RASSEGNA STAMPA

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RASSEGNA STAMPA
RASSEGNA STAMPA
martedì 13 gennaio 2015
L’ARCI SUI MEDIA
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L’ARCI SUI MEDIA
Da Avvenire del 13/01/15, pag. 14
Violenza contro le donne, consultazione flop
«E’ difficile esporsi su un tema tanto delicato e sensibile, che tocca la profondità delle
relazioni». Prova a giustificare così, la consigliera del Presidente del Consiglio per le pari
opportunità, Giovanna Martelli (Pd), il sostanziale flop della consultazione pubblica sul
Piano d'azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere, per la cui attuazione
il governo ha investito trenta milioni di euro in tre anni, di cui 20 spesi tra il 2013 e il 2014,
prima quindi di aprire il dibattito ai cittadini. Forse anche questo aspetto, l'idea che tutto
fosse già stato deciso, ha scoraggiato la partecipazione che, nel mese di apertura della
consultazione pubblica online sul sito del Dipartimento pari opportunità (tra il 10 dicembre
e il 10 gennaio), ha totalizzato 215 utenti, raccogliendo complessivamente 276 commenti e
9 nuove idee. Numeri che impallidiscono se confrontati, per esempio, con quelli della
consultazione sulla Buona scuola (oltre 1,5 milioni di partecipanti in due mesi), conclusasi
a metà novembre.
Ai cittadini si chiedeva un giudizio sulle misure (dalla comunicazione e utilizzo
dell'immagine della donna all'educazione al rispetto tra i generi, dalla formazione degli
operatori che assistono le vittime all'inserimento socio-lavorativo delle donne violate e al
recupero dei violentatori) che il governo intende mettere in atto per prevenire la violenza
contro le donne e sostenere le vittime degli abusi. Tema che, soprattutto in questi ultimi
mesi, è stato spesso sovrapposto a quello più generico e controverso del "gender",
contribuendo a creare ulteriore confusione tra i cittadini e le famiglie e finendo per
costituire un'altra possibile causa dell'esigua risposta alle sollecitazioni del Dipartimento
pari opportunità. Boicottato anche da Arci e dalla rete Dire, che rappresenta i centri
antiviolenza italiani, che hanno invitato i militanti a non aderire a una consultazione
«banale e riduttiva ».
«Non ci aspettavamo dei numeri precisi - ricorda la consigliera Martelli -. Per noi si trattava
di una sfida e registriamo positivamente l'impegno di una parte della società che ha
trovato interesse nelle proposte del Piano. Il lavoro da fare è comunque ancora tanto
perché sulla violenza contro le donne la percezione dei cittadini è ancora troppo sfumata».
Anche per la deputata di Ncd- Udc, Paola Binetti, il tema della violenza «resta confinato in
nicchie » perché «si privilegia l'aspetto della denuncia» anziché «azioni di prevenzione più
forti e incisive ». Rispetto ai "numeri" fatti registrare dalla consultazione pubblica, la
parlamentare centrista rileva però una carenza di comunicazione. «Molti dei centri che si
occupano della donne ferite non ne sapevano nulla – sottolinea Binetti - e questo non ha
certo favorito la partecipazione al dibattito. È invece necessario che chi da anni lavora a
fianco delle donne vittime di violenza, come tante realtà di area cattolica, sia
maggiormente coinvolto. Cosa che, invece, in quest'occasione non è avvenuta ».
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Da Repubblica.it del 13/05/15 (Napoli)
#Je suis Charlie, il flashmob dell'Arci al
consolato francese di Napoli
Flash mob dell' Arci Napoli davanti alle sede del consolato francese in via Crispi.
Solidarietá al popolo francese, testimonianza di libertá. Emilio Di Marzio, dirigente Pd e
responsabile internazionale Arci Napoli, Mariano Anniciello, presidente Arci Napoli
migranti, volontari e cittadini che si impegnano a costruire pace e integrazione. Al flash
mob "je suis charlie" ha partecipato il console generale di Francia a Napoli, Christian
Thimonier. (foto riccardo siano)
http://napoli.repubblica.it/cronaca/2015/01/12/foto/je_suis_charlie-104797043/1/#1
del 13/05/15 (Torino 7)
SPORTELLI AL CONSUMATORE IN CIRCOLI
ARCI
Il Comitato Arci Torino, con il Movimento Consumatori, apre degli Sportelli del
Consumatore, attivi tutti i mercoledì, venerdì e sabato nei rispettivi circoli. Sono attivi:
A.S.D.-Culturale Circolo 1° Maggio in via Primo Maggio, 18 a Nichelino. A partire da
venerdì 9 gennaio e sarà aperto tutti i venerdì dalle 9 alle 12; al Circolo Margot in via
Donizetti, 23 a Carmagnola. A partire da sabato 10 gennaio e sarà aperto tutti i sabato
dalle 9:30 alle 13; al Circolo Risorgimento in via Giovanni Poggio 16 a Torino. A partire da
mercoledì 14 gennaio e sarà aperto tutti i mercoledì dalle 15 alle 18 Gli sportelli si
occuperanno di:utenze (gas, energia elettrica, telefonia)acquisti e servizi, banche e
finanziarie, assicurazioni,tour operator e agenzie di viaggio, responsabilità professionale.
Info: 011/5069546
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ESTERI
del 13/01/15, pag. 4
Intelligence e governo dicono che non esiste un “pericolo imminente”.
Ma fonti israeliane e americane rilanciano. Mentre Francesco parte per
un viaggio a rischio
Vaticano, più controlli hacker dell’Is attaccano account del comando
Usa
Nelle zone sensibili di Roma sorveglianza
triplicata “Limitare Schengen”: il no di Italia e
della Merkel
CARLO BONINI
ROMA
MANI ignote, che genericamente si definiscono simpatizzanti dell’Is, violano gli account
Twitter e Youtube del comando centrale statunitense. E la confusione del senso di
vulnerabilità fisica e cibernetica va alle stelle, toccando il nervo dell’emotività. E non è
un’eccezione, allora, che in questo gioco di specchi e ombre che l’Italia ha già conosciuto
nella stagione del dopo 11 Settembre, Roma e i simboli eterni della sua religiosità — Il
Vaticano, la comunità ebraica — tornino ad essere merce di quel mercato della paura in
cui il sangue di Parigi ha inevitabilmente e nuovamente precipitato l’Europa. Per dirla con
le parole di una qualificata fonte della nostra Intelligence — sono dunque queste le ore e
saranno questi i giorni e le settimane in cui «il confine tra vero e verosimile, tra plausibile e
possibile, tenderà ad annullarsi e confondersi sotto la spinta di chi ha interesse a sfruttare
questa fase di estrema emotività per condizionare l’agenda politica dei Paesi dell’Unione e
la loro discussione sulle nuove misure antiterrorismo, per ridefinire i rapporti di forza tra le
intelligence alleate o anche semplicemente per sollecitare una reazione a catena che
radicalizzi le opinioni pubbliche ».
Non c’è fonte politica — il ministro dell’Interno Alfano, la Presidenza del Consiglio, il
ministro degli esteri Gentiloni, lo stesso portavoce vaticano padre Federico Lombardi — o
uomo di vertice degli apparati della sicurezza (Polizia di prevenzione, Ros dei Carabinieri,
Dis) che, in chiaro o in background, non vada ripetendo in queste ore, come un disco rotto,
che «non esiste, allo stato, alcuna minaccia concreta, imminente, specifica» che indichi un
rischio altrettanto «concreto, imminente e specifico» per la vita del Pagliato pa o per
l’incolumità delle nostre città, le loro infrastrutture (metropolitane, linee aeree e ferroviarie),
piuttosto che i luoghi delle nostre libertà politiche, civili, religiose. E tuttavia, chiusi
nell’angolo da un allarme rilanciato con enfasi dai media americani, israeliani e dalla
tedesca “ Bild”, «per giunta — osserva una fonte dell’Antiterrorismo — con significativa
coincidenza proprio nel giorno della manifestazione di Parigi», nessuno può sottrarsi
all’infernale meccanismo di autoassedio che quell’allarme produce.
Nella notte tra domenica e lunedì, la nostra diplomazia e la nostra Polizia di Prevenzione
hanno dunque cercato di verificare, attraverso i canali ufficiali con Washington e Tel Aviv,
se l’allarme genericamente accreditato citando “fonti della Cia e della Nsa” e che indicava
appunto il Vaticano quale prossimo obiettivo, avesse un riscontro fattuale di una qualche
consistenza. Ma le risposte sono state negative. Formalmente, l’intelligence americana
(Cia ed Fbi), come quella israeliana, negano la paternità dell’indicazione, rinviando
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piuttosto i nostri Servizi e le nostre Polizie a quell’immenso pagliaio di indicazioni di
intelligence “elettronica” catturate dall’occhio della Nsa nei teatri di operazioni in Medio
Oriente che regolarmente vengono scambiate tra alleati e in cui resta impi- tutto e il suo
contrario. «Senza un algoritmo degno di questo nome e un incrocio di dati — osserva una
fonte della nostra Antiterrorismo — sapere se in dieci, cento o mille comunicazioni
intercettate nel deserto siriano, piuttosto che nel Corno d’Africa o nel Maghreb in cui
vengono citate le parole “cristiani”, “cristianesimo” o “Roma”, si nasconda l’informazione
decisiva per sventare un attentato diventa un gioco al massacro». Né è un caso, che in
questo grumo di confuse indicazioni in cui la Nsa torna a sedersi a capotavola dopo
l’umiliazione del “datagate”, vengano regolarmente ricucinate le parole pronunciate tre
mesi fa da un portavoce dell’Isis, Abu Muhammad al Adnani («Conquisteremo Roma e
spezzeremo le croci con il permesso di Allah») o il fotomontaggio del magazine del
Terrore ( Daqib) con le bandiere nere del Califfato a sventolare su piazza San Pietro.
Accade così che in questo vuoto di intelligence per certi aspetti persino più spaventoso di
una qualsivoglia anche labile indizio di minaccia, aumentino le cosiddette misure di
«prevenzione passiva ». Roma è stata divisa in «sei quadranti » sensibili (tra questi,
appunto, il Vaticano e il ghetto) in cui la sorveglianza sul territorio (pattuglie e posti di
vigilanza fissa) è stata triplicata. E, ieri sera, la partenza del Papa per il suo viaggio
pastorale in Sri Lanka e Filippine è stata accompagnata da un dispositivo di sicurezza
all’aeroporto di Fiumicino (cecchini sui tetti, aree di rispetto all’interno e all’esterno del
terminal) come non se ne vedeva dai giorni immediatamente successivi all’11 settembre.
Un viaggio, per altro, su cui, in questi giorni, la nostra Intelligence e la nostra diplomazia
non hanno smesso di sollecitare il Vaticano alla massima cautela.
Se le stragi di Parigi hanno infatti consegnato una certezza è che il pericolo, ora, non si
annidi in una sigla, o in un’organizzazione dell’arcipelago del Terrore islamista. Quanto,
piuttosto, nella imprevedibilità omicida dei cosiddetti “lupi solitari” o “self starters”, se si
preferisce. Fantasmi della porta accanto per i quali, in queste ore, la nostra Intelligence
parla di «altissimo rischio emulativo». E su cui, non a caso, si è riacceso il dibattito
europeo su una eventuale limitazione del cosiddetto “spazio di Schengen”. Una libertà che
Alfano e la Merkel ieri hanno nuovamente difeso ritenendola non negoziabile. A differenza
del cosiddetto “Pnr”, il database che darebbe alle polizie e ai Servizi europei la possibilità
di tracciare e conservare i dati personali dei milioni di passeggeri che ogni anno entrano
ed escono dai Paesi dell’Unione.
del 13/01/15, pag. 2
IL PATRIOT ACT ALLA FRANCESE
E LA SINDROME SICUREZZA
GIRO DI VITE SUI FERMI PER TERRORISMO E CONTROLLI A TAPPETO.
I MEDIA PROTESTANO
di Alessandro Mantovani
inviato a Parigi
La tentazione è forte, c’è la pressione dell’apparato poliziesco e dei servizi che reclamano
“mezzi adeguati” e c’è da tenere a bada Marine Le Pen e il suo Front National che
spingono a fondo sull’acceleratore della paura e della svolta securitaria, raccogliendo
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consensi. Così nelle alte sfere del governo socialista di Parigi e negli ambienti che
contano, all’indomani della manifestazione oceanica di domenica 11 gennaio gira
insistentemente il nome un po’ sinistro di un prodotto d’importazione: Patriot Act.
È IL COMPLESSO delle norme antiterrorismo varate negli Usa all’indomani dell’11
settembre 2001, che in estrema sintesi reggono giuridicamente Guantanamo e la
detenzione amministrativa senza processo e consentono all’intelligence di intercettare chi
vogliono, quando vogliono, come vogliono. Due sono i piani su cui si concentra la
riflessione del consiglio dei ministri, che ieri mattina si è riunito all’Eliseo: l’ampliamento
delle intercettazioni fuori dal controllo della magistratura, già possibili in Francia sotto la
vigilanza di una commissione centrale e l’isolamento carcerario dei detenuti condannati o
accusati di terrorismo. Sono questioni connesse ai profili dei protagonisti della settimana di
sangue vissuta dalla Francia tra la carneficina nella redazione di Charlie Hebdo, l’omicidio
di una vigilessa 26enne in una banlieue di Parigi e il sequestro di clienti e dipendenti di un
minimarket ebraico concluso con la morte di quattro ostaggi, tutti ebrei come era logico
attendersi di venerdì in vista dello shabbat. I presunti assassini dei disegnatori, i fratelli
Kouachi poi rimasti uccisi nel blitz della gendarmeria, erano stati seguiti e intercettati tra il
2011 - quando il maggiore, Said, era stato segnalato quale partecipante ai campi
d’addestra - mento di Al Qaeda nello Yemen - e l’estate 2014, quando la sorveglianza sui
due si è allentata. Fonti di polizia nei giorni scorsi avevano fatto sapere che questo “buco”
nella vigilanza nei confronti dei Kouachi - il minore, Chérif, era stato anche arrestato e
condannato nel 2008 per reati connessi al reclutamento di combattenti per l’Iraq – serviva
a concentrarsi su altri soggetti, ritenuti più pericolosi. Perfino comprensibile in un Paese
che conta circa 1.400 combattenti di ritorno, “reduci” cioè dei teatri di guerra della Siria,
dell’Iraq e nei casi più risalenti dei Balcani.
DOMENICA però l’ex direttore dei servizi interni (Dgsi, ex Dcri) recentemente riformati e
resi più agili, il prefetto Bernard Squarcini, ha fatto intendere che la sospensione delle
intercettazioni nei confronti di Said Kouachi sarebbe stata reclamata dalla Commissione di
controllo (Cncis): “Vi dicono di fermarvi perché l’obiettivo non appare o non è più attivo”.
Quanto alle carceri, Amedy Coulibaly, il responsabile franco- maliano del sequestro nel
negozio ebraico rimasto ucciso anche lui durante l’intervento delle forze speciali, si
sarebbe almeno in parte “radicalizzato” dietro le sbarre, dove inizialmente era finito per
rapine e droga. Il ministero della Giustizia ha però fatto sapere che Chérif Kouachi e
Coulibaly, in carcere, tennero un comportamento “esemplare”. Ieri il governo, stando alle
fonti ufficiali, non ha preso decisioni. “Non è questione di legiferare in materia sull’onda
dell’emozione”, ha detto Valls. Aggiungendo però che “il sistema delle intercettazioni
giudiziarie e amministrative dev’essere reso più efficace”. Tutto sta a capire come. Tanto
più che la Francia, alle prese con il terrorismo di matrice islamista dalla metà degli anni 80,
non ha una legislazione morbida. Basti pensare alla Superprocura antiterrorismo che in
Italia non esiste o alla garde à vue, una sorta di fermo di polizia che per questi reati può
durare per diversi giorni anche per persone contro le quali non esistono contestazioni
penali, come è successo a parenti e amici dei Kouachi, per interrogarle. Per non dire della
parziale subordinazione delle Procure all’esecutivo. Una cosa è certa, il Patriot Act alla
francese non piace in ambienti vicini ai socialisti. Le Monde e Libération scrivono che è
improprio parlare di “guerra”di fronte a una pur gravissima minaccia terrorista che non può
affatto dirsi cessata.
L’INCHIESTA sugli attentati prosegue, la polizia cerca l’uomo che ha postato il video con
la rivendicazione di Coulibaly, apparso su Youtube dopo la morte di quest’ultimo. E non
solo. Fonti investigative riferiscono di “sei complici” dei terroristi ancora in libertà,
attivamente ricercati. È confermato, infine, che Hayat Boumedienne, moglie del francomaliano, si trova in Siria: compare in un video all’aeroporto di Istabul.
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del 13/01/15, pag. 9
In tre giorni la sua immagine è cambiata Dopo una lunga impopolarità,
ha trovato i modi giusti per rispondere alla tragedia. Ora per lui la
tentazione del pugno di ferro, un rischio per i diritti civili
La riscossa di Hollande il presidente
“normale” vince la sfida del terrore
BERNARDO VALLI
PARIGI
IN TRE giorni l’immagine di François Hollande è cambiata. Dopo una lunga impopolarità
piovono su di lui elogi, apprezzamenti destinati agli uomini di governo con carattere, con
carisma, capaci di imporsi, pronti nelle decisioni. Si era dichiarato un presidente “normale”,
che significava semplice, alla mano, ed era finito col diventare banale. Non detestato, ma
preso sottogamba, non considerato, a volte deriso. Troppo impacciato per la monarchia
repubblicana che elegge un sovrano temporaneo dal quale esige una solennità
intelligente, altrimenti lo insegue col sarcasmo e poi lo decapita politicamente al momento
della riconferma. Nei primi tre anni François Hollande ha deluso, negli ultimi cinque giorni,
tra il 7 e l’11 gennaio ha conquistato gran parte del paese, e del pubblico europeo.
In che misura e per quanto tempo ce lo diranno le indagini d’opinione, tra qualche mese,
quando si saranno spente emozioni e passioni. Ma già la figura del presidente poco
espressivo e dai gesti goffi è diventata quella di un presidente che da una sconfitta ricava
un successo. Capace di risollevare la nazione ferita. Nell’arte politica è un esercizio
difficile. Equivale, nell’arte militare, alla controffensiva riuscita dopo una battaglia data per
perduta. È un’impresa riservata ai rari strateghi di valore. I terroristi della strage al Charlie
Hebdo hanno colpito un paese depresso, convinto di vivere un momento di decadenza, di
essere senza iniziative e privato del suo rango internazionale. Hollande era il simbolo di
questa crisi psicologica non del tutto motivata, ma debilitante. Non solo francese. Assai
diffusa in Europa. La strage nella redazione del settimanale satirico, mercoledì sette
gennaio, era il segno della vulnerabilità della nazione. Era una sconfitta del suo sistema
difensivo. Dei suoi servizi di informazione che nelle guerre asimmetriche, contro il
terrorismo, hanno il ruolo delle forze armate nei conflitti convenzionali.
Poco più di un’ora dopo l’attentato nell’11esimo arrondissement, nel cuore storico di
Parigi, François Hollande era sul posto. I servizi di sicurezza non avevano dato garanzie,
anzi avevano sconsigliato la visita del capo dello Stato. Le automobili parcheggiate sotto la
redazione del settimanale satirico, dove c’erano i cadaveri delle vittime e dove i feriti
ricevevano le prime cure, potevano essere imbottite di esplosivo. Nessuno le aveva
esaminate. Gli esperti della polizia hanno seguito con angoscia la scena sui teleschermi,
dove arrivavano le immagini raccolte dalle macchine da presa disseminate
nell’11arrondissement. Era un’imprudenza. Ma Hollande non aveva voluto aspettare. Il
presidente più banale che normale aveva capito che quello era il suo posto.
Il suo sguardo era lo stesso ma appariva diverso. Non era più vago, inespressivo, ma
calmo. E nel dramma la calma è una prova di forza. Cosi la sua andatura impacciata non
era più sciolta del solito, ma in quella situazione i gesti esitanti non apparivano più goffi.
Erano segni di semplicità ed essere semplici nei drammi è una prova di coraggio.
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Là è emerso un altro Hollande. Quello che non si era mai rivelato nei primi tre anni di
presidenza è apparso a milioni di francesi quel mercoledì e nei giorni successivi.
Bisognava rianimare la Francia traumatizzata, un paese in cui vivono cinque-sei milioni di
musulmani e mezzo milione di ebrei, dove il populismo di estrema destra non lascia
indifferenti quasi un cittadino su tre e la fiducia nei governanti era al più basso dalla
nascita della Quinta Repubblica. Il massacro dei quattro cittadini ebrei alla porta di
Versailles poteva moltiplicare gli incidenti contro le moschee e per ritorsione contro le
sinagoghe. Hollande ha ordinato di persona gli assalti finali ai luoghi dove erano
asserragliati i tre terroristi, come aveva diretto le operazione di poliziotti e gendarmi nelle
ore precedenti. Lo ha fatto con i soliti toni che invece di apparire dimessi, e seminare
incertezza, hanno dato l’impressione al paese di essere guidato. Senza grandeur ma con
efficacia. Ecco cosa voleva dire quando si presentava come un presidente normale.
