RASSEGNA STAMPA
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RASSEGNA STAMPA martedì 13 gennaio 2015 L’ARCI SUI MEDIA INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da Avvenire del 13/01/15, pag. 14 Violenza contro le donne, consultazione flop «E’ difficile esporsi su un tema tanto delicato e sensibile, che tocca la profondità delle relazioni». Prova a giustificare così, la consigliera del Presidente del Consiglio per le pari opportunità, Giovanna Martelli (Pd), il sostanziale flop della consultazione pubblica sul Piano d'azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere, per la cui attuazione il governo ha investito trenta milioni di euro in tre anni, di cui 20 spesi tra il 2013 e il 2014, prima quindi di aprire il dibattito ai cittadini. Forse anche questo aspetto, l'idea che tutto fosse già stato deciso, ha scoraggiato la partecipazione che, nel mese di apertura della consultazione pubblica online sul sito del Dipartimento pari opportunità (tra il 10 dicembre e il 10 gennaio), ha totalizzato 215 utenti, raccogliendo complessivamente 276 commenti e 9 nuove idee. Numeri che impallidiscono se confrontati, per esempio, con quelli della consultazione sulla Buona scuola (oltre 1,5 milioni di partecipanti in due mesi), conclusasi a metà novembre. Ai cittadini si chiedeva un giudizio sulle misure (dalla comunicazione e utilizzo dell'immagine della donna all'educazione al rispetto tra i generi, dalla formazione degli operatori che assistono le vittime all'inserimento socio-lavorativo delle donne violate e al recupero dei violentatori) che il governo intende mettere in atto per prevenire la violenza contro le donne e sostenere le vittime degli abusi. Tema che, soprattutto in questi ultimi mesi, è stato spesso sovrapposto a quello più generico e controverso del "gender", contribuendo a creare ulteriore confusione tra i cittadini e le famiglie e finendo per costituire un'altra possibile causa dell'esigua risposta alle sollecitazioni del Dipartimento pari opportunità. Boicottato anche da Arci e dalla rete Dire, che rappresenta i centri antiviolenza italiani, che hanno invitato i militanti a non aderire a una consultazione «banale e riduttiva ». «Non ci aspettavamo dei numeri precisi - ricorda la consigliera Martelli -. Per noi si trattava di una sfida e registriamo positivamente l'impegno di una parte della società che ha trovato interesse nelle proposte del Piano. Il lavoro da fare è comunque ancora tanto perché sulla violenza contro le donne la percezione dei cittadini è ancora troppo sfumata». Anche per la deputata di Ncd- Udc, Paola Binetti, il tema della violenza «resta confinato in nicchie » perché «si privilegia l'aspetto della denuncia» anziché «azioni di prevenzione più forti e incisive ». Rispetto ai "numeri" fatti registrare dalla consultazione pubblica, la parlamentare centrista rileva però una carenza di comunicazione. «Molti dei centri che si occupano della donne ferite non ne sapevano nulla – sottolinea Binetti - e questo non ha certo favorito la partecipazione al dibattito. È invece necessario che chi da anni lavora a fianco delle donne vittime di violenza, come tante realtà di area cattolica, sia maggiormente coinvolto. Cosa che, invece, in quest'occasione non è avvenuta ». 2 Da Repubblica.it del 13/05/15 (Napoli) #Je suis Charlie, il flashmob dell'Arci al consolato francese di Napoli Flash mob dell' Arci Napoli davanti alle sede del consolato francese in via Crispi. Solidarietá al popolo francese, testimonianza di libertá. Emilio Di Marzio, dirigente Pd e responsabile internazionale Arci Napoli, Mariano Anniciello, presidente Arci Napoli migranti, volontari e cittadini che si impegnano a costruire pace e integrazione. Al flash mob "je suis charlie" ha partecipato il console generale di Francia a Napoli, Christian Thimonier. (foto riccardo siano) http://napoli.repubblica.it/cronaca/2015/01/12/foto/je_suis_charlie-104797043/1/#1 del 13/05/15 (Torino 7) SPORTELLI AL CONSUMATORE IN CIRCOLI ARCI Il Comitato Arci Torino, con il Movimento Consumatori, apre degli Sportelli del Consumatore, attivi tutti i mercoledì, venerdì e sabato nei rispettivi circoli. Sono attivi: A.S.D.-Culturale Circolo 1° Maggio in via Primo Maggio, 18 a Nichelino. A partire da venerdì 9 gennaio e sarà aperto tutti i venerdì dalle 9 alle 12; al Circolo Margot in via Donizetti, 23 a Carmagnola. A partire da sabato 10 gennaio e sarà aperto tutti i sabato dalle 9:30 alle 13; al Circolo Risorgimento in via Giovanni Poggio 16 a Torino. A partire da mercoledì 14 gennaio e sarà aperto tutti i mercoledì dalle 15 alle 18 Gli sportelli si occuperanno di:utenze (gas, energia elettrica, telefonia)acquisti e servizi, banche e finanziarie, assicurazioni,tour operator e agenzie di viaggio, responsabilità professionale. Info: 011/5069546 3 ESTERI del 13/01/15, pag. 4 Intelligence e governo dicono che non esiste un “pericolo imminente”. Ma fonti israeliane e americane rilanciano. Mentre Francesco parte per un viaggio a rischio Vaticano, più controlli hacker dell’Is attaccano account del comando Usa Nelle zone sensibili di Roma sorveglianza triplicata “Limitare Schengen”: il no di Italia e della Merkel CARLO BONINI ROMA MANI ignote, che genericamente si definiscono simpatizzanti dell’Is, violano gli account Twitter e Youtube del comando centrale statunitense. E la confusione del senso di vulnerabilità fisica e cibernetica va alle stelle, toccando il nervo dell’emotività. E non è un’eccezione, allora, che in questo gioco di specchi e ombre che l’Italia ha già conosciuto nella stagione del dopo 11 Settembre, Roma e i simboli eterni della sua religiosità — Il Vaticano, la comunità ebraica — tornino ad essere merce di quel mercato della paura in cui il sangue di Parigi ha inevitabilmente e nuovamente precipitato l’Europa. Per dirla con le parole di una qualificata fonte della nostra Intelligence — sono dunque queste le ore e saranno questi i giorni e le settimane in cui «il confine tra vero e verosimile, tra plausibile e possibile, tenderà ad annullarsi e confondersi sotto la spinta di chi ha interesse a sfruttare questa fase di estrema emotività per condizionare l’agenda politica dei Paesi dell’Unione e la loro discussione sulle nuove misure antiterrorismo, per ridefinire i rapporti di forza tra le intelligence alleate o anche semplicemente per sollecitare una reazione a catena che radicalizzi le opinioni pubbliche ». Non c’è fonte politica — il ministro dell’Interno Alfano, la Presidenza del Consiglio, il ministro degli esteri Gentiloni, lo stesso portavoce vaticano padre Federico Lombardi — o uomo di vertice degli apparati della sicurezza (Polizia di prevenzione, Ros dei Carabinieri, Dis) che, in chiaro o in background, non vada ripetendo in queste ore, come un disco rotto, che «non esiste, allo stato, alcuna minaccia concreta, imminente, specifica» che indichi un rischio altrettanto «concreto, imminente e specifico» per la vita del Pagliato pa o per l’incolumità delle nostre città, le loro infrastrutture (metropolitane, linee aeree e ferroviarie), piuttosto che i luoghi delle nostre libertà politiche, civili, religiose. E tuttavia, chiusi nell’angolo da un allarme rilanciato con enfasi dai media americani, israeliani e dalla tedesca “ Bild”, «per giunta — osserva una fonte dell’Antiterrorismo — con significativa coincidenza proprio nel giorno della manifestazione di Parigi», nessuno può sottrarsi all’infernale meccanismo di autoassedio che quell’allarme produce. Nella notte tra domenica e lunedì, la nostra diplomazia e la nostra Polizia di Prevenzione hanno dunque cercato di verificare, attraverso i canali ufficiali con Washington e Tel Aviv, se l’allarme genericamente accreditato citando “fonti della Cia e della Nsa” e che indicava appunto il Vaticano quale prossimo obiettivo, avesse un riscontro fattuale di una qualche consistenza. Ma le risposte sono state negative. Formalmente, l’intelligence americana (Cia ed Fbi), come quella israeliana, negano la paternità dell’indicazione, rinviando 4 piuttosto i nostri Servizi e le nostre Polizie a quell’immenso pagliaio di indicazioni di intelligence “elettronica” catturate dall’occhio della Nsa nei teatri di operazioni in Medio Oriente che regolarmente vengono scambiate tra alleati e in cui resta impi- tutto e il suo contrario. «Senza un algoritmo degno di questo nome e un incrocio di dati — osserva una fonte della nostra Antiterrorismo — sapere se in dieci, cento o mille comunicazioni intercettate nel deserto siriano, piuttosto che nel Corno d’Africa o nel Maghreb in cui vengono citate le parole “cristiani”, “cristianesimo” o “Roma”, si nasconda l’informazione decisiva per sventare un attentato diventa un gioco al massacro». Né è un caso, che in questo grumo di confuse indicazioni in cui la Nsa torna a sedersi a capotavola dopo l’umiliazione del “datagate”, vengano regolarmente ricucinate le parole pronunciate tre mesi fa da un portavoce dell’Isis, Abu Muhammad al Adnani («Conquisteremo Roma e spezzeremo le croci con il permesso di Allah») o il fotomontaggio del magazine del Terrore ( Daqib) con le bandiere nere del Califfato a sventolare su piazza San Pietro. Accade così che in questo vuoto di intelligence per certi aspetti persino più spaventoso di una qualsivoglia anche labile indizio di minaccia, aumentino le cosiddette misure di «prevenzione passiva ». Roma è stata divisa in «sei quadranti » sensibili (tra questi, appunto, il Vaticano e il ghetto) in cui la sorveglianza sul territorio (pattuglie e posti di vigilanza fissa) è stata triplicata. E, ieri sera, la partenza del Papa per il suo viaggio pastorale in Sri Lanka e Filippine è stata accompagnata da un dispositivo di sicurezza all’aeroporto di Fiumicino (cecchini sui tetti, aree di rispetto all’interno e all’esterno del terminal) come non se ne vedeva dai giorni immediatamente successivi all’11 settembre. Un viaggio, per altro, su cui, in questi giorni, la nostra Intelligence e la nostra diplomazia non hanno smesso di sollecitare il Vaticano alla massima cautela. Se le stragi di Parigi hanno infatti consegnato una certezza è che il pericolo, ora, non si annidi in una sigla, o in un’organizzazione dell’arcipelago del Terrore islamista. Quanto, piuttosto, nella imprevedibilità omicida dei cosiddetti “lupi solitari” o “self starters”, se si preferisce. Fantasmi della porta accanto per i quali, in queste ore, la nostra Intelligence parla di «altissimo rischio emulativo». E su cui, non a caso, si è riacceso il dibattito europeo su una eventuale limitazione del cosiddetto “spazio di Schengen”. Una libertà che Alfano e la Merkel ieri hanno nuovamente difeso ritenendola non negoziabile. A differenza del cosiddetto “Pnr”, il database che darebbe alle polizie e ai Servizi europei la possibilità di tracciare e conservare i dati personali dei milioni di passeggeri che ogni anno entrano ed escono dai Paesi dell’Unione. del 13/01/15, pag. 2 IL PATRIOT ACT ALLA FRANCESE E LA SINDROME SICUREZZA GIRO DI VITE SUI FERMI PER TERRORISMO E CONTROLLI A TAPPETO. I MEDIA PROTESTANO di Alessandro Mantovani inviato a Parigi La tentazione è forte, c’è la pressione dell’apparato poliziesco e dei servizi che reclamano “mezzi adeguati” e c’è da tenere a bada Marine Le Pen e il suo Front National che spingono a fondo sull’acceleratore della paura e della svolta securitaria, raccogliendo 5 consensi. Così nelle alte sfere del governo socialista di Parigi e negli ambienti che contano, all’indomani della manifestazione oceanica di domenica 11 gennaio gira insistentemente il nome un po’ sinistro di un prodotto d’importazione: Patriot Act. È IL COMPLESSO delle norme antiterrorismo varate negli Usa all’indomani dell’11 settembre 2001, che in estrema sintesi reggono giuridicamente Guantanamo e la detenzione amministrativa senza processo e consentono all’intelligence di intercettare chi vogliono, quando vogliono, come vogliono. Due sono i piani su cui si concentra la riflessione del consiglio dei ministri, che ieri mattina si è riunito all’Eliseo: l’ampliamento delle intercettazioni fuori dal controllo della magistratura, già possibili in Francia sotto la vigilanza di una commissione centrale e l’isolamento carcerario dei detenuti condannati o accusati di terrorismo. Sono questioni connesse ai profili dei protagonisti della settimana di sangue vissuta dalla Francia tra la carneficina nella redazione di Charlie Hebdo, l’omicidio di una vigilessa 26enne in una banlieue di Parigi e il sequestro di clienti e dipendenti di un minimarket ebraico concluso con la morte di quattro ostaggi, tutti ebrei come era logico attendersi di venerdì in vista dello shabbat. I presunti assassini dei disegnatori, i fratelli Kouachi poi rimasti uccisi nel blitz della gendarmeria, erano stati seguiti e intercettati tra il 2011 - quando il maggiore, Said, era stato segnalato quale partecipante ai campi d’addestra - mento di Al Qaeda nello Yemen - e l’estate 2014, quando la sorveglianza sui due si è allentata. Fonti di polizia nei giorni scorsi avevano fatto sapere che questo “buco” nella vigilanza nei confronti dei Kouachi - il minore, Chérif, era stato anche arrestato e condannato nel 2008 per reati connessi al reclutamento di combattenti per l’Iraq – serviva a concentrarsi su altri soggetti, ritenuti più pericolosi. Perfino comprensibile in un Paese che conta circa 1.400 combattenti di ritorno, “reduci” cioè dei teatri di guerra della Siria, dell’Iraq e nei casi più risalenti dei Balcani. DOMENICA però l’ex direttore dei servizi interni (Dgsi, ex Dcri) recentemente riformati e resi più agili, il prefetto Bernard Squarcini, ha fatto intendere che la sospensione delle intercettazioni nei confronti di Said Kouachi sarebbe stata reclamata dalla Commissione di controllo (Cncis): “Vi dicono di fermarvi perché l’obiettivo non appare o non è più attivo”. Quanto alle carceri, Amedy Coulibaly, il responsabile franco- maliano del sequestro nel negozio ebraico rimasto ucciso anche lui durante l’intervento delle forze speciali, si sarebbe almeno in parte “radicalizzato” dietro le sbarre, dove inizialmente era finito per rapine e droga. Il ministero della Giustizia ha però fatto sapere che Chérif Kouachi e Coulibaly, in carcere, tennero un comportamento “esemplare”. Ieri il governo, stando alle fonti ufficiali, non ha preso decisioni. “Non è questione di legiferare in materia sull’onda dell’emozione”, ha detto Valls. Aggiungendo però che “il sistema delle intercettazioni giudiziarie e amministrative dev’essere reso più efficace”. Tutto sta a capire come. Tanto più che la Francia, alle prese con il terrorismo di matrice islamista dalla metà degli anni 80, non ha una legislazione morbida. Basti pensare alla Superprocura antiterrorismo che in Italia non esiste o alla garde à vue, una sorta di fermo di polizia che per questi reati può durare per diversi giorni anche per persone contro le quali non esistono contestazioni penali, come è successo a parenti e amici dei Kouachi, per interrogarle. Per non dire della parziale subordinazione delle Procure all’esecutivo. Una cosa è certa, il Patriot Act alla francese non piace in ambienti vicini ai socialisti. Le Monde e Libération scrivono che è improprio parlare di “guerra”di fronte a una pur gravissima minaccia terrorista che non può affatto dirsi cessata. L’INCHIESTA sugli attentati prosegue, la polizia cerca l’uomo che ha postato il video con la rivendicazione di Coulibaly, apparso su Youtube dopo la morte di quest’ultimo. E non solo. Fonti investigative riferiscono di “sei complici” dei terroristi ancora in libertà, attivamente ricercati. È confermato, infine, che Hayat Boumedienne, moglie del francomaliano, si trova in Siria: compare in un video all’aeroporto di Istabul. 6 del 13/01/15, pag. 9 In tre giorni la sua immagine è cambiata Dopo una lunga impopolarità, ha trovato i modi giusti per rispondere alla tragedia. Ora per lui la tentazione del pugno di ferro, un rischio per i diritti civili La riscossa di Hollande il presidente “normale” vince la sfida del terrore BERNARDO VALLI PARIGI IN TRE giorni l’immagine di François Hollande è cambiata. Dopo una lunga impopolarità piovono su di lui elogi, apprezzamenti destinati agli uomini di governo con carattere, con carisma, capaci di imporsi, pronti nelle decisioni. Si era dichiarato un presidente “normale”, che significava semplice, alla mano, ed era finito col diventare banale. Non detestato, ma preso sottogamba, non considerato, a volte deriso. Troppo impacciato per la monarchia repubblicana che elegge un sovrano temporaneo dal quale esige una solennità intelligente, altrimenti lo insegue col sarcasmo e poi lo decapita politicamente al momento della riconferma. Nei primi tre anni François Hollande ha deluso, negli ultimi cinque giorni, tra il 7 e l’11 gennaio ha conquistato gran parte del paese, e del pubblico europeo. In che misura e per quanto tempo ce lo diranno le indagini d’opinione, tra qualche mese, quando si saranno spente emozioni e passioni. Ma già la figura del presidente poco espressivo e dai gesti goffi è diventata quella di un presidente che da una sconfitta ricava un successo. Capace di risollevare la nazione ferita. Nell’arte politica è un esercizio difficile. Equivale, nell’arte militare, alla controffensiva riuscita dopo una battaglia data per perduta. È un’impresa riservata ai rari strateghi di valore. I terroristi della strage al Charlie Hebdo hanno colpito un paese depresso, convinto di vivere un momento di decadenza, di essere senza iniziative e privato del suo rango internazionale. Hollande era il simbolo di questa crisi psicologica non del tutto motivata, ma debilitante. Non solo francese. Assai diffusa in Europa. La strage nella redazione del settimanale satirico, mercoledì sette gennaio, era il segno della vulnerabilità della nazione. Era una sconfitta del suo sistema difensivo. Dei suoi servizi di informazione che nelle guerre asimmetriche, contro il terrorismo, hanno il ruolo delle forze armate nei conflitti convenzionali. Poco più di un’ora dopo l’attentato nell’11esimo arrondissement, nel cuore storico di Parigi, François Hollande era sul posto. I servizi di sicurezza non avevano dato garanzie, anzi avevano sconsigliato la visita del capo dello Stato. Le automobili parcheggiate sotto la redazione del settimanale satirico, dove c’erano i cadaveri delle vittime e dove i feriti ricevevano le prime cure, potevano essere imbottite di esplosivo. Nessuno le aveva esaminate. Gli esperti della polizia hanno seguito con angoscia la scena sui teleschermi, dove arrivavano le immagini raccolte dalle macchine da presa disseminate nell’11arrondissement. Era un’imprudenza. Ma Hollande non aveva voluto aspettare. Il presidente più banale che normale aveva capito che quello era il suo posto. Il suo sguardo era lo stesso ma appariva diverso. Non era più vago, inespressivo, ma calmo. E nel dramma la calma è una prova di forza. Cosi la sua andatura impacciata non era più sciolta del solito, ma in quella situazione i gesti esitanti non apparivano più goffi. Erano segni di semplicità ed essere semplici nei drammi è una prova di coraggio. 