I rapporti tra azionista pubblico e società partecipata

Transcript

I rapporti tra azionista pubblico e società partecipata
5/2009
Note e Studi
I rapporti tra azionista pubblico e società partecipata
Berardino Libonati
Relazione al Convegno Assonime-LUISS
“Le società pubbliche tra Stato e mercato:
alcune proposte di razionalizzazione della disciplina”
Roma, 13 maggio 2009
I rapporti tra azionista pubblico e società partecipata
5 / 2009
La mia relazione ha come oggetto, in buona sostanza, il comportamento legittimato e/o
dovuto dell’azionista pubblico.
La risposta – e chi s’intende di diritto commerciale capirà subito la sostanza di quello
che vengo dicendo – è al limite del banale: l’azionista pubblico di società a
partecipazione pubblica deve semplicemente fare l’azionista. E i suoi poteri e doveri
sono quelli di ogni azionista.
Viene allora da chiedersi perché gli organizzatori di questo convegno abbiano posto
questo problema. Ed anche qui la risposta è facile: perché in materia corrono molti
equivoci.
1.
La società per azioni è – nell’ordinamento giuridico vigente – un modello tipico
di organizzazione dell’investimento e del finanziamento di un’attività economica
esercitata in forma di impresa.
Ora, l’esercizio di attività economica organizzata in forma d’impresa non equivale ad
esercizio di attività economica tout court, come pure nel linguaggio corrente si finisce,
sbagliando, con l’enunciare. Equivale ad esercizio di attività economica organizzata
finalizzata alla creazione, almeno in tesi, di utili; equivale ad un congegno organizzativo
di attività economica nel quale si immette ricchezza affinché, sempre almeno in tesi
(poi le cose possono anche andare male), si produca ricchezza maggiore.
Ebbene, è così quando un’attività economica viene organizzata ed esercitata ai fini
pubblici? Sicuramente no. L’interesse pubblico può non coincidere, e normalmente non
coincide con lo scopo di lucro. E’ mirato infatti, per principio, a fornire un servizio, un
vantaggio ai cittadini, indipendentemente dal loro costo. Ovvio che se l’attività
economica svolta a fini pubblici copre quanto meno i suoi costi è meglio: ma ciò è un
auspicio, non una funzione.
Ne discende che in una prospettiva teorica l’esercizio di attività economica a fini
pubblici non dovrebbe a rigore mai essere svolta nella forma della società per azioni,
perché l’oggetto e le finalità tipiche non vi sono congrue. Altri modelli operativi
dovrebbero invece essere seguiti.
2.
Eppure, l’intervento pubblico avviene frequentemente ricorrendo al modello
della società per azioni.
Probabilmente ciò è perché la società per azioni è, oggi, il modello più affinato di
gestione di impresa. E ancora perché ricorrendovi vi è modo di attrarre, per
investimento o finanziamento, ricchezza privata.
2
I rapporti tra azionista pubblico e società partecipata
5 / 2009
Nulla quaestio. Il socio di una società per azioni è per principio anonimo; nulla si
oppone dunque a che sia lo Stato o un ente pubblico. Ma ci sono due principi di vertice
che vanno comunque rispettati.