Con la controffensiva politica François Hollande ha cambiato gli umori della Francia e in
parte anche quelli dell’Europa. È a quest’ul- tima che si è rivolto, in quanto europeista
convinto, per dimostrare al paese frustrato e ferito che non era solo. E che il nazionalismo
degli euroscettici, lo sciovinismo dell’estrema destra, avrebbero portato all’isolamento e
non alla sicurezza della Francia. Cosi Parigi ha ricordato domenica i diciassette morti e
nello stesso tempo ha festeggiato quarantaquattro capi di Stato e di governo venuti a
esprimere solidarietà. L’applaudito promotore della grande “marcia repubblicana” era il
banale presidente di cui la stragrande maggioranza dei francesi sopportava con fatica fino
allora la presenza nel palazzo dell’Eliseo.
In place de la République non c’era Marine Le Pen. La presidente del Front National
voleva un invito ufficiale. Ricevendola sabato mattina Hollande le ha detto che la
manifestazione era aperta a tutti, senza distinzione. Non c’erano dunque bisogno di inviti.
Marine Le Pen se ne è andata offesa. E per ripicca ha fatto la sua marcia in un feudo del
Front National, a Beaucaire, nel Sud della Francia, con alcune centinaia di fedeli. L’Europa
non c’era. Era a Parigi con Hollande e con milioni di manifestanti. L’estrema destra
xenofoba veniva data nei drammatici giorni della settimana scorsa come l’inevitabile
beneficiaria alle prossime elezioni. Hollande ha fatto capire che potrebbe accadere il
contrario.
Un altro presidente, George W. Bush, dopo l’11 settembre 2001, ha recuperato la
popolarità che aveva perduto dopo essere stato eletto alla Casa Bianca. Una tragedia
nazionale può favorire un presidente. Tanto più se dà prova di efficienza. Un paese ha
bisogno di sentirsi guidato e difeso. Bush jr ha invaso l’Afghanistan per inseguire Al Qaeda
ritenuta responsabile dell’attacco alle due torri di New York e per cacciare dal potere i
Taliban che li ospitavano e sostenevano. Due anni dopo ha invaso l’Iraq. Un disastro di cui
vediamo e vedremo ancora per molto tempo le conseguenze in Medio Oriente. La Francia
non ha i mezzi per provocare danni del genere, ed è impegnata in operazioni assai più
limitate nell’Africa occidentale, e non vuole né estenderle né rinunciarvi. È già membro
della coalizione creata dagli americani per combattere il califfato (lo Stato islamico) in Iraq
e non vuole aumentare la sua partecipazione agli attacchi aerei.
Bush jr ha promosso anche il Patriot Act e questa è una tentazione dalla quale Hollande
dovrà difendersi. Con il Partriot Act, varato a Washington con l’ordinanza del 13 novembre
2001, il ruolo dei giudici è stato sminuito. Le commissioni militari sono diventate
giurisdizioni e nonostante le reazioni della Corte suprema hanno violato il diritto
internazionale. La guerra giustifica le torture di Guantanamo e le lunghe detenzioni a
dispetto delle garanzie elementari del dirittto americano. A decidere sono i servizi di
informazione, I quali si sono serviti anche dei paesi europei disposti ad accettare centri di
interrogatorio clandestini. Non è un segreto l’ampia rete di spionaggio creata per ascoltare
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anche le telefonate dei governanti europei, comprese quelle di Angela Merkel. Il Patriot
Act, che resta in vigore nel 2015, consacra la nozione di «nemici combattenti illegali ».
Mireille Delmas-Marty, professoressa al College de France, spiega (su Le Monde) ai suoi
connazionali il significato di quella definizione per metterli in guardia sulle conseguenze.
La nozione di riferisce a persone che non hanno diritto né alle garanzie del codice penale
perché sono dei nemici, né a quelle dei prigionieri di guerra perché sono dei combattenti
illegali. In Francia sono state varate leggi contro il terrorismo, ma sono ben lontane da
quelle drastiche del Patriot Act. Il quale adesso è di grande attualità e suscita forti
tentazioni a Parigi.
Conquistata un’insperata popolarità François Hollande non sfuggirà a quelle tentazioni.
Per rassicurare il paese e per proteggerlo dalle continue minacce dovrà applicare
provvedimenti severi. La destra lo chiede già con insistenza. L’Europa ne sarà influenzata.
Il rischio per i nostri diritti civili è evidente. Ieri il presidente ha deciso di impegnare
diecimila soldati per garantire la sicurezza delle istituzioni, in particolare delle scuole.
Soprattutto quelle ebraiche. Ma un Patriot Act europeo è nell’aria.
Del 13/01/2015, pag. 9
Hollande non voleva Netanyahu a Parigi
Marcia per libertà espressione. Secondo il quotidiano "Haaretz", il presidente
francese ha cercato invano di tenere lontano il premier israeliano, spiegandogli che
sarebbe stato meglio non coinvolgere il conflitto israelo-palestinese nell'iniziativa.
Netanyahu ha imposto sua presenza, l'Eliseo ha risposto estendendo l'invito al
presidente palestinese Abu Mazen
Michele Giorgio
Benyamin Netanyahu era in testa al corteo, a pochi centimetri dal capo di stato francese
François Hollande. Anche il presidente palestinese Abu Mazen è lì davanti, ad appena un
paio di metri di distanza dal premier israeliano. La marcia di Parigi, con una quarantina di
capi di governo, leader e presidenti di tutto il mondo, passerà alla storia anche per la presenza, fin troppo visibile, di Netanyahu e di Abu Mazen.
E pensare che Hollande non li voleva nella sua capitale, soprattutto Netanyahu, non nuovo
a ruoli da protagonista in queste circostanze, durante le campagne elettorali.
Almeno questo è quanto ha riferito ieri Haaretz, alla vigilia del ritorno in Israele del primo
ministro e dell’arrivo delle salme dei quattro francesi ebrei uccisi nel supermercato kosher
di Parigi e che saranno sepolte a Gerusalemme.
Secondo Haaretz, Hollande aveva chiesto a Netanyahu di non partecipare alla marcia. Gli
aveva mandato un messaggio in tal senso, spiegandogli di voler tenere il conflitto israelopalestinese fuori dall’iniziativa. In un primo tempo Netanyahu aveva accolto la richiesta
e rinunciato a partire con il pretesto delle misure di sicurezza. Quindi ha cambiato idea,
subito dopo avere appreso che a Parigi sarebbero andati i suoi colleghi della destra
estrema e rivali nelle elezioni del 17 marzo, il ministro degli esteri Lieberman e quello
dell’economia Bennett. A quel punto la Francia ha messo in chiaro che l’invito sarebbe
stato esteso anche al leader palestinese Abu Mazen. Un retroscena smentito dal ministero
degli esteri e invece confermato dalla tv israeliana Canale 2.
Un’agenzia di stampa italiana ha scritto la manifestazione di Parigi sarà ricordata anche
perchè Netanyahu e Abu Mazen erano lì, a pochi passi l’uno dall’altro, “segnale” di un dialogo probabilmente vicino a ripartire. La solita retorica pacifista, slegata dalla realtà, alla
quale non riescono mai a sottrarsi i media italiani.
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I due non si sono neppure scambiati uno sguardo. Netanyahu è nell’elenco dei leader politici e comandanti militari israeliani che i palestinesi vorrebbero vedere incriminati dalla
Corte Penale Internazionale per l’uccisione di centinaia di civili di Gaza, tra i quali tanti
bambini, durante l’offensiva “Margine Protettivo” della scorsa estate.
A sua volta il premier israeliano è convinto che sul banco degli imputati, davanti ai giudici
internazionali, ci finirà Abu Mazen, perché ha formato un governo con Hamas che ha lanciato razzi verso le città israeliane. Il presidente palestinese ieri è stato aspramente criticato proprio dal movimento islamico. Hamas (che ha condannato la strage a Charlie
Hebdo) lo accusa di essere «un giocoliere politico, un ipocrita»; che spera di guadagnarsi
la simpatia delle Nazioni mentre dovrebbe dedicare l’attenzione al suo popolo.
E non possono passare inosservate anche le critiche di chi, giustamente, ha definito quella
di Parigi la “Marcia degli Ipocriti”.
Reporter senza Frontiere, ricorda che le politiche di un buon numero dei leader presenti
domenica in Francia, a casa sono tutt’altro che compatibili con la solidarietà mostrata per
la libertà di parola. «Dobbiamo dimostrare la nostra solidarietà a Charlie Hébdo – ha
dichiarato ieri il segretario generale di Reporter senza Frontiere Christophe Deloire –
senza dimenticare tutti gli altri Charlie del mondo. Sarebbe inaccettabile se i rappresentanti dei paesi che impongono il silenzio ai propri giornalisti dovessero sfruttare l’attuale
effusione di emozione per cercare di migliorare la propria immagine internazionale e poi
continuare le loro politiche repressive quando tornano a casa».
Hollande aveva visto giusto. Netanyahu ha catturato l’attenzione dei media quando ha
esortato i francesi ebrei a lasciare il loro Paese e a trasferirsi in Israele, suscitando
l’approvazione di molti ebrei ma anche il disappunto di Hollande e del primo ministro
Manuel Valls che ha garantito che la comunità ebraica francese è al sicuro e sarà protetta
da migliaia di agenti delle forze di sicurezza. D’altronde anche il rabbino Menachem Margolin, capo della “European Jewish Association”, ha arricciato il naso ascoltando le parole
di Netanyahu tanto da dichiarare che «l’emigrazione degli ebrei verso Israele non può
essere l’unica soluzione».
del 13/01/15, pag. 3
Leader nel soffocare la libertà d’espressione
TRA LE DECINE DI CAPI DI STATO E DI GOVERNO CHE HANNO
SFILATO DOMENICA A PARIGI ALMENO 20 “IMPRESENTABILI ” CHE
NEI RISPETTIVI PAESI NON RISPETTANO I DIRITTI
SULL’INFORMAZIONE E I GIORNALISTI
di Salvatore Cannavò
Con i due milioni di parigini in piazza hanno sfilato anche 50 capi di Stato e di governo. La
foto dei leader apparsa su tutti i giornali del mondo ha puntato a rappresentare i milioni
scesi a manifestare. Ma, scorrendo i loro nomi, e al netto dei giudizi politici, non sempre
sono in grado di onorare la loro presenza. Basta leggere l’elenco e guardare alla
situazione dell’informazione nel rispettivo paese. Re Abdallah di Giordania. In prima fila
accanto alla bella moglie Ranja, guida un paese in cui la libertà di informazione è talmente
ridotta da figurare al 149° posto nella classifica stilata da Reporters sans frontieres (Rsf). È
di pochi giorni fa la condanna ai lavori forzati dello scrittore e accademico palestinese
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Mudar Zahran. Ahmet Davutoglu, primo ministro turco. Il paese di Erdogan tiene in carcere
decine di giornalisti. Secondo il Cpj (Comitato per la protezione dei giornalisti) è il maggior
paese al mondo a incarcerare i giornalisti seguito da Iran e Cina (non presenti in piazza).
Benjamin Netanyahu premier di Israele. Secondo Rwb molti giornalisti sono stati arrestati
arbitrariamente. Il paese è al 96° posto nella classifica sulla libertà di informazione citata.
Sameh Choukry, ministro Esteri Egitto. La notizia è del 20 dicembre, il giornalista
Mahmoud Abou Zied ha denunciato di essere stato rapito e imprigionato da almeno 16
mesi. Nonostante sia in carcere da 500 giorni, la sua carcerazione è stata prorogata.
L'Egitto è al 159° posto in classifica. Sergej Lavrov, ministro Esteri Russia. Il governo di
Mosca tiene imprigionati diversi giornalisti tra cui il blogger Dmitry Shipilov, in galera dal 10
settembre, arrestato dopo un'intervista a un esponente dell'autonomia siberiana. La
Russia è al 148° posto della classifica. Abdallah ben Zayed Al-Nahyane, ministro degli
Esteri degli Emirati arabi uniti. Anche tra gli emiri c’è l'usanza di incarcerare giornalisti,
come l'egiziano Anas Fouda, tenuto in isolamento per un mese senza accuse. Gli Eau
sono al 118° posto. Mehdi Jomaa, primo ministro Tunisia. Il paese della “primavera araba”
ha recentemente imprigionato per 3 anni il blogger Yassine Ayan per aver diffamato
l’esercito. Una “grossa violazione del diritto di espressione” secondo Amnesty
International. Il paese è al 133° posto nella classifica di Rwb. Boïko Borisov, capo del
governo Bulgaria. Il paese non ha mancato di distinguersi negli attacchi ai giornalisti come
quelli avvenuti a luglio davanti al parlamento di Sofia. La Bulgaria è al 100° posto nella
classifica Eric Holder, ministro Giustizia Usa. Anche il paese campione della libertà limita
quella di stampa come avvenuto durante gli incidenti di Ferguson dove la polizia ha
arrestato e detenuto ingiustamente alcuni reporter del prestigioso Wa - shington Post.
Nella classifica di Rwb, in ogni caso, gli Stati Uniti sono al 46° posto. Antonis Samaras,
premier Grecia. Per reprimere le tante manifestazioni di protesta la Grecia ha più volte
colpito e ferito i giornalisti. Tanto che si trova al 99° posto nella classifica. La seconda
peggior posizione di tutta la Ue. Jens Stoltenberg, segretario generale Nato. L’Alleanza
atlantica non ha mai risposto del bombardamento, e l’uccisione, di 16 giornalisti serbi a
Belgrado nel 1999. Ibrahim Boubacar Keïta, presidente Mali. Molti giornalisti sono stati
espulsi (fonte Cpj) dopo aver denunciato la violazione dei diritti umani. Il Mali è al 122°
posto della classifica. Viktor Orban, premier ungherese. Da quando è al potere, il premier
si è distinto per gli attacchi alla stampa e all’indipendenza dei media. Dal 2010 vige una
legge molto restrittiva. Al 64° posto nella classifica. Ali Bongo, presidente del Gabon. I
quotidiani di opposizione hanno denunciato a settembre la chiusura temporanea delle
pubblicazioni a causa della pirateria informatica del governo che però nega. 98ª posizione.
Miro Cerar, primo ministro Slovenia. Casi di blogger condannati a 6 mesi di prigione per
diffamazione come nel caso di Mitja Kunstelj. Il paese, però, tra quelli considerati è tra i
migliori della classifica, al 34° posto. Enda Kenny primo ministro Irlanda. Ancora meglio fa
l'Irlanda, 16ª nella lista stilata da Rwb. Eppure il paese di Kenny considera ancora la
“blasfemia” un’offesa da condannare. Ewa Kopacz, primo ministro Polonia. Il paese che
esprime anche il presidente della Ue, Donald Tusk, è quello che, lo scorso giugno, ha
requisito una montagna di intercettazioni ambientali tra politici comprovanti un importante
caso di corruzione. La Polonia è comunque al 19° posto della classifica. David Cameron,
premier Gran Bretagna. Il governo inglese è quello che ha minacciato e perseguito il
giornale The Guardian per il caso Snowden chiedendo insistentemente di distruggere gli
hard disk dei suoi computer. 33ª posizione. Il fratello dell’emiro Mohamed Ben Hamad Ben
Khalifa Al Thani del Qatar. Lo scrittore e poeta Mohamed Rashid al-Ajami è stato
condannato a 15 anni di carcere per avere insultato il regnante. Il paese è al 113° posto.
Nizar al-Madani, numero due dell'ambasciata saudita. Solo venerdì scorso, nel paese il
blogger Raif Badawi è stato condannato a 10 anni di prigione e a 1000 frustate da diluire
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in 20 settimane per aver “insultato” l'Islam. L’Arabia saudita è al 164° posto della classifica
sulla libertà di informazione.
del 13/01/15, pag. 10
Quegli improbabili campioni di libertà
Dal russo Lavrov all’ungherese Orbán, dal turco Davutoglu al
gaboniano Bongo a Parigi hanno sfilato rappresentanti di governi che
limitano il diritto di espressione
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PARIGI Forse una figura migliore l’ha fatta il ministro
degli Esteri del Marocco, Salaheddine Mezour, che è venuto a Parigi per presentare le
condoglianze a Hollande ma poi si è rifiutato di partecipare alla marcia. Assenza rara, e
motivata.
Nel 2006 il settimanale marocchino Journal hebdomadaire , in un servizio sulle caricature
di Maometto del giornale danese Jyllands Posten poi ripubblicate da Charlie Hebdo , mise
in pagina una foto che lasciava intravedere uno dei disegni. Si scatenò la rabbia popolare,
assecondata da un regime che non amava quel giornale troppo critico (e costretto a
chiudere nel 2010). Domenica, dopo la visita all’Eliseo, il ministro Mezour ha disertato la
manifestazione ed è tornato in Marocco, dove il governo pochi giorni prima aveva proibito
la distribuzione di tutti i giornali stranieri con vignette di Charlie Hebdo (quelli nazionali
neanche ci avevano provato a pubblicarle). Altri capi di Stato e di governo, domenica, non
hanno avuto la stessa pur discutibile coerenza.
Si sono mostrati Charlie a Parigi, essendo persecutori di Charlie in patria.
L’organizzazione non governativa Reporters sans Frontières ha protestato contro la
presenza nel corteo di Paesi come l’Egitto (al 159° posto su 180 nella classifica della
libertà di stampa 2014), Turchia (154°), Russia (148°) o Emirati Arabi Uniti (118°).
«Come fanno i rappresentanti di regimi predatori della libertà di stampa a sfilare a
Parigi?», si legge nel comunicato pieno di sdegno di Rsf. «È intollerabile che quanti
riducono al silenzio i giornalisti nei loro Paesi approfittino di Charlie per cercare di
migliorare la loro immagine internazionale», ha spiegato il segretario di Rsf, Christophe
Deloire.
Tra mille scritte «Je suis Charlie» c’erano pure il ministro degli Esteri russo Lavrov, il
premier ungherese Viktor Orbán, il premier turco Davutoglu, il presidente del Gabon, Ali
Bongo. Non esattamente i migliori amici dei giornalisti.
«E perché non Bashar al Assad?», si è allora chiesta su Twitter la reporter di Le Monde
Marion Van Renterghem, inaugurando l’hashtag di grande successo # PauvreCharlie ,
povero Charlie. In molti hanno chiesto l’arrivo del nordcoreano Kim Jong-un, o lamentato
la spiacevole assenza del dittatore cileno Augusto Pinochet (morto nove anni fa).
Hollande ha capito che l’arrivo degli improbabili campioni di libertà a Parigi rischiava di
intaccare lo stato di grazia collettivo, e ha cercato di distinguere. Un conto era la marcia
repubblicana per la libertà di espressione, un altro la lotta al terrorismo: e se il russo
Lavrov non ha titolo per la prima, può tornare utile per la seconda.
Non a caso il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, ha proclamato che Parigi era
domenica «la capitale mondiale della resistenza contro il terrorismo»: i capi di Stato e di
governo sfilavano contro gli attentati, più che a favore di Charlie Hebdo . Ma se la
sfumatura ha permesso di salvare la giornata da un punto di vista diplomatico, il corto
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circuito si è creato quando anche i politici più discussi si sono messi a marciare, per pochi
minuti, sullo stesso boulevard calpestato dalla folla immensa di «Je suis Charlie».
Così, abbiamo visto Sameh Shoukry, ministro degli Affari esteri dell’Egitto, Paese dove
attualmente sedici giornalisti sono incarcerati. Tra loro, i tre di Al-Jazeera in prigione dal
dicembre 2013, accusati di avere diffuso false notizie e di essere vicini ai Fratelli
musulmani. Poi Ahmet Davotoglu, primo ministro della Turchia, dove la lotta al terrorismo,
secondo Reporters sans frontières, viene regolarmente utilizzata per giustificare la
persecuzione di giornalisti sgraditi al regime. Nel dicembre scorso 24 persone sono state
arrestate dopo le perquisizioni tra i media dell’opposizione al presidente Erdogan.
L’Algeria, al 121° posto nella classifica di Rsf, era rappresentata dal ministro degli Esteri
Ramtane Lamamra, che ha potuto manifestare a Parigi quando ad Algeri sono proibite le
manifestazioni contro il quarto mandato del presidente Abdellaziz Bouteflika.
E poi Ali Bongo, ultimo protagonista della dinastia che governa il Gabon, dove appena il 3
gennaio scorso il giornalista Jonas Moulenda, autore di un’inchiesta sui crimini rituali, è
stato costretto a rifugiarsi in Camerun. «Non posso dire che vedere Ali Bongo alla marcia
mi abbia fatto bene», ha detto in tv Laurent Léger, uno dei giornalisti sopravvissuti per
miracolo al massacro di Charlie Hebdo . E ancora il presidente del Benin, Boni Yayi, che
ha decretato un giorno di lutto nazionale e ha marciato a Parigi quando i giornali Le
Béninois libéré e L’indépendant in patria sono perseguiti per offesa al capo dello Stato.