7 Là è emerso un altro Hollande. Quello che non si era mai rivelato nei primi tre anni di presidenza è apparso a milioni di francesi quel mercoledì e nei giorni successivi. Bisognava rianimare la Francia traumatizzata, un paese in cui vivono cinque-sei milioni di musulmani e mezzo milione di ebrei, dove il populismo di estrema destra non lascia indifferenti quasi un cittadino su tre e la fiducia nei governanti era al più basso dalla nascita della Quinta Repubblica. Il massacro dei quattro cittadini ebrei alla porta di Versailles poteva moltiplicare gli incidenti contro le moschee e per ritorsione contro le sinagoghe. Hollande ha ordinato di persona gli assalti finali ai luoghi dove erano asserragliati i tre terroristi, come aveva diretto le operazione di poliziotti e gendarmi nelle ore precedenti. Lo ha fatto con i soliti toni che invece di apparire dimessi, e seminare incertezza, hanno dato l’impressione al paese di essere guidato. Senza grandeur ma con efficacia. Ecco cosa voleva dire quando si presentava come un presidente normale. Con la controffensiva politica François Hollande ha cambiato gli umori della Francia e in parte anche quelli dell’Europa. È a quest’ul- tima che si è rivolto, in quanto europeista convinto, per dimostrare al paese frustrato e ferito che non era solo. E che il nazionalismo degli euroscettici, lo sciovinismo dell’estrema destra, avrebbero portato all’isolamento e non alla sicurezza della Francia. Cosi Parigi ha ricordato domenica i diciassette morti e nello stesso tempo ha festeggiato quarantaquattro capi di Stato e di governo venuti a esprimere solidarietà. L’applaudito promotore della grande “marcia repubblicana” era il banale presidente di cui la stragrande maggioranza dei francesi sopportava con fatica fino allora la presenza nel palazzo dell’Eliseo. In place de la République non c’era Marine Le Pen. La presidente del Front National voleva un invito ufficiale. Ricevendola sabato mattina Hollande le ha detto che la manifestazione era aperta a tutti, senza distinzione. Non c’erano dunque bisogno di inviti. Marine Le Pen se ne è andata offesa. E per ripicca ha fatto la sua marcia in un feudo del Front National, a Beaucaire, nel Sud della Francia, con alcune centinaia di fedeli. L’Europa non c’era. Era a Parigi con Hollande e con milioni di manifestanti. L’estrema destra xenofoba veniva data nei drammatici giorni della settimana scorsa come l’inevitabile beneficiaria alle prossime elezioni. Hollande ha fatto capire che potrebbe accadere il contrario. Un altro presidente, George W. Bush, dopo l’11 settembre 2001, ha recuperato la popolarità che aveva perduto dopo essere stato eletto alla Casa Bianca. Una tragedia nazionale può favorire un presidente. Tanto più se dà prova di efficienza. Un paese ha bisogno di sentirsi guidato e difeso. Bush jr ha invaso l’Afghanistan per inseguire Al Qaeda ritenuta responsabile dell’attacco alle due torri di New York e per cacciare dal potere i Taliban che li ospitavano e sostenevano. Due anni dopo ha invaso l’Iraq. Un disastro di cui vediamo e vedremo ancora per molto tempo le conseguenze in Medio Oriente. La Francia non ha i mezzi per provocare danni del genere, ed è impegnata in operazioni assai più limitate nell’Africa occidentale, e non vuole né estenderle né rinunciarvi. È già membro della coalizione creata dagli americani per combattere il califfato (lo Stato islamico) in Iraq e non vuole aumentare la sua partecipazione agli attacchi aerei. Bush jr ha promosso anche il Patriot Act e questa è una tentazione dalla quale Hollande dovrà difendersi. Con il Partriot Act, varato a Washington con l’ordinanza del 13 novembre 2001, il ruolo dei giudici è stato sminuito. Le commissioni militari sono diventate giurisdizioni e nonostante le reazioni della Corte suprema hanno violato il diritto internazionale. La guerra giustifica le torture di Guantanamo e le lunghe detenzioni a dispetto delle garanzie elementari del dirittto americano. A decidere sono i servizi di informazione, I quali si sono serviti anche dei paesi europei disposti ad accettare centri di interrogatorio clandestini. Non è un segreto l’ampia rete di spionaggio creata per ascoltare 8 anche le telefonate dei governanti europei, comprese quelle di Angela Merkel. Il Patriot Act, che resta in vigore nel 2015, consacra la nozione di «nemici combattenti illegali ». Mireille Delmas-Marty, professoressa al College de France, spiega (su Le Monde) ai suoi connazionali il significato di quella definizione per metterli in guardia sulle conseguenze. La nozione di riferisce a persone che non hanno diritto né alle garanzie del codice penale perché sono dei nemici, né a quelle dei prigionieri di guerra perché sono dei combattenti illegali. In Francia sono state varate leggi contro il terrorismo, ma sono ben lontane da quelle drastiche del Patriot Act. Il quale adesso è di grande attualità e suscita forti tentazioni a Parigi. Conquistata un’insperata popolarità François Hollande non sfuggirà a quelle tentazioni. Per rassicurare il paese e per proteggerlo dalle continue minacce dovrà applicare provvedimenti severi. La destra lo chiede già con insistenza. L’Europa ne sarà influenzata. Il rischio per i nostri diritti civili è evidente. Ieri il presidente ha deciso di impegnare diecimila soldati per garantire la sicurezza delle istituzioni, in particolare delle scuole. Soprattutto quelle ebraiche. Ma un Patriot Act europeo è nell’aria. Del 13/01/2015, pag. 9 Hollande non voleva Netanyahu a Parigi Marcia per libertà espressione. Secondo il quotidiano "Haaretz", il presidente francese ha cercato invano di tenere lontano il premier israeliano, spiegandogli che sarebbe stato meglio non coinvolgere il conflitto israelo-palestinese nell'iniziativa. Netanyahu ha imposto sua presenza, l'Eliseo ha risposto estendendo l'invito al presidente palestinese Abu Mazen Michele Giorgio Benyamin Netanyahu era in testa al corteo, a pochi centimetri dal capo di stato francese François Hollande. Anche il presidente palestinese Abu Mazen è lì davanti, ad appena un paio di metri di distanza dal premier israeliano. La marcia di Parigi, con una quarantina di capi di governo, leader e presidenti di tutto il mondo, passerà alla storia anche per la presenza, fin troppo visibile, di Netanyahu e di Abu Mazen. E pensare che Hollande non li voleva nella sua capitale, soprattutto Netanyahu, non nuovo a ruoli da protagonista in queste circostanze, durante le campagne elettorali. Almeno questo è quanto ha riferito ieri Haaretz, alla vigilia del ritorno in Israele del primo ministro e dell’arrivo delle salme dei quattro francesi ebrei uccisi nel supermercato kosher di Parigi e che saranno sepolte a Gerusalemme. Secondo Haaretz, Hollande aveva chiesto a Netanyahu di non partecipare alla marcia. Gli aveva mandato un messaggio in tal senso, spiegandogli di voler tenere il conflitto israelopalestinese fuori dall’iniziativa. In un primo tempo Netanyahu aveva accolto la richiesta e rinunciato a partire con il pretesto delle misure di sicurezza. Quindi ha cambiato idea, subito dopo avere appreso che a Parigi sarebbero andati i suoi colleghi della destra estrema e rivali nelle elezioni del 17 marzo, il ministro degli esteri Lieberman e quello dell’economia Bennett. A quel punto la Francia ha messo in chiaro che l’invito sarebbe stato esteso anche al leader palestinese Abu Mazen. Un retroscena smentito dal ministero degli esteri e invece confermato dalla tv israeliana Canale 2. Un’agenzia di stampa italiana ha scritto la manifestazione di Parigi sarà ricordata anche perchè Netanyahu e Abu Mazen erano lì, a pochi passi l’uno dall’altro, “segnale” di un dialogo probabilmente vicino a ripartire. La solita retorica pacifista, slegata dalla realtà, alla quale non riescono mai a sottrarsi i media italiani. 9 I due non si sono neppure scambiati uno sguardo. Netanyahu è nell’elenco dei leader politici e comandanti militari israeliani che i palestinesi vorrebbero vedere incriminati dalla Corte Penale Internazionale per l’uccisione di centinaia di civili di Gaza, tra i quali tanti bambini, durante l’offensiva “Margine Protettivo” della scorsa estate. A sua volta il premier israeliano è convinto che sul banco degli imputati, davanti ai giudici internazionali, ci finirà Abu Mazen, perché ha formato un governo con Hamas che ha lanciato razzi verso le città israeliane. Il presidente palestinese ieri è stato aspramente criticato proprio dal movimento islamico. Hamas (che ha condannato la strage a Charlie Hebdo) lo accusa di essere «un giocoliere politico, un ipocrita»; che spera di guadagnarsi la simpatia delle Nazioni mentre dovrebbe dedicare l’attenzione al suo popolo. E non possono passare inosservate anche le critiche di chi, giustamente, ha definito quella di Parigi la “Marcia degli Ipocriti”. Reporter senza Frontiere, ricorda che le politiche di un buon numero dei leader presenti domenica in Francia, a casa sono tutt’altro che compatibili con la solidarietà mostrata per la libertà di parola. «Dobbiamo dimostrare la nostra solidarietà a Charlie Hébdo – ha dichiarato ieri il segretario generale di Reporter senza Frontiere Christophe Deloire – senza dimenticare tutti gli altri Charlie del mondo. Sarebbe inaccettabile se i rappresentanti dei paesi che impongono il silenzio ai propri giornalisti dovessero sfruttare l’attuale effusione di emozione per cercare di migliorare la propria immagine internazionale e poi continuare le loro politiche repressive quando tornano a casa». Hollande aveva visto giusto. Netanyahu ha catturato l’attenzione dei media quando ha esortato i francesi ebrei a lasciare il loro Paese e a trasferirsi in Israele, suscitando l’approvazione di molti ebrei ma anche il disappunto di Hollande e del primo ministro Manuel Valls che ha garantito che la comunità ebraica francese è al sicuro e sarà protetta da migliaia di agenti delle forze di sicurezza. D’altronde anche il rabbino Menachem Margolin, capo della “European Jewish Association”, ha arricciato il naso ascoltando le parole di Netanyahu tanto da dichiarare che «l’emigrazione degli ebrei verso Israele non può essere l’unica soluzione». del 13/01/15, pag. 3 Leader nel soffocare la libertà d’espressione TRA LE DECINE DI CAPI DI STATO E DI GOVERNO CHE HANNO SFILATO DOMENICA A PARIGI ALMENO 20 “IMPRESENTABILI ” CHE NEI RISPETTIVI PAESI NON RISPETTANO I DIRITTI SULL’INFORMAZIONE E I GIORNALISTI di Salvatore Cannavò Con i due milioni di parigini in piazza hanno sfilato anche 50 capi di Stato e di governo. La foto dei leader apparsa su tutti i giornali del mondo ha puntato a rappresentare i milioni scesi a manifestare. Ma, scorrendo i loro nomi, e al netto dei giudizi politici, non sempre sono in grado di onorare la loro presenza. Basta leggere l’elenco e guardare alla situazione dell’informazione nel rispettivo paese. Re Abdallah di Giordania. In prima fila accanto alla bella moglie Ranja, guida un paese in cui la libertà di informazione è talmente ridotta da figurare al 149° posto nella classifica stilata da Reporters sans frontieres (Rsf). È di pochi giorni fa la condanna ai lavori forzati dello scrittore e accademico palestinese 10 Mudar Zahran. Ahmet Davutoglu, primo ministro turco. Il paese di Erdogan tiene in carcere decine di giornalisti. Secondo il Cpj (Comitato per la protezione dei giornalisti) è il maggior paese al mondo a incarcerare i giornalisti seguito da Iran e Cina (non presenti in piazza). Benjamin Netanyahu premier di Israele. Secondo Rwb molti giornalisti sono stati arrestati arbitrariamente. Il paese è al 96° posto nella classifica sulla libertà di informazione citata. Sameh Choukry, ministro Esteri Egitto. La notizia è del 20 dicembre, il giornalista Mahmoud Abou Zied ha denunciato di essere stato rapito e imprigionato da almeno 16 mesi. Nonostante sia in carcere da 500 giorni, la sua carcerazione è stata prorogata. L'Egitto è al 159° posto in classifica. Sergej Lavrov, ministro Esteri Russia. Il governo di Mosca tiene imprigionati diversi giornalisti tra cui il blogger Dmitry Shipilov, in galera dal 10 settembre, arrestato dopo un'intervista a un esponente dell'autonomia siberiana. La Russia è al 148° posto della classifica. Abdallah ben Zayed Al-Nahyane, ministro degli Esteri degli Emirati arabi uniti. Anche tra gli emiri c’è l'usanza di incarcerare giornalisti, come l'egiziano Anas Fouda, tenuto in isolamento per un mese senza accuse. Gli Eau sono al 118° posto. Mehdi Jomaa, primo ministro Tunisia. Il paese della “primavera araba” ha recentemente imprigionato per 3 anni il blogger Yassine Ayan per aver diffamato l’esercito. Una “grossa violazione del diritto di espressione” secondo Amnesty International. Il paese è al 133° posto nella classifica di Rwb. Boïko Borisov, capo del governo Bulgaria. Il paese non ha mancato di distinguersi negli attacchi ai giornalisti come quelli avvenuti a luglio davanti al parlamento di Sofia. La Bulgaria è al 100° posto nella classifica Eric Holder, ministro Giustizia Usa. Anche il paese campione della libertà limita quella di stampa come avvenuto durante gli incidenti di Ferguson dove la polizia ha arrestato e detenuto ingiustamente alcuni reporter del prestigioso Wa - shington Post. Nella classifica di Rwb, in ogni caso, gli Stati Uniti sono al 46° posto. Antonis Samaras, premier Grecia. Per reprimere le tante manifestazioni di protesta la Grecia ha più volte colpito e ferito i giornalisti. Tanto che si trova al 99° posto nella classifica. La seconda peggior posizione di tutta la Ue. Jens Stoltenberg, segretario generale Nato. L’Alleanza atlantica non ha mai risposto del bombardamento, e l’uccisione, di 16 giornalisti serbi a Belgrado nel 1999. Ibrahim Boubacar Keïta, presidente Mali. Molti giornalisti sono stati espulsi (fonte Cpj) dopo aver denunciato la violazione dei diritti umani. Il Mali è al 122° posto della classifica. Viktor Orban, premier ungherese. Da quando è al potere, il premier si è distinto per gli attacchi alla stampa e all’indipendenza dei media. Dal 2010 vige una legge molto restrittiva. Al 64° posto nella classifica. Ali Bongo, presidente del Gabon. I quotidiani di opposizione hanno denunciato a settembre la chiusura temporanea delle pubblicazioni a causa della pirateria informatica del governo che però nega. 98ª posizione. Miro Cerar, primo ministro Slovenia. Casi di blogger condannati a 6 mesi di prigione per diffamazione come nel caso di Mitja Kunstelj. Il paese, però, tra quelli considerati è tra i migliori della classifica, al 34° posto. Enda Kenny primo ministro Irlanda. Ancora meglio fa l'Irlanda, 16ª nella lista stilata da Rwb. Eppure il paese di Kenny considera ancora la “blasfemia” un’offesa da condannare. Ewa Kopacz, primo ministro Polonia. Il paese che esprime anche il presidente della Ue, Donald Tusk, è quello che, lo scorso giugno, ha requisito una montagna di intercettazioni ambientali tra politici comprovanti un importante caso di corruzione. La Polonia è comunque al 19° posto della classifica. David Cameron, premier Gran Bretagna. Il governo inglese è quello che ha minacciato e perseguito il giornale The Guardian per il caso Snowden chiedendo insistentemente di distruggere gli hard disk dei suoi computer. 33ª posizione. Il fratello dell’emiro Mohamed Ben Hamad Ben Khalifa Al Thani del Qatar. Lo scrittore e poeta Mohamed Rashid al-Ajami è stato condannato a 15 anni di carcere per avere insultato il regnante. Il paese è al 113° posto. Nizar al-Madani, numero due dell'ambasciata saudita. Solo venerdì scorso, nel paese il blogger Raif Badawi è stato condannato a 10 anni di prigione e a 1000 frustate da diluire 11 in 20 settimane per aver “insultato” l'Islam. L’Arabia saudita è al 164° posto della classifica sulla libertà di informazione. del 13/01/15, pag. 10 Quegli improbabili campioni di libertà Dal russo Lavrov all’ungherese Orbán, dal turco Davutoglu al gaboniano Bongo a Parigi hanno sfilato rappresentanti di governi che limitano il diritto di espressione DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PARIGI Forse una figura migliore l’ha fatta il ministro degli Esteri del Marocco, Salaheddine Mezour, che è venuto a Parigi per presentare le condoglianze a Hollande ma poi si è rifiutato di partecipare alla marcia. Assenza rara, e motivata. Nel 2006 il settimanale marocchino Journal hebdomadaire , in un servizio sulle caricature di Maometto del giornale danese Jyllands Posten poi ripubblicate da Charlie Hebdo , mise in pagina una foto che lasciava intravedere uno dei disegni. Si scatenò la rabbia popolare, assecondata da un regime che non amava quel giornale troppo critico (e costretto a chiudere nel 2010). Domenica, dopo la visita all’Eliseo, il ministro Mezour ha disertato la manifestazione ed è tornato in Marocco, dove il governo pochi giorni prima aveva proibito la distribuzione di tutti i giornali stranieri con vignette di Charlie Hebdo (quelli nazionali neanche ci avevano provato a pubblicarle). Altri capi di Stato e di governo, domenica, non hanno avuto la stessa pur discutibile coerenza. Si sono mostrati Charlie a Parigi, essendo persecutori di Charlie in patria. L’organizzazione non governativa Reporters sans Frontières ha protestato contro la presenza nel corteo di Paesi come l’Egitto (al 159° posto su 180 nella classifica della libertà di stampa 2014), Turchia (154°), Russia (148°) o Emirati Arabi Uniti (118°). «Come fanno i rappresentanti di regimi predatori della libertà di stampa a sfilare a Parigi?», si legge nel comunicato pieno di sdegno di Rsf. «È intollerabile che quanti riducono al silenzio i giornalisti nei loro Paesi approfittino di Charlie per cercare di migliorare la loro immagine internazionale», ha spiegato il segretario di Rsf, Christophe Deloire. Tra mille scritte «Je suis Charlie» c’erano pure il ministro degli Esteri russo Lavrov, il premier ungherese Viktor Orbán, il premier turco Davutoglu, il presidente del Gabon, Ali Bongo. Non esattamente i migliori amici dei giornalisti. «E perché non Bashar al Assad?», si è allora chiesta su Twitter la reporter di Le Monde Marion Van Renterghem, inaugurando l’hashtag di grande successo # PauvreCharlie , povero Charlie. In molti hanno chiesto l’arrivo del nordcoreano Kim Jong-un, o lamentato la spiacevole assenza del dittatore cileno Augusto Pinochet (morto nove anni fa). Hollande ha capito che l’arrivo degli improbabili campioni di libertà a Parigi rischiava di intaccare lo stato di grazia collettivo, e ha cercato di distinguere. Un conto era la marcia repubblicana per la libertà di espressione, un altro la lotta al terrorismo: e se il russo Lavrov non ha titolo per la prima, può tornare utile per la seconda. Non a caso il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, ha proclamato che Parigi era domenica «la capitale mondiale della resistenza contro il terrorismo»: i capi di Stato e di governo sfilavano contro gli attentati, più che a favore di Charlie Hebdo . Ma se la sfumatura ha permesso di salvare la giornata da un punto di vista diplomatico, il corto 12 circuito si è creato quando anche i politici più discussi si sono messi a marciare, per pochi minuti, sullo stesso boulevard calpestato dalla folla immensa di «Je suis Charlie». Così, abbiamo visto Sameh Shoukry, ministro degli Affari esteri dell’Egitto, Paese dove attualmente sedici giornalisti sono incarcerati. Tra loro, i tre di Al-Jazeera in prigione dal dicembre 2013, accusati di avere diffuso false notizie e di essere vicini ai Fratelli musulmani. Poi Ahmet Davotoglu, primo ministro della Turchia, dove la lotta al terrorismo, secondo Reporters sans frontières, viene regolarmente utilizzata per giustificare la persecuzione di giornalisti sgraditi al regime. Nel dicembre scorso 24 persone sono state arrestate dopo le perquisizioni tra i media dell’opposizione al presidente Erdogan. L’Algeria, al 121° posto nella classifica di Rsf, era rappresentata dal ministro degli Esteri Ramtane Lamamra, che ha potuto manifestare a Parigi quando ad Algeri sono proibite le manifestazioni contro il quarto mandato del presidente Abdellaziz Bouteflika. E poi Ali Bongo, ultimo protagonista della dinastia che governa il Gabon, dove appena il 3 gennaio scorso il giornalista Jonas Moulenda, autore di un’inchiesta sui crimini rituali, è stato costretto a rifugiarsi in Camerun. «Non posso dire che vedere Ali Bongo alla marcia mi abbia fatto bene», ha detto in tv Laurent Léger, uno dei giornalisti sopravvissuti per miracolo al massacro di Charlie Hebdo . E ancora il presidente del Benin, Boni Yayi, che ha decretato un giorno di lutto nazionale e ha marciato a Parigi quando