Il modello giuridico di organizzazione di attività economica in forma d’impresa che ho
poc’anzi descritto si fonda su una regola applicativa di immediata percezione. Giacché
la produzione di ricchezza maggiore di quella investita è la funzione del modello,
l’ipotesi concreta nella quale tale funzione non sia concretamente rispettata va
immediatamente eliminata. E ciò per un’esigenza privatistica, di tutela della raccolta del
risparmio nell’attività d’impresa, tanto sentita nell’ordinamento che chi non la rispetta è
colpito addirittura da norme penali (e si veda infatti la disciplina della bancarotta); e
ancora per un’esigenza di maggiore respiro, ravvisabile nel fatto che giacché il modello
di attività economica organizzata in forma d’impresa è costruito non per una isolata
applicazione, ma nella primaria attenzione al contesto nel quale l’attività in parola viene
esercitata, cioè il mercato concorrenziale, ove l’impresa in perdita non venisse
eliminata – ma salvata per iniezione ripetuta di capitale pubblico al fine di soddisfare
comunque l’interesse generale dove lo si ritenga preminente – il mercato stesso ne
verrebbe distorto, perché il gioco concorrenziale sarebbe inevitabilmente alterato dal
fatto che taluni concorrenti, ove perdano, devono allontanarsi davanti ai vincenti,
mentre altri invece avrebbero modo di restare, e continuare, inquinando il sistema,
anche quando risultino perdenti. Come non è poi consentito ad es. della legislazione
comunitaria, che non a caso condanna gli aiuti di stato.
Il mio immaginario azionista pubblico dovrebbe essere dunque ligio ad una assai
semplice linea comportamentale: mettere in liquidazione la società quando
ripetutamente in perdita; o forse, a maggior rigore, nemmeno avventurarsi in un’attività
di impresa quando il budget si mostri sistematicamente in negativo. Del resto – ripeto la società per azioni non è il solo modello di esercizio di attività economica. L’ente
pubblico, specie con riserva di esercizio in un determinato settore che si riconosca di
interesse generale, è cosa nota e utilizzata da sempre.
3.
La relazione che mi è stata affidata è tuttavia immaginata perché il mondo
corrente è più complesso; ed occorre confrontarvisi.
Due allora le osservazioni.
L’art. 2373 cod. civ. sancisce che la deliberazione approvata con il voto di soci che
abbiano un interesse in conflitto con quello della società è impugnabile. L’interesse
3
I rapporti tra azionista pubblico e società partecipata
5 / 2009
della società non può discostarsi dal rispetto del modello operativo di esercizio di
attività economica organizzata in forma d’impresa, che poi ne costituisce l’oggetto
tipico. L’azionista pubblico non può deviare da tale linea comportamentale; ove intenda
perseguire nella società in parola un interesse, seppure di carattere generale, in
conflitto con quello che tipicamente l’adozione di quel modello gli impone, cade
nell’illecito; e l’ordinamento ne sanziona le conseguenze. In maniera ormai anche
marcata: non solo la delibera presa nel perseguimento di un interesse in conflitto con
quello riferibile ad un modello d’impresa è impugnabile, ma - come si apprende da
Cass. S.U., 27 febbraio 2008, n. 5083 (ordinanza) - la Procura della Corte dei Conti ha
ritenuto ad es. sussistere la responsabilità amministrativa di un assessore regionale
che come rappresentante dell’azionista pubblico di maggioranza aveva imposto il
perseguimento di indirizzi incompatibili con il raggiungimento di risultati positivi
dell’esercizio. L’interesse pubblico deve rispettare dunque i principi del modello
giuridico prescelto, e non viceversa; e il rappresentante del pubblico potere che ignori
tale regole incontra sanzione.
Le cose non sono molto diverse a livello gestionale. L’art. 2381, 5° comma cod. civ.
stabilisce che gli amministratori delegati curano l’assetto organizzativo, amministrativo
e contabile affinché sia adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa; l’art. 2381,
4° comma cod. civ. stabilisce che gli amministratori non esecutivi valutano
l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società. Il
referente è insomma, per principio, l’esercizio di un’attività di impresa, su cui si
commisura l’adeguatezza della struttura della società in parola, che non può non
considerarsi organizzata in maniera inadeguata quando sistematicamente in perdita. E
la strada da seguire è puntualizzata dalla legge. In situazioni del genere gli
amministratori dovranno convocare l’assemblea esponendo le perdite e rimettendo al
socio, privato o pubblico che sia, la decisione da prendere, che non potrà poi, per
restare nel lecito, che allinearsi con quanto già detto.