Uno dei casi più interessanti, perché nell’Unione Europea, è quello di Viktor Orbán, primo
ministro dell’Ungheria, che non solo dal 2011 punisce per legge l’«informazione non
equilibrata», cioè critica nei confronti del suo potere, ma ha pure approfittato della marcia
della fraternità per dire alla tv di Stato di Budapest che i massacri di Parigi dovrebbero
servire da lezione: «Non vogliamo vedere tra noi minoranze con caratteristiche culturali
diverse. Vogliamo che l’Ungheria resti l’Ungheria».
Luz, altro vignettista superstite, è amareggiato: «Abbiamo visto sfilare tutti i nostri
personaggi. Pure l’assurdità contro la quale ci battiamo, era alla marcia».
del 13/01/15, pag. 1/35
L’Europa rinasce sotto la Bastiglia
ADRIANO SOFRI
LA MANIFESTAZIONE di Parigi non è stata la risposta all’attacco di pochi invasati che il
groviglio mondiale ha promosso ad avamposti jihadisti.
UNA manifestazione come quella non può ripetersi all’indomani del prossimo attentato, e
così via. Però è stata molto di più. È successo a milioni di persone, e a me fra loro, di
cantare alla Bastiglia in un pomeriggio del 2015 la Marsigliese, e prenderla sul serio fino
alle lacrime. La Francia repubblicana ha fatto una figura meravigliosa, cittadini e
governanti: non ha avanzato alcun distinguo sulle vignette, non ora, ha detto: “Sono io,
siamo noi”, e ha portato i governanti di mezzo mondo dentro un unico pullman (pazzia, dal
punto di vista della sicurezza) a sfilare per quella libertà — per la libertà. Non un corteo,
piuttosto una trasfusione innumerevole degli uni negli altri, col sentimento che la città sia
stata inventata per rendere possibile questo, essere una casa di tutti perché tutti tornino
ad avere una casa propria. C’era una singolare organizzazione: la lunga testa del corteo
(famiglie delle vittime, autorità religiose e civili) aveva ai bordi argini rigorosi di polizia e
volontari, sicché il cordone sparuto di superstiti di Charlie Hebdo avanzava, come
schiacciato dal dolore e resuscitato dall’amore della ininterrotta muraglia umana. Noi
siamo Charlie, dicevano le infinite facce di quella folla, e i redattori di Charlie sentivano a
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loro volta di non essere più Charlie, ma quel popolo commosso e determinato a
proteggerli. È stata una meravigliosa adozione.
C’era, per una volta, l’Europa politica, ha scritto Ezio Mauro. La signora Merkel veniva da
una Germania scossa da un vasto rigurgito xenofobo, cui aveva risposto con le parole
giuste. Hollande aveva a sua volta trovato il portamento adeguato, inaspettato riscatto di
un troppo qualunque, stramazzato sotto un casco di motorino o un colbacco kazako: è
venuto fuori in giacca, a mostrare quasi ingenuamente che le circostanze straordinarie
rendono ammirevole un comportamento ordinario. Può darsi che quella bella Europa non
duri più della sua domenica. Perché non avvenga, occorre che l’Europa politica che si è
presa sottobraccio a Parigi sia capace di immaginare e volere una grandissima adozione:
della Siria e dell’Iraq, del Kurdistan e dello Yemen e della Nigeria… Promuovendo e
incarnando con altri una polizia internazionale, esigendo quel legittimo monopolio della
forza che l’impresa di Bush e Blair volle travestire. Non si sottolineerà mai abbastanza il
valore del sacrificio di Ahmed Merabet, poliziotto di quartiere in bicicletta. Domenica quei
milioni di francesi hanno salutato e applaudito con calore i poliziotti, nel paese dei flic e dei
gendarmi. Una vicenda di giorni ha cambiato i francesi, e avrà cambiato anche i poliziotti.
Guardando e partecipando, immaginavo che avvenisse anche in Siria e altrove — dove
sono soprattutto musulmani le centinaia di migliaia di uccisi, e i milioni di cacciati. L’Europa
politica è nata dopo che uomini in armi sbarcarono e furono accolti da liberatori. Allora le
guerre erano ancora guerre, non conflitti asimmetrici o come volete chiamarli. Ma la
sostanza resta.
Come fu difficile metterla insieme quell’alleanza adeguata contro il nazifascismo (e dopo
quante viltà, e a costo di quante vergogne mai superate, come l’inerzia su Auschwitz). Era
sembrato tanto impossibile, tanto utopico, che un inglese prima di Churchill fu il campione
della capitolazione, dello “spirito di Monaco” eternamente risorgente.
“Guerra all’Islam”: tre errori micidiali in tre parole e un apostrofo. L’Islam è una religione
storica e una cultura cui variamente aderisce più di un miliardo di persone. Si avverte: non
tutti i musulmani sono terroristi, ma oggi la gran maggioranza dei terroristi sono
musulmani. È vero, ed è importante capire perché succeda: ma è demenziale ritenere che
il fondamentalismo sia lo svolgimento necessario dell’Islam, e che una simpatia o
un’omertà verso il terrore gli siano connaturate. Altrettanto sbagliata è la parola: guerra. La
si mastica molto, è, grave o eccitato, il chewing-word di successo. E per lo più evitiamo di
nominare la guerra solo masticando il suo opposto, pace, e facendone un sinonimo di
impotenza, se non di viltà. Perché per ripudiare il nome di guerra ci arrendiamo a chi la
muove e la dichiara, per giunta pretendendola santa? Perché non sappiamo pronunciare,
e nemmeno immaginare, il nome alternativo di polizia. Sappiamo farlo solo sulla scala
nazionale. Se il terrore colpisce Parigi, sappiamo che tocca alla polizia, e protestiamo se la
sua risposta non è appropriata e adeguata. Una polizia internazionale non la sappiamo
immaginare, se non per escluderla, come se fosse ancora più utopica del pronunciare
“Pace pace” (Shalom, Salam aleikom…). Gustavo Zagrebelski, che l’ha menzionata qui
ieri, è amaramente rassegnato all’impossibilità che la necessaria azione di polizia si svolga
al di là dei confini dello Stato o al più dell’accordo federale fra Stati tentato dall’Europa. Se
fosse davvero impossibile, avremmo già perduto, perché la Siria, l’Iraq, lo Yemen, la
Nigeria, la Libia eccetera (eccetera) e la città di una redazione europea e la sponda
settentrionale del Mediterraneo (eccetera) sono vasi sempre più direttamente comunicanti.
La coalizione che si batte contro l’Is, o quella che dovrebbe battersi contro Boko Haram se
avessimo un barlume di decenza, sono ciò che si avvicina di più al bisogno, purché
agiscano coi criteri di una polizia legale e non di una guerra senza regole e proporzioni, e
non cedano all’egoismo razzista nell’impiego della propria forza e al cinismo verso gli
ostaggi civili (musulmani i più) di jihadisti e dittatori.
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Di tutte le cattive risposte europee, il rinnegamento di Schengen è oggi la peggiore. È
vendere l’anima. Al contrario, l’Europa è la più in grado, se abbia lucidità e generosità, di
collaborare a una liberazione del vicino Oriente. L’intervento armato contro il Califfato, o
quello disertato nel nord della Nigeria, non sono che un pronto soccorso. (È degno della
maggior nota che per affrontare l’ebola anche le organizzazioni mediche tetragone a un
legame con le forze militari ne abbiano auspicato il sostegno logistico preliminare: ancora
un piccolo passo mentale permetterà di accorgersi che la cosiddetta guerra civile siriana è
un’epidemia a origine e contagio umani mostruosa, e ha bisogno di un suo pronto
soccorso). Ma al centro della crisi sta il collasso degli Stati e più esattamente dei confini.
Furono tracciati arbitrariamente, si sa, e meraviglia che abbiano retto — più o meno —
così a lungo. Oggi i governanti europei insistono a raccomandare la conservazione della
carta disegnata a mano libera cent’anni fa: è come infilare un dito nella diga crollata. Negli
scorsi anni, rassegnati a non ottenere mai un proprio Stato nazionale, degli intellettuali
politici curdi maturarono un’idea di autonomia e progresso che facesse a meno delle
frontiere statali e, trasformando necessità in virtù, passasse loro attraverso. La crisi attuale
fa loro ribalenare l’acquisto di una sovranità nazionale — soprattutto nel Kurdistan
iracheno — che probabilmente meritano, ma che fa fare un passo indietro. Le frontiere
sono destinate a cadere, e l’amaro paradosso è che oggi ad abbatterle e a esaltarne la
cancellazione (guardate i video girati sul confine fra Siria e Iraq) è l’Is, per il quale non può
esistere che l’universale dominio del Califfato, parodia teocratica e sanguinaria
dell’internazionalismo e del globalismo. Ma l’Europa ha da proporre la propria esperienza,
pur di crederle abbastanza. La violenza brutale che attraversa il medio e vicino oriente
musulmano, e si congiunge al centro dell’Africa, può equivalere alla tragedia della
Seconda Guerra in Europa, e insegnare la stessa lezione. Una Federazione fra i popoli, le
tribù, le religioni di quell’enorme territorio è la vera alternativa al ripristino o alla
cancellazione fanatica dei confini, attraverso cui l’Europa politica può cercare i suoi alleati
in un conflitto che è prima di tutto fra un Islam e un altro (o più altri). La raccomandazione
a un Islam “moderato” (suggerisco di non dirlo più: di dire “Islam civile”, o qualcosa di
simile) di prendere sempre più e meglio le distanze da letteralismo e terrorismo religioso è
ovvia quanto inutile: ci trasforma in predicatori largamente abusivi, e trasforma tutti gli
islamici in accusati e sospetti. È un orizzonte comune che dobbiamo cercare di proporre e
disegnare. Vi fa ridere una metafora come “una Schengen del vicino oriente e dell’Africa
islamici”? Bene, ridete, dopotutto siamo Charlie. Poi ripensateci, come Charlie, come
Ahmed.
Del 13/01/2015, pag. 9
Islamofobi di Pegida a Dresda, ma sono di più
gli antirazzisti
Jacopo Rosatelli
Doveva essere il grande giorno di Pegida, i «Patrioti contro l’islamizzazione
dell’Occidente» che avevano indetto cortei in molte città. Invece, per fortuna, in Germania
ieri è stato soprattutto il giorno dei democratici e antifascisti che hanno voluto dire no
a razzismo e islamofobia. Ma il problema-Dresda rimane: nella capitale sassone i Patrioten erano anche questa volta molte migliaia, almeno 20mila (per gli organizzatori 40mila),
certamente più numerosi delle volte precedenti. Il bilancio del lunedì delle piazze tedesche
è dunque positivo, ma solo in parte.
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Soddisfazione fra gli antirazzisti per i circa 30mila che hanno manifestato a Lipsia contro
i seguaci locali di Pegida, in tutto circa 2500. Un gruppo islamofobo, quello della seconda
città della Sassonia, decisamente più a destra di quello di Dresda: le sue parole d’ordine
sono più dure non solo «contro il multiculturalismo», ma anche contro «il culto del senso di
colpa per la guerra». Neonazismo puro. Bella giornata anche a Monaco, dove oltre 20mila
persone hanno preso parte alla manifestazione antirazzista promossa da tutti i partiti
democratici, sindacati e organizzazioni sociali (comprese le chiese cattolica e protestante).
I neofascisti non superavano le 1500 unità. E migliaia di anti-Pegida si sono registrati
anche a Saarbrücken, Hannover, e ovviamente Berlino, a fronte di piccoli drappelli di
estremisti di destra.
Poi c’è il capitolo Dresda. Qui i Patrioten possono cantare vittoria. Sabato sera in migliaia,
su invito delle istituzioni locali, avevano riempito la piazza di fronte alla Frauenkirche per
mostrare il volto aperto e tollerante della città. Ieri gli islamofobi hanno risposto a tono, con
altrettanta capacità di mobilitazione, nonostante le dure critiche nei loro confronti piovute
nel corso della giornata. In mattinata era circolato l’appello dei caricaturisti francesi, fra
i quali alcuni dei sopravvissuti del Charlie Hebdo: «Pegida cerca di strumentalizzare in
modo cinico gli attentati di Parigi. Non vogliamo che il ricordo dei nostri amici venga sporcato». E poi si era fatto sentire il ministro della giustizia, il socialdemocratico Heiko Maas:
«È ripugnante che le persone che una settimana fa sbraitavano contro ‘la stampa
bugiarda’ vogliano ricordare la morte dei giornalisti del Charlie Hebdo. Se avessero un
residuo di decenza dovrebbero starsene a casa».
Nel comizio i «Patrioti» sono stati prudenti: è evidente il tentativo di passare per
l’espressione di una maggioranza fin qui silenziosa, e non per un accolita di neonazisti.
«Non siamo razzisti o islamofobi. La nostra protesta è contro ogni forma di fanatismo religioso: siamo un movimento civico contro l’estremismo». L’altro avversario è
«l’establishment politico che non fa nulla contro i fanatici». Il tutto all’insegna di parole
d’ordine come «libertà di espressione» e «democrazia diretta». Il discorso della portavoce,
che ha rivolto «un appello a tutti i democratici e liberali» ad unirsi a loro, si è chiuso con
l’immancabile «Wir sind das Volk! Noi siamo il popolo!», lo slogan gridato nei giorni della
caduta del Muro contro la morente dittatura della Ddr.
Mentre accadeva tutto ciò, la cancelliera Angela Merkel incontrava a Berlino il premier
turco Ahmet Davutoglu. Circostanza che ha usato per dare il proprio segnale anti-Pegida,
ripetendo di fronte ai giornalisti la frase dell’ex presidente della Repubblica Wulff: «L’islam
fa parte della Germania».
del 13/01/15, pag. 1/13
Attaccare il diritto alla libertà di parola, non importa quale, con il terrore,
gli omicidi o anche attraverso la censura è attaccare la dignità e la
creatività umana
Non uccidiamo la speranza dei musulmani
che vivono in Occidente
ORHAN PAMUK
IL MIO primo impulso è quello di non analizzare le motivazioni degli uomini che hanno
attaccato il Charlie Hebdo.
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Le notizie da Parigi, prima di tutto, hanno suscitato in me un’immensa frustrazione e
tristezza, perché questo attacco è un duro colpo per quelli che, come me, credono che i
musulmani possano vivere in pace accanto ai cristiani in Europa. Questo attacco è un
tentativo di uccidere questa speranza.
Molti miei amici hanno lavorato per riviste satiriche turche, e così mi fecero conoscere
Hara Kiri , la prima rivista di Georges Bernier e François Cavanna, poi divenuta Charlie
Hebdo. Nei paesi in cui la libertà di espressione è in pericolo, c’è una forte tradizione di
riviste satiriche, molte delle quali vengono acquistate dai giovani lettori. Nel mio paese,
dove recentemente sono stati vietati Twitter e YouTube, queste riviste sono sempre sotto
pressione. Naturalmente, qui non abbiamo avuto niente di paragonabile a ciò che è
successo al Charlie Hebdo, ma molti, qui in Turchia, condividono la rabbia e la
frustrazione dei francesi. In questa parte del mondo, c’è una lunga e triste storia di tentativi
di mettere a tacere l’opposizione o la libertà di parola con il terrore, con omicidi o
attraverso la legge: uno dei miei libri, Il libro nero , pubblicato qui a Istanbul nel 1990 (foto
a destra, ndr), racconta la storia dell’uccisione dell’editorialista di un giornale per i suoi
articoli sovversivi (purtroppo la libertà di espressione è caduta a un livello molto basso in
Turchia). Tutti, non solo gli scrittori, abbiamo la responsabilità di difendere la libertà di
parola. Tutti dobbiamo farlo, per comunicare la nostra cultura e i mondi in cui viviamo.
Dobbiamo ergerci a difendere la libertà di parola, non importa quale. Sarebbe un grave
errore collegare l’ultimo romanzo di Michel Houellebecq, dove si parla di un immaginario
presidente musulmano nella Francia del 2022, con questo evento. Naturalmente
dobbiamo difendere il diritto di Houellebecq di esprimersi, ma mi sembra evidente che i
problemi sono separati e che l’ostilità verso il Charlie Hebdo ha una lunga tradizione.
Dobbiamo ricordare l’atto orrendo che è stato compiuto, le vite che sono state perse, e
rimanere saldi contro questa distruzione della libertà di parola, contro questo attacco alla
creatività umana e, devo sottolineare, alla dignità umana.
La tensione è andata crescendo: questo attacco ha coinciso con un aumento
dell’islamofobia in Europa. Sono sicuro che l’Europa sarà attenta a non cadere nella
trappola rivolgendo la sua rabbia contro tutti i musulmani. Mi auguro che non ci sia
un’escalation di questi attacchi brutali, ma sono preoccupato che possa avvenire.
Da Avvenire del 13/01/15, pag. 6
Prodi: «Un errore intervenire in Libia. L'Is? È
frutto della guerra»
Romano prodi, 75 anni, è stato presidente del Consiglio e presidente
della
Commissione Ue: sotto la sua guidal’allargamento a Est e il varo della
moneta
Dopo l’emozione, l’impegno corale. Della Ue. Del mondo. Romano Prodi ragiona a voce
bassa. «Il terrorismo terrorizza tutti, le tragedie di Charlie Hebdo e del mercato kosher
hanno fatto capire che bisogna voltare pagina. Servono azioni politiche, serve un
confronto largo. Puntando su Paesi come l’Egitto e la Turchia che ultimamente ha
alternato però passi avanti e passi indietro. Ma anche aprendo un confronto con leader
discussi come quelli di Iran e di Siria. Se non si allacciano rapporti nuovi è difficile che la
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tensione possa diminuire. Che il terrorismo possa essere fronteggiato con incisività». L’ex
presidente della Commissione Ue riflette su questo mondo lacerato dalle tensioni e dai
conflitti. E li mette in fila proprio come papa Francesco. Parla di Medio Oriente, di Libia, di
Nigeria. Ma anche di Parigi e di terrorismo. Lo fa con parole nette. Provando a scuotere la
comunità internazionale. «Non si possono più usare questi Paesi come una palestra per
misurare la propria influenza. Non ce lo possiamo più permettere. Ora le grandi potenze
devono affrontare insieme l’emergenza». Serve dialogo politico e anche un confronto tra le
grandi religioni monoteiste. Per fermare il terrorismo e costruire la pace. Prodi riflette sul
recente discorso del presidente egiziano al-Sisi. Un discorso «rivoluzionario» pronunciato
davanti agli imam. «Per chiedere una svolta, un nuovo pluralismo religioso, un nuovo patto
tra cristiani e musulmani uniti nel costruire insieme il nuovo».
Professore, è questo l’obiettivo?
La lotta al terrorismo si fa con un dialogo accompagnato da una politica di aiuti, con
rapporti economici e politici quotidiani. Non si vince con azioni militari. L’opzione bellica
non ha avuto e non ha mai senso. Non c’è un caso, un solo caso, dove abbia portato
risultati. È stato così in Afghanistan e in Iraq. E sarebbe così in Libia: l’emergenza libica
deve essere risolta obbligando tutte le rappresentanze libiche a sedersi a un tavolo
allargato. E questa offensiva diplomatica deve essere facilitata dal ruolo di Paesi esterni e
favorita dall’Europa e dall’Onu.
Perché l’opzione bellica non funziona?
Perché il vero problema sono le contraddizioni interne che scuotono i singoli Paesi. I
contrasti interni. Le lotte interne. Da un solo Iraq di ieri, oggi ne abbiamo tre. In guerra tra
di loro. Ecco il risultato di anni di guerra. C’è un Iraq sciita, uno curdo e un Iraq califfato. E
invece serviva una pacificazione interna...
L’Is è frutto della guerra?
Sì, l’Is è frutto della guerra. Una guerra che ha aumentato tensioni che già c’erano. Che le
ha moltiplicate. E che ha identificato colui che veniva dall’esterno come il nemico totale: il
nemico politico, il nemico religioso, il nemico con la N maiuscola. Ecco il frutto della
guerra.
E ora anche la Libia rischia di diventare una polveriera?
La Libia è già una polveriera.
Perché questa terribile ondata di immigrazione da Tripoli?
Perché in Libia non c’è uno Stato e non ci si può mettere d’accordo con nessuno. E poi
perché l’Europa è disattenta. Gli immigrati vanno fermati quando partono, quando arrivano
non possiamo farci più nulla. Quando c’è un dramma politico sulla terraferma si può
rispondere, si può alzare un muro, si possono immaginare azioni; ma quando sono in
mare che si fa? Un confine di mare non si ferma. Quando sono in acqua si possono solo
accogliere.
E allora quale la possibile soluzione?
Insisto: accordi larghi, dialogo. Perché o si trova un accordo o il dramma diventerà ancora
più grande. Ancora più drammatico. Parlavo con il presidente del Niger. Mi spiegava che
la loro popolazione raddoppierà nei prossimi 19 anni. E mi avvertiva: 'O si cambia tutto o
verranno da voi'. Quando hanno fame partono, il problema è darsi da fare per immaginare
soluzioni al problema fame.
Pare una sfida complicatissima...
Ma non è impossibile. In alcuni Paesi africani si registra un periodo economico non cattivo.
Si parte da zero, ma si comincia a vedere qualcosa che fa sperare. In molte realtà non
saremo lontani da un 5 per cento di sviluppo ma tutti dobbiamo fare la nostra parte.
Esiste un legame tra immigrazione e terrorismo?