i giornali Le Béninois libéré e L’indépendant in patria sono perseguiti per offesa al capo dello Stato. Uno dei casi più interessanti, perché nell’Unione Europea, è quello di Viktor Orbán, primo ministro dell’Ungheria, che non solo dal 2011 punisce per legge l’«informazione non equilibrata», cioè critica nei confronti del suo potere, ma ha pure approfittato della marcia della fraternità per dire alla tv di Stato di Budapest che i massacri di Parigi dovrebbero servire da lezione: «Non vogliamo vedere tra noi minoranze con caratteristiche culturali diverse. Vogliamo che l’Ungheria resti l’Ungheria». Luz, altro vignettista superstite, è amareggiato: «Abbiamo visto sfilare tutti i nostri personaggi. Pure l’assurdità contro la quale ci battiamo, era alla marcia». del 13/01/15, pag. 1/35 L’Europa rinasce sotto la Bastiglia ADRIANO SOFRI LA MANIFESTAZIONE di Parigi non è stata la risposta all’attacco di pochi invasati che il groviglio mondiale ha promosso ad avamposti jihadisti. UNA manifestazione come quella non può ripetersi all’indomani del prossimo attentato, e così via. Però è stata molto di più. È successo a milioni di persone, e a me fra loro, di cantare alla Bastiglia in un pomeriggio del 2015 la Marsigliese, e prenderla sul serio fino alle lacrime. La Francia repubblicana ha fatto una figura meravigliosa, cittadini e governanti: non ha avanzato alcun distinguo sulle vignette, non ora, ha detto: “Sono io, siamo noi”, e ha portato i governanti di mezzo mondo dentro un unico pullman (pazzia, dal punto di vista della sicurezza) a sfilare per quella libertà — per la libertà. Non un corteo, piuttosto una trasfusione innumerevole degli uni negli altri, col sentimento che la città sia stata inventata per rendere possibile questo, essere una casa di tutti perché tutti tornino ad avere una casa propria. C’era una singolare organizzazione: la lunga testa del corteo (famiglie delle vittime, autorità religiose e civili) aveva ai bordi argini rigorosi di polizia e volontari, sicché il cordone sparuto di superstiti di Charlie Hebdo avanzava, come schiacciato dal dolore e resuscitato dall’amore della ininterrotta muraglia umana. Noi siamo Charlie, dicevano le infinite facce di quella folla, e i redattori di Charlie sentivano a 13 loro volta di non essere più Charlie, ma quel popolo commosso e determinato a proteggerli. È stata una meravigliosa adozione. C’era, per una volta, l’Europa politica, ha scritto Ezio Mauro. La signora Merkel veniva da una Germania scossa da un vasto rigurgito xenofobo, cui aveva risposto con le parole giuste. Hollande aveva a sua volta trovato il portamento adeguato, inaspettato riscatto di un troppo qualunque, stramazzato sotto un casco di motorino o un colbacco kazako: è venuto fuori in giacca, a mostrare quasi ingenuamente che le circostanze straordinarie rendono ammirevole un comportamento ordinario. Può darsi che quella bella Europa non duri più della sua domenica. Perché non avvenga, occorre che l’Europa politica che si è presa sottobraccio a Parigi sia capace di immaginare e volere una grandissima adozione: della Siria e dell’Iraq, del Kurdistan e dello Yemen e della Nigeria… Promuovendo e incarnando con altri una polizia internazionale, esigendo quel legittimo monopolio della forza che l’impresa di Bush e Blair volle travestire. Non si sottolineerà mai abbastanza il valore del sacrificio di Ahmed Merabet, poliziotto di quartiere in bicicletta. Domenica quei milioni di francesi hanno salutato e applaudito con calore i poliziotti, nel paese dei flic e dei gendarmi. Una vicenda di giorni ha cambiato i francesi, e avrà cambiato anche i poliziotti. Guardando e partecipando, immaginavo che avvenisse anche in Siria e altrove — dove sono soprattutto musulmani le centinaia di migliaia di uccisi, e i milioni di cacciati. L’Europa politica è nata dopo che uomini in armi sbarcarono e furono accolti da liberatori. Allora le guerre erano ancora guerre, non conflitti asimmetrici o come volete chiamarli. Ma la sostanza resta. Come fu difficile metterla insieme quell’alleanza adeguata contro il nazifascismo (e dopo quante viltà, e a costo di quante vergogne mai superate, come l’inerzia su Auschwitz). Era sembrato tanto impossibile, tanto utopico, che un inglese prima di Churchill fu il campione della capitolazione, dello “spirito di Monaco” eternamente risorgente. “Guerra all’Islam”: tre errori micidiali in tre parole e un apostrofo. L’Islam è una religione storica e una cultura cui variamente aderisce più di un miliardo di persone. Si avverte: non tutti i musulmani sono terroristi, ma oggi la gran maggioranza dei terroristi sono musulmani. È vero, ed è importante capire perché succeda: ma è demenziale ritenere che il fondamentalismo sia lo svolgimento necessario dell’Islam, e che una simpatia o un’omertà verso il terrore gli siano connaturate. Altrettanto sbagliata è la parola: guerra. La si mastica molto, è, grave o eccitato, il chewing-word di successo. E per lo più evitiamo di nominare la guerra solo masticando il suo opposto, pace, e facendone un sinonimo di impotenza, se non di viltà. Perché per ripudiare il nome di guerra ci arrendiamo a chi la muove e la dichiara, per giunta pretendendola santa? Perché non sappiamo pronunciare, e nemmeno immaginare, il nome alternativo di polizia. Sappiamo farlo solo sulla scala nazionale. Se il terrore colpisce Parigi, sappiamo che tocca alla polizia, e protestiamo se la sua risposta non è appropriata e adeguata. Una polizia internazionale non la sappiamo immaginare, se non per escluderla, come se fosse ancora più utopica del pronunciare “Pace pace” (Shalom, Salam aleikom…). Gustavo Zagrebelski, che l’ha menzionata qui ieri, è amaramente rassegnato all’impossibilità che la necessaria azione di polizia si svolga al di là dei confini dello Stato o al più dell’accordo federale fra Stati tentato dall’Europa. Se fosse davvero impossibile, avremmo già perduto, perché la Siria, l’Iraq, lo Yemen, la Nigeria, la Libia eccetera (eccetera) e la città di una redazione europea e la sponda settentrionale del Mediterraneo (eccetera) sono vasi sempre più direttamente comunicanti. La coalizione che si batte contro l’Is, o quella che dovrebbe battersi contro Boko Haram se avessimo un barlume di decenza, sono ciò che si avvicina di più al bisogno, purché agiscano coi criteri di una polizia legale e non di una guerra senza regole e proporzioni, e non cedano all’egoismo razzista nell’impiego della propria forza e al cinismo verso gli ostaggi civili (musulmani i più) di jihadisti e dittatori. 14 Di tutte le cattive risposte europee, il rinnegamento di Schengen è oggi la peggiore. È vendere l’anima. Al contrario, l’Europa è la più in grado, se abbia lucidità e generosità, di collaborare a una liberazione del vicino Oriente. L’intervento armato contro il Califfato, o quello disertato nel nord della Nigeria, non sono che un pronto soccorso. (È degno della maggior nota che per affrontare l’ebola anche le organizzazioni mediche tetragone a un legame con le forze militari ne abbiano auspicato il sostegno logistico preliminare: ancora un piccolo passo mentale permetterà di accorgersi che la cosiddetta guerra civile siriana è un’epidemia a origine e contagio umani mostruosa, e ha bisogno di un suo pronto soccorso). Ma al centro della crisi sta il collasso degli Stati e più esattamente dei confini. Furono tracciati arbitrariamente, si sa, e meraviglia che abbiano retto — più o meno — così a lungo. Oggi i governanti europei insistono a raccomandare la conservazione della carta disegnata a mano libera cent’anni fa: è come infilare un dito nella diga crollata. Negli scorsi anni, rassegnati a non ottenere mai un proprio Stato nazionale, degli intellettuali politici curdi maturarono un’idea di autonomia e progresso che facesse a meno delle frontiere statali e, trasformando necessità in virtù, passasse loro attraverso. La crisi attuale fa loro ribalenare l’acquisto di una sovranità nazionale — soprattutto nel Kurdistan iracheno — che probabilmente meritano, ma che fa fare un passo indietro. Le frontiere sono destinate a cadere, e l’amaro paradosso è che oggi ad abbatterle e a esaltarne la cancellazione (guardate i video girati sul confine fra Siria e Iraq) è l’Is, per il quale non può esistere che l’universale dominio del Califfato, parodia teocratica e sanguinaria dell’internazionalismo e del globalismo. Ma l’Europa ha da proporre la propria esperienza, pur di crederle abbastanza. La violenza brutale che attraversa il medio e vicino oriente musulmano, e si congiunge al centro dell’Africa, può equivalere alla tragedia della Seconda Guerra in Europa, e insegnare la stessa lezione. Una Federazione fra i popoli, le tribù, le religioni di quell’enorme territorio è la vera alternativa al ripristino o alla cancellazione fanatica dei confini, attraverso cui l’Europa politica può cercare i suoi alleati in un conflitto che è prima di tutto fra un Islam e un altro (o più altri). La raccomandazione a un Islam “moderato” (suggerisco di non dirlo più: di dire “Islam civile”, o qualcosa di simile) di prendere sempre più e meglio le distanze da letteralismo e terrorismo religioso è ovvia quanto inutile: ci trasforma in predicatori largamente abusivi, e trasforma tutti gli islamici in accusati e sospetti. È un orizzonte comune che dobbiamo cercare di proporre e disegnare. Vi fa ridere una metafora come “una Schengen del vicino oriente e dell’Africa islamici”? Bene, ridete, dopotutto siamo Charlie. Poi ripensateci, come Charlie, come Ahmed. Del 13/01/2015, pag. 9 Islamofobi di Pegida a Dresda, ma sono di più gli antirazzisti Jacopo Rosatelli Doveva essere il grande giorno di Pegida, i «Patrioti contro l’islamizzazione dell’Occidente» che avevano indetto cortei in molte città. Invece, per fortuna, in Germania ieri è stato soprattutto il giorno dei democratici e antifascisti che hanno voluto dire no a razzismo e islamofobia. Ma il problema-Dresda rimane: nella capitale sassone i Patrioten erano anche questa volta molte migliaia, almeno 20mila (per gli organizzatori 40mila), certamente più numerosi delle volte precedenti. Il bilancio del lunedì delle piazze tedesche è dunque positivo, ma solo in parte. 15 Soddisfazione fra gli antirazzisti per i circa 30mila che hanno manifestato a Lipsia contro i seguaci locali di Pegida, in tutto circa 2500. Un gruppo islamofobo, quello della seconda città della Sassonia, decisamente più a destra di quello di Dresda: le sue parole d’ordine sono più dure non solo «contro il multiculturalismo», ma anche contro «il culto del senso di colpa per la guerra». Neonazismo puro. Bella giornata anche a Monaco, dove oltre 20mila persone hanno preso parte alla manifestazione antirazzista promossa da tutti i partiti democratici, sindacati e organizzazioni sociali (comprese le chiese cattolica e protestante). I neofascisti non superavano le 1500 unità. E migliaia di anti-Pegida si sono registrati anche a Saarbrücken, Hannover, e ovviamente Berlino, a fronte di piccoli drappelli di estremisti di destra. Poi c’è il capitolo Dresda. Qui i Patrioten possono cantare vittoria. Sabato sera in migliaia, su invito delle istituzioni locali, avevano riempito la piazza di fronte alla Frauenkirche per mostrare il volto aperto e tollerante della città. Ieri gli islamofobi hanno risposto a tono, con altrettanta capacità di mobilitazione, nonostante le dure critiche nei loro confronti piovute nel corso della giornata. In mattinata era circolato l’appello dei caricaturisti francesi, fra i quali alcuni dei sopravvissuti del Charlie Hebdo: «Pegida cerca di strumentalizzare in modo cinico gli attentati di Parigi. Non vogliamo che il ricordo dei nostri amici venga sporcato». E poi si era fatto sentire il ministro della giustizia, il socialdemocratico Heiko Maas: «È ripugnante che le persone che una settimana fa sbraitavano contro ‘la stampa bugiarda’ vogliano ricordare la morte dei giornalisti del Charlie Hebdo. Se avessero un residuo di decenza dovrebbero starsene a casa». Nel comizio i «Patrioti» sono stati prudenti: è evidente il tentativo di passare per l’espressione di una maggioranza fin qui silenziosa, e non per un accolita di neonazisti. «Non siamo razzisti o islamofobi. La nostra protesta è contro ogni forma di fanatismo religioso: siamo un movimento civico contro l’estremismo». L’altro avversario è «l’establishment politico che non fa nulla contro i fanatici». Il tutto all’insegna di parole d’ordine come «libertà di espressione» e «democrazia diretta». Il discorso della portavoce, che ha rivolto «un appello a tutti i democratici e liberali» ad unirsi a loro, si è chiuso con l’immancabile «Wir sind das Volk! Noi siamo il popolo!», lo slogan gridato nei giorni della caduta del Muro contro la morente dittatura della Ddr. Mentre accadeva tutto ciò, la cancelliera Angela Merkel incontrava a Berlino il premier turco Ahmet Davutoglu. Circostanza che ha usato per dare il proprio segnale anti-Pegida, ripetendo di fronte ai giornalisti la frase dell’ex presidente della Repubblica Wulff: «L’islam fa parte della Germania». del 13/01/15, pag. 1/13 Attaccare il diritto alla libertà di parola, non importa quale, con il terrore, gli omicidi o anche attraverso la censura è attaccare la dignità e la creatività umana Non uccidiamo la speranza dei musulmani che vivono in Occidente ORHAN PAMUK IL MIO primo impulso è quello di non analizzare le motivazioni degli uomini che hanno attaccato il Charlie Hebdo. 16 Le notizie da Parigi, prima di tutto, hanno suscitato in me un’immensa frustrazione e tristezza, perché questo attacco è un duro colpo per quelli che, come me, credono che i musulmani possano vivere in pace accanto ai cristiani in Europa. Questo attacco è un tentativo di uccidere questa speranza. Molti miei amici hanno lavorato per riviste satiriche turche, e così mi fecero conoscere Hara Kiri , la prima rivista di Georges Bernier e François Cavanna, poi divenuta Charlie Hebdo. Nei paesi in cui la libertà di espressione è in pericolo, c’è una forte tradizione di riviste satiriche, molte delle quali vengono acquistate dai giovani lettori. Nel mio paese, dove recentemente sono stati vietati Twitter e YouTube, queste riviste sono sempre sotto pressione. Naturalmente, qui non abbiamo avuto niente di paragonabile a ciò che è successo al Charlie Hebdo, ma molti, qui in Turchia, condividono la rabbia e la frustrazione dei francesi. In questa parte del mondo, c’è una lunga e triste storia di tentativi di mettere a tacere l’opposizione o la libertà di parola con il terrore, con omicidi o attraverso la legge: uno dei miei libri, Il libro nero , pubblicato qui a Istanbul nel 1990 (foto a destra, ndr), racconta la storia dell’uccisione dell’editorialista di un giornale per i suoi articoli sovversivi (purtroppo la libertà di espressione è caduta a un livello molto basso in Turchia). Tutti, non solo gli scrittori, abbiamo la responsabilità di difendere la libertà di parola. Tutti dobbiamo farlo, per comunicare la nostra cultura e i mondi in cui viviamo. Dobbiamo ergerci a difendere la libertà di parola, non importa quale. Sarebbe un grave errore collegare l’ultimo romanzo di Michel Houellebecq, dove si parla di un immaginario presidente musulmano nella Francia del 2022, con questo evento. Naturalmente dobbiamo difendere il diritto di Houellebecq di esprimersi, ma mi sembra evidente che i problemi sono separati e che l’ostilità verso il Charlie Hebdo ha una lunga tradizione. Dobbiamo ricordare l’atto orrendo che è stato compiuto, le vite che sono state perse, e rimanere saldi contro questa distruzione della libertà di parola, contro questo attacco alla creatività umana e, devo sottolineare, alla dignità umana. La tensione è andata crescendo: questo attacco ha coinciso con un aumento dell’islamofobia in Europa. Sono sicuro che l’Europa sarà attenta a non cadere nella trappola rivolgendo la sua rabbia contro tutti i musulmani. Mi auguro che non ci sia un’escalation di questi attacchi brutali, ma sono preoccupato che possa avvenire. Da Avvenire del 13/01/15, pag. 6 Prodi: «Un errore intervenire in Libia. L'Is? È frutto della guerra» Romano prodi, 75 anni, è stato presidente del Consiglio e presidente della Commissione Ue: sotto la sua guidal’allargamento a Est e il varo della moneta Dopo l’emozione, l’impegno corale. Della Ue. Del mondo. Romano Prodi ragiona a voce bassa. «Il terrorismo terrorizza tutti, le tragedie di Charlie Hebdo e del mercato kosher hanno fatto capire che bisogna voltare pagina. Servono azioni politiche, serve un confronto largo. Puntando su Paesi come l’Egitto e la Turchia che ultimamente ha alternato però passi avanti e passi indietro. Ma anche aprendo un confronto con leader discussi come quelli di Iran e di Siria. Se non si allacciano rapporti nuovi è difficile che la 17 tensione possa diminuire. Che il terrorismo possa essere fronteggiato con incisività». L’ex presidente della Commissione Ue riflette su questo mondo lacerato dalle tensioni e dai conflitti. E li mette in fila proprio come papa Francesco. Parla di Medio Oriente, di Libia, di Nigeria. Ma anche di Parigi e di terrorismo. Lo fa con parole nette. Provando a scuotere la comunità internazionale. «Non si possono più usare questi Paesi come una palestra per misurare la propria influenza. Non ce lo possiamo più permettere. Ora le grandi potenze devono affrontare insieme l’emergenza». Serve dialogo politico e anche un confronto tra le grandi religioni monoteiste. Per fermare il terrorismo e costruire la pace. Prodi riflette sul recente discorso del presidente egiziano al-Sisi. Un discorso «rivoluzionario» pronunciato davanti agli imam. «Per chiedere una svolta, un nuovo pluralismo religioso, un nuovo patto tra cristiani e musulmani uniti nel costruire insieme il nuovo». Professore, è questo l’obiettivo? La lotta al terrorismo si fa con un dialogo accompagnato da una politica di aiuti, con rapporti economici e politici quotidiani. Non si vince con azioni militari. L’opzione bellica non ha avuto e non ha mai senso. Non c’è un caso, un solo caso, dove abbia portato risultati. È stato così in Afghanistan e in Iraq. E sarebbe così in Libia: l’emergenza libica deve essere risolta obbligando tutte le rappresentanze libiche a sedersi a un tavolo allargato. E questa offensiva diplomatica deve essere facilitata dal ruolo di Paesi esterni e favorita dall’Europa e dall’Onu. Perché l’opzione bellica non funziona? Perché il vero problema sono le contraddizioni interne che scuotono i singoli Paesi. I contrasti interni. Le lotte interne. Da un solo Iraq di ieri, oggi ne abbiamo tre. In guerra tra di loro. Ecco il risultato di anni di guerra. C’è un Iraq sciita, uno curdo e un Iraq califfato. E invece serviva una pacificazione interna... L’Is è frutto della guerra? Sì, l’Is è frutto della guerra. Una guerra che ha aumentato tensioni che già c’erano. Che le ha moltiplicate. E che ha identificato colui che veniva dall’esterno come il nemico totale: il nemico politico, il nemico religioso, il nemico con la N maiuscola. Ecco il frutto della guerra. E ora anche la Libia rischia di diventare una polveriera? La Libia è già una polveriera. Perché questa terribile ondata di immigrazione da Tripoli? Perché in Libia non c’è uno Stato e non ci si può mettere d’accordo con nessuno. E poi perché l’Europa è disattenta. Gli immigrati vanno fermati quando partono, quando arrivano non possiamo farci più nulla. Quando c’è un dramma politico sulla terraferma si può rispondere, si può alzare un muro, si possono immaginare azioni; ma quando sono in mare che si fa? Un confine di mare non si ferma. Quando sono in acqua si possono solo accogliere. E allora quale la possibile soluzione? Insisto: accordi larghi, dialogo. Perché o si trova un accordo o il dramma diventerà ancora più grande. Ancora più drammatico. Parlavo con il presidente del Niger. Mi spiegava che la loro popolazione raddoppierà nei prossimi 19 anni. E mi avvertiva: 'O si cambia tutto o verranno da voi'. Quando hanno fame partono, il problema è darsi da fare per immaginare soluzioni al problema fame. Pare una sfida complicatissima... Ma non è impossibile. In alcuni Paesi africani si registra un periodo economico non cattivo. Si parte da zero, ma si comincia a vedere qualcosa che fa sperare. In molte realtà non saremo lontani da un 5 per cento di sviluppo ma tutti dobbiamo fare la nostra parte. Esiste un legame tra immigrazione e terrorismo? 