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A Clichy sous-Bois ci sono Bouna,
Zyed, Marceline e lo zio
Mi chiamo Lena, parlo italiano e vivo a Parigi, non
troppo lontano da Clichy sous-Bois. Io e il mio amico
Zyed comunichiamo in francese, anche quando dobbiamo dire qualcosa alla maestra. Questa notte voglio
scappare di casa. Ho nove anni. Mia zia Marceline porta
un nome francofono, ma è italiana e sta cercando di crescermi. Non fa altro che ripetere a Zyed che sono curiosa, porto allo sfinimento la gente e quando scappo sono
peggio di un gatto. Torno quando mi pare. Zyed sorride
un po’, si gira a guardarmi e non dice niente. Non fatevi
strane idee, non c’è nessuna storia d’amore o roba del genere. Ho l’anima zingara. Di solito Zyed, quando gli dico
che sono stufa di vederlo, tace e se ne torna a casa sua a
mangiare roba speziata e cipolle che gli fanno puzzare le
ascelle. La cosa particolare è che io ho nove anni, 11 mesi
e 11 giorni, che sembra l’11 settembre, scarogna birba.
Lo zio è alto e grosso come un ippopotamo e ha un certo
numero di anni anche lui, ma non mi ricordo quanti. Un
sacco, comunque: al punto che trent’anni fa non aveva
nemmeno la pancia. Cucina stuzzichini e varie crocchette
unte, tutta la notte, al Café du commerce, un bar che ha
messo in piedi un suo amico africano. Quando fa notte
che è quasi di nuovo luce – una mezza luce – se c’è ancora qualcuno in giro nel Café du commerce, intrattiene le
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Lena e il poeta
tribù notturne con delle danze in tutù ubriaco come un
cammello che passeggia in un fiordo norvegese. Che non
vuol dire niente. Ogni tanto per arrotondare porta in giro
i turisti italiani, li porta al biliardo a bere la birra. Per il
resto me ne sbatto delle porcherie che fanno gli adulti e
Marceline deve smetterla di tenermi con le catene. Questa notte scappo. Il mio migliore amico si chiama Voc. È
un vocabolario. Il mio secondo migliore amico è Zyed.
Il terzo mio miglior amico è Scappare. Parigi, così come
la vedo da qui, è bella perché ci sono i locali con il kebab
e la gente grida alla mattina, s’insulta un po’ a mezzodì, quando il sole fa puzzare le ascelle a Zyed, parlotta
nel pomeriggio (caldo o freddo che sia) davanti al China
(che sarebbe il ristorante cinese) e ulula quando la luna
sale rotonda come un piccolo faro, quando io fingo di
sonnecchiare nel lettuccio al terzo piano della palazzina
dove abito. Intanto per le vie e davanti ai locali sfila gente
con il motorino, camminano ragazze, fumano i giovani
e c’è sempre un tizio che io chiamo Bouna, perché ogni
tanto qualcuno grida: «Bouna!». Quando gridano così
sembra una parola d’ordine, e lui sparisce dalla circolazione. È un immigrato clandestino, mi ha detto lo zio.
Parla molto bene l’italiano, perché è passato dall’Italia e
ci è rimasto molto tempo. È goffo. Viene dal Ghana. Una
volta si è avvicinato mentre sgranocchiavo un lecca lecca
giga al lampone. Si è abbassato e mi ha dato una carezza
e ho sentito il fiato di Bouna. Ragazzi, il fiato di Bouna è
come le alghe marce, oppure come i crauti quando apri
il frigorifero. Lui ringhia sempre dal bar le cosacce alle
giovani e forse è per questo che Marceline mi consiglia
sempre di non avvicinarmi troppo a lui. Viene dal Ghana.
«Whats’up? Que est-ce que tu fais?», dice a due bambine
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Lena
sicuramente più vecchie di me che passano da lì. E poi
grida porcherie e altre cose, prima di esclamare, con un
fraseggio italiano dall’accento africano: «Porco mondo!».
Così Marceline commenta questo grido finale sussurrandomi che il mondo è porco, quando per sopravvivere devi
fuggire su un barcone. «Il faut que j’aille d’ici, porco mondo», grida Bouna.
Ieri Marceline mi ha spiegato che banlieue e periferia è
circa dove abitiamo noi. Ho capito che periferia significa
un gran casino, io in giro per la strada quando compro
lecca lecca giga dal tizio del kebab, rifilandogli una raffica
di pedate prima di guizzare via e Bouna l’afro-italiano che
grida “porco mondo”. Non sapevo di abitare in periferia.
A me questo pare il centro del mondo, anche se Parigi
mi annoia, perché al metrò fanno sciopero e questa storia gira per tutte le capitali dell’Europa. La maestra mi ha
detto che in Svizzera, dove sono tutti ricchi e non ci sono
neanche le periferie, una volta è fallita anche la compagnia
aerea e adesso c’è un sacco di gente nel mondo che farà
fallire anche le banche, così agli svizzeri rimarranno solo la
cioccolata e Heidi. E dopo, da lì, nasceranno le periferie.
In Svizzera puoi vivere anche se parli italiano. Gli svizzeri
non hanno una lingua, lo “svizzero”. Ne hanno quattro.
Allora non scappo in Svizzera. Meglio scappare più giù.
Nel Ghana, da dove viene Bouna. No, scherzo, dai.
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