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L’immigrazione ha due ragioni. C’è chi fugge per salvare la vita da zone di guerra. Penso
all’Eritrea, alla Somalia, alla Siria, all’Iraq. E chi fugge da zone di fame come la Mauritania,
il Mali, il Ciad, il Senegal, la Nigeria. Il terrorismo non c’entra. Certo i terroristi si possono
infiltrare tra tanti disperati, ma qui tocca ancora all’Europa. Per un’intelligence europea ci
vorrà tempo, ma serve subito un lavoro di prevenzione coordinato. Servono scambi di
informazioni tra i servizi di sicurezza di Paesi diversi. Servono subito misure.
Qualcuno dice 'chiudiamo le frontiere'...
E che facciamo? Chiudiamo l’Europa? Siamo in balia del mondo con un’Europa debole,
proviamo a immaginare senza Europa dove potremmo andare a finire... Rivedere
Schengen sarebbe una assoluta sciocchezza. La Ue non deve chiudersi, deve mostrare
generosità. Finora non l’ha fatto. Ha lasciato l’Italia sola e questo non va e non può
andare. Noi confiniamo con le aree più tragiche, se arrivano in 200mila li teniamo tutti qui?
Anche la politica dell’assorbimento e dei rimpatri deve essere condivisa. È vero, nella Ue
non c’è voglia di condividere, ma noi abbiamo il dovere e l’esigenza di insistere.
Torniamo a Parigi. Al mondo scosso. Che sta succedendo?
In queste ore si è fatta largo una nuova consapevolezza. Forte. Contagiosa. C’è un
attentato ai principi più profondi. E c’è la necessità di una risposta, urgente e inevitabile, di
straordinaria unità. A Parigi era chiaro: siamo tutti minacciati, tutti alla stessa maniera sotto
attacco. Una minaccia che ci prende tutti e tocca principi fondamentali come la tolleranza,
la libertà di espressione, il rispetto.
C’è Parigi, ma c’è anche il dramma della Nigeria e il terrore figlio dei crimini di Boko
Haram.
La Nigeria è il luogo dove si commettono le efferatezze più terribili al mondo. Anche in
termini quantitativi. Come nel passato in Ruanda. Efferatezze enormi, tragiche. Una
tragedia immane, ma la drammaticità non viene percepita perché è là, perché è in Africa.
Come con ebola. Quando si pensava che poteva toccare noi prendeva intere pagine dei
giornali, oggi si è tranquilli perché riguarda solo loro... Non va bene, ma la comunità
internazionale è ben felice che il problema resti circoscritto all’interno della Nigeria. E la
reazione comune è dire 'se la cavino loro'.
Il Papa parla anche di Italia e ci invita a non cedere alla tentazione dello scontro.
Siamo dilaniati come lo sono altri Paesi.
La nostra Lega è identica al Front national di Marine Le Pen. C’è qualcosa di drammatico
nelle loro mosse. Ma anche di tristemente comico: gli antieuropesti fanno i raduni collegiali
in Europa per affermare il loro antieuropeismo. Tutte le divisioni fanno il gioco
dell’integralismo.
del 13/01/15, pag. 8
Vignetta su Maometto in tre milioni di copie
Nasce il nuovo Charlie
DALLA NOSTRA INVIATA PARIGI «Habemus la copertina. E’ stata dura ma, quando
richiede tempo, il risultato è ancora migliore. Il disegno giusto è saltato fuori all’improvviso,
ma abbiamo subito capito che era lui». Sono quasi le 10 di sera quando Gerard Biar, il
caporedattore al timone della redazione dopo la morte di Charb, annuncia che il prossimo
numero del settimanale è pronto. «Vi faremo ridere, perché abbiamo pianto abbastanza.
Adesso basta». Anche se lo hanno scritto e disegnato con le lacrime, lo hanno finito fra le
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risate. E adesso Charlie Hebdo è in macchina. Si stampa. Tre milioni di copie. Quanto non
vende più nessun giornale occidentale, ormai.
L’onere e l’onore della copertina numero 1.178 toccava al decano dei disegnatori di
Charlie , Luz, caricaturista emblematico e di lungo corso del settimanale, nonché autore
della scorsa copertina, dedicata a Houellebecq. Ieri sera alle 21 si cercava ancora l’idea
giusta. Un’altra disegnatrice, Catherine Meurisse, si aggirava con una risma di fogli in
mano, prove, abbozzi, tentativi, che non la soddisfacevano: «Sono esausta» sospirava,
cambiando scrivania nel tentativo di trovare l’angolatura e l’ispirazione. I suoi lavori
compariranno insieme a inediti dei disegnatori morti Cabu, Georges, Honoré, Tignous e
Charb. Uno dei soggetti sarà il Profeta Maometto. La confezione del settimanale, la cui
redazione è stata decimata sei giorni fa dalla più grave strage terroristica degli ultimi 50
anni in Francia, si è conclusa nella massima segretezza, nella stanza all’ottavo piano
riservata ai sopravvissuti di Charlie nella sede di Libération . Un applauso liberatorio alle
21 e 08 segnala che l’idea è arrivata. L’avvocato Richard Malka annuncia che il bambino è
nato. Maschio o femmina? «Maschio».
Da venerdì i Charlie più famosi al mondo hanno lavorato senza sosta dentro l’«Oblò», un
open space con vista su Parigi e sulla Torre Eiffel. Là fuori, Charlie non è mai stato tanto
atteso. Alle 21 s’intravvedono ancora dietro al vetro i volti provati e tesi, illuminati dalla
luce azzurrina degli schermi dei computer, alle prese con le correzioni e i ripensamenti
dell’ultima ora. Davanti alla porta la squadra di poliziotti che scortano la redazione al
lavoro, aspetta senza impazienza. Anche loro hanno perso un compagno di vita e di
lavoro, Franck Brinsolaro, 49 anni, angelo custode di Charb, il direttore di Charlie Hebdo ,
e assassinato con lui. Divieto d’accesso per tutti gli altri giornalisti. Gerard Biar esce per
dire che «abbiamo deciso di dare la prima pagina come sempre a Libération , per
pubblicarla in contemporanea». La gratitudine verso Libération risale al novembre del
2011, quando Charlie Hebdo era stato ospitato nella stessa stanza dopo che la sua sede
era stata bruciata per rappresaglia, dopo la pubblicazione di una copertina irridente.
Scritto e disegnato asciugandosi gli occhi, il numero 1.178 farà ridere domani, promette
Patrick Pelloux, il medico che ha una rubrica fissa sul settimanale e che si è salvato,
mercoledì scorso, perché era in ritardo. A dispetto dell’atmosfera frenetica, attorno alla
gestazione del primo numero della nuova era di Charlie Hebdo , il dottor Pelloux non
sorride, conforta una redattrice che piange: «Il dolore è intatto» commenta. Certo, ma
Charlie è vivo. «Sì, forse è vivo — esita — mi chiedo però ancora per quanto». L’ondata di
emozione che aiuterà la diffusione di Charlie Hebdo , domani, in sedici lingue, prima o poi
si esaurirà. «Ma vogliamo dire ai terroristi che ci siamo. Anche se non sappiamo che cosa
succederà». Da foglio satirico a giornale politico? «No, restiamo un giornale satirico. In
difesa della libertà di stampa e di blasfemia. La marcia sul boulevard Voltaire: i simboli
sono lì e sono seri. Ma bisogna continuare a ridere perché quello che caratterizza gli Stati
fascisti e le dittature è voler impedire ai propri popoli di ridere». Si riderà domani,
promettono dall’Oblò. Si riderà della manifestazione di domenica? Di Hollande e
dell’omaggio sganciato da un piccione sulla spalla del presidente? Si riderà dei capi di
Stato e di governo in marcia a braccetto? Delle religioni e dei loro interpreti più fanatici?
C’è ancora tanto da ridere anche laddove verrebbe da piangere.
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Del 13/01/2015, pag. 7
Boko Haram attacca una base militare in
Camerun
Nigeria. Base militare come bersaglio. Il presidente camerunense:
«Minaccia globale»
Rita Plantera
La base militare di Kolofata nel nord-ovest del Camerun è stata attaccata ieri dai miliziani
di Boko Haram. Secondo quanto riportato ad Al Jazeera dal ministro della comunicazione
e portavoce del governo del Camerun Issa Tchiroma, circa tra i 200 e i 300 combattenti di
Boko Haram sarebbero stati uccisi durante il raid.
Citando fonti militari, Eugene Nforngwa, un giornalista del posto, ha riferito che un soldato
camerunense del Rapid Response Battalion è stato ucciso e un altro ferito durante gli
scontri. In un video postato su youtube, Abubakar Shekau, il presunto leader di Boko
Haram aveva minacciato di intensificare le violenze — alla stessa stregua della Nigeria –
dopo che il Camerun ha inviato aerei da guerra a sostegno della lotta agli integralisti nigeriani. L’attacco alla base militare camerunense segue quelli dello scorso fine settimana nel
nord-est della Nigeria, dove sarebbero stati tre baby-kamikaze gli attentatori che hanno
sparso il terrore (nel giro di pochi giorni dalla débâcle dell’importante città di Baga), a conferma di una nuova strategia che vede il coinvolgimento di donne e bambine tra le file
degli integralisti di Boko Haram. Domenica 11, a indossare la cintura esplosiva e a farla
esplodere sarebbero state due bambine di 10 anni.
L’esplosione ha scosso il mercato aperto di Kasuwar Jagwal, teatro già in passato di attacchi del gruppo sunnita jihadista islamico Jama’atu Ahlis Sunna Lidda’Awati Wal-Jihad
(«People Committed to the Prophet’s Teachings for Propagation and Jihad») più comunemente noto nelle cronache come Boko Haram («Western education is forbidden»).
Tre le vittime tra i civili e circa 46 i feriti, riporta una fonte dell’ospedale di Potiskum. Il
giorno prima un altro attacco mortale aveva colpito un affollato mercato a Maiduguri, la
capitale dello Stato del Borno. Almeno 19 le vittime e 27 i feriti per mano, anche in questo
caso, di una bambina di 10 anni. Entrambe le esplosioni, a Maiduguri e Potiskum, si sono
verificate a ridosso del raid, una settimana prima, contro 16 villaggi sulle rive del Lago
Ciad e della presa di Baga, importante centro commerciale di circa 10.000 abitanti e sede
della Multi-National Joint Task Force (Mmjtf), la forza multinazionale composta da truppe
della Nigeria, Ciad e Niger il cui quartier generale è anch’esso caduto nelle mani degli
islamisti.Non è la prima volta che Boko Haram impiega donne kamikaze nei suoi attacchi
contro i civili. Ciò che risulta inquietante e senza precedenti questa volta è l’uso di babykamikaze costrette a indossare la cintura esplosiva sotto lo hijab, il tradizionale velo islamico. Nell’arco di circa 5 anni, a partire almeno dal 2009 — quando BokoHaram è emerso
come una reale minaccia alla sicurezza del Paese — la politica in Nigeria sta perdendo
terreno contro l’avanzata territoriale di un gruppo terroristico che rappresenta una minaccia anche per gli stati confinanti, come Niger, Camerun e Ciad già bersaglio di attacchi
transfrontalieri. Recentemente, il presidente del Camerun Paul Biya ha fatto appello
all’aiuto della comunità internazionale contro quello che ha descritto come una setta parte
di un movimento «globale», che ha attaccato il Mali, la Repubblica Centrafricana e la
Somalia con l’intento di stabilire la sua autorità dall’Oceano Indiano all’Atlantico: «Una
minaccia globale richiede una risposta globale». A cinque settimane dalle elezioni presidenziali nigeriane, il prossimo 14 febbraio (in lizza il presidente uscente Goodluck Jonathan per il partito al governo il People’s Democratic Party (Pdp) e il suo principale sfidante
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Muhammadu Buhari — già ex dittatore alla guida della Nigeria dal 1983 al 1985 — per il
partito d’opposizione, l’All Progressives Congress) Boko Haram non manca di lanciare un
forte segnale di natura evidentemente politica non solo a livello locale ma che vale da
monito anche per gli altri paesi confinanti.
del 13/01/15, pag. 8
Boko Haram, il jihad e le bambine kamikaze
GLI ESTREMISTI SOGNANO UNO STATO ISLAMICO IN NIGERIA.
SCUOLE E CHIESE SONO OBIETTIVI SU CUI LANCIARE LE GIOVANI
DONNE IMBOTTITE DI ESPLOSIVI
di Roberta Zunini
Il disprezzo che Boko Haram nutre per la figura femminile, anche quella di religione
islamica, è tale che la donna viene vista solo come fattrice o schiava alla quale far fare
qualsiasi cosa. Anche la bomba umana. Per il gruppo islamista nigeriano una bambina di
dieci anni non è una creatura da proteggere ma una cosa di cui servirsi. In fondo la Nigeria
è il Paese più popoloso dell'Africa e di bambine ce ne sono a migliaia, soprattutto povere. I
jihadisti le rapiscono mentre vanno a scuola o facendo razzia nei villaggi. Boko Haram è
diventata tristemente nota in tutto il mondo ad aprile dello scorso anno dopo il sequestro di
200 studentesse da una scuola di Chibok, nello Stato di Borno. I terroristi hanno poi fatto
sapere che le avrebbero trattate come schiave sessuali, chiedendo che fossero scarcerati
militanti del gruppo in cambio della loro liberazione.
COS'È BOKO HARAM
È un gruppo militante islamista, composto esclusivamente da uomini, basato nel nord della
Nigeria. È stato fondato a Maiduguri nel 2002. Boko Haram deriva dalla storpiatura di book
(in inglese, libro) e significa “libro proibito”. Nato come gruppo salafita, si è trasformato in
un gruppo jihadista. Il fondatore fu Mohammed Yusuf, imam e protagonista di diversi
attentati; arrestato nel luglio 2009, morì pochi giorni dopo in cella. Gli è succeduto
Abubakar Shekau, attuale leader. Anche se la sua identità presenta elementi di
contraddizione. I suoi seguaci sarebbero influenzati dalla frase del Corano che afferma:
"Chiunque non sia guidato da ciò che Allah ha rivelato è un trasgressore". È proibito
(haram) anche partecipare a qualsiasi attività politica o sociale che sia legata alle abitudini
occidentali. Queste vanno dal voto, all'istruzione all'abbigliamento. Ciò che invece deve
fare un jihadista è combattere il governo centrale perché ritenuto guidato da non credenti.
Il presidente Jonathan è infatti un cristiano. Nel 2013 Boko Haram è stato dichiarato
organizzazione terroristica dal dipartimento di Stato Usa. Nel maggio 2014 il Consiglio di
sicurezza Onu l'ha aggiunto alla lista delle organizzazioni colpite da sanzioni.
I CONTATTI
Affiliato ad al Qaeda e ad Aqmi (al Qaeda nel Maghreb islamico), ha contatti anche con gli
Al-Shabaab somali.
GLI ATTENTATI
Inizialmente avevano come bersaglio stazioni di polizia e altri edifici governativi ma dal
2011 ci sono state bombe contro chiese, pullman, locali, caserme, sedi Onu. Anche le
scuole sono entrate nel mirino perché simboli dell'educazione occidentale. Nel luglio 2013
una sparatoria contro una scuola di Yobe ha ucciso 42 persone, in gran parte studenti, e
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nel settembre dello stesso anno un assalto ha causato la morte di altri 40 in un liceo di
Gujiba. Nel 2014 c'è stato un attacco contro una scuola finito con la morte di 50 ragazzini.
MIGLIAIA DI VITTIME
Lo scorso anno Boko Haram ha ucciso oltre 6030 civili, mentre dall’1 giugno 2011 le
vittime sono stimate circa 12.600 (dati: Nigeria Security Tracker, Council on Foreign
Relations). A maggio 2014, il presidente Jonathan aveva parlato di 12.000 morti e 8000
mutilati e migliaia di profughi.
L’EVOLUZIONE
Boko Haram fino al 2009 aveva agito sporadicamente. Il cambiamento avvenne 6 anni fa
quando iniziò una violenta repressione da parte dell'Esercito che scatenò un'altrettanta
violenta reazione dei terroristi, dopo l’arresto e la morte in cella di Yusuf. La sua figura non
è stata realmente sostituita e al suo posto decide una sorta di collegio. Dopo l'assassinio
del leader, ha preso il sopravvento l'ala più violenta del gruppo. Che tiene le redini del
gruppo dal 2011, quando venne eletto alla presidenza della Federazione nigeriana il
cristiano Goodluck Jonathan. Gli attentati nella capitale federale Abuja, contro il quartier
generale della polizia e la sede delle Nazioni Unite hanno dimostrato che la setta è ora
capace di colpire nel cuore della Federazione. Boko mira alla creazione di uno Stato
Islamico in Nigeria.
Da Avvenire del 13/01/15, pag. 7
“Anche qui in Nigeria una marcia
antiviolenza”
Matteo Fraschini Koffi
«La nuova strategia di Boko Haram che usa bambine innocenti come bombe umane è
aberrante e inimmaginabile. Penso alla grande manifestazione di Parigi e auspico anche
qui una grande marcia di unità nazionale che superi le divisioni politiche, etniche e
religiose. Dobbiamo dire no alla violenza e trovare una soluzione ai problemi che
affliggono la Nigeria». Così ha commentato all’agenzia Fides, Ignatius Ayau Kaigama,
arcivescovo nigeriano della città di Jos, criticando l’Occidente per la sua mancata
attenzione al terrorismo in Nigeria.
Il suo appello giunge in un momento di altissima tensione politica nel Paese. Manca infatti
solo un mese alle elezioni generali nigeriane e il presidente cristiano Goodluck Jonathan,
candidatosi per un secondo mandato, ha già dichiarato di non volere "interferenze" in
questo periodo. Ma mentre i politici combattono per la vittoria elettorale, altre due
ragazzine si sono fatte esplodere domenica scorsa nel Nord del Paese.
L’attentato ha colpito il mercato di Kasuwar Jagwal a Potiskum, capitale commerciale dello
Stato federale di Yobe. Si calcolano più di 20 morti e almeno 40 feriti. Non ci sono ancora
state rivendicazioni, ma le autorità non hanno dubbi: Boko Haram sta utilizzando i più
indifesi per seminare terrore. «Due ragazze sono arrivate in bici al mercato nel primo
pomeriggio», ha detto ieri alla stampa Muktari Ibrahim, un residente della città.
«La prima attentatrice è riuscita a superare la sicurezza. La seconda, invece – ha
continuato Ibrahim –, si è spaventata ed è corsa verso l’altro lato della strada sperando di
salvarsi. Ma è saltata in aria comunque». Le due deflagrazioni hanno scagliato entrambi i
corpi smembrati delle vittime a diversi metri di distanza. Sono stati gli agenti di polizia ha
recuperare i poveri resti delle due giovani. «La prima ad esplodere aveva poco più di 20
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anni – ha affermato un ufficiale governativo –, mentre quella che ha tentato di scappare
non poteva averne più di 15». I qaedisti di Boko Haram hanno immolato almeno 8
ragazzine negli ultimi mesi, quella di sabato scorso aveva appena 10 anni.
Da quando le forze di sicurezza sono riuscite a prevenire alcune esplosioni di auto-bombe
presso i posti di blocco, gli edifici governativi o le chiese, i terroristi hanno cambiato tattica.
«Le giovani attentatrici possono aver subito un pesante lavaggio del cervello o vogliono
vendicare la morte di un loro parente – hanno spiegato fonti dell’intelligence nigeriana –.
Ma nella maggior parte dei casi sono forzate dagli insorti a indossare la cintura esplosiva
sotto il velo». Ieri il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, ha dichiarato: «Useremo
tutti i mezzi necessari per alleviare le sofferenze del popolo nigeriano». Sono oltre 10mila
le persone uccise da Boko Haram durante il 2014 e almeno 1,7 milioni i profughi. Circa
3.200 persone sono state invece evacuate verso la città di Maiduguri dopo essere
scappate da Baga, una cittadina dove sono probabilmente morte 2mila persone.
Ma i guerriglieri di Boko Haram continuano ad attaccare anche nel vicino Camerun. Ieri
hanno assaltato la città di Kolofata, nel Nord del Paese. I militari camerunesi hanno detto
di aver ucciso 200 ribelli e di aver perso uno solo soldato.
Del 13/01/2014, pag. 21
Grecia. Entra nel vivo la campagna elettorale in vista del voto del 25
gennaio
Samaras sfida Syriza: se vinciamo meno
rigore
Ma i sondaggi danno a Tsipras un vantaggio di tre punti
Il premier greco Antonis Samaras, di ritorno dalla storica manifestazione di Parigi in
sostegno della laicità e dei giornalisti di Charlie Hebdo, va al contrattacco in vista delle
elezioni del 25 gennaio prossimo con promesse anti-austerity e una diluizione del debito.