18 L’immigrazione ha due ragioni. C’è chi fugge per salvare la vita da zone di guerra. Penso all’Eritrea, alla Somalia, alla Siria, all’Iraq. E chi fugge da zone di fame come la Mauritania, il Mali, il Ciad, il Senegal, la Nigeria. Il terrorismo non c’entra. Certo i terroristi si possono infiltrare tra tanti disperati, ma qui tocca ancora all’Europa. Per un’intelligence europea ci vorrà tempo, ma serve subito un lavoro di prevenzione coordinato. Servono scambi di informazioni tra i servizi di sicurezza di Paesi diversi. Servono subito misure. Qualcuno dice 'chiudiamo le frontiere'... E che facciamo? Chiudiamo l’Europa? Siamo in balia del mondo con un’Europa debole, proviamo a immaginare senza Europa dove potremmo andare a finire... Rivedere Schengen sarebbe una assoluta sciocchezza. La Ue non deve chiudersi, deve mostrare generosità. Finora non l’ha fatto. Ha lasciato l’Italia sola e questo non va e non può andare. Noi confiniamo con le aree più tragiche, se arrivano in 200mila li teniamo tutti qui? Anche la politica dell’assorbimento e dei rimpatri deve essere condivisa. È vero, nella Ue non c’è voglia di condividere, ma noi abbiamo il dovere e l’esigenza di insistere. Torniamo a Parigi. Al mondo scosso. Che sta succedendo? In queste ore si è fatta largo una nuova consapevolezza. Forte. Contagiosa. C’è un attentato ai principi più profondi. E c’è la necessità di una risposta, urgente e inevitabile, di straordinaria unità. A Parigi era chiaro: siamo tutti minacciati, tutti alla stessa maniera sotto attacco. Una minaccia che ci prende tutti e tocca principi fondamentali come la tolleranza, la libertà di espressione, il rispetto. C’è Parigi, ma c’è anche il dramma della Nigeria e il terrore figlio dei crimini di Boko Haram. La Nigeria è il luogo dove si commettono le efferatezze più terribili al mondo. Anche in termini quantitativi. Come nel passato in Ruanda. Efferatezze enormi, tragiche. Una tragedia immane, ma la drammaticità non viene percepita perché è là, perché è in Africa. Come con ebola. Quando si pensava che poteva toccare noi prendeva intere pagine dei giornali, oggi si è tranquilli perché riguarda solo loro... Non va bene, ma la comunità internazionale è ben felice che il problema resti circoscritto all’interno della Nigeria. E la reazione comune è dire 'se la cavino loro'. Il Papa parla anche di Italia e ci invita a non cedere alla tentazione dello scontro. Siamo dilaniati come lo sono altri Paesi. La nostra Lega è identica al Front national di Marine Le Pen. C’è qualcosa di drammatico nelle loro mosse. Ma anche di tristemente comico: gli antieuropesti fanno i raduni collegiali in Europa per affermare il loro antieuropeismo. Tutte le divisioni fanno il gioco dell’integralismo. del 13/01/15, pag. 8 Vignetta su Maometto in tre milioni di copie Nasce il nuovo Charlie DALLA NOSTRA INVIATA PARIGI «Habemus la copertina. E’ stata dura ma, quando richiede tempo, il risultato è ancora migliore. Il disegno giusto è saltato fuori all’improvviso, ma abbiamo subito capito che era lui». Sono quasi le 10 di sera quando Gerard Biar, il caporedattore al timone della redazione dopo la morte di Charb, annuncia che il prossimo numero del settimanale è pronto. «Vi faremo ridere, perché abbiamo pianto abbastanza. Adesso basta». Anche se lo hanno scritto e disegnato con le lacrime, lo hanno finito fra le 19 risate. E adesso Charlie Hebdo è in macchina. Si stampa. Tre milioni di copie. Quanto non vende più nessun giornale occidentale, ormai. L’onere e l’onore della copertina numero 1.178 toccava al decano dei disegnatori di Charlie , Luz, caricaturista emblematico e di lungo corso del settimanale, nonché autore della scorsa copertina, dedicata a Houellebecq. Ieri sera alle 21 si cercava ancora l’idea giusta. Un’altra disegnatrice, Catherine Meurisse, si aggirava con una risma di fogli in mano, prove, abbozzi, tentativi, che non la soddisfacevano: «Sono esausta» sospirava, cambiando scrivania nel tentativo di trovare l’angolatura e l’ispirazione. I suoi lavori compariranno insieme a inediti dei disegnatori morti Cabu, Georges, Honoré, Tignous e Charb. Uno dei soggetti sarà il Profeta Maometto. La confezione del settimanale, la cui redazione è stata decimata sei giorni fa dalla più grave strage terroristica degli ultimi 50 anni in Francia, si è conclusa nella massima segretezza, nella stanza all’ottavo piano riservata ai sopravvissuti di Charlie nella sede di Libération . Un applauso liberatorio alle 21 e 08 segnala che l’idea è arrivata. L’avvocato Richard Malka annuncia che il bambino è nato. Maschio o femmina? «Maschio». Da venerdì i Charlie più famosi al mondo hanno lavorato senza sosta dentro l’«Oblò», un open space con vista su Parigi e sulla Torre Eiffel. Là fuori, Charlie non è mai stato tanto atteso. Alle 21 s’intravvedono ancora dietro al vetro i volti provati e tesi, illuminati dalla luce azzurrina degli schermi dei computer, alle prese con le correzioni e i ripensamenti dell’ultima ora. Davanti alla porta la squadra di poliziotti che scortano la redazione al lavoro, aspetta senza impazienza. Anche loro hanno perso un compagno di vita e di lavoro, Franck Brinsolaro, 49 anni, angelo custode di Charb, il direttore di Charlie Hebdo , e assassinato con lui. Divieto d’accesso per tutti gli altri giornalisti. Gerard Biar esce per dire che «abbiamo deciso di dare la prima pagina come sempre a Libération , per pubblicarla in contemporanea». La gratitudine verso Libération risale al novembre del 2011, quando Charlie Hebdo era stato ospitato nella stessa stanza dopo che la sua sede era stata bruciata per rappresaglia, dopo la pubblicazione di una copertina irridente. Scritto e disegnato asciugandosi gli occhi, il numero 1.178 farà ridere domani, promette Patrick Pelloux, il medico che ha una rubrica fissa sul settimanale e che si è salvato, mercoledì scorso, perché era in ritardo. A dispetto dell’atmosfera frenetica, attorno alla gestazione del primo numero della nuova era di Charlie Hebdo , il dottor Pelloux non sorride, conforta una redattrice che piange: «Il dolore è intatto» commenta. Certo, ma Charlie è vivo. «Sì, forse è vivo — esita — mi chiedo però ancora per quanto». L’ondata di emozione che aiuterà la diffusione di Charlie Hebdo , domani, in sedici lingue, prima o poi si esaurirà. «Ma vogliamo dire ai terroristi che ci siamo. Anche se non sappiamo che cosa succederà». Da foglio satirico a giornale politico? «No, restiamo un giornale satirico. In difesa della libertà di stampa e di blasfemia. La marcia sul boulevard Voltaire: i simboli sono lì e sono seri. Ma bisogna continuare a ridere perché quello che caratterizza gli Stati fascisti e le dittature è voler impedire ai propri popoli di ridere». Si riderà domani, promettono dall’Oblò. Si riderà della manifestazione di domenica? Di Hollande e dell’omaggio sganciato da un piccione sulla spalla del presidente? Si riderà dei capi di Stato e di governo in marcia a braccetto? Delle religioni e dei loro interpreti più fanatici? C’è ancora tanto da ridere anche laddove verrebbe da piangere. 20 Del 13/01/2015, pag. 7 Boko Haram attacca una base militare in Camerun Nigeria. Base militare come bersaglio. Il presidente camerunense: «Minaccia globale» Rita Plantera La base militare di Kolofata nel nord-ovest del Camerun è stata attaccata ieri dai miliziani di Boko Haram. Secondo quanto riportato ad Al Jazeera dal ministro della comunicazione e portavoce del governo del Camerun Issa Tchiroma, circa tra i 200 e i 300 combattenti di Boko Haram sarebbero stati uccisi durante il raid. Citando fonti militari, Eugene Nforngwa, un giornalista del posto, ha riferito che un soldato camerunense del Rapid Response Battalion è stato ucciso e un altro ferito durante gli scontri. In un video postato su youtube, Abubakar Shekau, il presunto leader di Boko Haram aveva minacciato di intensificare le violenze — alla stessa stregua della Nigeria – dopo che il Camerun ha inviato aerei da guerra a sostegno della lotta agli integralisti nigeriani. L’attacco alla base militare camerunense segue quelli dello scorso fine settimana nel nord-est della Nigeria, dove sarebbero stati tre baby-kamikaze gli attentatori che hanno sparso il terrore (nel giro di pochi giorni dalla débâcle dell’importante città di Baga), a conferma di una nuova strategia che vede il coinvolgimento di donne e bambine tra le file degli integralisti di Boko Haram. Domenica 11, a indossare la cintura esplosiva e a farla esplodere sarebbero state due bambine di 10 anni. L’esplosione ha scosso il mercato aperto di Kasuwar Jagwal, teatro già in passato di attacchi del gruppo sunnita jihadista islamico Jama’atu Ahlis Sunna Lidda’Awati Wal-Jihad («People Committed to the Prophet’s Teachings for Propagation and Jihad») più comunemente noto nelle cronache come Boko Haram («Western education is forbidden»). Tre le vittime tra i civili e circa 46 i feriti, riporta una fonte dell’ospedale di Potiskum. Il giorno prima un altro attacco mortale aveva colpito un affollato mercato a Maiduguri, la capitale dello Stato del Borno. Almeno 19 le vittime e 27 i feriti per mano, anche in questo caso, di una bambina di 10 anni. Entrambe le esplosioni, a Maiduguri e Potiskum, si sono verificate a ridosso del raid, una settimana prima, contro 16 villaggi sulle rive del Lago Ciad e della presa di Baga, importante centro commerciale di circa 10.000 abitanti e sede della Multi-National Joint Task Force (Mmjtf), la forza multinazionale composta da truppe della Nigeria, Ciad e Niger il cui quartier generale è anch’esso caduto nelle mani degli islamisti.Non è la prima volta che Boko Haram impiega donne kamikaze nei suoi attacchi contro i civili. Ciò che risulta inquietante e senza precedenti questa volta è l’uso di babykamikaze costrette a indossare la cintura esplosiva sotto lo hijab, il tradizionale velo islamico. Nell’arco di circa 5 anni, a partire almeno dal 2009 — quando BokoHaram è emerso come una reale minaccia alla sicurezza del Paese — la politica in Nigeria sta perdendo terreno contro l’avanzata territoriale di un gruppo terroristico che rappresenta una minaccia anche per gli stati confinanti, come Niger, Camerun e Ciad già bersaglio di attacchi transfrontalieri. Recentemente, il presidente del Camerun Paul Biya ha fatto appello all’aiuto della comunità internazionale contro quello che ha descritto come una setta parte di un movimento «globale», che ha attaccato il Mali, la Repubblica Centrafricana e la Somalia con l’intento di stabilire la sua autorità dall’Oceano Indiano all’Atlantico: «Una minaccia globale richiede una risposta globale». A cinque settimane dalle elezioni presidenziali nigeriane, il prossimo 14 febbraio (in lizza il presidente uscente Goodluck Jonathan per il partito al governo il People’s Democratic Party (Pdp) e il suo principale sfidante 21 Muhammadu Buhari — già ex dittatore alla guida della Nigeria dal 1983 al 1985 — per il partito d’opposizione, l’All Progressives Congress) Boko Haram non manca di lanciare un forte segnale di natura evidentemente politica non solo a livello locale ma che vale da monito anche per gli altri paesi confinanti. del 13/01/15, pag. 8 Boko Haram, il jihad e le bambine kamikaze GLI ESTREMISTI SOGNANO UNO STATO ISLAMICO IN NIGERIA. SCUOLE E CHIESE SONO OBIETTIVI SU CUI LANCIARE LE GIOVANI DONNE IMBOTTITE DI ESPLOSIVI di Roberta Zunini Il disprezzo che Boko Haram nutre per la figura femminile, anche quella di religione islamica, è tale che la donna viene vista solo come fattrice o schiava alla quale far fare qualsiasi cosa. Anche la bomba umana. Per il gruppo islamista nigeriano una bambina di dieci anni non è una creatura da proteggere ma una cosa di cui servirsi. In fondo la Nigeria è il Paese più popoloso dell'Africa e di bambine ce ne sono a migliaia, soprattutto povere. I jihadisti le rapiscono mentre vanno a scuola o facendo razzia nei villaggi. Boko Haram è diventata tristemente nota in tutto il mondo ad aprile dello scorso anno dopo il sequestro di 200 studentesse da una scuola di Chibok, nello Stato di Borno. I terroristi hanno poi fatto sapere che le avrebbero trattate come schiave sessuali, chiedendo che fossero scarcerati militanti del gruppo in cambio della loro liberazione. COS'È BOKO HARAM È un gruppo militante islamista, composto esclusivamente da uomini, basato nel nord della Nigeria. È stato fondato a Maiduguri nel 2002. Boko Haram deriva dalla storpiatura di book (in inglese, libro) e significa “libro proibito”. Nato come gruppo salafita, si è trasformato in un gruppo jihadista. Il fondatore fu Mohammed Yusuf, imam e protagonista di diversi attentati; arrestato nel luglio 2009, morì pochi giorni dopo in cella. Gli è succeduto Abubakar Shekau, attuale leader. Anche se la sua identità presenta elementi di contraddizione. I suoi seguaci sarebbero influenzati dalla frase del Corano che afferma: "Chiunque non sia guidato da ciò che Allah ha rivelato è un trasgressore". È proibito (haram) anche partecipare a qualsiasi attività politica o sociale che sia legata alle abitudini occidentali. Queste vanno dal voto, all'istruzione all'abbigliamento. Ciò che invece deve fare un jihadista è combattere il governo centrale perché ritenuto guidato da non credenti. Il presidente Jonathan è infatti un cristiano. Nel 2013 Boko Haram è stato dichiarato organizzazione terroristica dal dipartimento di Stato Usa. Nel maggio 2014 il Consiglio di sicurezza Onu l'ha aggiunto alla lista delle organizzazioni colpite da sanzioni. I CONTATTI Affiliato ad al Qaeda e ad Aqmi (al Qaeda nel Maghreb islamico), ha contatti anche con gli Al-Shabaab somali. GLI ATTENTATI Inizialmente avevano come bersaglio stazioni di polizia e altri edifici governativi ma dal 2011 ci sono state bombe contro chiese, pullman, locali, caserme, sedi Onu. Anche le scuole sono entrate nel mirino perché simboli dell'educazione occidentale. Nel luglio 2013 una sparatoria contro una scuola di Yobe ha ucciso 42 persone, in gran parte studenti, e 22 nel settembre dello stesso anno un assalto ha causato la morte di altri 40 in un liceo di Gujiba. Nel 2014 c'è stato un attacco contro una scuola finito con la morte di 50 ragazzini. MIGLIAIA DI VITTIME Lo scorso anno Boko Haram ha ucciso oltre 6030 civili, mentre dall’1 giugno 2011 le vittime sono stimate circa 12.600 (dati: Nigeria Security Tracker, Council on Foreign Relations). A maggio 2014, il presidente Jonathan aveva parlato di 12.000 morti e 8000 mutilati e migliaia di profughi. L’EVOLUZIONE Boko Haram fino al 2009 aveva agito sporadicamente. Il cambiamento avvenne 6 anni fa quando iniziò una violenta repressione da parte dell'Esercito che scatenò un'altrettanta violenta reazione dei terroristi, dopo l’arresto e la morte in cella di Yusuf. La sua figura non è stata realmente sostituita e al suo posto decide una sorta di collegio. Dopo l'assassinio del leader, ha preso il sopravvento l'ala più violenta del gruppo. Che tiene le redini del gruppo dal 2011, quando venne eletto alla presidenza della Federazione nigeriana il cristiano Goodluck Jonathan. Gli attentati nella capitale federale Abuja, contro il quartier generale della polizia e la sede delle Nazioni Unite hanno dimostrato che la setta è ora capace di colpire nel cuore della Federazione. Boko mira alla creazione di uno Stato Islamico in Nigeria. Da Avvenire del 13/01/15, pag. 7 “Anche qui in Nigeria una marcia antiviolenza” Matteo Fraschini Koffi «La nuova strategia di Boko Haram che usa bambine innocenti come bombe umane è aberrante e inimmaginabile. Penso alla grande manifestazione di Parigi e auspico anche qui una grande marcia di unità nazionale che superi le divisioni politiche, etniche e religiose. Dobbiamo dire no alla violenza e trovare una soluzione ai problemi che affliggono la Nigeria». Così ha commentato all’agenzia Fides, Ignatius Ayau Kaigama, arcivescovo nigeriano della città di Jos, criticando l’Occidente per la sua mancata attenzione al terrorismo in Nigeria. Il suo appello giunge in un momento di altissima tensione politica nel Paese. Manca infatti solo un mese alle elezioni generali nigeriane e il presidente cristiano Goodluck Jonathan, candidatosi per un secondo mandato, ha già dichiarato di non volere "interferenze" in questo periodo. Ma mentre i politici combattono per la vittoria elettorale, altre due ragazzine si sono fatte esplodere domenica scorsa nel Nord del Paese. L’attentato ha colpito il mercato di Kasuwar Jagwal a Potiskum, capitale commerciale dello Stato federale di Yobe. Si calcolano più di 20 morti e almeno 40 feriti. Non ci sono ancora state rivendicazioni, ma le autorità non hanno dubbi: Boko Haram sta utilizzando i più indifesi per seminare terrore. «Due ragazze sono arrivate in bici al mercato nel primo pomeriggio», ha detto ieri alla stampa Muktari Ibrahim, un residente della città. «La prima attentatrice è riuscita a superare la sicurezza. La seconda, invece – ha continuato Ibrahim –, si è spaventata ed è corsa verso l’altro lato della strada sperando di salvarsi. Ma è saltata in aria comunque». Le due deflagrazioni hanno scagliato entrambi i corpi smembrati delle vittime a diversi metri di distanza. Sono stati gli agenti di polizia ha recuperare i poveri resti delle due giovani. «La prima ad esplodere aveva poco più di 20 23 anni – ha affermato un ufficiale governativo –, mentre quella che ha tentato di scappare non poteva averne più di 15». I qaedisti di Boko Haram hanno immolato almeno 8 ragazzine negli ultimi mesi, quella di sabato scorso aveva appena 10 anni. Da quando le forze di sicurezza sono riuscite a prevenire alcune esplosioni di auto-bombe presso i posti di blocco, gli edifici governativi o le chiese, i terroristi hanno cambiato tattica. «Le giovani attentatrici possono aver subito un pesante lavaggio del cervello o vogliono vendicare la morte di un loro parente – hanno spiegato fonti dell’intelligence nigeriana –. Ma nella maggior parte dei casi sono forzate dagli insorti a indossare la cintura esplosiva sotto il velo». Ieri il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, ha dichiarato: «Useremo tutti i mezzi necessari per alleviare le sofferenze del popolo nigeriano». Sono oltre 10mila le persone uccise da Boko Haram durante il 2014 e almeno 1,7 milioni i profughi. Circa 3.200 persone sono state invece evacuate verso la città di Maiduguri dopo essere scappate da Baga, una cittadina dove sono probabilmente morte 2mila persone. Ma i guerriglieri di Boko Haram continuano ad attaccare anche nel vicino Camerun. Ieri hanno assaltato la città di Kolofata, nel Nord del Paese. I militari camerunesi hanno detto di aver ucciso 200 ribelli e di aver perso uno solo soldato. Del 13/01/2014, pag. 21 Grecia. Entra nel vivo la campagna elettorale in vista del voto del 25 gennaio Samaras sfida Syriza: se vinciamo meno rigore Ma i sondaggi danno a Tsipras un vantaggio di tre punti Il premier greco Antonis Samaras, di ritorno dalla storica manifestazione di Parigi in sostegno della laicità e dei giornalisti di Charlie Hebdo, va al contrattacco in vista delle elezioni del 25 gennaio prossimo con promesse anti-austerity e una diluizione del debito. Se i sondaggi gli sono ostili, il primo ministro di centro-destra cerca di agguantare la “lepre” del maggior partito di opposizione Syriza promettendo, come Alexis