Vi è di più. Ove l’ente pubblico socio imponga un proprio interesse (eventualmente a
carattere generale) nella società partecipata, l’ente pubblico sarà responsabile nei
confronti dei soci e dei creditori della società partecipata per violazione dei principi di
corretta gestione societaria e imprenditoriale, ai sensi dell’art. 2497 cod. civ. Non
potendosi poi nemmeno dimenticare a questo riguardo il ben preciso orientamento
della Corte di Giustizia della Comunità Europea, fermamente contrario all’esercizio
discrezionale e/o immotivato di poteri speciali dello Stato in punto di limiti alla
assunzione di partecipazioni rilevanti in società a partecipazione pubblica o di
opposizione a patti parasociali nelle stesse ecc. (v. Corte C.E. , 26 marzo 2009, C326/07).
4
I rapporti tra azionista pubblico e società partecipata
5 / 2009
Con una quarta osservazione, se si vuole elementare. La società per azioni, come
dicevo, è organizzazione di investimento e finanziamento di attività economica
esercitata in forma d’impresa. Opera fruendo di raccolta di risparmio e godendo di
credito: entrambi trovando tutela anzitutto per il rispetto puntuale delle discipline che ho
accennato. La presenza del socio pubblico, e della sua potenzialità per così dire
negativa, dovrebbe allora essere congruamente pubblicizzata a priori, per sottolineare
il maggior rischio che si corre, in un sistema di doverosa trasparenza.
4.
Il quadro può sembrare esageratamente semplicistico, o esageratamente
preclusivo, ma non è così. La polifunzionalità dell’atto amministrativo e l’onnipotenza
della legge non devono confondere. Certamente società per azioni possono nascere
da atto amministrativo o per leggi; certamente l’iniziativa pubblica è preziosa in
momenti o in contingenze particolari. Ma la prospettiva, per ciò che qui ci occupa, non
cambia. Il modello giuridico di società di società per azioni oggi vigente anche per la
società a partecipazione pubblica è quello che ho delineato, con la sola possibile
modifica della struttura organizzativa applicabile alla nomina degli amministratori e dei
sindaci, che ai sensi dell’art. 2449, e solo quando la società non faccia ricorso al
mercato di rischio, può essere attribuita direttamente allo Stato socio, mentre quando
la società fa ricorso al mercato di rischio i diritti amministrativi dello Stato socio
possono essere rappresentati da una particolare categoria di azioni. Gli amministratori
e i sindaci così nominati, comunque, sono tali a tutti gli effetti della disciplina del codice
(lo puntualizza espressamente l’artt. 2449, 2° comma cod. civ.), mentre lo Stato
azionista non acquisisce prerogative ulteriori di quelle proprie di ogni azionista, se non
quella di poter revocare direttamente l’amministratore che si sia direttamente nominato.
5.
E’ immaginabile infine uno statuto speciale per le società a partecipazione
pubblica? Certamente. Dovrebbe essere incentrato sull’affermazione e regolazione di
due principi.
a)
Se la società deve operare in un mercato concorrenziale, se cioè la
società non si trovi in regime di monopolio legale, il rispetto delle regole di
mercato, costituzionalmente garantito e tutelato dalla C.E., deve essere
totalmente ribadito.
b)
Vi potrà essere deviazione anche totale delle regole privatistiche. Nulla
vi si oppone. Ma ciò dovrà avvenire previa promulgazione di legge ad hoc
sufficientemente dettagliata, e in piena trasparenza operativa, cioè
pubblicizzando, anche con creazione di uno speciale settore nel registro delle
imprese, che non si tratta di società per azioni, ma di cosa fondamentalmente
5
I rapporti tra azionista pubblico e società partecipata
5 / 2009
diversa. E l’optimus sarebbe poi che il drenaggio di capitale privato in quegli
organismi avvenisse non tramite azioni ma tramite titoli di debito.
6