Se i sondaggi gli sono ostili, il primo ministro di centro-destra cerca di agguantare la
“lepre” del maggior partito di opposizione Syriza promettendo, come Alexis Tsipras, la fine
del rigore. In questo modo Samaras spera di azzerare i tre soli punti percentuali che lo
separano dal leader della sinistra radicale. Secondo i risultati di un sondaggio condotto a
livello nazionale tra il sette e l’otto gennaio dalla società Kapa Research per conto
dell’edizione domenicale del quotidiano To Vima, il secondo per diffusione del Paese,
Syriza ottiene il 28,1% delle preferenze contro il 25,5% di Nea Dimokratia, il partito di
Samaras. Al terzo posto si trova To Potami (il Fiume) la nuova formazione politica di
centro-sinistra con il 6,5%. Seguono il partito filo-nazista Chrysi Avghì (Alba Dorata) con il
5,4%, il Pasok (socialista, che insieme con Nea Dimokratia forma l’attuale governo di
coalizione) con il 5,2% e il Partito Comunista di Grecia (Kke) con il 5 per cento. Il partito
dei Greci Indipendenti (Anel) e il movimento dei Socialisti Democratici, creato pochi giorni
fa dall’ex premier socialista George Papandreou, resterebbero fuori dal Parlamento
avendo ottenuto rispettivamente il 2,6% e il 2,8% (al di sotto della soglia di sbarramento
del 3%). Da parte sua, Sinistra Democratica (DiMar), di Foutis Kouvelis, il partito che per
un anno ha fatto parte del governo di coalizione, non raggiunge nemmeno l’1% delle
preferenze.
In questo quadro ancora molto incerto Samaras ha deciso di giocare in modo
spregiudicato, tipico della lotta politica greca, le stesse carte suadenti di Syriza
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annunciando meno tasse sulla casa e il taglio drastico delle imposte sulle imprese. Inoltre
ha promesso di congelare nuove manovre su pensioni e stipendi. Il leader di Nea
Dimokratia ha annunciato il varo di un piano per creare 770mila nuovi posti di lavoro entro
il 2021, tralasciando però di specificare con quali fondi visto che lo stesso premier ha
congelato l’arrivo dell’ultima tranche di aiuti, pari a 7 miliardi di euro, rifiutando di accettare
tagli per 2,5 miliardi voluti dalla troika, in particolare dal rappresentante dell’Fmi, in
rappresentanza dei creditori internazionali.
Samaras è poi passato a illustrare in dettaglio i due assi nella manica della sua politica
fiscale: la riduzione della tassa unica sulla casa, un’imposta che ha colpito soprattutto la
classe media, tradizionale bacino d’utenza di Nea Dimokratia, e la riduzione dal 26% al
15% delle imposte societarie così da incentivare gli investimenti e ridurre la
disoccupazione che viaggia al 25,8 per cento. Samaras è convinto che «di fronte a un
paese e a interlocutori affidabili Bce, Ue e Fmi concederanno dilazioni e agevolazioni su
tassi e scadenze del debito ellenico». In sostanza Samaras ha ricordato agli elettori che se
dovessero dare fiducia ai partiti filo-europei, come Nea Dimokratia e il Pasok, sarà più
facile ottenere condizioni più vantaggiose per fronteggiare il pagamento del debito che
oggi ha raggiunto i 330 miliardi di euro pari al 175% del Pil ma che è all’80% in mani
pubbliche. Samaras ha giocato la carta della continuità per convincere gli elettori che con
lui al governo si avrebbero più margini di manovra con Berlino e spuntare condizioni più
vantaggiose. Poi ha ricordato che andrà avanti con le privatizzazioni (che Syriza vorrebbe
bloccare). Gli opinionisti greci di centro-destra inoltre ricordano da giorni che Samaras è il
candidato preferito dalla troika. Non a caso il presidente della Commissione Ue, JeanClaude Juncker, che ha seguito come presidente dell’Eurogruppo tutta la vicenda greca fin
dall’inizio, l’ha ammesso quando ha rilasciato alla stampa la seguente dichiarazione:
«Preferisco i volti noti». Anche il cancelliere tedesco Angela Merkel, sebbene resti
ufficialmente neutrale, spera che Nea Dimokratia riesca a chiudere il gap di tre punti che
ha ancora nei sondaggi. Samaras ha lanciato un messaggio di rassicurazione contro
l’eventualità di una vittoria di Syriza che potrebbe portare il Paese in conflitto con la troika
ed a una condizione di instabilità politica. Il centrodestra, invece, spera di ottenere
maggiori concessioni sul pagamento del debito dai partner europei e dall’Fmi, proprio
come ricompensa per il senso di responsabilità dimostrato dagli elettori.
A quel punto si potrebbe facilmente ridurre il livello degli interessi (oggi all’1,5%), allungare
i termini dei pagamenti e incassare l’ultima tranche di aiuti da sette miliardi, seguita da una
linea di credito precauzionale. E aspettare i primi benefici della ripresa prevista nel 2015
con il Pil in crescita del 2,9 per cento.
Quanto a Syriza, il partito di sinistra radicale in testa nei sondaggi, è interessante notare la
posizione prudente di Klaus Regling, capo del Fondo salva-stati (Esm) e uno dei maggiori
creditori della Grecia, secondo cui «i partiti all’opposizione assumono posizioni intrasigenti
durante la campagna elettorale ma una volta al governo prendono toni più moderati».
Del 13/01/2015, pag. 7
In Croazia Kolinda Grabar-Kitarovic è
presidentessa. La destra pro Nato conquista
le elezioni
Croazia. Per la prima volta una donna capo dello Stato
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Luka Bogdanic
Al secondo turno delle elezioni presidenziali, la Croazia ha eletto Kolinda Grabar-Kitarovic
nuovo capo dello Stato, con il 50,74% dei voti. Il presidente uscente Ivo Jospovic lascia
l’incarico con il 49,26%. La destra croata vince per un pelo, strappando la vittoria a un grigio e flebile pseudo centrosinistra. Si tratta di una vittoria su cui pesa, anche, il voto della
diaspora. Il tutto condito con un’affluenza intorno al 59,06%. Grabar-Kitarovic sarà la prima
donna capo dello Stato della Croazia. Si tratta però di un falco dalle chiome bionde o di un
colonnello in gonna. Perché, ricordiamolo, è espressione di una destra asservita alla Nato.
Grabar-Kitarovic infatti, arriva direttamente dall’Alleanza atlantica, dove fino a ieri era
segretario aggiunto. In piena coerenza con la parabola della caduta del muro di Berlino,
e le democrature che ne sono seguite all’est, la Croazia è il primo paese al quale la Nato
ha «imposto» democraticamente, come presidente, un suo dipendente. Brutta storia quella
dei croati, che da popolo di un paese non allineato all’epoca del socialismo, ritornano
a essere i pretoriani della reazione, come nell’Ottocento sotto il sanguinario Bano Jelacic.
È da sperare che il falco dalle chiome bionde arrivato dalla Nato, sarà meno violento del
barbaro Jelacic. Per adesso una cosa è sicura, Grabar-Kitarovic può telegrafare al suo
vero stato maggiore: missione compiuta! Così la Croazia si conferma l’ante murales di
un’Europa egoista e dominata da revisionismi e populismi, in cui i ricchi diventano sempre
più ricchi e i poveri sempre più disperati.C’è da aspettarsi che il paese, già in miseria,
aumenti ora la spesa militare. Se recentemente si dibatteva sull’acquisto o meno di nuovi
aerei militari, adesso la questione è chiusa. Ci si può attendere che la Croazia s’impegni
maggiormente sul fronte orientale, nonché diventi un vigile sorvegliante della Bosnia, sempre più rifugio dei fondamentalisti islamici, mentre una volta era patria di musulmani laici
e tolleranti, finché i nazionalismi non hanno sostituito l’ideologia socialista e la Nato non ci
ha messo le mani.
Grabar-Kitarovic, nella campagna elettorale si è dichiarata favorevole alla reintroduzione
del servizio di leva obbligatorio. In campagna elettorale ha pesato la questione dei reduci
dell’ultima guerra. Un gruppo di fanatici che da mesi campeggiano a Zagabria chiedendo
privilegi particolari, «poiché hanno dato in guerra la loro giovinezza per la patria». Nessuno ha coraggio di dire loro che hanno combattuto per il capitalismo e che in questo i privilegi sono solo per i ricchi. Anche questa volta molti croati si sono fatti abbindolare dalla
propaganda nazionalista, soccorsa dal fondamentalismo della chiesa cattolica, che con
gran piacere mette il guinzaglio al proprio gregge.
A Zagabria, domenica, nella sede dell’Hdz (partito fondato da Tudjman), è iniziata la kermesse celebrativa in onore della nuova presidentessa. La colonna sonora riproponeva
canzoni patriottiche degli anni Novanta.
Auguriamoci che Grabar-Kitarovic ci sorprenda, anche se l’annullamento della condanna
per i crimini di guerra – uccisione dei civili serbi – al satrapo Branimir Glavas da parte della
Corte costituzione per motivi procedurali giorno dopo la vittoria della candidata del centro
destra non fa sperare nulla di bene.
Del 13/01/2015, pag. 16
Haiti cinque anni dopo, cosa resta?
Storie. Nel quinto anniversario del sisma che causò 230 mila vittime, a Port au
Prince più che il pane manca la democrazia. E la gestione degli aiuti è stata
pessima. Ma non tutto è stato inutile
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Raffaele K. Salinari
Haiti cinque anni dopo il sisma cha causò 230 mila vittime immediate e moltissimi altri feriti
e menomati e più di un milione e mezzo di senza casa. Cosa resta di quella gara di solidarietà che ha coinvolto il mondo nella ricostruzione dell’isola?
Le proteste di questi giorni sono già una prima risposta: è dal 2011 che la popolazione di
Haiti attende di andare alle urne; una sospensione democratica motivata anche dallo stato
di eccezione permanente indotto dal terremoto e dalle dinamiche che si sono innescate
a causa del flusso massiccio di aiuti internazionali. Aiuti che hanno mostrato le diverse filosofie che animano la ricostruzione. Se da una parte, infatti, molte ong internazionali si
sono concentrate sulla ricostruzione di scuole, piccoli centri di salute, case popolari, altri
grandi donatori hanno preferito concentrarsi su strutture più appariscenti, i grandi centri
commerciali, gli hotel di lusso, i palazzi del potere, dando un indubbio connotato di classe
alla gara di solidarietà. Se questo non bastasse a rendere perlomeno critico il bilancio di
cinque anni di aiuti, si dovrebbe aggiungere una riflessione che motiva, almeno in grande
parte, le mobilitazioni popolari di questi giorni: non basta ricostruire le infrastrutture, bisogna anche ricostruire il tessuto civile. Ed è proprio questa la parte più debole del bilancio
dei cinque anni passati. Solo le ong internazionali, che d’altra parte erano già presenti ad
Haiti pima del terremoto, hanno saputo coniugare la ricostruzione delle infrastrutture di
servizio con il rafforzamento della società civile locale. Questa è la parte più difficile per
diversi ordini di motivi. Prima di tutto l’instabilità politica di Haiti fa gioco alle potenze regionali che, ancora, si contendono la leadership sulla piccola nazione caraibica. Il Grande
Gioco intorno a chi comanda realmente ad Haiti esiste da quando l’isola è diventata indipendente, cioè dai tempi delle prima sconfitta di Napoleone in terre d’oltremare. Da allora
la Francia non ha mai rinunciato al dire la sua, naturalmente contrastata dagli Usa che,
con la Dottrina Monroe, vedevano Haiti come parte del loro «cortile di casa». Il terremoto
ha moltiplicato il protagonismo degli attori regionali che, con la motivazione della solidarietà, hanno cercato di piazzarsi sull’isola espandendo le loro aree di potere: Non solo gli
Usa e la Francia dunque, ma anche Cuba, il Brasile e via via scendendo di livello tutti
i donatori internazionali.Questi contrasti geopolitici hanno finito per ostacolare non tanto
l’arrivo degli aiuti, quanto la loro efficiente gestione, con il risultato che, a fronte di diversi
miliardi di euro donati, circa la metà dei danni resta ancora senza risposta. Haiti, in sintesi,
resta una nazione a forte sovranità limitata, e il terremoto non ha certo modificato in
meglio questa situazione. Altro punto di criticità è quello che potremmo definire «geomediatica», cioè la capacità dei media di amplificare una situazione di crisi tanto da spingere
a un flusso di donazioni a fini geopolitici per poi, una volta spenti i riflettori, far dimenticare
la crisi con altrettanta rapidità. Nel caso di Haiti le sfide geopolitiche erano importanti, basti
pensare che la gestione dell’aeroporto di Port au Prince per il controllo dei flussi aerei,
vinta dagli Usa, significava la possibilità di sperimentare in corpore vili, una logistica che
sarebbe stata utilissima anche in caso di una guerra. Passata la prima onda mediatica sul
dramma haitiano si sono però spenti i fari, lasciando i donatori di lungo periodo scoperti
sul fianco dell’informazione. Nel frattempo altri riflettori si sono accesi su altri drammi, più
o meno indotti, e le opinioni pubbliche sono state portate a guardare altrove. Per quanti
operano, ad esempio, attraverso il sostegno a distanza dei bambini, la scelta più corretta
per aiutare in loco chi vuole restare a ricostruire la sua terra, questi spostamenti repentini
di fronte sono esiziali. E dunque è stato tutto inutile? Chi si è speso per Haiti cinque anni
fa o ha continuato a farlo durante la bassa dell’onda informativa ha fallito? Niente affatto,
e le manifestazioni di questi giorni sono una risposta anche a questo. Se analizziamo
infatti chi scende in piazza, vediamo che si tratta spesso degli esponenti di quella società
civile organizzata che hanno saputo approfittare degli aiuti internazionali, della solidarietà
diffusa, del sostegno delle ong, per strutturare le loro organizzazioni e chiedere ciò che ad
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Haiti manca oggi più del pane: la democrazia.
* Terre des Hommes
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INTERNI
del 13/01/14, pag. 14
Napolitano lascia domani ultimo appello al
premier
“Le mie dimissioni non blocchino le riforme”
Ieri vertice prima del discorso di fine semestre a Strasburgo L’impegno
di Renzi: Italicum e nuovo Senato entro gennaio
FRANCESCO BEI
UMBERTO ROSSO
ROMA .
L’ultimo atto, domani attorno a mezzogiorno: gli onori militari che i corazzieri gli
renderanno nel cortile del Quirinale. Le lettere di dimissioni di Napolitano a quel punto
saranno già partite, non c’è spazio per ripensamenti o rinvii. Il capo dello Stato, dopo nove
intensi e tormentati anni nel palazzo dei Papi, con grande commozione chiude così la più
lunga stagione di un presidente della Repubblica. L’unico ad essere stato eletto due volte.
A Renzi, incontrato ieri, la conferma definitiva: «Mercoledì lascio». Una certezza che al
premier era stata più volte ribadita nelle scorse settimane senza possibilità di repliche.
«Presidente - è stata la risposta del capo del governo da parte nostra c’è pieno rispetto
per la sua scelta. Noi faremo di tutto per portare a compimento le riforme e sono convinto
che riusciremo a farcela prima di eleggere il suo successore ».
Renzi è consapevole dei rischi che si aprono in questa fase, con l’avvicinarsi dei voti
segreti sul Quirinale mentre la riforma elettorale e quella costituzionale sono ancora aperte
in Parlamento. Un intreccio pericoloso noto anche al capo dello Stato, che tuttavia ha
scelto di non temporeggiare oltre nell’addio. «Dovete fare in modo che le mie dimissioni
non rallentino o blocchino le riforme», è stata l’ultima indicazione del Presidente. Insieme a
un “consiglio” riguardo all’identikit del successore. Per Napolitano, ma anche Renzi se ne
è convinto, dovrà essere infatti «una figura di alto profilo, un politico con molta esperienza
istituzionale alle spalle».
Il colloquio tra i due, l’ultimo prima delle dimissioni, scivola quindi sui temi legati al
semestre europeo. Renzi oggi vola a Strasburgo per il consuntivo della presidenza di turno
italiana, l’atto finale al quale Napolitano aveva legato la sua permanenza al Colle. Il
premier gli ha anticipato quanto dirà agli eurodeputati. L’idea di un’Europa dei valori, non
solo delle percentuali. «A Parigi - gli ha riferito Renzi - ho toccato con mano una solidarietà
nuova tra tutti i leader. Anche nei suoi confronti c’è molto affetto. Le porto gli auguri e i
riconoscimenti per il ruolo a favore dell’Europa che mi hanno personalmente consegnato
Merkel e Cameron». L’intervento nell’aula dell’europarlamento chiuderà il cerchio
“omerico” iniziato sei mesi fa, nello stesso emiciclo, con la citazione della «generazione
Telemaco », quella che deve tornare ai valori dei padri fondatori. La «cultura» e la
«formazione» come «antidoto all’odio e al terrore » dei nemici dell’Occidente. E la difesa
dell’apertura delle frontiere di Schengen «contro tutte le strumentalizzazioni e i populismi».
Da quelle conquiste non si deve tornare indietro.
La certezza sulla data delle dimissioni costringe il governo a stringere i tempi sulle riforme.
Di questo il ministro Boschi è andata ieri a riferire al Colle. «Entrambe le leggi - ha
assicurato a Napolitano - sia quella elettorale che la modifica del bicameralismo saranno
approvate tra il 23 e il 26 gennaio. Prima dunque della convocazione del Parlamento in
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seduta comune con i grandi elettori». Un ottimismo che si scontra però con le trappole che
a palazzo Madama rischiano di bloccare il cammino dell’Italicum. Le minoranze del Pd e di
Forza Italia sono infatti decise a modificare nel profondo il progetto Renzi. Una quarantina
di senatori dem insistono nel far saltare i cento capolista bloccati. E proprio per superare
questo muro il premier ha chiesto a Zanda di riunire giovedì mattina un’assemblea del
gruppo, a cui parteciperà personalmente, per cercare di disinnescare la rivolta. Senza
tuttavia concedere nulla che vada oltre il patto siglato con Berlusconi. «Sarà dura
modificare quanto concordato», ammettono i colonnelli renziani. Mentre Roberto Giachetti
già minaccia di iniziare uno nuovo sciopero della fame se l’Italicum non vedrà la luce
«entro la fine di gennaio». Oggi i capigruppo di maggioranza presenteranno un
maxiemendamento con dentro tutte le modifiche all’Italicum 2.0, dal premio alla lista allo
sbarramento al 3 per cento. Ma i forzisti, o meglio l’ala ribelle vicina a Fitto, minacciano di
unire i propri voti e fare asse con la minoranza Pd se il governo non metterà nero su
bianco la clausola di garanzia che rinvia l’entrata in vigore della legge al 2016. «Quella
clausola va approvata prima di tutto - avverte Augusto Minzolini - e solo così si possono
creare le condizioni per un confronto intelligente, senza ostruzionismi. Bisogna ristabilire
un clima di fiducia, perché ormai di Renzi non si fida più nessuno».
A palazzo Chigi scattano le contromisure. È stata istituita una cabina di regia per
monitorare i voti dei singoli senatori e deputati sulle due riforme. «Sarà un test di tenuta e
di fedeltà dei nostri parlamentari spiega una fonte vicina al premier - una prova generale in
vista del voto sul Quirinale». Luca Lotti e Lorenzo Guerini sono impegnati già da giorni in
colloqui con i singoli per predicare «unità» e invitare a non indebolire il partito in vista della
prova più difficile della legislatura: l’elezione del presidente della Repubblica.
del 13/01/15, pag. 16
Il metodo Renzi per il Colle “Farò un nome
solo, senza rose e sarà uno di noi, del Pd”
Ma la sfida del premier non esclude un incontro con Berlusconi Il primo
obiettivo è compattare il partito. Venerdì la direzione
GOFFREDO DE MARCHIS
ROMA .
A 24 ore dalle dimissioni di Giorgio Napolitano, Renzi fissa le regole del gioco per la
successione. «Non farò una rosa di nomi. E’ una pratica della vecchia politica. Il Pd è
capace di esprimere un unico candidato autorevole». Il nome secco verrà ovviamente
sottoposto al vaglio di tutti i grandi elettori o meglio dei loro capi, ma il premier-segretario
vuole evitare che sia qualcun altro a scegliere nel mazzo democratico. Una prova di forza,
se vogliamo, che si fa scudo anche della debolezza del principale interlocutore,
Berlusconi. L’identikit che ha in mente Renzi contiene un altro tassello: «Il candidato sarà
uno di noi, del Pd. Un politico», racconta ai suoi collaboratori. Finiscono così i sogni di
gloria per tecnici, esterni e concorrenti provenienti dal mondo centrista.
Da Palazzo Chigi, quando manca pochissimo all’addio del capo dello Stato, cominciano
quindi a filtrare non solo criteri di metodo ma anche indicazioni politiche. La “rosa” sembra
davvero non avere alcun senso, tanto più con un Berlusconi disponibile a non mettere veti,
ad accettare un nome qualsiasi a patto che non sia palesemente ostile, un Berlusconi che
chiaramente sconta una posizione molto indebolita rispetto a un anno e mezzo fa quando
fu decisivo nel bis di Napolitano. Forza Italia è indispensabile numericamente per eleggere
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il nuovo presidente della Repubblica ma sul piano politico ha scarsi margini di manovra.