Tsipras, la fine del rigore. In questo modo Samaras spera di azzerare i tre soli punti percentuali che lo separano dal leader della sinistra radicale. Secondo i risultati di un sondaggio condotto a livello nazionale tra il sette e l’otto gennaio dalla società Kapa Research per conto dell’edizione domenicale del quotidiano To Vima, il secondo per diffusione del Paese, Syriza ottiene il 28,1% delle preferenze contro il 25,5% di Nea Dimokratia, il partito di Samaras. Al terzo posto si trova To Potami (il Fiume) la nuova formazione politica di centro-sinistra con il 6,5%. Seguono il partito filo-nazista Chrysi Avghì (Alba Dorata) con il 5,4%, il Pasok (socialista, che insieme con Nea Dimokratia forma l’attuale governo di coalizione) con il 5,2% e il Partito Comunista di Grecia (Kke) con il 5 per cento. Il partito dei Greci Indipendenti (Anel) e il movimento dei Socialisti Democratici, creato pochi giorni fa dall’ex premier socialista George Papandreou, resterebbero fuori dal Parlamento avendo ottenuto rispettivamente il 2,6% e il 2,8% (al di sotto della soglia di sbarramento del 3%). Da parte sua, Sinistra Democratica (DiMar), di Foutis Kouvelis, il partito che per un anno ha fatto parte del governo di coalizione, non raggiunge nemmeno l’1% delle preferenze. In questo quadro ancora molto incerto Samaras ha deciso di giocare in modo spregiudicato, tipico della lotta politica greca, le stesse carte suadenti di Syriza 24 annunciando meno tasse sulla casa e il taglio drastico delle imposte sulle imprese. Inoltre ha promesso di congelare nuove manovre su pensioni e stipendi. Il leader di Nea Dimokratia ha annunciato il varo di un piano per creare 770mila nuovi posti di lavoro entro il 2021, tralasciando però di specificare con quali fondi visto che lo stesso premier ha congelato l’arrivo dell’ultima tranche di aiuti, pari a 7 miliardi di euro, rifiutando di accettare tagli per 2,5 miliardi voluti dalla troika, in particolare dal rappresentante dell’Fmi, in rappresentanza dei creditori internazionali. Samaras è poi passato a illustrare in dettaglio i due assi nella manica della sua politica fiscale: la riduzione della tassa unica sulla casa, un’imposta che ha colpito soprattutto la classe media, tradizionale bacino d’utenza di Nea Dimokratia, e la riduzione dal 26% al 15% delle imposte societarie così da incentivare gli investimenti e ridurre la disoccupazione che viaggia al 25,8 per cento. Samaras è convinto che «di fronte a un paese e a interlocutori affidabili Bce, Ue e Fmi concederanno dilazioni e agevolazioni su tassi e scadenze del debito ellenico». In sostanza Samaras ha ricordato agli elettori che se dovessero dare fiducia ai partiti filo-europei, come Nea Dimokratia e il Pasok, sarà più facile ottenere condizioni più vantaggiose per fronteggiare il pagamento del debito che oggi ha raggiunto i 330 miliardi di euro pari al 175% del Pil ma che è all’80% in mani pubbliche. Samaras ha giocato la carta della continuità per convincere gli elettori che con lui al governo si avrebbero più margini di manovra con Berlino e spuntare condizioni più vantaggiose. Poi ha ricordato che andrà avanti con le privatizzazioni (che Syriza vorrebbe bloccare). Gli opinionisti greci di centro-destra inoltre ricordano da giorni che Samaras è il candidato preferito dalla troika. Non a caso il presidente della Commissione Ue, JeanClaude Juncker, che ha seguito come presidente dell’Eurogruppo tutta la vicenda greca fin dall’inizio, l’ha ammesso quando ha rilasciato alla stampa la seguente dichiarazione: «Preferisco i volti noti». Anche il cancelliere tedesco Angela Merkel, sebbene resti ufficialmente neutrale, spera che Nea Dimokratia riesca a chiudere il gap di tre punti che ha ancora nei sondaggi. Samaras ha lanciato un messaggio di rassicurazione contro l’eventualità di una vittoria di Syriza che potrebbe portare il Paese in conflitto con la troika ed a una condizione di instabilità politica. Il centrodestra, invece, spera di ottenere maggiori concessioni sul pagamento del debito dai partner europei e dall’Fmi, proprio come ricompensa per il senso di responsabilità dimostrato dagli elettori. A quel punto si potrebbe facilmente ridurre il livello degli interessi (oggi all’1,5%), allungare i termini dei pagamenti e incassare l’ultima tranche di aiuti da sette miliardi, seguita da una linea di credito precauzionale. E aspettare i primi benefici della ripresa prevista nel 2015 con il Pil in crescita del 2,9 per cento. Quanto a Syriza, il partito di sinistra radicale in testa nei sondaggi, è interessante notare la posizione prudente di Klaus Regling, capo del Fondo salva-stati (Esm) e uno dei maggiori creditori della Grecia, secondo cui «i partiti all’opposizione assumono posizioni intrasigenti durante la campagna elettorale ma una volta al governo prendono toni più moderati». Del 13/01/2015, pag. 7 In Croazia Kolinda Grabar-Kitarovic è presidentessa. La destra pro Nato conquista le elezioni Croazia. Per la prima volta una donna capo dello Stato 25 Luka Bogdanic Al secondo turno delle elezioni presidenziali, la Croazia ha eletto Kolinda Grabar-Kitarovic nuovo capo dello Stato, con il 50,74% dei voti. Il presidente uscente Ivo Jospovic lascia l’incarico con il 49,26%. La destra croata vince per un pelo, strappando la vittoria a un grigio e flebile pseudo centrosinistra. Si tratta di una vittoria su cui pesa, anche, il voto della diaspora. Il tutto condito con un’affluenza intorno al 59,06%. Grabar-Kitarovic sarà la prima donna capo dello Stato della Croazia. Si tratta però di un falco dalle chiome bionde o di un colonnello in gonna. Perché, ricordiamolo, è espressione di una destra asservita alla Nato. Grabar-Kitarovic infatti, arriva direttamente dall’Alleanza atlantica, dove fino a ieri era segretario aggiunto. In piena coerenza con la parabola della caduta del muro di Berlino, e le democrature che ne sono seguite all’est, la Croazia è il primo paese al quale la Nato ha «imposto» democraticamente, come presidente, un suo dipendente. Brutta storia quella dei croati, che da popolo di un paese non allineato all’epoca del socialismo, ritornano a essere i pretoriani della reazione, come nell’Ottocento sotto il sanguinario Bano Jelacic. È da sperare che il falco dalle chiome bionde arrivato dalla Nato, sarà meno violento del barbaro Jelacic. Per adesso una cosa è sicura, Grabar-Kitarovic può telegrafare al suo vero stato maggiore: missione compiuta! Così la Croazia si conferma l’ante murales di un’Europa egoista e dominata da revisionismi e populismi, in cui i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più disperati.C’è da aspettarsi che il paese, già in miseria, aumenti ora la spesa militare. Se recentemente si dibatteva sull’acquisto o meno di nuovi aerei militari, adesso la questione è chiusa. Ci si può attendere che la Croazia s’impegni maggiormente sul fronte orientale, nonché diventi un vigile sorvegliante della Bosnia, sempre più rifugio dei fondamentalisti islamici, mentre una volta era patria di musulmani laici e tolleranti, finché i nazionalismi non hanno sostituito l’ideologia socialista e la Nato non ci ha messo le mani. Grabar-Kitarovic, nella campagna elettorale si è dichiarata favorevole alla reintroduzione del servizio di leva obbligatorio. In campagna elettorale ha pesato la questione dei reduci dell’ultima guerra. Un gruppo di fanatici che da mesi campeggiano a Zagabria chiedendo privilegi particolari, «poiché hanno dato in guerra la loro giovinezza per la patria». Nessuno ha coraggio di dire loro che hanno combattuto per il capitalismo e che in questo i privilegi sono solo per i ricchi. Anche questa volta molti croati si sono fatti abbindolare dalla propaganda nazionalista, soccorsa dal fondamentalismo della chiesa cattolica, che con gran piacere mette il guinzaglio al proprio gregge. A Zagabria, domenica, nella sede dell’Hdz (partito fondato da Tudjman), è iniziata la kermesse celebrativa in onore della nuova presidentessa. La colonna sonora riproponeva canzoni patriottiche degli anni Novanta. Auguriamoci che Grabar-Kitarovic ci sorprenda, anche se l’annullamento della condanna per i crimini di guerra – uccisione dei civili serbi – al satrapo Branimir Glavas da parte della Corte costituzione per motivi procedurali giorno dopo la vittoria della candidata del centro destra non fa sperare nulla di bene. Del 13/01/2015, pag. 16 Haiti cinque anni dopo, cosa resta? Storie. Nel quinto anniversario del sisma che causò 230 mila vittime, a Port au Prince più che il pane manca la democrazia. E la gestione degli aiuti è stata pessima. Ma non tutto è stato inutile 26 Raffaele K. Salinari Haiti cinque anni dopo il sisma cha causò 230 mila vittime immediate e moltissimi altri feriti e menomati e più di un milione e mezzo di senza casa. Cosa resta di quella gara di solidarietà che ha coinvolto il mondo nella ricostruzione dell’isola? Le proteste di questi giorni sono già una prima risposta: è dal 2011 che la popolazione di Haiti attende di andare alle urne; una sospensione democratica motivata anche dallo stato di eccezione permanente indotto dal terremoto e dalle dinamiche che si sono innescate a causa del flusso massiccio di aiuti internazionali. Aiuti che hanno mostrato le diverse filosofie che animano la ricostruzione. Se da una parte, infatti, molte ong internazionali si sono concentrate sulla ricostruzione di scuole, piccoli centri di salute, case popolari, altri grandi donatori hanno preferito concentrarsi su strutture più appariscenti, i grandi centri commerciali, gli hotel di lusso, i palazzi del potere, dando un indubbio connotato di classe alla gara di solidarietà. Se questo non bastasse a rendere perlomeno critico il bilancio di cinque anni di aiuti, si dovrebbe aggiungere una riflessione che motiva, almeno in grande parte, le mobilitazioni popolari di questi giorni: non basta ricostruire le infrastrutture, bisogna anche ricostruire il tessuto civile. Ed è proprio questa la parte più debole del bilancio dei cinque anni passati. Solo le ong internazionali, che d’altra parte erano già presenti ad Haiti pima del terremoto, hanno saputo coniugare la ricostruzione delle infrastrutture di servizio con il rafforzamento della società civile locale. Questa è la parte più difficile per diversi ordini di motivi. Prima di tutto l’instabilità politica di Haiti fa gioco alle potenze regionali che, ancora, si contendono la leadership sulla piccola nazione caraibica. Il Grande Gioco intorno a chi comanda realmente ad Haiti esiste da quando l’isola è diventata indipendente, cioè dai tempi delle prima sconfitta di Napoleone in terre d’oltremare. Da allora la Francia non ha mai rinunciato al dire la sua, naturalmente contrastata dagli Usa che, con la Dottrina Monroe, vedevano Haiti come parte del loro «cortile di casa». Il terremoto ha moltiplicato il protagonismo degli attori regionali che, con la motivazione della solidarietà, hanno cercato di piazzarsi sull’isola espandendo le loro aree di potere: Non solo gli Usa e la Francia dunque, ma anche Cuba, il Brasile e via via scendendo di livello tutti i donatori internazionali.Questi contrasti geopolitici hanno finito per ostacolare non tanto l’arrivo degli aiuti, quanto la loro efficiente gestione, con il risultato che, a fronte di diversi miliardi di euro donati, circa la metà dei danni resta ancora senza risposta. Haiti, in sintesi, resta una nazione a forte sovranità limitata, e il terremoto non ha certo modificato in meglio questa situazione. Altro punto di criticità è quello che potremmo definire «geomediatica», cioè la capacità dei media di amplificare una situazione di crisi tanto da spingere a un flusso di donazioni a fini geopolitici per poi, una volta spenti i riflettori, far dimenticare la crisi con altrettanta rapidità. Nel caso di Haiti le sfide geopolitiche erano importanti, basti pensare che la gestione dell’aeroporto di Port au Prince per il controllo dei flussi aerei, vinta dagli Usa, significava la possibilità di sperimentare in corpore vili, una logistica che sarebbe stata utilissima anche in caso di una guerra. Passata la prima onda mediatica sul dramma haitiano si sono però spenti i fari, lasciando i donatori di lungo periodo scoperti sul fianco dell’informazione. Nel frattempo altri riflettori si sono accesi su altri drammi, più o meno indotti, e le opinioni pubbliche sono state portate a guardare altrove. Per quanti operano, ad esempio, attraverso il sostegno a distanza dei bambini, la scelta più corretta per aiutare in loco chi vuole restare a ricostruire la sua terra, questi spostamenti repentini di fronte sono esiziali. E dunque è stato tutto inutile? Chi si è speso per Haiti cinque anni fa o ha continuato a farlo durante la bassa dell’onda informativa ha fallito? Niente affatto, e le manifestazioni di questi giorni sono una risposta anche a questo. Se analizziamo infatti chi scende in piazza, vediamo che si tratta spesso degli esponenti di quella società civile organizzata che hanno saputo approfittare degli aiuti internazionali, della solidarietà diffusa, del sostegno delle ong, per strutturare le loro organizzazioni e chiedere ciò che ad 27 Haiti manca oggi più del pane: la democrazia. * Terre des Hommes 28 INTERNI del 13/01/14, pag. 14 Napolitano lascia domani ultimo appello al premier “Le mie dimissioni non blocchino le riforme” Ieri vertice prima del discorso di fine semestre a Strasburgo L’impegno di Renzi: Italicum e nuovo Senato entro gennaio FRANCESCO BEI UMBERTO ROSSO ROMA . L’ultimo atto, domani attorno a mezzogiorno: gli onori militari che i corazzieri gli renderanno nel cortile del Quirinale. Le lettere di dimissioni di Napolitano a quel punto saranno già partite, non c’è spazio per ripensamenti o rinvii. Il capo dello Stato, dopo nove intensi e tormentati anni nel palazzo dei Papi, con grande commozione chiude così la più lunga stagione di un presidente della Repubblica. L’unico ad essere stato eletto due volte. A Renzi, incontrato ieri, la conferma definitiva: «Mercoledì lascio». Una certezza che al premier era stata più volte ribadita nelle scorse settimane senza possibilità di repliche. «Presidente - è stata la risposta del capo del governo da parte nostra c’è pieno rispetto per la sua scelta. Noi faremo di tutto per portare a compimento le riforme e sono convinto che riusciremo a farcela prima di eleggere il suo successore ». Renzi è consapevole dei rischi che si aprono in questa fase, con l’avvicinarsi dei voti segreti sul Quirinale mentre la riforma elettorale e quella costituzionale sono ancora aperte in Parlamento. Un intreccio pericoloso noto anche al capo dello Stato, che tuttavia ha scelto di non temporeggiare oltre nell’addio. «Dovete fare in modo che le mie dimissioni non rallentino o blocchino le riforme», è stata l’ultima indicazione del Presidente. Insieme a un “consiglio” riguardo all’identikit del successore. Per Napolitano, ma anche Renzi se ne è convinto, dovrà essere infatti «una figura di alto profilo, un politico con molta esperienza istituzionale alle spalle». Il colloquio tra i due, l’ultimo prima delle dimissioni, scivola quindi sui temi legati al semestre europeo. Renzi oggi vola a Strasburgo per il consuntivo della presidenza di turno italiana, l’atto finale al quale Napolitano aveva legato la sua permanenza al Colle. Il premier gli ha anticipato quanto dirà agli eurodeputati. L’idea di un’Europa dei valori, non solo delle percentuali. «A Parigi - gli ha riferito Renzi - ho toccato con mano una solidarietà nuova tra tutti i leader. Anche nei suoi confronti c’è molto affetto. Le porto gli auguri e i riconoscimenti per il ruolo a favore dell’Europa che mi hanno personalmente consegnato Merkel e Cameron». L’intervento nell’aula dell’europarlamento chiuderà il cerchio “omerico” iniziato sei mesi fa, nello stesso emiciclo, con la citazione della «generazione Telemaco », quella che deve tornare ai valori dei padri fondatori. La «cultura» e la «formazione» come «antidoto all’odio e al terrore » dei nemici dell’Occidente. E la difesa dell’apertura delle frontiere di Schengen «contro tutte le strumentalizzazioni e i populismi». Da quelle conquiste non si deve tornare indietro. La certezza sulla data delle dimissioni costringe il governo a stringere i tempi sulle riforme. Di questo il ministro Boschi è andata ieri a riferire al Colle. «Entrambe le leggi - ha assicurato a Napolitano - sia quella elettorale che la modifica del bicameralismo saranno approvate tra il 23 e il 26 gennaio. Prima dunque della convocazione del Parlamento in 29 seduta comune con i grandi elettori». Un ottimismo che si scontra però con le trappole che a palazzo Madama rischiano di bloccare il cammino dell’Italicum. Le minoranze del Pd e di Forza Italia sono infatti decise a modificare nel profondo il progetto Renzi. Una quarantina di senatori dem insistono nel far saltare i cento capolista bloccati. E proprio per superare questo muro il premier ha chiesto a Zanda di riunire giovedì mattina un’assemblea del gruppo, a cui parteciperà personalmente, per cercare di disinnescare la rivolta. Senza tuttavia concedere nulla che vada oltre il patto siglato con Berlusconi. «Sarà dura modificare quanto concordato», ammettono i colonnelli renziani. Mentre Roberto Giachetti già minaccia di iniziare uno nuovo sciopero della fame se l’Italicum non vedrà la luce «entro la fine di gennaio». Oggi i capigruppo di maggioranza presenteranno un maxiemendamento con dentro tutte le modifiche all’Italicum 2.0, dal premio alla lista allo sbarramento al 3 per cento. Ma i forzisti, o meglio l’ala ribelle vicina a Fitto, minacciano di unire i propri voti e fare asse con la minoranza Pd se il governo non metterà nero su bianco la clausola di garanzia che rinvia l’entrata in vigore della legge al 2016. «Quella clausola va approvata prima di tutto - avverte Augusto Minzolini - e solo così si possono creare le condizioni per un confronto intelligente, senza ostruzionismi. Bisogna ristabilire un clima di fiducia, perché ormai di Renzi non si fida più nessuno». A palazzo Chigi scattano le contromisure. È stata istituita una cabina di regia per monitorare i voti dei singoli senatori e deputati sulle due riforme. «Sarà un test di tenuta e di fedeltà dei nostri parlamentari spiega una fonte vicina al premier - una prova generale in vista del voto sul Quirinale». Luca Lotti e Lorenzo Guerini sono impegnati già da giorni in colloqui con i singoli per predicare «unità» e invitare a non indebolire il partito in vista della prova più difficile della legislatura: l’elezione del presidente della Repubblica. del 13/01/15, pag. 16 Il metodo Renzi per il Colle “Farò un nome solo, senza rose e sarà uno di noi, del Pd” Ma la sfida del premier non esclude un incontro con Berlusconi Il primo obiettivo è compattare il partito. Venerdì la direzione GOFFREDO DE MARCHIS ROMA . A 24 ore dalle dimissioni di Giorgio Napolitano, Renzi fissa le regole del gioco per la successione. «Non farò una rosa di nomi. E’ una pratica della vecchia politica. Il Pd è capace di esprimere un unico candidato autorevole». Il nome secco verrà ovviamente sottoposto al vaglio di tutti i grandi elettori o meglio dei loro capi, ma il premier-segretario vuole evitare che sia qualcun altro a scegliere nel mazzo democratico. Una prova di forza, se vogliamo, che si fa scudo anche della debolezza del principale interlocutore, Berlusconi. L’identikit che ha in mente Renzi contiene un altro tassello: «Il candidato sarà uno di noi, del Pd. Un politico», racconta ai suoi collaboratori. Finiscono così i sogni di gloria per tecnici, esterni e concorrenti provenienti dal mondo centrista. Da Palazzo Chigi, quando manca pochissimo all’addio del capo dello Stato, cominciano quindi a filtrare non solo criteri di metodo ma anche indicazioni politiche. La “rosa” sembra davvero non avere alcun senso, tanto più con un