismi di
reclutamento non sono burocratizzati, bensì informali, e non ci sono filtri “all’entrata”, permettendo
così il controllo da parte dei mediatori migranti (Brooks, Singh 1979).
I due casi da noi analizzati – quello dei caporali burkinabé nella raccolta del pomodoro da industria
in Puglia e in Basilicata e quello dei mediatori panjabi nell’allevamento bovino nella Pianura
Padana – sembrano confermare questa ipotesi. Un aspetto ulteriore da sottolineare riguarda, in
entrambi i casi, la crescente pressione delle filiere agro-alimentari sulle aziende agricole, in
relazione non solo ai costi del lavoro ma anche all’organizzazione stessa della produzione e alla
qualità e sicurezza dei prodotti.
Certo, tra i due casi vi sono notevoli differenze, come abbiamo provato a descrivere, e la situazione
lavorativa e abitativa dei raccoglitori di pomodoro burkinabé appare molto più penalizzante di
quella dei mungitori panjabi, sotto diversi punti di vista: la qualità dell’abitazione, la possibilità di
ottenere un permesso di soggiorno e di richiedere il ricongiungimento familiare, il livello dei salari,
ecc. Tuttavia, abbiamo notato come in entrambi i casi la mediazione di manodopera in agricoltura
abbia una componente di informalità preponderante e ineliminabile. Se nel caso dei caporali questo
aspetto è più noto (attraverso le denunce della stampa, anche di casi di “schiavismo”, e attraverso
alcune recenti ricerche), non dissimile appare, sotto questo punto di vista, il caso dei mediatori
panjabi. Non solo i mediatori informali appaiono “dominare” i due mercati del lavoro descritti, ma
anche nei rari casi in cui le aziende utilizzano tipi di mediazione “formali” (decreti flusso,
cooperative), i mediatori informali restano indispensabili per garantire quella componente di fiducia
necessaria per oliare il rapporto tra imprese e dipendenti migranti.
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