Ad Arcore, per esempio, la vicenda del decreto fiscale la raccontano in maniera
machiavellica: «Ha fatto tutto Renzi. Ha scritto la norma del 3 per cento per mandarmi un
segnale in vista del voto sul Colle. Ma l’ha pasticciata per farla saltare e non escludo che
sia stato lui a passarla ai giornali», è la versione sospettosa dell’ex Cavaliere. E tu ti fidi
ancora, gli hanno chiesto quelli del cerchio stretto. «Non posso fare altrimenti — è stata la
risposta del leader di Fi — . Se penso alle alternative, per noi Renzi è la soluzione meno
pericolosa».
I rapporti di forza sono questi. E non è certo un caso che il premier continui a ripetere:
«Prima di tutto devo chiudere la partita dentro al Pd». Il problema si annida nei gruppi
parlamentari di Largo del Nazareno, nel mare magnum dei suoi numeri giganteschi: ben
450 grandi elettori e chissà quanti franchi tiratori. Il primo tempo del match si gioca
venerdì, nella direzione convocata ieri in tutta fretta. Sarà l’occasione per aggiornare la
“lista” che Luca Lotti tiene nel cassetto e nel suo pc. Anzi, per dargli una struttura molto più
definita, con le cifre di fedelissimi, incerti, contrari e irriducibili antirenziani, anche sulla
base dell’identikit che Renzi proporrà ai compagni di partito e delle prime reazioni che si
manifesteranno nella riunione. Seppure scremato da tecnici e esterni, con i criteri fissati
dal segretario il gruppo dei candidabili rimane abbastanza folto. Il Pd può schierare
parecchi nomi, tra quelli di maggior peso e altri con chance minori ma sempre potenziali
outsider. Si parte dagli ex segretari: Walter Veltroni, Piero Fassino, Dario Franceschini,
Pier Luigi Bersani. Sullo sfondo rimane il fondatore Romano Prodi che però ad Arcore
continua a essere visto come un nemico. Ci sono poi le “sorprese”: Anna Finocchiaro,
Paolo Gentiloni, Pierluigi Castagnetti, Graziano Delrio, Roberta Pinotti, Arturo Parisi.
Adesso l’elenco di Lotti, braccio destro e sinistro del premier, comincia ad avere elementi
di maggiore precisione. I voti sicuri dentro al Pd sono abbinati ai singoli nomi, per ca- pire
chi in partenza ha più possibilità di arrivare al traguardo senza inciampare nel voto
segreto.
Renzi promette un presidente dalla quarta votazione, quando sarà sufficiente la
maggioranza assoluta degli aventi diritto, ovvero 505 voti. Vuole un nuovo inquilino del
Quirinale il 30 gennaio, all’indomani della prima seduta delle Camere congiunte, al
massimo il 1 febbraio. Per arrivare a quella soglia ha bisogno dell’appoggio Forza Italia e
dei centristi, fondamentali cuscinetti contro franchi tiratori sparsi e inevitabili. Al momento il
premier non esclude un incontro faccia a faccia con Berlusconi. In cambio di un’assenza di
veti si può ben concedere l’onore delle armi di un patto del Nazareno anche sul
successore di Napolitano. Semmai il vertice si farà avverrà a ridosso del 29 febbraio. E
non prima dell’assemblea dei grandi elettori democratici alla quale Renzi affida il compito
solenne di offrire la soluzione. Dev’essere una assunzione di responsabilità collettiva, per
far capire che un eventuale fallimento non potrà non avere ripercussioni sul partito e sulla
legislatura, facendola finire in anticipo. La direzione è solo un passaggio iniziale, nelle
intenzioni di Renzi. Conterrà anche un omaggio formale e sostanziale all’uscente capo
dello Stato per i nove anni di servizio al Paese. Ma venerdì, senza dubbio, si inizierà a
scoprire le carte sul dopo.
Del 13/01/2015, pag. 1-2
Caos nel Pd della Liguria, domani Cofferati
decide
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Primarie. Lo sconfitto denuncia le irregolarità, si aspetta il verdetto dei
garanti. Il duo Paita-Burlando raccoglie una valanga di voti, anche a
destra. Civatiani e sinistra in cerca di un piano B
Katia Bonchi
A Pegli un manifesto di Raffaella Paita sarebbe stato affisso direttamente sulla porta del
seggio. Nel quartiere popolare di Voltri parecchi anziani sarebbero stati portati a votare
convinti che con quel voto qualcuno avrebbe risistemato le loro fatiscenti abitazioni di edilizia pubblica. A Badalucco, piccolo paese dell’imperiese, il seggio avrebbe aperto un’ora
prima di quanto previsto e all’arrivo del rappresentante di lista a sostegno di Cofferati già
25 persone avevano votato. Sono alcune delle segnalazioni che il comitato per Cofferati
ha raccolto e inviato ai garanti che mercoledì mattina dovranno pronunciarsi sulle presunte
irregolarità durante il voto delle primarie liguri. Un voto da cui la 40enne renziana Raffaella
Paita, assessora regionale alle infrastrutture e alla Protezione civile, sponsorizzata dal presidente della Regione Liguria Claudio Burlando, è uscita vincitrice con 28.973 voti su poco
meno di 55 mila.
Per l’ex segretario della Cgil Sergio Cofferati i voti sono stati 24.916. Uno scarto di oltre
4 mila voti, troppi per ipotizzare un annullamento anche se le irregolarità, verbalizzate
soprattutto nei seggi del levante e del ponente ligure, restituiscono un Pd tutt’altro che
unito nel sostenere il candidato vincente. «Non chiedo l’annullamento del voto, ma voglio
che il collegio dei garanti esamini tutti i ricorsi in modo che ci sia un quadro definito di
quanto accaduto e delle conseguenze che ci saranno» ha ripetuto Cofferati. «Sono state
primarie snaturate con il voto di sostenitori del centrodestra e di gruppi organizzati di stranieri come i cinesi che non parlano l’italiano o i sedicenni marocchini».
Proprio gli stranieri sono, insieme all’affluenza tanto alta, la vera sorpresa di queste primarie. In base alle segnalazioni, oltre ai cinesi in coda al seggio della Spezia, ci sarebbero
i marocchini andati in massa a votare ad Albenga, i nigeriani (una quarantina) portati
a gruppi di sei da una connazionale in un seggio savonese. Ancora, sempre a Savona nel
quartiere di Villapiana un italiano avrebbe accompagnato al seggio gruppi di immigrati
«chiedendo di votare la donna e all’uscita si faceva dare un cedolino che dimostrasse che
avevano votato» racconta Viola Boero che per il comitato a sostegno di Cofferati ha raccolto le segnalazioni arrivate dai seggi . In questo caso come in altri il seggio è stato
chiuso e riaperto dopo la verbalizzazione. Ancora esponenti e consiglieri in carica di Ncd
sono stati «avvistati» nei seggi della Spezia e dell’estremo ponente ligure. «Non mi aspettavo una Liguria come Napoli» commenta il vicesindaco di Genova Stefano Bernini, «non
è una bella pagina per la politica ligure. Nonostante ci sia stata una buona affluenza questa potrebbe essere la parola fine su un sistema di primarie che inizia a mostrare difficoltà». Al di là delle irregolarità vere, presunte o ingigantite, che qualcosa che non abbia
funzionato lo rivelano i numeri. A Genova, il cui comune conta 600mila abitanti sono andati
a votare in poco più di 19 mila persone, mentre alla Spezia, che di abitanti ne ha 90 mila,
i votanti sono stati oltre 14.500. Come ha commentato a caldo domenica sera il direttore
del Secolo XIX Genova è la vera perdente di queste primarie, l’unica provincia in cui Cofferati ha vinto ma anche quella che ha espresso percentualmente il minor numero di
votanti. Anche la ministra Pinotti, sostenitrice di Paita, ha sottolineato la necessità per la
vincitrice di «lavorare su Genova». D’altronde, sono i paitiani stessi a dirlo, la vituperata
’politica delle bocciofile’, vale a dire la continua presenza della coppia Burlando-Paita, nei
piccoli comuni ha pagato: «La vittoria di Paita aè il segnale chiaro che lavorare sul territorio alla fine paga» rivendica il coordinatore dei 200 comitati pro-Paita Alessio Cavarra.
La vincitrice prova a smorzare le polemiche: «Oltre 4 mila voti sono una vittoria schiacciante, e prima verrà riconosciuta prima potremo metterci al lavoro per le elezioni regionali
e credo che ci sarà un gran bisogno anche del contributo di Cofferati». Ma il partito è lace32
rato e anche se un punto fermo potrà arrivare domani con il pronunciamento dei garanti,
cui seguirà l’ufficializzazione del vincitore da parte del comitato politico, difficilmente servirà a ricomporre i cocci. E se i civatiani minacciano di opporre a Paita un candidato alternativo insieme a Sel e alla sinistra, i sostenitori di Cofferati, a partire dalle segreterie del
Pd genovese e ligure, non si sentono troppo bene. La prima a far le spese del new deal
potrebbe essere la giunta Doria, da sempre bersaglio politico di Paita e oggi alla prova del
voto su una delibera, quella sulla Gronda autostradale, contestatissima a sinistra. E che,
dopo la vittoria della fazione paitiana del Pd, potrebbe affondare definitivamente la giunta
del sindaco arancione.
Del 13/01/2015, pag. 2
Fine dell’era del gazebo. Anche Sel sbatte la
porta
Democrack. Da Romano Prodi a Walter Veltroni fno alla crisi nera di un
must
Daniela Preziosi
Di fronte al film comico di gag e stravaganze che si proietta via via dai verbali del giurì
delle primarie in Liguria (per dire: la settantina di turchi ai gazebo di Imperia, le foto scattate alle schede, la valanga di voti ad Albenga, 1500 di cui 1200 alla candidata burlandiana, il presidente della comunità musulmana che accusa di razzismo chi riferisce di file
di giovani marocchini) il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini ieri è corso ai ripari impartendo dal Tg1 quella che nei prossimi giorni sarà la linea ufficiale del Nazareno: «Se ci
sono state situazioni non corrette saranno sanzionate, ma va sottolineata la grande partecipazione». «Se emergeranno irregolarità, quei seggi saranno annullati», rassicura il presidente Matteo Orfini. Ma stavolta il Pd non si farà trascinare nel caos: a differenza del voto
emiliano di novembre, a questo giro almeno l’affluenza è stata buona.
Ma il caso ligure resta lo stesso amaro: con la vittoriosa Lella Paita erede del burlandismo
che imbarca frotte di elettori del centrodestra e suggella da subito e senza patti (o per lo
meno senza patti conosciuti) l’alleanza con l’Ncd; mentre lo sconfitto Cofferati non accetta
il risultato. C’è di meglio: ora molti i suoi mollano la coalizione: meditano di farlo i civatiani,
che avevano sostenuto l’ex leader della Cgil in nome della ricomposizione a sinistra; lo
hanno già annunciato i vendoliani, che appoggiavano Cofferati ma (non a caso) non avevano firmato il patto di alleanza con il Pd. Per Sel la corsa a fianco dei democratici finisce
qua, sentenzia il coordinatore Nicola Fratoianni: «Con la candidatura di Cofferati abbiamo
provato a costruire in Liguria un centrosinistra capace di guardare con attenzione al territorio, ai diritti, al lavoro. Con la vittoria di Paita questa prospettiva non c’è più». C’entrano le
irregolarità ma fino a un certo punto: «L’inquinamento che ci interessa è innanzitutto quello
politico. Gli accordi, espliciti o meno, con ampi settori del centrodestra e le dichiarazioni
della ministra Pinotti sulla necessità di imbarcare Ncd sul modello nazionale sono la questione decisiva. Non parteciperemo a quest’operazione e lavoreremo a una prospettiva
diversa. A sinistra». Il caso ligure, ultimo in ordine di tempo, è il sigillo definitivo su
un’epoca, quella delle primarie di centrosinistra, volute da Prodi nel 2005 e importate da
Veltroni nel 2007 come pietra angolare del nuovo partito. Il paradosso è che succede proprio quando sulla tolda del Pd c’è Renzi, la cui stella è nata (e solo poteva nascere) sbaragliando i suoi rivali e il partito proprio nei gazebo. Ma paradosso non è: con Renzi la coalizione al governo nazionale non c’è più e ormai tende a consumarsi anche nelle regioni, fin
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qui baluardo frontista. E senza un ventaglio di forze, «senza innovazione politica e culturale» per dirla con le parole con cui ieri Guglielmo Epifani ha annunciato un cambio di
verso della sua area sulle primarie campane, «le primarie si trasformano, inevitabilmente,
in una inutile e dannosa rissa interna che invece di ricostruire una rete democratica di partecipazione genera delusione verso il perpetuarsi di vecchissime pratiche».
Infatti anche in Campania le primarie marciano verso la resa. Lì già nel 2011 il disastro dei
brogli e del conseguente annullamento ha messo il Pd (e il centrosinistra) fuori gioco
a Napoli tirando la volata a De Magistris. Oggi, dopo che i gazebo sono stati rimandati due
volte, è in corso un braccio di ferro: i renziani in nome del rinnovamento vorrebbero sbarazzarsi dei due big in corsa, Cozzolino e De Luca, e imporre il candidato unico Gennaro
Migliore, ex vendoliano convertito al renzismo. E magari per questa via rispondere poi al
disperato corteggiamento dell’Ncd locale. Nelle Marche, altra regione interessata al voto di
primavera, le cose non vanno meglio. Le primarie potrebbero essere cancellate per evitare
lo scontro interno con il governatore uscente Spacca. Se la coalizione non c’è più le primarie restano solo del Pd. E se il Pd si trasforma nel partito delle correnti in franchising (copyright del civatiano Walter Tocci), oggi per la gran parte ricollocate all’ombra della leadership di Matteo Renzi, il rischio del broglio e della figuraccia reale (e mediatica) è dietro
l’angolo. Di fronte a un cambio di natura di queste dimensioni, a poco servono i ritocchi
che sta preparando la commissione del Nazareno. Molto, molto meglio evitarle.
del 13/01/15, pag. 12
QUANTI SCHELETRI NEL GAZEBO
SCANDALI DA NAPOLI ALLA SICILIA, INCHIESTE E FLOP: ORA LE
PRIMARIE FANNO PAURA AI DEMOCRATICI
di Luca De Carolis
Noi siamo quelli delle primarie”. Lo ripete appena può Matteo Renzi, issato alla segreteria
del Pd e (di fatto) a Palazzo Chigi da un milione e 900 mila voti nelle consultazioni del
dicembre 2013. Eppure l’identità tra gazebo e Democratici sta tramutandosi sempre più in
una condanna. Un fardello colmo di veleni e (talvolta) reati, per un partito che in quasi otto
anni di vita ha cambiato di continuo leader, alleati e linea, ma non ha mai ammainato la
bandiera delle primarie. Tentazione ora sempre più diffusa, nel Pd che non sa (o non
vuole) più gestirle. E intanto gli elettori scappano, come raccontano i recenti flop delle
primarie in Veneto e in Emilia Romagna.
Ombra Capitale: i rom di Buzzi, i circoli fantasma
Conseguenze e responsabilità penali sono tutte da scrivere, ma Mafia Capitale ha già
travolto il Pd romano, portando al commissariamento del partito e seminando tonnellate di
sospetti sulle primarie capitoline. Il personaggio centrale è sempre lui, Salvatore Buzzi, l’ex
detenuto demiurgo della cooperativa “29 giugno”, in carcere per associazione a delinquere
con l’aggravante mafiosa. A suo dire, vicino a tanti dem. Nella rete di interessi di Buzzi
c’era anche il campo nomadi di via Candiani, per cui la sua cooperativa nel marzo 2013 ha
ottenuto una commessa da 86 mila euro per la bonifica dell’impianto fognario. E proprio da
quel campo, secondo quanto denunciò la dirigente dem Cristiana Alicata già nell’aprile
2013, sarebbe partita una lunga fila di rom per andare a votare alle primarie per il
candidato sindaco. La renziana Alicata si beccò accuse di razzismo. Un anno e mezzo
dopo, prove del collegamento tra Buzzi e i nomadi da urne non ve ne sono. E la dirigente,
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oggi come allora, non fa nomi: “Non li conosco e non voglio farli, il tema non è individuale”.
Ma il cortocircuito tra accuse e carte colpisce. Come quelle intercettazioni in cui Buzzi si
vanta della sua influenza sui Democratici. “Sulle Comunali c’avemo una serie di persone
che ci stanno a cercà” assicura in una telefonata. Tempo dopo, il (presunto) grande capo
Massimo Carminati lo interroga sulle consultazioni del Pd di fine 2013 per la segreteria
romana: “Come siete messi per le primarie?”. E Buzzi replica: “Stiamo a sostenè tutti e
due. Avemo dato centoquaranta voti a Giuntella e ottanta a Cosentino (Lionello, poi eletto
segretario, ndr). Cosentino è proprio amico nostro”. I due dem citati negano accordi con
l’ex detenuto. Ma il Pd romano è comunque terremotato. Il commissario Orfini ha dato
ordine di verificare gli iscritti, “nome per nome”. Troppi gli attivisti fantasma reclutati per le
primarie, finti come tanti circoli. Lo conferma Roberto Morassut, assessore a Roma con
Veltroni: “Tesseramento e primarie sono stati usati per assetti di cordate senza politica,
falsando numeri e mercanteggiando le iscrizioni”.
E sotto il Vesuvio esordì l’Asia..
I cinesi accorsi alle urne sono la pietra dello scandalo in Liguria. Ma nel gennaio 2011 ne
avvistarono tanti già nelle primarie di Napoli. Le più disastrate della storia dem, tanto da
essere annullate. Ufficialmente le aveva vinte l’europarlamentare Andrea Cozzolino, vicino
all’ex sindaco Bassolino. Ma fu subito pioggia di ricorsi, innanzitutto dal secondo
classificato Umberto Ranieri. Gridò allo scandalo, per l’affluenza record (un voto espresso
ogni 29 secondi) e per presunte irregolarità nel quartiere di Secondigliano, ad alta densità
camorristica. L’ombra della malavita affiorò, tanto che la Dda aprì un’inchiesta. Prima però
fu una guerra di carte bollate e accuse incrociate tra candidati e fazioni. Alla fine da Roma
annullarono tutto, calando come commissario cittadino Andrea Orlando. Quattro anni
dopo, dovrebbero riprovarci. Ma sotto il Vesuvio le primarie per il candidato sindaco sono
state già rinviate due volte. E ora i renziani vogliono cancellarle, candidando direttamente
Gennaro Migliore. Altri resistono. E sulle barricate c’è anche Cozzolino.
L‘isola dei capibastone: percentuali bulgare e occupazioni
Certo, quelle del 2013 sono state le primarie del Renzi incoronato. Ma in Sicilia non andò
liscia per il leader, tanto che nella prima fase (quella per i soli iscritti) perse a sorpresa.
Pesò il veto di tanti storici capi del voto. Come Mirello Crisafulli, signore assoluto ad Enna,
capace di far vincere Gianni Cuperlo con l’80 per cento. Per l’ira di Davide Faraone,
proconsole renziano dell’isola, che nella tornata dell’8 dicembre occupò il seggio cittadino,
un bar a fianco della segreteria dem. “C r isafulli gestisce il partito come la repubblica delle
banane” tuonò Faraone. Crisafulli rispose minacciando denunce. A Messina invece il gioco
lo conduceva il deputato Francantonio Genovese, arrestato mesi dopo per associazione a
delinquere. E lì furono ottime notizie per i renziani, con quasi il 70 per cento per il loro
Matteo. Ovviamente, arrivarono accuse dai cuperliani contro il voto bulgaro. Ma in politica
tutto si può riaggiustare. E nel febbraio 2014 i renziani e Crisafulli hanno eletto d’amore e
d’accordo Giuseppe Raciti come segretario.
del 13/01/15, pag. 21
Riforma lavoro entro 30 giorni decreti alle
Camere per i pareri
VALENTINA CONTE
ROMA .
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La Ragioneria ha bollinato il secondo decreto attuativo del Jobs act (quello sulla Naspi e i
nuovi ammortizzatori sociali) ieri nel tardo pomeriggio, dopo aver licenziato il primo (sul
contratto a tutele crescenti) solo alla fine della scorsa settimana. A quasi venti giorni dal
loro varo nel Consiglio dei ministri della vigilia di Natale dunque, i due testi saranno
trasmessi alle Camere solo oggi. Le commissioni competenti avranno poi trenta giorni per
esprimere un parere consultivo. E benché il governo si dica disponibile ad accogliere le
osservazioni del Parlamento, lo spazio per realistici cambi in corsa del testo è quasi nullo.
Il ritardo, dovuto a una lunga discussione tra Palazzo Chigi e Ragioneria sulle risorse a
copertura dei tre nuovi ammortizzatori sociali, si è chiuso con una soluzione classica:
l’impegno politico, non scritto, dell’esecutivo a trovare nella Finanziaria del 2016 i denari
che mancano per finanziare Naspi, Asdi e Discoll nel 2017, al momento quantificati in 300400 milioni in più rispetto ai 2 miliardi stanziati. Se ciò non avvenisse però, la durata della
Naspi scenderebbe da 24 a 18 mesi dal 2017 e il suo potenziale innovativo
ammortizzatore universale e più lungo dell’attuale - si smonterebbe.