Berlusconi disponibile a non mettere veti, ad accettare un nome qualsiasi a patto che non sia palesemente ostile, un Berlusconi che chiaramente sconta una posizione molto indebolita rispetto a un anno e mezzo fa quando fu decisivo nel bis di Napolitano. Forza Italia è indispensabile numericamente per eleggere 30 il nuovo presidente della Repubblica ma sul piano politico ha scarsi margini di manovra. Ad Arcore, per esempio, la vicenda del decreto fiscale la raccontano in maniera machiavellica: «Ha fatto tutto Renzi. Ha scritto la norma del 3 per cento per mandarmi un segnale in vista del voto sul Colle. Ma l’ha pasticciata per farla saltare e non escludo che sia stato lui a passarla ai giornali», è la versione sospettosa dell’ex Cavaliere. E tu ti fidi ancora, gli hanno chiesto quelli del cerchio stretto. «Non posso fare altrimenti — è stata la risposta del leader di Fi — . Se penso alle alternative, per noi Renzi è la soluzione meno pericolosa». I rapporti di forza sono questi. E non è certo un caso che il premier continui a ripetere: «Prima di tutto devo chiudere la partita dentro al Pd». Il problema si annida nei gruppi parlamentari di Largo del Nazareno, nel mare magnum dei suoi numeri giganteschi: ben 450 grandi elettori e chissà quanti franchi tiratori. Il primo tempo del match si gioca venerdì, nella direzione convocata ieri in tutta fretta. Sarà l’occasione per aggiornare la “lista” che Luca Lotti tiene nel cassetto e nel suo pc. Anzi, per dargli una struttura molto più definita, con le cifre di fedelissimi, incerti, contrari e irriducibili antirenziani, anche sulla base dell’identikit che Renzi proporrà ai compagni di partito e delle prime reazioni che si manifesteranno nella riunione. Seppure scremato da tecnici e esterni, con i criteri fissati dal segretario il gruppo dei candidabili rimane abbastanza folto. Il Pd può schierare parecchi nomi, tra quelli di maggior peso e altri con chance minori ma sempre potenziali outsider. Si parte dagli ex segretari: Walter Veltroni, Piero Fassino, Dario Franceschini, Pier Luigi Bersani. Sullo sfondo rimane il fondatore Romano Prodi che però ad Arcore continua a essere visto come un nemico. Ci sono poi le “sorprese”: Anna Finocchiaro, Paolo Gentiloni, Pierluigi Castagnetti, Graziano Delrio, Roberta Pinotti, Arturo Parisi. Adesso l’elenco di Lotti, braccio destro e sinistro del premier, comincia ad avere elementi di maggiore precisione. I voti sicuri dentro al Pd sono abbinati ai singoli nomi, per ca- pire chi in partenza ha più possibilità di arrivare al traguardo senza inciampare nel voto segreto. Renzi promette un presidente dalla quarta votazione, quando sarà sufficiente la maggioranza assoluta degli aventi diritto, ovvero 505 voti. Vuole un nuovo inquilino del Quirinale il 30 gennaio, all’indomani della prima seduta delle Camere congiunte, al massimo il 1 febbraio. Per arrivare a quella soglia ha bisogno dell’appoggio Forza Italia e dei centristi, fondamentali cuscinetti contro franchi tiratori sparsi e inevitabili. Al momento il premier non esclude un incontro faccia a faccia con Berlusconi. In cambio di un’assenza di veti si può ben concedere l’onore delle armi di un patto del Nazareno anche sul successore di Napolitano. Semmai il vertice si farà avverrà a ridosso del 29 febbraio. E non prima dell’assemblea dei grandi elettori democratici alla quale Renzi affida il compito solenne di offrire la soluzione. Dev’essere una assunzione di responsabilità collettiva, per far capire che un eventuale fallimento non potrà non avere ripercussioni sul partito e sulla legislatura, facendola finire in anticipo. La direzione è solo un passaggio iniziale, nelle intenzioni di Renzi. Conterrà anche un omaggio formale e sostanziale all’uscente capo dello Stato per i nove anni di servizio al Paese. Ma venerdì, senza dubbio, si inizierà a scoprire le carte sul dopo. Del 13/01/2015, pag. 1-2 Caos nel Pd della Liguria, domani Cofferati decide 31 Primarie. Lo sconfitto denuncia le irregolarità, si aspetta il verdetto dei garanti. Il duo Paita-Burlando raccoglie una valanga di voti, anche a destra. Civatiani e sinistra in cerca di un piano B Katia Bonchi A Pegli un manifesto di Raffaella Paita sarebbe stato affisso direttamente sulla porta del seggio. Nel quartiere popolare di Voltri parecchi anziani sarebbero stati portati a votare convinti che con quel voto qualcuno avrebbe risistemato le loro fatiscenti abitazioni di edilizia pubblica. A Badalucco, piccolo paese dell’imperiese, il seggio avrebbe aperto un’ora prima di quanto previsto e all’arrivo del rappresentante di lista a sostegno di Cofferati già 25 persone avevano votato. Sono alcune delle segnalazioni che il comitato per Cofferati ha raccolto e inviato ai garanti che mercoledì mattina dovranno pronunciarsi sulle presunte irregolarità durante il voto delle primarie liguri. Un voto da cui la 40enne renziana Raffaella Paita, assessora regionale alle infrastrutture e alla Protezione civile, sponsorizzata dal presidente della Regione Liguria Claudio Burlando, è uscita vincitrice con 28.973 voti su poco meno di 55 mila. Per l’ex segretario della Cgil Sergio Cofferati i voti sono stati 24.916. Uno scarto di oltre 4 mila voti, troppi per ipotizzare un annullamento anche se le irregolarità, verbalizzate soprattutto nei seggi del levante e del ponente ligure, restituiscono un Pd tutt’altro che unito nel sostenere il candidato vincente. «Non chiedo l’annullamento del voto, ma voglio che il collegio dei garanti esamini tutti i ricorsi in modo che ci sia un quadro definito di quanto accaduto e delle conseguenze che ci saranno» ha ripetuto Cofferati. «Sono state primarie snaturate con il voto di sostenitori del centrodestra e di gruppi organizzati di stranieri come i cinesi che non parlano l’italiano o i sedicenni marocchini». Proprio gli stranieri sono, insieme all’affluenza tanto alta, la vera sorpresa di queste primarie. In base alle segnalazioni, oltre ai cinesi in coda al seggio della Spezia, ci sarebbero i marocchini andati in massa a votare ad Albenga, i nigeriani (una quarantina) portati a gruppi di sei da una connazionale in un seggio savonese. Ancora, sempre a Savona nel quartiere di Villapiana un italiano avrebbe accompagnato al seggio gruppi di immigrati «chiedendo di votare la donna e all’uscita si faceva dare un cedolino che dimostrasse che avevano votato» racconta Viola Boero che per il comitato a sostegno di Cofferati ha raccolto le segnalazioni arrivate dai seggi . In questo caso come in altri il seggio è stato chiuso e riaperto dopo la verbalizzazione. Ancora esponenti e consiglieri in carica di Ncd sono stati «avvistati» nei seggi della Spezia e dell’estremo ponente ligure. «Non mi aspettavo una Liguria come Napoli» commenta il vicesindaco di Genova Stefano Bernini, «non è una bella pagina per la politica ligure. Nonostante ci sia stata una buona affluenza questa potrebbe essere la parola fine su un sistema di primarie che inizia a mostrare difficoltà». Al di là delle irregolarità vere, presunte o ingigantite, che qualcosa che non abbia funzionato lo rivelano i numeri. A Genova, il cui comune conta 600mila abitanti sono andati a votare in poco più di 19 mila persone, mentre alla Spezia, che di abitanti ne ha 90 mila, i votanti sono stati oltre 14.500. Come ha commentato a caldo domenica sera il direttore del Secolo XIX Genova è la vera perdente di queste primarie, l’unica provincia in cui Cofferati ha vinto ma anche quella che ha espresso percentualmente il minor numero di votanti. Anche la ministra Pinotti, sostenitrice di Paita, ha sottolineato la necessità per la vincitrice di «lavorare su Genova». D’altronde, sono i paitiani stessi a dirlo, la vituperata ’politica delle bocciofile’, vale a dire la continua presenza della coppia Burlando-Paita, nei piccoli comuni ha pagato: «La vittoria di Paita aè il segnale chiaro che lavorare sul territorio alla fine paga» rivendica il coordinatore dei 200 comitati pro-Paita Alessio Cavarra. La vincitrice prova a smorzare le polemiche: «Oltre 4 mila voti sono una vittoria schiacciante, e prima verrà riconosciuta prima potremo metterci al lavoro per le elezioni regionali e credo che ci sarà un gran bisogno anche del contributo di Cofferati». Ma il partito è lace32 rato e anche se un punto fermo potrà arrivare domani con il pronunciamento dei garanti, cui seguirà l’ufficializzazione del vincitore da parte del comitato politico, difficilmente servirà a ricomporre i cocci. E se i civatiani minacciano di opporre a Paita un candidato alternativo insieme a Sel e alla sinistra, i sostenitori di Cofferati, a partire dalle segreterie del Pd genovese e ligure, non si sentono troppo bene. La prima a far le spese del new deal potrebbe essere la giunta Doria, da sempre bersaglio politico di Paita e oggi alla prova del voto su una delibera, quella sulla Gronda autostradale, contestatissima a sinistra. E che, dopo la vittoria della fazione paitiana del Pd, potrebbe affondare definitivamente la giunta del sindaco arancione. Del 13/01/2015, pag. 2 Fine dell’era del gazebo. Anche Sel sbatte la porta Democrack. Da Romano Prodi a Walter Veltroni fno alla crisi nera di un must Daniela Preziosi Di fronte al film comico di gag e stravaganze che si proietta via via dai verbali del giurì delle primarie in Liguria (per dire: la settantina di turchi ai gazebo di Imperia, le foto scattate alle schede, la valanga di voti ad Albenga, 1500 di cui 1200 alla candidata burlandiana, il presidente della comunità musulmana che accusa di razzismo chi riferisce di file di giovani marocchini) il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini ieri è corso ai ripari impartendo dal Tg1 quella che nei prossimi giorni sarà la linea ufficiale del Nazareno: «Se ci sono state situazioni non corrette saranno sanzionate, ma va sottolineata la grande partecipazione». «Se emergeranno irregolarità, quei seggi saranno annullati», rassicura il presidente Matteo Orfini. Ma stavolta il Pd non si farà trascinare nel caos: a differenza del voto emiliano di novembre, a questo giro almeno l’affluenza è stata buona. Ma il caso ligure resta lo stesso amaro: con la vittoriosa Lella Paita erede del burlandismo che imbarca frotte di elettori del centrodestra e suggella da subito e senza patti (o per lo meno senza patti conosciuti) l’alleanza con l’Ncd; mentre lo sconfitto Cofferati non accetta il risultato. C’è di meglio: ora molti i suoi mollano la coalizione: meditano di farlo i civatiani, che avevano sostenuto l’ex leader della Cgil in nome della ricomposizione a sinistra; lo hanno già annunciato i vendoliani, che appoggiavano Cofferati ma (non a caso) non avevano firmato il patto di alleanza con il Pd. Per Sel la corsa a fianco dei democratici finisce qua, sentenzia il coordinatore Nicola Fratoianni: «Con la candidatura di Cofferati abbiamo provato a costruire in Liguria un centrosinistra capace di guardare con attenzione al territorio, ai diritti, al lavoro. Con la vittoria di Paita questa prospettiva non c’è più». C’entrano le irregolarità ma fino a un certo punto: «L’inquinamento che ci interessa è innanzitutto quello politico. Gli accordi, espliciti o meno, con ampi settori del centrodestra e le dichiarazioni della ministra Pinotti sulla necessità di imbarcare Ncd sul modello nazionale sono la questione decisiva. Non parteciperemo a quest’operazione e lavoreremo a una prospettiva diversa. A sinistra». Il caso ligure, ultimo in ordine di tempo, è il sigillo definitivo su un’epoca, quella delle primarie di centrosinistra, volute da Prodi nel 2005 e importate da Veltroni nel 2007 come pietra angolare del nuovo partito. Il paradosso è che succede proprio quando sulla tolda del Pd c’è Renzi, la cui stella è nata (e solo poteva nascere) sbaragliando i suoi rivali e il partito proprio nei gazebo. Ma paradosso non è: con Renzi la coalizione al governo nazionale non c’è più e ormai tende a consumarsi anche nelle regioni, fin 33 qui baluardo frontista. E senza un ventaglio di forze, «senza innovazione politica e culturale» per dirla con le parole con cui ieri Guglielmo Epifani ha annunciato un cambio di verso della sua area sulle primarie campane, «le primarie si trasformano, inevitabilmente, in una inutile e dannosa rissa interna che invece di ricostruire una rete democratica di partecipazione genera delusione verso il perpetuarsi di vecchissime pratiche». Infatti anche in Campania le primarie marciano verso la resa. Lì già nel 2011 il disastro dei brogli e del conseguente annullamento ha messo il Pd (e il centrosinistra) fuori gioco a Napoli tirando la volata a De Magistris. Oggi, dopo che i gazebo sono stati rimandati due volte, è in corso un braccio di ferro: i renziani in nome del rinnovamento vorrebbero sbarazzarsi dei due big in corsa, Cozzolino e De Luca, e imporre il candidato unico Gennaro Migliore, ex vendoliano convertito al renzismo. E magari per questa via rispondere poi al disperato corteggiamento dell’Ncd locale. Nelle Marche, altra regione interessata al voto di primavera, le cose non vanno meglio. Le primarie potrebbero essere cancellate per evitare lo scontro interno con il governatore uscente Spacca. Se la coalizione non c’è più le primarie restano solo del Pd. E se il Pd si trasforma nel partito delle correnti in franchising (copyright del civatiano Walter Tocci), oggi per la gran parte ricollocate all’ombra della leadership di Matteo Renzi, il rischio del broglio e della figuraccia reale (e mediatica) è dietro l’angolo. Di fronte a un cambio di natura di queste dimensioni, a poco servono i ritocchi che sta preparando la commissione del Nazareno. Molto, molto meglio evitarle. del 13/01/15, pag. 12 QUANTI SCHELETRI NEL GAZEBO SCANDALI DA NAPOLI ALLA SICILIA, INCHIESTE E FLOP: ORA LE PRIMARIE FANNO PAURA AI DEMOCRATICI di Luca De Carolis Noi siamo quelli delle primarie”. Lo ripete appena può Matteo Renzi, issato alla segreteria del Pd e (di fatto) a Palazzo Chigi da un milione e 900 mila voti nelle consultazioni del dicembre 2013. Eppure l’identità tra gazebo e Democratici sta tramutandosi sempre più in una condanna. Un fardello colmo di veleni e (talvolta) reati, per un partito che in quasi otto anni di vita ha cambiato di continuo leader, alleati e linea, ma non ha mai ammainato la bandiera delle primarie. Tentazione ora sempre più diffusa, nel Pd che non sa (o non vuole) più gestirle. E intanto gli elettori scappano, come raccontano i recenti flop delle primarie in Veneto e in Emilia Romagna. Ombra Capitale: i rom di Buzzi, i circoli fantasma Conseguenze e responsabilità penali sono tutte da scrivere, ma Mafia Capitale ha già travolto il Pd romano, portando al commissariamento del partito e seminando tonnellate di sospetti sulle primarie capitoline. Il personaggio centrale è sempre lui, Salvatore Buzzi, l’ex detenuto demiurgo della cooperativa “29 giugno”, in carcere per associazione a delinquere con l’aggravante mafiosa. A suo dire, vicino a tanti dem. Nella rete di interessi di Buzzi c’era anche il campo nomadi di via Candiani, per cui la sua cooperativa nel marzo 2013 ha ottenuto una commessa da 86 mila euro per la bonifica dell’impianto fognario. E proprio da quel campo, secondo quanto denunciò la dirigente dem Cristiana Alicata già nell’aprile 2013, sarebbe partita una lunga fila di rom per andare a votare alle primarie per il candidato sindaco. La renziana Alicata si beccò accuse di razzismo. Un anno e mezzo dopo, prove del collegamento tra Buzzi e i nomadi da urne non ve ne sono. E la dirigente, 34 oggi come allora, non fa nomi: “Non li conosco e non voglio farli, il tema non è individuale”. Ma il cortocircuito tra accuse e carte colpisce. Come quelle intercettazioni in cui Buzzi si vanta della sua influenza sui Democratici. “Sulle Comunali c’avemo una serie di persone che ci stanno a cercà” assicura in una telefonata. Tempo dopo, il (presunto) grande capo Massimo Carminati lo interroga sulle consultazioni del Pd di fine 2013 per la segreteria romana: “Come siete messi per le primarie?”. E Buzzi replica: “Stiamo a sostenè tutti e due. Avemo dato centoquaranta voti a Giuntella e ottanta a Cosentino (Lionello, poi eletto segretario, ndr). Cosentino è proprio amico nostro”. I due dem citati negano accordi con l’ex detenuto. Ma il Pd romano è comunque terremotato. Il commissario Orfini ha dato ordine di verificare gli iscritti, “nome per nome”. Troppi gli attivisti fantasma reclutati per le primarie, finti come tanti circoli. Lo conferma Roberto Morassut, assessore a Roma con Veltroni: “Tesseramento e primarie sono stati usati per assetti di cordate senza politica, falsando numeri e mercanteggiando le iscrizioni”. E sotto il Vesuvio esordì l’Asia.. I cinesi accorsi alle urne sono la pietra dello scandalo in Liguria. Ma nel gennaio 2011 ne avvistarono tanti già nelle primarie di Napoli. Le più disastrate della storia dem, tanto da essere annullate. Ufficialmente le aveva vinte l’europarlamentare Andrea Cozzolino, vicino all’ex sindaco Bassolino. Ma fu subito pioggia di ricorsi, innanzitutto dal secondo classificato Umberto Ranieri. Gridò allo scandalo, per l’affluenza record (un voto espresso ogni 29 secondi) e per presunte irregolarità nel quartiere di Secondigliano, ad alta densità camorristica. L’ombra della malavita affiorò, tanto che la Dda aprì un’inchiesta. Prima però fu una guerra di carte bollate e accuse incrociate tra candidati e fazioni. Alla fine da Roma annullarono tutto, calando come commissario cittadino Andrea Orlando. Quattro anni dopo, dovrebbero riprovarci. Ma sotto il Vesuvio le primarie per il candidato sindaco sono state già rinviate due volte. E ora i renziani vogliono cancellarle, candidando direttamente Gennaro Migliore. Altri resistono. E sulle barricate c’è anche Cozzolino. L‘isola dei capibastone: percentuali bulgare e occupazioni Certo, quelle del 2013 sono state le primarie del Renzi incoronato. Ma in Sicilia non andò liscia per il leader, tanto che nella prima fase (quella per i soli iscritti) perse a sorpresa. Pesò il veto di tanti storici capi del voto. Come Mirello Crisafulli, signore assoluto ad Enna, capace di far vincere Gianni Cuperlo con l’80 per cento. Per l’ira di Davide Faraone, proconsole renziano dell’isola, che nella tornata dell’8 dicembre occupò il seggio cittadino, un bar a fianco della segreteria dem. “C r isafulli gestisce il partito come la repubblica delle banane” tuonò Faraone. Crisafulli rispose minacciando denunce. A Messina invece il gioco lo conduceva il deputato Francantonio Genovese, arrestato mesi dopo per associazione a delinquere. E lì furono ottime notizie per i renziani, con quasi il 70 per cento per il loro Matteo. Ovviamente, arrivarono accuse dai cuperliani contro il voto bulgaro. Ma in politica tutto si può riaggiustare. E nel febbraio 2014 i renziani e Crisafulli hanno eletto d’amore e d’accordo Giuseppe Raciti come segretario. del 13/01/15, pag. 21 Riforma lavoro entro 30 giorni decreti alle Camere per i pareri VALENTINA CONTE ROMA . 35 La Ragioneria ha bollinato il secondo decreto attuativo del Jobs act (quello sulla Naspi e i nuovi ammortizzatori sociali) ieri nel tardo pomeriggio, dopo aver licenziato il primo (sul contratto a tutele crescenti) solo alla fine della scorsa settimana. A quasi venti giorni dal loro varo nel Consiglio dei ministri della vigilia di Natale dunque, i due testi saranno trasmessi alle Camere solo oggi. Le commissioni competenti avranno poi trenta giorni per esprimere un parere consultivo. E benché il governo si dica disponibile ad accogliere le osservazioni del Parlamento, lo spazio per realistici cambi in corsa del testo è quasi nullo. Il ritardo, dovuto a una lunga discussione tra Palazzo Chigi e Ragioneria sulle risorse a copertura dei tre nuovi ammortizzatori sociali, si è chiuso con una soluzione classica: l’impegno politico, non scritto, dell’esecutivo a trovare nella Finanziaria del 2016 i denari che mancano per finanziare Naspi, Asdi e Discoll nel 2017, al momento quantificati in 300400 milioni in più rispetto ai 2 miliardi stanziati. Se ciò non avvenisse però, la durata della Naspi scenderebbe da 24 a 18 mesi dal 2017 e il suo potenziale innovativo ammortizzatore universale e più lungo dell’attuale - si smonterebbe. Limature tecniche a parte, i due testi si differenziano da quelli approvati il 24 dicembre per il contratto di ricollocazione, posto all’articolo 11 del decreto sul contratto a tutele crescenti, ora spostato nell’altro decreto sulla Naspi. E questo perché la sua specifica approvazione - al vaglio non solo delle Camere, ma anche della Conferenza StatoRegioni - avrebbe rallentato l’iter del decreto sul nuovo contratto. Iter che il premier Renzi vuole il più spedito possibile, visto che molte aziende attendono l’entrata in vigore della riforma del lavoro per procedere con nuove assunzioni a tempo indeterminato, come ha fatto capire ieri Marchionne con Fiat. Per i nuovi ammortizzatori sociali c’è invece più tempo. Naspi e Asdi (l’assegno di disoccupazione che spetta a quanti hanno terminato la Naspi senza trovare lavoro e in forte difficoltà economica) partono dal primo maggio. Discoll, il sussidio per i cocopro, doveva essere già operativo, ma sarà pagato solo tra qualche mese, dopo l’approvazione del decreto. Il diritto all’assegno maturerà però dal primo gennaio. 36 LEGALITA’DEMOCRATICA del 13/01/15, pag. 24 “Cucchi vittima di pestaggio si indaghi sui carabinieri” i giudici riaprono il caso Le motivazioni dell’appello che ha assolto agenti penitenziari e medici “Picchiato prima di arrivare in tribunale”. La famiglia: grande vittoria ROMA . Non è finita, bisogna indagare. Ancora. Ne è convinta la I Corte d’Assise d’Appello che ieri ha depositato le motivazioni con cui, il 31 ottobre scorso, ha assolto tutti e 12 gli imputati accusati della morte di Stefano Cucchi. Perché nessuno di loro ne ha causato la morte. Per trovare i responsabili bisogna cercare altrove. Ovvero tra i carabinieri che hanno arrestato Stefano il 15 ottobre 2009, lo hanno tenuto quella notte e lo hanno portato in tribunale la mattina successiva. «Non può essere definita una astratta congettura — scrive la Corte presieduta da Mario D’Andria — l’ipotesi secondo cui l’azione violenta sarebbe stata commessa dai carabinieri che lo hanno avuto in custodia». Parole che stravolgono l’intero impianto accusatorio: nessun carabiniere fu mai iscritto nel registro degli indagati. Proprio per questo il collegio ha ritenuto «opportuno» trasmettere «copia della sentenza al Procuratore della Repubblica di Roma perché valuti la possibilità di svolgere ulteriori indagini al fine di accertare eventuali responsabilità di persone diverse dagli agenti di polizia penitenziaria giudicati da questa Corte». I giudici analizzano ogni possibilità. Ricostruiscono circostanze, testimonianze, cartelle cliniche. Mettono in luce contraddizioni, dubbi, perplessità. Ma di una cosa sono convinti: Stefano Cucchi non è caduto né tantomeno è arrivato già in condizioni precarie in tribunale. Anzi. «Le lesioni subite da Cucchi — scrivono — debbono essere necessariamente collegate a un’azione di percosse; e, comunque, ad un’azione volontaria che può essere consistita anche in una semplice spinta». E da lì il percorso è stato irreversibile. Ma bisogna capire chi sia stato. Certo è, secondo la Corte, che i responsabili non sono gli agenti della polizia penitenziaria. Quanto ai medici (che in primo grado erano stati condannati), i giudici fanno un discorso diverso: il punto di partenza è l’assenza di certezze circa la morte del geometra romano. Non si sa di che cosa è morto. «Le quattro diverse ipotesi avanzate da parte dei periti d’ufficio, dai consulenti del pubblico ministero, delle parti civili e degli imputati, tutti esperti di chiara fama, non hanno fornito una spiegazione esaustiva e convincente». Per questo, si legge nelle motivazioni, non essendoci «certezza sulle cause del decesso, non può che derivare il dubbio sulla sussistenza di un nesso di causalità tra le condotte degli imputati e l’evento». E quindi non si possono condannare i medici. (m. e. v.) 37 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE del 13/01/15, pag. 10 Merkel sfida i cortei xenofobi E avverte: Schengen non si tocca La Cancelliera: «L’Islam appartiene alla Germania». Oggi sfilerà con i musulmani DAL NOSTRO INVIATO DRESDA (Germania) «Non vogliono che dimostriamo, ma sono loro, i politici ufficiali, a essere stati presi di sorpresa dai massacri di Parigi — dice Pia («meglio che non le dia il cognome, non si sa mai») — Noi eravamo in piazza anche il lunedì precedente, e quello prima: è la dodicesima volta che scendiamo per le strade. Perché il pericolo noi lo viviamo tutti i giorni. Ma loro, Merkel e gli altri, non hanno ancora capito. Ci vorrebbero leader forti, ci vorrebbe un Putin». In effetti, l’incomprensione tra la cancelliera tedesca e i dimostranti che ieri hanno manifestato a Dresda nel corteo del lunedì organizzato dal movimento anti-islamico Pegida è quasi totale. Nel lungo periodo, è una divaricazione che potrebbe diventare un problema. Ciò nonostante, Angela Merkel resta ferma sulla necessità di trovare una convivenza con i musulmani che vivono in Germania e in Europa. Gli attacchi di Parigi, se possibile, l’hanno rafforzata nelle sue convinzioni, che già aveva espresso nel discorso di fine anno, nel quale aveva accusato Pegida di «pregiudizi» e di «odio». Ieri, mentre a Dresda i manifestanti lanciavano lo slogan «il popolo è qui», durante una conferenza stampa con il primo ministro turco Ahmet Davutoglu, la cancelliera diceva senza mezzi termini che il Paese «vuole una convivenza pacifica con l’Islam» e annunciava che oggi parteciperà alla manifestazione per la tolleranza organizzata dalle associazioni musulmane a Berlino. «Sarò presente assieme a molti ministri del gabinetto — ha assicurato — e il presidente (tedesco) Gauck terrà un discorso». Chiusura netta verso il movimento nato lo scorso ottobre. E poi una seconda chiusura verso quei governi e quei partiti che in Europa vorrebbero porre limiti al trattato di Schengen sulla libera circolazione delle persone. L’accordo – ha detto – «non è in discussione»: semmai si tratta di scambiarsi più informazioni tra Paesi per rafforzare la sicurezza. Stesa linea dell’Italia, espressa da Gentiloni: «Nessun governo europeo parla di sospendere Schengen». Frau Merkel è insomma sempre più determinata a svolgere un ruolo di leadership in Germania e in Europa, a cominciare dall’emergenza del momento, cioè i rapporti con l’Islam e l’immigrazione. I dèmoni nascosti nell’anima dell’Europa, se ancora ci sono, sembra intenzionata a contrastarli senza se e senza ma. Onorevole. L’esercizio, però, è tutto meno che facile e probabilmente impossibile da condurre a senso unico. I dimostranti mobilitati ieri nella capitale della Sassonia da Pegida — il movimento degli Europei patriottici contro l’islamizzazione dell’Occidente — sono in buon numero suoi elettori. Da settimane si mobilitano, ieri la manifestazione più numerosa da settimane, alcune decine di migliaia. E molti erano esterrefatti all’idea che la cristiano-democratica Merkel li criticasse aspramente e poi annunciasse di manifestare assieme ai musulmani. «Penso che un cancelliere o una cancelliera debbano stare dalla nostra parte, del popolo tedesco e della Germania — diceva Hans Franke, studente — Non siamo noi i violenti, i misogini. Ma anche dopo quello che è successo nei giorni scorsi a Parigi Merkel non si è ravveduta». Tra i simpatizzanti di Pegida, parecchi sono più pesanti quando parlano della cancelliera: alcuni sono neonazisti, altri hooligan di qualche squadra di calcio, altri sono 38 politici in formazione. In gran parte, però, sono normali cittadini. Ieri, in piazza, qualche cartello era violento: «Islam=Carcinoma», per esempio. Ma per lo più erano manifesti del tipo «Merkel non ci conosci», «Wir «sind das Volk» (Noi siamo il popolo) e striscioni neri con i nomi dei morti di Parigi scritti in rosso. A questa gente, Frau Merkel dovrà dare qualcosa di più. E’ evidente che il governo vuole evitare divisioni sociali che poi possono diventare scontri e violenza aperta. Ma la piazza di ieri sera a Dresda era su una lunghezza d’onda diversa. Era arrabbiata con l’establishment che non la ascolta. Gli oratori accusavano, tra applausi scroscianti, «i media menzogneri» che li hanno definiti nazisti. Rifiutavano le accuse di odio, nel Paese che accetta più rifugiati politici d’Europa. Lanciavano un programma in sei punti per avere più controlli alle frontiere, una politica dell’immigrazione diversa, la democrazia diretta come in Svizzera. E’ chiaro che c’è confusione, cupezza, paura, rabbia. E che c’è chi vorrebbe dare una direzione di estrema destra ai manifestanti. Ma è anche chiaro che i soli discorsi sulla convivenza, per quanto giusti, a questa folla non bastano. Così finisce per invocare Putin. Danilo Taino 39 SOCIETA’ del 14/01/15, pag. 16 I tagli che scaricano i “matti ” sulla società IL SERVIZIO PSICHIATRICO D’URGENZA AZZERATO IN MOLTE REGIONI. I MEDICI DEL 118: “CON I PAZIENTI VIOLENTI RISCHIAMO LA VITA” di Paola Porciello Sembra la trama di un film dell’orrore la vicenda che nella notte tra il 30 e il 31 dicembre ha visto protagonista una donna di Sarno di 52 anni, affetta da uno stato di psicosi maniacale. Gli operatori del 118, chiamati dal marito, l'hanno trovata in evidente stato di agitazione che brandiva un coltello di 50 cm. Medici e familiari sono riusciti a mettersi in salvo per un pelo solo grazie all’intervento delle forze dell’ordine. Eventi simili si presentano non di rado da quando le aziende sanitarie hanno deciso di fare a meno del medico specialista nella fascia oraria notturna. “Una riorganizzazione con tagli alla spesa – spiegano gli operatori del servizio di primo intervento –che ci fa rischiare la vita. Si tratta di pazienti già in terapia presso il servizio di Igiene mentale ed è necessario che sul posto, sia per competenze, per mezzi e possibilità di trattamento con farmaci specifici, ci sia uno psichiatra reperibile”. LA CAMPANIA, e in particolare la provincia di Salerno, era l’ultimo avamposto che aveva resistito al progressivo smantellamento da Nord a Sud dell’assistenza specializzata “h24”. Un taglio che, a fronte di un modesto risparmio economico, sta producendo spesso l’effetto contrario. La legge Basaglia del 1978, che ancora regola l'assistenza psichiatrica nel nostro paese, introduceva non a caso anche una filosofia di cura individualizzata e centrata su servizi integrati nei luoghi di vita delle persone. A distanza di 37 anni la riforma Pare però essere destinata a rimanere disattesa, se non addirittura cannibalizzata dai piccoli ma devastanti interventi (o mancati provvedimenti) che hanno generato servizi di salute mentale disomogenei e frastagliati sul territorio. A fronte di isolati centri di eccellenza, esistono ancora vaste zone in cui il servizio è lacunoso, con situazioni che arrivano fino al degrado e al limite della legalità. Qualche esempio dei disservizi più clamorosi: l’apertura solo diurna dei Centri di salute mentale (Csm), spesso per fasce orarie ridotte, con conseguenti ricoveri "forzosi" che in alcuni casi somigliano più a deportazioni. L’esiguità degli interventi territoriali individualizzati e integrati spesso limitati alla sola prescrizione di farmaci. La sopravvivenza di “comunità ex-art. 26”, luoghi privi di valenza riabilitativa e più connotati come “contenitori sociosanitari”. E ancora, l’offerta di ricoveri in cliniche private convenzionate, accessibili anche senza il coordinamento dei Csm. Tutti modelli di assistenza al di fuori della cultura territoriale dei progetti “obietti - vo” e dei piani per la salute mentale post legge 180. Occorre specificare che non esiste alcuna normativa nazionale che imponga il taglio nella fascia oraria notturna. I progetti obiettivo vanno tutti in direzione contraria ma non sono vincolanti e finiscono per soccombere alle politiche sanitarie regionali che, insieme alle pressioni corporative e sindacali, determinano il quadro attuale. Dunque che fine hanno fatto le promesse prospettate dalla Legge Basaglia su diritto alla salute e libertà individuali? Se dobbiamo basarci sugli ultimi provvedimenti e sulle testimonianze di pazienti e operatori, dobbiamo concludere che è in corso una pericolosa marcia indietro. Secondo Claudio Mencacci, già presidente della Società italiana di Psichiatria, è giusto fare a meno dello psichiatra nelle ore notturne 40 perché "Un'urgenza psichiatrica è pari a qualsiasi altra urgenza sanitaria. In tal modo si riduce la stigmatizzazione che accompagna i pazienti psichiatrici quali pazienti 'violenti' e 'pericolosi'. A Milano, dove lavoro, c'è un numero sufficiente di psichiatri. I piccoli centri sono i più colpiti da carenze nell'assistenza". PEPPE DELL’ACQUA, considerato da molti l'erede di Basaglia, è direttore del Dipartimento di salute mentale di Trieste. Per lui la rivoluzione culturale apportata dalla Legge 180 non è stata inutile: “Oggi siamo l’unico paese in Europa con una legge che ci permette di vedere che la contenzione è una violenza, non un atto medico. Purtroppo però negli ultimi 30 anni i servizi hanno subito una forte dispersione per via di forme organizzative stupide messe in atto dalle Regioni con la scusa della spending review”. Del 13/01/2015, pag. 6 Milano, nuovi sgomberi e nuove resistenze Casa. I Comitati per la casa si preparano a contrastare l'ennesima e consueta ondata di sgomberi (l'anno scorso sono stati circa cinquecento). Intanto ieri, grazie alla presenza di un gruppo di ragazzi solidali del Comitato di San Siro, è stato rinviato lo sgombero di Hansa, una donna marocchina di 51 anni in precarie condizioni di salute Luca Fazio Non per strumentalizzare, ma forse non è un caso se per dare concretezza a un briciolo di libertà, uguaglianza e fratellanza bisogna andare in via degli Umiliati, la mattina presto. Non è una battuta, è una periferia di Milano, un altro cuore dell’Europa. Ci abita Hansa, una donna marocchina di 51 anni. Ieri ha ricevuto la visita dell’ufficiale giudiziario, accompagnato dalla Digos. Alla fine l’ha spuntata un’altra volta e allora si è fatta fotografare con un foglietto in mano. Quella foto è una piccola grande vittoria del Comitato abitanti di San Siro che è riuscito ad impedire un altro sfratto per morosità incolpevole: Hansa fa la badante, le è stato riconosciuto il 40% di invalidità e non riesce a pagare un affitto di 550 euro al mese, per una casa aggredita dalle muffe. Sul foglietto c’è un’altra data (3 marzo, un po’ di respiro) e una scritta a penna in stampatello: “Ultimo rinvio”. Anche i ragazzi e le ragazze che sono andati a trovarla sono soddisfatti: “Hansa non esce grazie alle decine di solidali che dalle 8 hanno presidiato casa sua. La solidarietà è un’arma. Usiamola. Basta case senza persone e persone senza casa”. Non ci sono stati scontri, solo un ragionevole rinvio. Il questore Luigi Savina, dopo i ripetuti scontri dello scorso novembre, rivolgendosi ai politici aveva detto che l’emergenza abitativa era un problema sociale che non poteva essere affrontato a colpi di manganello. “Abbiamo invitato Aler e Comune ad andare incontro alla richiesta di alloggi, perché quello della casa non può diventare un problema di ordine pubblico”. Però nel 2014 circa cinquecento famiglie sono state sbattute in mezzo alla strada e solo grazie alla resistenza di comitati ed inquilini quest’inverno l’emergenza è rimbalzata sulle prime pagine dei quotidiani. Poi il silenzio, anche se gli sgomberi sono continuati anche durante le feste natalizie. E continueranno sempre di più: nel decreto “Milleproroghe” di fine anno il governo non ha confermato il blocco degli sfratti, una “dimenticanza” che rischia di rovinare la vita a decine di migliaia di persone in tutta Italia. Il calendario di gennaio del Comitato inquilini di San Siro, intanto, è già pieno di appuntamenti. Le chiamano “colazioni antisgombero”. Ci si alza presto. La prossima sarà lunedì 19 gennaio in via Monte Palombino, un’altra periferia: questa volta la polizia cercherà di cacciare da casa Mustafà. E non è un caso se le altre persone che nei prossimi giorni 41 rischieranno la strada si chiamano Habdelsamad, Atika, Hayane, Elgarbi e Hafida. Sono i nostri vicini di casa stranieri, persone con cui l’Europa, proprio in queste ore, ci ha invitato a fraternizzare. Sul sito del centro sociale Il Cantiere, che appoggia i comitati di San Siro, oggi si legge una considerazione che qualcuno finge di interpretare come un atto di ostilità destinato ad alimentare “tensioni”. Scrivono: “Ma alla solitudine e alla disperazione che possono cogliere chi si ritrova in pochi anni a non avere più alcuna certezza, c’è un’alternativa: la solidarietà, il mutuo soccorso, la lotta dal basso per la casa e per il diritto ad un abitare degno. All’assessore alla Casa del Comune di Milano, che insieme agli assessori di Napoli e Roma ha preso parola in questi giorni chiedendo al governo il blocco degli sfratti, rivolgiamo l’invito a passare dalle parole ai fatti”. Tanto per cominciare, spiega Matteo dell’Associazione inquilini abitanti (Asia), “il Comune prima di effettuare altri sgomberi potrebbe finalmente avviare quella commissione votata due anni fa, e mai partita, che avrebbe dovuto valutare caso per caso la situazione di tutti gli inquilini che occupano le case popolari”. Del resto non c’è alcuna emergenza, semplicemente perché la situazione è nota da decenni. Il che è ancora peggio. A Milano le occupazioni abusive sono poco meno di 5 mila, e quasi l’80% sono considerate “storiche”. In più ci sono 23.500 famiglie che stanno aspettando un alloggio popolare, mentre 1.000 possono essere sgomberate da un giorno all’altro per morosità. Ma il dato più clamoroso è un altro: mentre quotidianamente ci sono persone che vengono sbattute in mezzo alla strada, Regione (Aler) e Comune (MM) a Milano hanno a disposizione più di 8 mila alloggi vuoti. 