Limature tecniche a parte, i due testi si differenziano da quelli approvati il 24 dicembre per
il contratto di ricollocazione, posto all’articolo 11 del decreto sul contratto a tutele
crescenti, ora spostato nell’altro decreto sulla Naspi. E questo perché la sua specifica
approvazione - al vaglio non solo delle Camere, ma anche della Conferenza StatoRegioni - avrebbe rallentato l’iter del decreto sul nuovo contratto. Iter che il premier Renzi
vuole il più spedito possibile, visto che molte aziende attendono l’entrata in vigore della
riforma del lavoro per procedere con nuove assunzioni a tempo indeterminato, come ha
fatto capire ieri Marchionne con Fiat.
Per i nuovi ammortizzatori sociali c’è invece più tempo. Naspi e Asdi (l’assegno di
disoccupazione che spetta a quanti hanno terminato la Naspi senza trovare lavoro e in
forte difficoltà economica) partono dal primo maggio. Discoll, il sussidio per i cocopro,
doveva essere già operativo, ma sarà pagato solo tra qualche mese, dopo l’approvazione
del decreto. Il diritto all’assegno maturerà però dal primo gennaio.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 13/01/15, pag. 24
“Cucchi vittima di pestaggio si indaghi sui
carabinieri” i giudici riaprono il caso
Le motivazioni dell’appello che ha assolto agenti penitenziari e medici
“Picchiato prima di arrivare in tribunale”. La famiglia: grande vittoria
ROMA .
Non è finita, bisogna indagare. Ancora. Ne è convinta la I Corte d’Assise d’Appello che ieri
ha depositato le motivazioni con cui, il 31 ottobre scorso, ha assolto tutti e 12 gli imputati
accusati della morte di Stefano Cucchi. Perché nessuno di loro ne ha causato la morte.
Per trovare i responsabili bisogna cercare altrove. Ovvero tra i carabinieri che hanno
arrestato Stefano il 15 ottobre 2009, lo hanno tenuto quella notte e lo hanno portato in
tribunale la mattina successiva. «Non può essere definita una astratta congettura — scrive
la Corte presieduta da Mario D’Andria — l’ipotesi secondo cui l’azione violenta sarebbe
stata commessa dai carabinieri che lo hanno avuto in custodia». Parole che stravolgono
l’intero impianto accusatorio: nessun carabiniere fu mai iscritto nel registro degli indagati.
Proprio per questo il collegio ha ritenuto «opportuno» trasmettere «copia della sentenza al
Procuratore della Repubblica di Roma perché valuti la possibilità di svolgere ulteriori
indagini al fine di accertare eventuali responsabilità di persone diverse dagli agenti di
polizia penitenziaria giudicati da questa Corte».
I giudici analizzano ogni possibilità. Ricostruiscono circostanze, testimonianze, cartelle
cliniche. Mettono in luce contraddizioni, dubbi, perplessità. Ma di una cosa sono convinti:
Stefano Cucchi non è caduto né tantomeno è arrivato già in condizioni precarie in
tribunale. Anzi. «Le lesioni subite da Cucchi — scrivono — debbono essere
necessariamente collegate a un’azione di percosse; e, comunque, ad un’azione volontaria
che può essere consistita anche in una semplice spinta». E da lì il percorso è stato
irreversibile. Ma bisogna capire chi sia stato. Certo è, secondo la Corte, che i responsabili
non sono gli agenti della polizia penitenziaria.
Quanto ai medici (che in primo grado erano stati condannati), i giudici fanno un discorso
diverso: il punto di partenza è l’assenza di certezze circa la morte del geometra romano.
Non si sa di che cosa è morto. «Le quattro diverse ipotesi avanzate da parte dei periti
d’ufficio, dai consulenti del pubblico ministero, delle parti civili e degli imputati, tutti esperti
di chiara fama, non hanno fornito una spiegazione esaustiva e convincente». Per questo,
si legge nelle motivazioni, non essendoci «certezza sulle cause del decesso, non può che
derivare il dubbio sulla sussistenza di un nesso di causalità tra le condotte degli imputati e
l’evento».
E quindi non si possono condannare i medici.
(m. e. v.)
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 13/01/15, pag. 10
Merkel sfida i cortei xenofobi
E avverte: Schengen non si tocca
La Cancelliera: «L’Islam appartiene alla Germania». Oggi sfilerà con i
musulmani
DAL NOSTRO INVIATO DRESDA (Germania) «Non vogliono che dimostriamo, ma sono
loro, i politici ufficiali, a essere stati presi di sorpresa dai massacri di Parigi — dice Pia
(«meglio che non le dia il cognome, non si sa mai») — Noi eravamo in piazza anche il
lunedì precedente, e quello prima: è la dodicesima volta che scendiamo per le strade.
Perché il pericolo noi lo viviamo tutti i giorni. Ma loro, Merkel e gli altri, non hanno ancora
capito. Ci vorrebbero leader forti, ci vorrebbe un Putin». In effetti, l’incomprensione tra la
cancelliera tedesca e i dimostranti che ieri hanno manifestato a Dresda nel corteo del
lunedì organizzato dal movimento anti-islamico Pegida è quasi totale. Nel lungo periodo, è
una divaricazione che potrebbe diventare un problema.
Ciò nonostante, Angela Merkel resta ferma sulla necessità di trovare una convivenza con i
musulmani che vivono in Germania e in Europa. Gli attacchi di Parigi, se possibile, l’hanno
rafforzata nelle sue convinzioni, che già aveva espresso nel discorso di fine anno, nel
quale aveva accusato Pegida di «pregiudizi» e di «odio». Ieri, mentre a Dresda i
manifestanti lanciavano lo slogan «il popolo è qui», durante una conferenza stampa con il
primo ministro turco Ahmet Davutoglu, la cancelliera diceva senza mezzi termini che il
Paese «vuole una convivenza pacifica con l’Islam» e annunciava che oggi parteciperà alla
manifestazione per la tolleranza organizzata dalle associazioni musulmane a Berlino.
«Sarò presente assieme a molti ministri del gabinetto — ha assicurato — e il presidente
(tedesco) Gauck terrà un discorso». Chiusura netta verso il movimento nato lo scorso
ottobre. E poi una seconda chiusura verso quei governi e quei partiti che in Europa
vorrebbero porre limiti al trattato di Schengen sulla libera circolazione delle persone.
L’accordo – ha detto – «non è in discussione»: semmai si tratta di scambiarsi più
informazioni tra Paesi per rafforzare la sicurezza. Stesa linea dell’Italia, espressa da
Gentiloni: «Nessun governo europeo parla di sospendere Schengen».
Frau Merkel è insomma sempre più determinata a svolgere un ruolo di leadership in
Germania e in Europa, a cominciare dall’emergenza del momento, cioè i rapporti con
l’Islam e l’immigrazione. I dèmoni nascosti nell’anima dell’Europa, se ancora ci sono,
sembra intenzionata a contrastarli senza se e senza ma. Onorevole. L’esercizio, però, è
tutto meno che facile e probabilmente impossibile da condurre a senso unico. I dimostranti
mobilitati ieri nella capitale della Sassonia da Pegida — il movimento degli Europei
patriottici contro l’islamizzazione dell’Occidente — sono in buon numero suoi elettori. Da
settimane si mobilitano, ieri la manifestazione più numerosa da settimane, alcune decine
di migliaia. E molti erano esterrefatti all’idea che la cristiano-democratica Merkel li
criticasse aspramente e poi annunciasse di manifestare assieme ai musulmani.
«Penso che un cancelliere o una cancelliera debbano stare dalla nostra parte, del popolo
tedesco e della Germania — diceva Hans Franke, studente — Non siamo noi i violenti, i
misogini. Ma anche dopo quello che è successo nei giorni scorsi a Parigi Merkel non si è
ravveduta». Tra i simpatizzanti di Pegida, parecchi sono più pesanti quando parlano della
cancelliera: alcuni sono neonazisti, altri hooligan di qualche squadra di calcio, altri sono
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politici in formazione. In gran parte, però, sono normali cittadini. Ieri, in piazza, qualche
cartello era violento: «Islam=Carcinoma», per esempio. Ma per lo più erano manifesti del
tipo «Merkel non ci conosci», «Wir «sind das Volk» (Noi siamo il popolo) e striscioni neri
con i nomi dei morti di Parigi scritti in rosso. A questa gente, Frau Merkel dovrà dare
qualcosa di più.
E’ evidente che il governo vuole evitare divisioni sociali che poi possono diventare scontri
e violenza aperta. Ma la piazza di ieri sera a Dresda era su una lunghezza d’onda diversa.
Era arrabbiata con l’establishment che non la ascolta. Gli oratori accusavano, tra applausi
scroscianti, «i media menzogneri» che li hanno definiti nazisti. Rifiutavano le accuse di
odio, nel Paese che accetta più rifugiati politici d’Europa. Lanciavano un programma in sei
punti per avere più controlli alle frontiere, una politica dell’immigrazione diversa, la
democrazia diretta come in Svizzera. E’ chiaro che c’è confusione, cupezza, paura, rabbia.
E che c’è chi vorrebbe dare una direzione di estrema destra ai manifestanti. Ma è anche
chiaro che i soli discorsi sulla convivenza, per quanto giusti, a questa folla non bastano.
Così finisce per invocare Putin.
Danilo Taino
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SOCIETA’
del 14/01/15, pag. 16
I tagli che scaricano i “matti ” sulla società
IL SERVIZIO PSICHIATRICO D’URGENZA AZZERATO IN MOLTE
REGIONI. I MEDICI DEL 118: “CON I PAZIENTI VIOLENTI RISCHIAMO LA
VITA”
di Paola Porciello
Sembra la trama di un film dell’orrore la vicenda che nella notte tra il 30 e il 31 dicembre
ha visto protagonista una donna di Sarno di 52 anni, affetta da uno stato di psicosi
maniacale. Gli operatori del 118, chiamati dal marito, l'hanno trovata in evidente stato di
agitazione che brandiva un coltello di 50 cm. Medici e familiari sono riusciti a mettersi in
salvo per un pelo solo grazie all’intervento delle forze dell’ordine. Eventi simili si
presentano non di rado da quando le aziende sanitarie hanno deciso di fare a meno del
medico specialista nella fascia oraria notturna. “Una riorganizzazione con tagli alla spesa –
spiegano gli operatori del servizio di primo intervento –che ci fa rischiare la vita. Si tratta di
pazienti già in terapia presso il servizio di Igiene mentale ed è necessario che sul posto,
sia per competenze, per mezzi e possibilità di trattamento con farmaci specifici, ci sia uno
psichiatra reperibile”.
LA CAMPANIA, e in particolare la provincia di Salerno, era l’ultimo avamposto che aveva
resistito al progressivo smantellamento da Nord a Sud dell’assistenza specializzata “h24”.
Un taglio che, a fronte di un modesto risparmio economico, sta producendo spesso
l’effetto contrario. La legge Basaglia del 1978, che ancora regola l'assistenza psichiatrica
nel nostro paese, introduceva non a caso anche una filosofia di cura individualizzata e
centrata su servizi integrati nei luoghi di vita delle persone. A distanza di 37 anni la riforma
Pare però essere destinata a rimanere disattesa, se non addirittura cannibalizzata dai
piccoli ma devastanti interventi (o mancati provvedimenti) che hanno generato servizi di
salute mentale disomogenei e frastagliati sul territorio. A fronte di isolati centri di
eccellenza, esistono ancora vaste zone in cui il servizio è lacunoso, con situazioni che
arrivano fino al degrado e al limite della legalità. Qualche esempio dei disservizi più
clamorosi: l’apertura solo diurna dei Centri di salute mentale (Csm), spesso per fasce
orarie ridotte, con conseguenti ricoveri "forzosi" che in alcuni casi somigliano più a
deportazioni. L’esiguità degli interventi territoriali individualizzati e integrati spesso limitati
alla sola prescrizione di farmaci. La sopravvivenza di “comunità ex-art. 26”, luoghi privi di
valenza riabilitativa e più connotati come “contenitori sociosanitari”. E ancora, l’offerta di
ricoveri in cliniche private convenzionate, accessibili anche senza il coordinamento dei
Csm. Tutti modelli di assistenza al di fuori della cultura territoriale dei progetti “obietti - vo”
e dei piani per la salute mentale post legge 180. Occorre specificare che non esiste alcuna
normativa nazionale che imponga il taglio nella fascia oraria notturna. I progetti obiettivo
vanno tutti in direzione contraria ma non sono vincolanti e finiscono per soccombere alle
politiche sanitarie regionali che, insieme alle pressioni corporative e sindacali, determinano
il quadro attuale. Dunque che fine hanno fatto le promesse prospettate dalla Legge
Basaglia su diritto alla salute e libertà individuali? Se dobbiamo basarci sugli ultimi
provvedimenti e sulle testimonianze di pazienti e operatori, dobbiamo concludere che è in
corso una pericolosa marcia indietro. Secondo Claudio Mencacci, già presidente della
Società italiana di Psichiatria, è giusto fare a meno dello psichiatra nelle ore notturne
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perché "Un'urgenza psichiatrica è pari a qualsiasi altra urgenza sanitaria. In tal modo si
riduce la stigmatizzazione che accompagna i pazienti psichiatrici quali pazienti 'violenti' e
'pericolosi'. A Milano, dove lavoro, c'è un numero sufficiente di psichiatri. I piccoli centri
sono i più colpiti da carenze nell'assistenza".
PEPPE DELL’ACQUA, considerato da molti l'erede di Basaglia, è direttore del
Dipartimento di salute mentale di Trieste. Per lui la rivoluzione culturale apportata dalla
Legge 180 non è stata inutile: “Oggi siamo l’unico paese in Europa con una legge che ci
permette di vedere che la contenzione è una violenza, non un atto medico. Purtroppo però
negli ultimi 30 anni i servizi hanno subito una forte dispersione per via di forme
organizzative stupide messe in atto dalle Regioni con la scusa della spending review”.
Del 13/01/2015, pag. 6
Milano, nuovi sgomberi e nuove resistenze
Casa. I Comitati per la casa si preparano a contrastare l'ennesima e
consueta ondata di sgomberi (l'anno scorso sono stati circa
cinquecento). Intanto ieri, grazie alla presenza di un gruppo di ragazzi
solidali del Comitato di San Siro, è stato rinviato lo sgombero di Hansa,
una donna marocchina di 51 anni in precarie condizioni di salute
Luca Fazio
Non per strumentalizzare, ma forse non è un caso se per dare concretezza a un briciolo di
libertà, uguaglianza e fratellanza bisogna andare in via degli Umiliati, la mattina presto.
Non è una battuta, è una periferia di Milano, un altro cuore dell’Europa. Ci abita Hansa,
una donna marocchina di 51 anni. Ieri ha ricevuto la visita dell’ufficiale giudiziario, accompagnato dalla Digos. Alla fine l’ha spuntata un’altra volta e allora si è fatta fotografare con
un foglietto in mano. Quella foto è una piccola grande vittoria del Comitato abitanti di San
Siro che è riuscito ad impedire un altro sfratto per morosità incolpevole: Hansa fa la
badante, le è stato riconosciuto il 40% di invalidità e non riesce a pagare un affitto di 550
euro al mese, per una casa aggredita dalle muffe. Sul foglietto c’è un’altra data (3 marzo,
un po’ di respiro) e una scritta a penna in stampatello: “Ultimo rinvio”. Anche i ragazzi e le
ragazze che sono andati a trovarla sono soddisfatti: “Hansa non esce grazie alle decine di
solidali che dalle 8 hanno presidiato casa sua. La solidarietà è un’arma. Usiamola. Basta
case senza persone e persone senza casa”. Non ci sono stati scontri, solo un ragionevole
rinvio. Il questore Luigi Savina, dopo i ripetuti scontri dello scorso novembre, rivolgendosi
ai politici aveva detto che l’emergenza abitativa era un problema sociale che non poteva
essere affrontato a colpi di manganello. “Abbiamo invitato Aler e Comune ad andare
incontro alla richiesta di alloggi, perché quello della casa non può diventare un problema di
ordine pubblico”. Però nel 2014 circa cinquecento famiglie sono state sbattute in mezzo
alla strada e solo grazie alla resistenza di comitati ed inquilini quest’inverno l’emergenza
è rimbalzata sulle prime pagine dei quotidiani. Poi il silenzio, anche se gli sgomberi sono
continuati anche durante le feste natalizie. E continueranno sempre di più: nel decreto
“Milleproroghe” di fine anno il governo non ha confermato il blocco degli sfratti, una
“dimenticanza” che rischia di rovinare la vita a decine di migliaia di persone in tutta Italia. Il
calendario di gennaio del Comitato inquilini di San Siro, intanto, è già pieno di appuntamenti. Le chiamano “colazioni antisgombero”. Ci si alza presto. La prossima sarà lunedì
19 gennaio in via Monte Palombino, un’altra periferia: questa volta la polizia cercherà di
cacciare da casa Mustafà. E non è un caso se le altre persone che nei prossimi giorni
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rischieranno la strada si chiamano Habdelsamad, Atika, Hayane, Elgarbi e Hafida. Sono
i nostri vicini di casa stranieri, persone con cui l’Europa, proprio in queste ore, ci ha invitato
a fraternizzare. Sul sito del centro sociale Il Cantiere, che appoggia i comitati di San Siro,
oggi si legge una considerazione che qualcuno finge di interpretare come un atto di ostilità
destinato ad alimentare “tensioni”. Scrivono: “Ma alla solitudine e alla disperazione che
possono cogliere chi si ritrova in pochi anni a non avere più alcuna certezza, c’è
un’alternativa: la solidarietà, il mutuo soccorso, la lotta dal basso per la casa e per il diritto
ad un abitare degno. All’assessore alla Casa del Comune di Milano, che insieme agli
assessori di Napoli e Roma ha preso parola in questi giorni chiedendo al governo il blocco
degli sfratti, rivolgiamo l’invito a passare dalle parole ai fatti”.
Tanto per cominciare, spiega Matteo dell’Associazione inquilini abitanti (Asia), “il Comune
prima di effettuare altri sgomberi potrebbe finalmente avviare quella commissione votata
due anni fa, e mai partita, che avrebbe dovuto valutare caso per caso la situazione di tutti
gli inquilini che occupano le case popolari”. Del resto non c’è alcuna emergenza, semplicemente perché la situazione è nota da decenni. Il che è ancora peggio. A Milano le occupazioni abusive sono poco meno di 5 mila, e quasi l’80% sono considerate “storiche”. In più
ci sono 23.500 famiglie che stanno aspettando un alloggio popolare, mentre 1.000 possono essere sgomberate da un giorno all’altro per morosità. Ma il dato più clamoroso è un
altro: mentre quotidianamente ci sono persone che vengono sbattute in mezzo alla strada,
Regione (Aler) e Comune (MM) a Milano hanno a disposizione più di 8 mila alloggi vuoti.
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BENI COMUNI/AMBIENTE
Del 13/01/2014, pag. 12
Lavori pubblici. Nel periodo maggio-dicembre già appaltato o assegnato
circa un terzo dei 2,3 miliardi disponibili per le opere idrogeologiche
Difesa del suolo, attivati 700 milioni
Per il piano settennale dalle Regioni progetti per 16,3 miliardi di cui 2
esecutivi o definitivi
È partita l’accelerazione tanto attesa per gli investimenti nella difesa del suolo. Dei 2,3
miliardi disponibili a vario titolo per il dissesto idrogeologico da vecchi piani e nuovi
stanziamenti (e non di rado attribuiti a progetti bloccati) nel periodo maggio-dicembre 2014
sono stati appaltati o attivati (cioè assegnati o banditi) lavori per 700 milioni. Il
monitoraggio svolto dall’unità di missione di Palazzo Chigi guidata da Erasmo D’Angelis e
Mauro Grassi, fotografa al momento 429 progetti per 647 milioni ma al termine del
conteggio si pensa di arrivare appunto a sfiorare i 700 milioni. Tra i maggiori interventi
spiccano le opere per la messa in sicurezza del lago d’Idro (50,3 miloni) in Lombardia, lo
scolmatore Fereggiano (45 milioni) e gli altri interventi per il fiume Bisagno (37 milioni) in
Liguria, ancora l’adeguamento del canale scolmatore di nord-ovest per Milano (23,4
milioni), la realizzazione di una cassa di espansione e la sistemazione delle sezioni di
deflusso a Castelfranco Veneto (16,8 milioni), lo scolmatore dellArno a Pisa-Pontedera (15
milioni) e la cassa di espansione a Figline (14 milioni) in Toscana. La ripartizione regionale
dei 429 progetti evidenzia la Lombardia al primo posto con 57 interventi per 137,8 milioni,
seguita dalla Toscana con 33 interventi per 62,4 milioni, dalla Calabria con 50 interventi
per 58,5 milioni. Per numero di interventi è avanti il Piemonte con 102 progetti che
totalizzano un valore di 33 milioni.
Contemporaneamente l’unità di missione di Palazzo Chigi ha raccolto, insieme al ministero
dell’Ambiente, le proposte regionali per i due piani (aggiuntivi) in corso di messa a punto: il
piano nazionale settennale 2014-2020 della difesa del suolo che punta a partire con
risorse per 7-9 miliardi e il piano stralcio destinato alle aree metropolitane. Per il piano
nazionale le proposte giunte a Roma dalle Regioni ammontano a una spesa di 16.357
milioni, di cui 875 milioni con progettazione esecutiva e 2.029 milioni con progettazione
definitiva. Ci sono quindi circa 2,9 miliardi cantierabili in tempi relativamente brevi quando
il piano avrà il via libera. Le Regioni del Sud, che potranno contare anche su fondi
strutturali Ue e sul Fondo sviluppo coesione (che per l’80% va al Mezzogiorno), hanno
presentato valanghe di progetti e sono ai primi posti: la Campania con 2.995 milioni, la
Sicilia con 1.937 milioni, la Puglia con 1.444 milioni, la Sardegna con 1.173 milioni, la
Basilicata con 968 milioni. Al centro-nord Emilia-Romagna al primo posto per richieste con
898 milioni, seguita dal Veneto con 794 milioni e dalla Lombardia con 647milioni.
Per il piano stralcio per le città metropolitane – che costituisce il primo e più urgente step
della nuova programmazione - sono invece arrivate al governo proposte per 2.989 milioni
di cui progetti per 176 milioni con progetto esecutivo e interventi per 832 milioni con
progetto definitivo. Un altro miliardo di opere cantierabili in tempi brevi, quindi. Roma ha
chiesto interventi per 755,8 milioni, Genova per 555,4 milioni, Venezia per 485,6 milioni,
Napoli per 343,8 milioni, Torino per 186,8 milioni, Firenze per 143,1 milioni, Palermo per
113,7 milioni, Bari per 105,2 milioni, Milano per 87,3 milioni, Messina per 84,6 milioni.
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Le proposte giunte saranno ora selezionate in base al grado di urgenza e a una
gradazione temporale-territoriale-progettuale che terrà conto anche delle effettive
disponibilità finanziarie. Gran parte delle risorse del piano settennale dovrebbero arrivare
dal Fondo sviluppo coesione (Fsc) che può contare su un totale di 50 miliardi circa per il
periodo 2014-2020, in affiancamento ai fondi strutturali Ue e ai relativi cofinanziamenti
nazionali (altri 75 miliardi circa). La legge di stabilità 2015 ha previsto che entro aprile sia
una delibera del Cipe a pianificare almeno l’80% delle risorse a disposizione e in questo
senso il piano idrogeologico sembra prenotare un posto in prima fila perché è noto che
Palazzo Chigi considera questo settore assolutamente prioritario. Il vero problema del Fsc
resta il cadenzamento negli anni della cassa che sarà messa a disposizione dal Mef e
dalla Ragioneria ma anche su questo la delibera Cipe – che nasce per ridurre le “mani
libere” avute finora dal Mef e dalla Ragioneria in questa partita – dovrebbe dare indicazioni
vincolanti. Intanto ieri il capo dell’unità di missione, Erasmo DAngelis, è stato ascoltato in
Senato nell’ambito dell’esame del collegato ambientale. Tre i messaggi forti inviati e le
proposte richieste da D'Angelis all’attuale articolato. La prima e più importante è che ai
Presidenti delle Regioni nella loro veste commissariale siano affidati tutti i progetti relativi
al dissesto idrogeologico a prescindere dal piano e dalla fonte di finanziamento. La
seconda questione riguardal’adizonie di un sistema di monitoraggio degli interventi più
trasparente. La terza proposta di modifica riguarda le autorità di distretto idrografico che
devono diventare anche di punto di raccolta di tutte le informazioni.
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ECONOMIA E LAVORO
del 13/01/15
Pronti gli acquisti Bce si parte con 500
miliardi 0,4% di inflazione in più
Insufficienti le operazioni finora attuate. Padoan: “Serve shock”
L’intervento sui debiti pubblici durerà fino a settembre 2016
ALBERTO D’ARGENIO
QUANDO tra dieci giorni, il 22 gennaio, i governatori centrali della moneta unica
raggiungeranno Mario Draghi a Francoforte, daranno vita a una riunione della Banca
centrale europea storica. Il presidente italiano della Bce metterà sul tavolo il Quantitative
easing, il programma di acquisto di titoli di Stato da parte dell’Eurotower per rilanciare
l’economia del continente con il conseguente effetto di riportare l’inflazione intorno al 2%,
l’obiettivo fissato dallo statuto e dalla strategia di politica monetaria della Bce. Sarà la
prima volta che l’Europa imbraccerà il cosiddetto “bazooka” monetario e l’esito del
confronto tra falchi e colombe in seno al Consiglio di Francoforte non è scontato. C’è
ancora distanza tra le posizioni di Draghi rispetto a quelle del fronte guidato dal numero
uno della Bundesbank, Jens Weidmann. Ma l’ex governatore di Bankitalia tesse la tela del
compromesso e il programma dovrebbe avere una portata di almeno 500 miliardi e
potrebbe durare fino al settembre 2016. «Deflazione pericolosamente vicina, serve uno
shock dalla Bce» chiedeva ieri il ministro dell’Economia Padoan, ribadendo la sostenibilità
del debito I dati che spingono Draghi all’azione sono questi: l’economia europea è asfittica,
l’inflazione a dicembre è scivolata al - 0,2% e i programmi straordinari varati in autunno
dalla Bce fin qui per quanto positivi non saranno probabilmente sufficienti. In primis il Tltro,
la concessione di prestiti vantaggiosi alle banche che si impegnano a riattivare il credito
per imprese e famiglie ha fin qui piazzato solo 212 miliardi e Francoforte ha dovuto
abbassare le previsioni di prestiti agli istituti di credito di quasi un terzo. Inoltre l’acquisto
dei covered bond e dei titoli cartolarizzati (Abs) hanno iniettato nel sistema 32 miliardi,
troppo poco se proiettati su un periodo di due anni. Per questo la decisione di lanciare il
Quantitative easing il 22 gennaio appare scontata. Ma sui dettagli il Consiglio direttivo
dovrà discutere. Primo, per pompare 500 e passa miliardi di liquidità nel sistema,
Francoforte comprerà solo bond pubblici o anche quelli di imprese private? Posto che la
discussione tra governatori dovrà arrivare a un compromesso che potrebbe toccare tutti i
tasselli del Qe, al momento l’orientamento sembra quello di acquistare solo bond pubblici,
un mercato in grado di assorbire i 500 miliardi dell’Eurotower mentre le grandi aziende
hanno già una notevole liquidità e ampio accesso al credito, ragion per cui un loro
coinvolgimento si potrebbe rivelare poco efficace. Altro punto, il Qe sarà solo annunciato,
non partirà immediatamente. Come minimo ci vorrà qualche settimana per metterlo a
punto, ma i governatori potrebbero decidere di allungare ulteriormente i tempi, anche se
non di molto.
Il nodo centrale resta quello della ripartizione dei rischi legati al programma.
Tradizionalmente la Bce agisce in risk sharing, le eventuali perdite delle sue iniziative
vengono coperte da tutte le banche centrali della zona euro in percentuali che riflettono la
loro incidenza sul capitale della Bce. Ma alcuni istituti centrali potrebbero richiedere che
profitti e rischi non vengano mutualizzati. Per questo si ragiona sull’opportunità che siano
le singole banche centrali a coprire i rischi dei bond della propria nazione comprati dalla
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Bce. Insomma, se un paese facesse default, ipotesi al momento decisamente improbabile,
sarebbe solo la sua popolazione a farsene carico. Il governatore Ignazio Visco si è
opposto a questa ipotesi perché «la frammentazione finanziaria della zona euro potrebbe
ampliarsi».
Anche la durata del Qe sarà argomento di confronto: potrà durare al massimo due anni,
ma anche qui i falchi lo vorrebbero limitare nel tempo. Il compromesso alla fine potrebbe
essere di legarlo al Tltro che scadrà nel settembre del 2016, lasciando dunque che
l’acquisto dei bond corra per un anno e mezzo abbondante. Sembra poi probabile che i
titoli di ciascuna nazione saranno acquistati in base alla partecipazione di ogni banca
centrale al capitale Bce: l’Italia è al 17-18% e dunque se alla fine l’Eurotower metterà in
campo 500 miliardi una novantina potrebbero essere destinati all’acquisto dei titoli di Stato
tricolori.
L’Eurosistema ragiona sul possibile impatto del Qe. La speranza è che i colpi di bazooka
di Draghi facciano ripartire la crescita portando in su l’inflazione a beneficio dell’economia.
Nel migliore degli scenari il tasso di inflazione potrebbe salire dello 0,4%, che si
sommerebbe alla spinta (inferiore) del Tltro. Visto che a bocce ferme la Bce prevede che
nel settembre 2016 l’inflazione sarà risalita all’1,3%, gli effetti dei programmi straordinari di
Draghi potrebbero riportarla intorno al 2%, con un vantaggio sensibile per la crescita.
del 13/01/15, pag. 41
Categorie protette, il ritardo italiano
La disoccupazione arriva all’80%. È tra il 50% e il 70% negli altri Paesi
industrializzati
Sono ancora poche le imprese che si fidano di un lavoratore delle «categorie protette»
(handicap fisici, psichici o intellettivi, invalidi del lavoro, non vedenti, sordomuti, affetti da
alcune patologie, per esempio tumorali). Lo ritengono comunque improduttivo, un costo,
un peso morto per l’azienda. Lo assumono di malavoglia solo perché costrette.
Un’indagine dell’associazione dei direttori del personale Gidp dice che un’azienda su due
non li inserirebbe se non ci fosse l’obbligo della legge 68/1999. La conseguenza è che
delle 750 mila persone iscritte alle liste di collocamento obbligatorio, l’80% è disoccupato
(negli altri paesi industrializzati la percentuale oscilla tra il 50 e il 70%).
Eppure secondo l’Organizzazione internazionale per il lavoro il non impiego delle categorie
protette produce una perdita economica valutabile tra l’1 e il 7% del Pil mondiale. Per
aiutare le aziende a superare il pregiudizio la multinazionale inglese della ricerca di
personale Page Personnel, che ha una divisione specializzata nella selezione di lavoratori
con disabilità, ha pubblicato l’e-book «Categorie protette, un grande potenziale
inespresso». «Quando un’azienda ci chiede di selezionare un candidato – spiega
l’amministratore delegato Francesca Contardi – suggeriamo di non pensare che quel
lavoratore debba essere investito di minori responsabilità o possa essere una risorsa di
poco valore. Al contrario, le grandi difficoltà che quelle persone hanno dovuto affrontare
nella vita, spesso le ha rese emotivamente stabili e mature. Molti di loro, quindi, dirigono
gran parte delle energie nel lavoro, diventando una ricchezza, umana e professionale, per
l’azienda e i colleghi».
Nel panorama di scetticismo aziendale sembra esserci però, in questi anni di crisi, una
piccola inversione di tendenza. Secondo Page Personnel le aziende hanno aumentato la
richiesta di categorie protette. Un trend che tuttavia non può essere valutato solo
positivamente. Le necessità aziendali, infatti, spesso vengono coperte assumendo
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persone con disabilità solo perché queste, grazie alle agevolazioni della legge, costano
decisamente meno degli altri lavoratori.
Tuttavia le aziende che hanno fatto quelle assunzioni, restano poi decisamente
soddisfatte. Lo conferma il Responsabile risorse umane di Maquet, azienda leader nei
sistemi medici avanzati, Piergiorgio Accrocca: «Per noi il ‘diversamente abile è un
lavoratore a tutti gli effetti, che fornisce contributi analoghi a quelli degli altri colleghi».
«Abbiamo 14 risorse delle categorie protette – aggiunge dal canto suo Joanna Mochi,
Talent acquisition di Medtronic – ben inserite in ruoli che vanno dall’assistente
amministrativo, al Customer service team specialist, al Sales representative».
Enzo Riboni
Del 13/01/2015, pag. 6
Strage operaia, prime condanne
Schiavi moderni. Pene pesanti al processo per i sette operai cinesi
morti nel capannone lager al Macrolotto. Dove lavoravano sette giorni
su sette per 50 euro al giorno. La titolare e i gestori della ditta di
confezioni Teresa Moda colpevoli anche di omissione dolosa delle leggi
antinfortunistiche. Come alla Thyssen Krupp.
Riccardo Chiari
Almeno in primo grado, la giustizia italiana non ha trascurato la memoria dei sette operai
cinesi morti come topi in trappola nel capannone lager di via Toscana al Macrolotto. Lì
dove lavoravano sette giorni su sette, e vivevano come schiavi moderni, per essere pagati
con 50 euro al giorno. Il processo con rito abbreviato alla titolare e ai due gestori della ditta
di confezioni Teresa Moda si è chiuso con la condanna a 8 anni e 8 mesi di Lin Youlan.
Mentre la sorella Lin Youli è stata condannata a 6 anni e 10 mesi, e il marito di
quest’ultima, Hu Xiaping, a 6 anni e 6 mesi.
La giudice Silvia Isidori ha accolto quasi in toto l’accurata ricostruzione della strage fatta
dalla procura pratese. Alle accuse di omicidio colposo plurimo aggravato e incendio colposo aggravato, si aggiungevano le reiterate violazioni delle più elementari norme sulla
sicurezza. Su questo aspetto, la gup Isidori ha certificato la colpevolezza di Lin Youlin per
l’omissione dolosa delle cautele antinfortunistiche. In altre parole la padrona della ditta
è stata ritenuta responsabile di aver coscientemente messo a rischio la vita dei suoi operai, per ottenere un maggiore profitto. Come accaduto, ma solo in primo grado, nel processo per l’immane rogo alla Thyssen Krupp.
Come evidenziato nella requisitoria del pm Lorenzo Gestri, il capannone dove aveva sede
la Teresa Moda non aveva le uscite di emergenza né altri percorsi di fuga. Mancava una
rete idrica per l’antincendio, e l’impianto elettrico non era a norma. “E’ molto probabile –
aveva spiegato Gestri – che sia stato la causa dell’inizio dell’incendio. Ma se non ci fossero stati i soppalchi non ci sarebbero stati i morti, e non ci sarebbe questo processo. Perché la situazione era di una gravità straordinaria”.
Gli operai lavoravano – anche per 16 ore al giorno – mangiavano e dormivano in una struttura con le sbarre alle finestre, e con loculi in cartongesso. Prendere o lasciare. “E non mi
si dica che non c’era consapevolezza che i soppalchi erano il luogo più insicuro – aveva
puntualizzato il pm – non è un caso che Youli e il marito si siano salvati, e non è un caso
che fossero nel luogo più vicino all’uscita, in una stanza realizzata in cemento”.
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Il processo ai proprietari italiani del capannone è ancora in corso. Giacomo e Massimo
Pellegrini, che con una loro società immobiliare affittavano a caro prezzo l’immobile, sono
anch’essi accusati di omicidio colposo plurimo aggravato e incendio colposo aggravato.
Già in questo processo è stata evidenziata la commistione di interessi tra confezionisti
cinesi e immobiliaristi italiani, sempre assistiti da avvocati e commercialisti esperti. E sempre pronti a chiudere gli occhi sulle violazioni della sicurezza. Intanto il difensore degli
imputati Gabriele Zanobini annuncia il ricorso in appello: per lui il “sistema Prato” — quello
che con enorme fatica le istituzioni e gli investigatori stanno da allora cercando di combattere – non è stato dimostrato nel dibattimento.
Del 13/01/2014, pag. 10
La Naspi sarà ridotta nel 2017 ma il Governo
la rifinanzierà
La nuova prestazione di assicurazione sociale per l’impiego (Naspi) che farà il suo esordio
in maggio avrà una durata fino a 24 mesi nei primi due anni di applicazione per poi
scendere a 18 mesi nel 2017. E scatterà subito, cioè già da quest’anno, e non più dal
2016, la riduzione del 3% dell’assegno a partire dal primo giorno del quarto mese di
fruizione del sussidio. Sempre da quest’anno, poi, scatta il tetto sulla contribuzione
figurativa.
È con questo accordo che il Governo, ieri, ha inviato alla Ragioneria generale dello Stato il
testo finale del secondo decreto legislativo di attuazione del Jobs Act. La bollinatura è
arrivata in serata e permetterà la trasmissione del Dlgs alle commissioni Lavoro di Camera
e Senato insieme con il gemello che contiene le regole del contratto a tutele crescenti.
Anche questo Dlgs, già certificato dalla Ragioneria, contiene alcuni ritocchi e un
chiarimento atteso dagli operatori: l’onere della prova in caso di impugnazione di un
licenziamento ritenuto illegittimo sarà a carico del lavoratore solo limitatamente alla
dimostrazione dell’insussistenza del fatto materiale contestato. Mentre l’articolo sul
contratto di ricollocazione è stato espunto dal primo decreto per trasferirlo nel testo del
decreto sugli ammortizzatori sociali, che dovrà passare al vaglio anche della Conferenza
unificata Stato-regioni. L’intesa raggiunta dopo settimane di confronto tra i tecnici che han
lavorato al dossier ammortizzatori è stata suggellata da un impegno politico:?quello di
reperire già con la prossima legge di stabilità le risorse che consentiranno di confermare a
24 mesi la durata massima della Naspi. Nella versione attuale la riforma dei sussidi contro
la disoccupazione involontaria prevede oneri per 869 milioni quest’anno che salgono a 1,7
miliardi nel 2016 e 1,9 nel 2017 che verranno finanziati utilizzando il fondo da 2,2 miliardi
della Stabilità 2015. Le novità rispetto al testo approvato dal Consiglio dei ministri alla
vigilia di Natale sono diverse ma tutto sommato di piccola portata, segno evidente che alla
fine le stime dei tecnici di Lavoro e palazzo Chigi hanno avuto la meglio. Alla Naspi,
ovvero l’assegno mensile di disoccupazione fino a un massimo di 1.300 euro condizionato
alla partecipazione dei percettori a programmi di attivazione lavorativa o riqualificazione
professionale, si accederà avendo congiuntamente almeno 13 settimane di contribuzione
negli ultimi 4 anni e 30 giornate di lavoro effettivo (contro le 18 della prima versione) nei 12
mesi che precedono l’inizio della disoccupazione. Confermato il tetto alla contribuzione
figurativa, pari a 1,4 volte l’assegno massimo Naspi, ovvero 1.800 euro circa. Anche l’Asdi
partirà in maggio:?l’assegno sperimentale di disoccupazione che scatta a Naspi scaduta
per i lavoratori più marginali (previsto l’accesso via Isee) durerà fino a un massimo di 6
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mesi e varrà fino al 75% dell’ultimo assegno Naspi. Per finanziare questo ammortizzatore,
che vale come anello di collegamento con le politiche di contrasto alla povertà, sono
stanziati 200 milioni nel 2015 e altrettanti nel 2016. L’Inps prenderà in considerazione le
domande Asdi in base all’ordine cronologico di presentazione.
Infine la Dis-coll, ovvero la nuova indennità di disoccupazione, sempre sperimentale, per
collaboratori fino a 6 mesi e con un tetto a 1.300 euro come la Naspi:?vi potrà accedere
chi ha cumulato 3 mesi di contribuzione dal 1 gennaio 2014 ed entro la data della
disoccupazione, con in più un mese di contribuzione nell’anno solare in cui si verifica la
perdita dell’impiego oppure un rapporto di collaborazione pari ad almeno un mese e che
abbia determinato un reddito pari almeno alla metà dell’importo (650 euro) che dà diritto
all’accredito di un mese di contribuzione.
Una modifica, e due chiarimenti tecnici, hanno riguardato anche il Dlgs con la disciplina
del nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti per i neo assunti. Il braccio di
ferro con la Ragioneria ha portato a specificare nel provvedimento i costi della
conciliazione “rapida” per evitare il contenzioso. Il Dlgs prevede infatti che la somma (da 1
mensilità fino a un massimo di 18 mensilità) che il datore offre al lavoratore è
completamente esentasse. A differenza di oggi, dove le somme accettate in conciliazione
Fornero sono soggette a imposizione fiscale. Ebbene, per quest’anno, le minori entrate
previste sono state conteggiate in 2 milioni, che salgono a 7,9 milioni per il 2016, 13,8
milioni per il 2017, fino ad arrivare a 37,2 milioni a decorrere dall’anno 2014. Anche qui la
copertura arriverà dal fondo di 2,2 miliardi per il 2015, 2,2 miliardi per il 2016 e 2 miliardi
per il 2017 previsto nella legge di Stabilità appena approvata.
Un chiarimento importante è arrivato poi sul fronte dell’onere della prova, che resta a
carico del datore rispetto «alla legittimità del motivo addotto per il licenziamento», mentre
passa in capo al lavoratore solamente «rispetto all’insussistenza del fatto materiale
contestato» (l’unica fattispecie dove rimane in vigore la tutela reale). Oggi, spiega Arturo
Maresca, ordinario di diritto del Lavoro alla Sapienza di Roma, «è il datore che deve
provare la sussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo
oggettivo o soggettivo. Da domani invece la dimostrazione diretta ai fini della reintegra
spetterà al lavoratore perchè, in concreto, chiede qualcosa di più rispetto al regime
ordinario della tutela monetaria». L’altro chiarimento fornito dal Governo è quando si ha
diritto all’indennizzo minimo (4 mensilità) per evitare licenziamenti nella prima fase del
contratto a tutele crescenti. E cioè: «Nel caso in cui il rapporto di lavoro abbia una durata
inferiore ai 2 anni».
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