42 BENI COMUNI/AMBIENTE Del 13/01/2014, pag. 12 Lavori pubblici. Nel periodo maggio-dicembre già appaltato o assegnato circa un terzo dei 2,3 miliardi disponibili per le opere idrogeologiche Difesa del suolo, attivati 700 milioni Per il piano settennale dalle Regioni progetti per 16,3 miliardi di cui 2 esecutivi o definitivi È partita l’accelerazione tanto attesa per gli investimenti nella difesa del suolo. Dei 2,3 miliardi disponibili a vario titolo per il dissesto idrogeologico da vecchi piani e nuovi stanziamenti (e non di rado attribuiti a progetti bloccati) nel periodo maggio-dicembre 2014 sono stati appaltati o attivati (cioè assegnati o banditi) lavori per 700 milioni. Il monitoraggio svolto dall’unità di missione di Palazzo Chigi guidata da Erasmo D’Angelis e Mauro Grassi, fotografa al momento 429 progetti per 647 milioni ma al termine del conteggio si pensa di arrivare appunto a sfiorare i 700 milioni. Tra i maggiori interventi spiccano le opere per la messa in sicurezza del lago d’Idro (50,3 miloni) in Lombardia, lo scolmatore Fereggiano (45 milioni) e gli altri interventi per il fiume Bisagno (37 milioni) in Liguria, ancora l’adeguamento del canale scolmatore di nord-ovest per Milano (23,4 milioni), la realizzazione di una cassa di espansione e la sistemazione delle sezioni di deflusso a Castelfranco Veneto (16,8 milioni), lo scolmatore dellArno a Pisa-Pontedera (15 milioni) e la cassa di espansione a Figline (14 milioni) in Toscana. La ripartizione regionale dei 429 progetti evidenzia la Lombardia al primo posto con 57 interventi per 137,8 milioni, seguita dalla Toscana con 33 interventi per 62,4 milioni, dalla Calabria con 50 interventi per 58,5 milioni. Per numero di interventi è avanti il Piemonte con 102 progetti che totalizzano un valore di 33 milioni. Contemporaneamente l’unità di missione di Palazzo Chigi ha raccolto, insieme al ministero dell’Ambiente, le proposte regionali per i due piani (aggiuntivi) in corso di messa a punto: il piano nazionale settennale 2014-2020 della difesa del suolo che punta a partire con risorse per 7-9 miliardi e il piano stralcio destinato alle aree metropolitane. Per il piano nazionale le proposte giunte a Roma dalle Regioni ammontano a una spesa di 16.357 milioni, di cui 875 milioni con progettazione esecutiva e 2.029 milioni con progettazione definitiva. Ci sono quindi circa 2,9 miliardi cantierabili in tempi relativamente brevi quando il piano avrà il via libera. Le Regioni del Sud, che potranno contare anche su fondi strutturali Ue e sul Fondo sviluppo coesione (che per l’80% va al Mezzogiorno), hanno presentato valanghe di progetti e sono ai primi posti: la Campania con 2.995 milioni, la Sicilia con 1.937 milioni, la Puglia con 1.444 milioni, la Sardegna con 1.173 milioni, la Basilicata con 968 milioni. Al centro-nord Emilia-Romagna al primo posto per richieste con 898 milioni, seguita dal Veneto con 794 milioni e dalla Lombardia con 647milioni. Per il piano stralcio per le città metropolitane – che costituisce il primo e più urgente step della nuova programmazione - sono invece arrivate al governo proposte per 2.989 milioni di cui progetti per 176 milioni con progetto esecutivo e interventi per 832 milioni con progetto definitivo. Un altro miliardo di opere cantierabili in tempi brevi, quindi. Roma ha chiesto interventi per 755,8 milioni, Genova per 555,4 milioni, Venezia per 485,6 milioni, Napoli per 343,8 milioni, Torino per 186,8 milioni, Firenze per 143,1 milioni, Palermo per 113,7 milioni, Bari per 105,2 milioni, Milano per 87,3 milioni, Messina per 84,6 milioni. 43 Le proposte giunte saranno ora selezionate in base al grado di urgenza e a una gradazione temporale-territoriale-progettuale che terrà conto anche delle effettive disponibilità finanziarie. Gran parte delle risorse del piano settennale dovrebbero arrivare dal Fondo sviluppo coesione (Fsc) che può contare su un totale di 50 miliardi circa per il periodo 2014-2020, in affiancamento ai fondi strutturali Ue e ai relativi cofinanziamenti nazionali (altri 75 miliardi circa). La legge di stabilità 2015 ha previsto che entro aprile sia una delibera del Cipe a pianificare almeno l’80% delle risorse a disposizione e in questo senso il piano idrogeologico sembra prenotare un posto in prima fila perché è noto che Palazzo Chigi considera questo settore assolutamente prioritario. Il vero problema del Fsc resta il cadenzamento negli anni della cassa che sarà messa a disposizione dal Mef e dalla Ragioneria ma anche su questo la delibera Cipe – che nasce per ridurre le “mani libere” avute finora dal Mef e dalla Ragioneria in questa partita – dovrebbe dare indicazioni vincolanti. Intanto ieri il capo dell’unità di missione, Erasmo DAngelis, è stato ascoltato in Senato nell’ambito dell’esame del collegato ambientale. Tre i messaggi forti inviati e le proposte richieste da D'Angelis all’attuale articolato. La prima e più importante è che ai Presidenti delle Regioni nella loro veste commissariale siano affidati tutti i progetti relativi al dissesto idrogeologico a prescindere dal piano e dalla fonte di finanziamento. La seconda questione riguardal’adizonie di un sistema di monitoraggio degli interventi più trasparente. La terza proposta di modifica riguarda le autorità di distretto idrografico che devono diventare anche di punto di raccolta di tutte le informazioni. 44 ECONOMIA E LAVORO del 13/01/15 Pronti gli acquisti Bce si parte con 500 miliardi 0,4% di inflazione in più Insufficienti le operazioni finora attuate. Padoan: “Serve shock” L’intervento sui debiti pubblici durerà fino a settembre 2016 ALBERTO D’ARGENIO QUANDO tra dieci giorni, il 22 gennaio, i governatori centrali della moneta unica raggiungeranno Mario Draghi a Francoforte, daranno vita a una riunione della Banca centrale europea storica. Il presidente italiano della Bce metterà sul tavolo il Quantitative easing, il programma di acquisto di titoli di Stato da parte dell’Eurotower per rilanciare l’economia del continente con il conseguente effetto di riportare l’inflazione intorno al 2%, l’obiettivo fissato dallo statuto e dalla strategia di politica monetaria della Bce. Sarà la prima volta che l’Europa imbraccerà il cosiddetto “bazooka” monetario e l’esito del confronto tra falchi e colombe in seno al Consiglio di Francoforte non è scontato. C’è ancora distanza tra le posizioni di Draghi rispetto a quelle del fronte guidato dal numero uno della Bundesbank, Jens Weidmann. Ma l’ex governatore di Bankitalia tesse la tela del compromesso e il programma dovrebbe avere una portata di almeno 500 miliardi e potrebbe durare fino al settembre 2016. «Deflazione pericolosamente vicina, serve uno shock dalla Bce» chiedeva ieri il ministro dell’Economia Padoan, ribadendo la sostenibilità del debito I dati che spingono Draghi all’azione sono questi: l’economia europea è asfittica, l’inflazione a dicembre è scivolata al - 0,2% e i programmi straordinari varati in autunno dalla Bce fin qui per quanto positivi non saranno probabilmente sufficienti. In primis il Tltro, la concessione di prestiti vantaggiosi alle banche che si impegnano a riattivare il credito per imprese e famiglie ha fin qui piazzato solo 212 miliardi e Francoforte ha dovuto abbassare le previsioni di prestiti agli istituti di credito di quasi un terzo. Inoltre l’acquisto dei covered bond e dei titoli cartolarizzati (Abs) hanno iniettato nel sistema 32 miliardi, troppo poco se proiettati su un periodo di due anni. Per questo la decisione di lanciare il Quantitative easing il 22 gennaio appare scontata. Ma sui dettagli il Consiglio direttivo dovrà discutere. Primo, per pompare 500 e passa miliardi di liquidità nel sistema, Francoforte comprerà solo bond pubblici o anche quelli di imprese private? Posto che la discussione tra governatori dovrà arrivare a un compromesso che potrebbe toccare tutti i tasselli del Qe, al momento l’orientamento sembra quello di acquistare solo bond pubblici, un mercato in grado di assorbire i 500 miliardi dell’Eurotower mentre le grandi aziende hanno già una notevole liquidità e ampio accesso al credito, ragion per cui un loro coinvolgimento si potrebbe rivelare poco efficace. Altro punto, il Qe sarà solo annunciato, non partirà immediatamente. Come minimo ci vorrà qualche settimana per metterlo a punto, ma i governatori potrebbero decidere di allungare ulteriormente i tempi, anche se non di molto. Il nodo centrale resta quello della ripartizione dei rischi legati al programma. Tradizionalmente la Bce agisce in risk sharing, le eventuali perdite delle sue iniziative vengono coperte da tutte le banche centrali della zona euro in percentuali che riflettono la loro incidenza sul capitale della Bce. Ma alcuni istituti centrali potrebbero richiedere che profitti e rischi non vengano mutualizzati. Per questo si ragiona sull’opportunità che siano le singole banche centrali a coprire i rischi dei bond della propria nazione comprati dalla 45 Bce. Insomma, se un paese facesse default, ipotesi al momento decisamente improbabile, sarebbe solo la sua popolazione a farsene carico. Il governatore Ignazio Visco si è opposto a questa ipotesi perché «la frammentazione finanziaria della zona euro potrebbe ampliarsi». Anche la durata del Qe sarà argomento di confronto: potrà durare al massimo due anni, ma anche qui i falchi lo vorrebbero limitare nel tempo. Il compromesso alla fine potrebbe essere di legarlo al Tltro che scadrà nel settembre del 2016, lasciando dunque che l’acquisto dei bond corra per un anno e mezzo abbondante. Sembra poi probabile che i titoli di ciascuna nazione saranno acquistati in base alla partecipazione di ogni banca centrale al capitale Bce: l’Italia è al 17-18% e dunque se alla fine l’Eurotower metterà in campo 500 miliardi una novantina potrebbero essere destinati all’acquisto dei titoli di Stato tricolori. L’Eurosistema ragiona sul possibile impatto del Qe. La speranza è che i colpi di bazooka di Draghi facciano ripartire la crescita portando in su l’inflazione a beneficio dell’economia. Nel migliore degli scenari il tasso di inflazione potrebbe salire dello 0,4%, che si sommerebbe alla spinta (inferiore) del Tltro. Visto che a bocce ferme la Bce prevede che nel settembre 2016 l’inflazione sarà risalita all’1,3%, gli effetti dei programmi straordinari di Draghi potrebbero riportarla intorno al 2%, con un vantaggio sensibile per la crescita. del 13/01/15, pag. 41 Categorie protette, il ritardo italiano La disoccupazione arriva all’80%. È tra il 50% e il 70% negli altri Paesi industrializzati Sono ancora poche le imprese che si fidano di un lavoratore delle «categorie protette» (handicap fisici, psichici o intellettivi, invalidi del lavoro, non vedenti, sordomuti, affetti da alcune patologie, per esempio tumorali). Lo ritengono comunque improduttivo, un costo, un peso morto per l’azienda. Lo assumono di malavoglia solo perché costrette. Un’indagine dell’associazione dei direttori del personale Gidp dice che un’azienda su due non li inserirebbe se non ci fosse l’obbligo della legge 68/1999. La conseguenza è che delle 750 mila persone iscritte alle liste di collocamento obbligatorio, l’80% è disoccupato (negli altri paesi industrializzati la percentuale oscilla tra il 50 e il 70%). Eppure secondo l’Organizzazione internazionale per il lavoro il non impiego delle categorie protette produce una perdita economica valutabile tra l’1 e il 7% del Pil mondiale. Per aiutare le aziende a superare il pregiudizio la multinazionale inglese della ricerca di personale Page Personnel, che ha una divisione specializzata nella selezione di lavoratori con disabilità, ha pubblicato l’e-book «Categorie protette, un grande potenziale inespresso». «Quando un’azienda ci chiede di selezionare un candidato – spiega l’amministratore delegato Francesca Contardi – suggeriamo di non pensare che quel lavoratore debba essere investito di minori responsabilità o possa essere una risorsa di poco valore. Al contrario, le grandi difficoltà che quelle persone hanno dovuto affrontare nella vita, spesso le ha rese emotivamente stabili e mature. Molti di loro, quindi, dirigono gran parte delle energie nel lavoro, diventando una ricchezza, umana e professionale, per l’azienda e i colleghi». Nel panorama di scetticismo aziendale sembra esserci però, in questi anni di crisi, una piccola inversione di tendenza. Secondo Page Personnel le aziende hanno aumentato la richiesta di categorie protette. Un trend che tuttavia non può essere valutato solo positivamente. Le necessità aziendali, infatti, spesso vengono coperte assumendo 46 persone con disabilità solo perché queste, grazie alle agevolazioni della legge, costano decisamente meno degli altri lavoratori. Tuttavia le aziende che hanno fatto quelle assunzioni, restano poi decisamente soddisfatte. Lo conferma il Responsabile risorse umane di Maquet, azienda leader nei sistemi medici avanzati, Piergiorgio Accrocca: «Per noi il ‘diversamente abile è un lavoratore a tutti gli effetti, che fornisce contributi analoghi a quelli degli altri colleghi». «Abbiamo 14 risorse delle categorie protette – aggiunge dal canto suo Joanna Mochi, Talent acquisition di Medtronic – ben inserite in ruoli che vanno dall’assistente amministrativo, al Customer service team specialist, al Sales representative». Enzo Riboni Del 13/01/2015, pag. 6 Strage operaia, prime condanne Schiavi moderni. Pene pesanti al processo per i sette operai cinesi morti nel capannone lager al Macrolotto. Dove lavoravano sette giorni su sette per 50 euro al giorno. La titolare e i gestori della ditta di confezioni Teresa Moda colpevoli anche di omissione dolosa delle leggi antinfortunistiche. Come alla Thyssen Krupp. Riccardo Chiari Almeno in primo grado, la giustizia italiana non ha trascurato la memoria dei sette operai cinesi morti come topi in trappola nel capannone lager di via Toscana al Macrolotto. Lì dove lavoravano sette giorni su sette, e vivevano come schiavi moderni, per essere pagati con 50 euro al giorno. Il processo con rito abbreviato alla titolare e ai due gestori della ditta di confezioni Teresa Moda si è chiuso con la condanna a 8 anni e 8 mesi di Lin Youlan. Mentre la sorella Lin Youli è stata condannata a 6 anni e 10 mesi, e il marito di quest’ultima, Hu Xiaping, a 6 anni e 6 mesi. La giudice Silvia Isidori ha accolto quasi in toto l’accurata ricostruzione della strage fatta dalla procura pratese. Alle accuse di omicidio colposo plurimo aggravato e incendio colposo aggravato, si aggiungevano le reiterate violazioni delle più elementari norme sulla sicurezza. Su questo aspetto, la gup Isidori ha certificato la colpevolezza di Lin Youlin per l’omissione dolosa delle cautele antinfortunistiche. In altre parole la padrona della ditta è stata ritenuta responsabile di aver coscientemente messo a rischio la vita dei suoi operai, per ottenere un maggiore profitto. Come accaduto, ma solo in primo grado, nel processo per l’immane rogo alla Thyssen Krupp. Come evidenziato nella requisitoria del pm Lorenzo Gestri, il capannone dove aveva sede la Teresa Moda non aveva le uscite di emergenza né altri percorsi di fuga. Mancava una rete idrica per l’antincendio, e l’impianto elettrico non era a norma. “E’ molto probabile – aveva spiegato Gestri – che sia stato la causa dell’inizio dell’incendio. Ma se non ci fossero stati i soppalchi non ci sarebbero stati i morti, e non ci sarebbe questo processo. Perché la situazione era di una gravità straordinaria”. Gli operai lavoravano – anche per 16 ore al giorno – mangiavano e dormivano in una struttura con le sbarre alle finestre, e con loculi in cartongesso. Prendere o lasciare. “E non mi si dica che non c’era consapevolezza che i soppalchi erano il luogo più insicuro – aveva puntualizzato il pm – non è un caso che Youli e il marito si siano salvati, e non è un caso che fossero nel luogo più vicino all’uscita, in una stanza realizzata in cemento”. 47 Il processo ai proprietari italiani del capannone è ancora in corso. Giacomo e Massimo Pellegrini, che con una loro società immobiliare affittavano a caro prezzo l’immobile, sono anch’essi accusati di omicidio colposo plurimo aggravato e incendio colposo aggravato. Già in questo processo è stata evidenziata la commistione di interessi tra confezionisti cinesi e immobiliaristi italiani, sempre assistiti da avvocati e commercialisti esperti. E sempre pronti a chiudere gli occhi sulle violazioni della sicurezza. Intanto il difensore degli imputati Gabriele Zanobini annuncia il ricorso in appello: per lui il “sistema Prato” — quello che con enorme fatica le istituzioni e gli investigatori stanno da allora cercando di combattere – non è stato dimostrato nel dibattimento. Del 13/01/2014, pag. 10 La Naspi sarà ridotta nel 2017 ma il Governo la rifinanzierà La nuova prestazione di assicurazione sociale per l’impiego (Naspi) che farà il suo esordio in maggio avrà una durata fino a 24 mesi nei primi due anni di applicazione per poi scendere a 18 mesi nel 2017. E scatterà subito, cioè già da quest’anno, e non più dal 2016, la riduzione del 3% dell’assegno a partire dal primo giorno del quarto mese di fruizione del sussidio. Sempre da quest’anno, poi, scatta il tetto sulla contribuzione figurativa. È con questo accordo che il Governo, ieri, ha inviato alla Ragioneria generale dello Stato il testo finale del secondo decreto legislativo di attuazione del Jobs Act. La bollinatura è arrivata in serata e permetterà la trasmissione del Dlgs alle commissioni Lavoro di Camera e Senato insieme con il gemello che contiene le regole del contratto a tutele crescenti. Anche questo Dlgs, già certificato dalla Ragioneria, contiene alcuni ritocchi e un chiarimento atteso dagli operatori: l’onere della prova in caso di impugnazione di un licenziamento ritenuto illegittimo sarà a carico del lavoratore solo limitatamente alla dimostrazione dell’insussistenza del fatto materiale contestato. Mentre l’articolo sul contratto di ricollocazione è stato espunto dal primo decreto per trasferirlo nel testo del decreto sugli ammortizzatori sociali, che dovrà passare al vaglio anche della Conferenza unificata Stato-regioni. L’intesa raggiunta dopo settimane di confronto tra i tecnici che han lavorato al dossier ammortizzatori è stata suggellata da un impegno politico:?quello di reperire già con la prossima legge di stabilità le risorse che consentiranno di confermare a 24 mesi la durata massima della Naspi. Nella versione attuale la riforma dei sussidi contro la disoccupazione involontaria prevede oneri per 869 milioni quest’anno che salgono a 1,7 miliardi nel 2016 e 1,9 nel 2017 che verranno finanziati utilizzando il fondo da 2,2 miliardi della Stabilità 2015. Le novità rispetto al testo approvato dal Consiglio dei ministri alla vigilia di Natale sono diverse ma tutto sommato di piccola portata, segno evidente che alla fine le stime dei tecnici di Lavoro e palazzo Chigi hanno avuto la meglio. Alla Naspi, ovvero l’assegno mensile di disoccupazione fino a un massimo di 1.300 euro condizionato alla partecipazione dei percettori a programmi di attivazione lavorativa o riqualificazione professionale, si accederà avendo congiuntamente almeno 13 settimane di contribuzione negli ultimi 4 anni e 30 giornate di lavoro effettivo (contro le 18 della prima versione) nei 12 mesi che precedono l’inizio della disoccupazione. Confermato il tetto alla contribuzione figurativa, pari a 1,4 volte l’assegno massimo Naspi, ovvero 1.800 euro circa. Anche l’Asdi partirà in maggio:?l’assegno sperimentale di disoccupazione che scatta a Naspi scaduta per i lavoratori più marginali (previsto l’accesso via Isee) durerà fino a un massimo di 6 48 mesi e varrà fino al 75% dell’ultimo assegno Naspi. Per finanziare questo ammortizzatore, che vale come anello di collegamento con le politiche di contrasto alla povertà, sono stanziati 200 milioni nel 2015 e altrettanti nel 2016. L’Inps prenderà in considerazione le domande Asdi in base all’ordine cronologico di presentazione. Infine la Dis-coll, ovvero la nuova indennità di disoccupazione, sempre sperimentale, per collaboratori fino a 6 mesi e con un tetto a 1.300 euro come la Naspi:?vi potrà accedere chi ha cumulato 3 mesi di contribuzione dal 1 gennaio 2014 ed entro la data della disoccupazione, con in più un mese di contribuzione nell’anno solare in cui si verifica la perdita dell’impiego oppure un rapporto di collaborazione pari ad almeno un mese e che abbia determinato un reddito pari almeno alla metà dell’importo (650 euro) che dà diritto all’accredito di un mese di contribuzione. Una modifica, e due chiarimenti tecnici, hanno riguardato anche il Dlgs con la disciplina del nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti per i neo assunti. Il braccio di ferro con la Ragioneria ha portato a specificare nel provvedimento i costi della conciliazione “rapida” per evitare il contenzioso. Il Dlgs prevede infatti che la somma (da 1 mensilità fino a un massimo di 18 mensilità) che il datore offre al lavoratore è completamente esentasse. A differenza di oggi, dove le somme accettate in conciliazione Fornero sono soggette a imposizione fiscale. Ebbene, per quest’anno, le minori entrate previste sono state conteggiate in 2 milioni, che salgono a 7,9 milioni per il 2016, 13,8 milioni per il 2017, fino ad arrivare a 37,2 milioni a decorrere dall’anno 2014. Anche qui la copertura arriverà dal fondo di 2,2 miliardi per il 2015, 2,2 miliardi per il 2016 e 2 miliardi per il 2017 previsto nella legge di Stabilità appena approvata. Un chiarimento importante è arrivato poi sul fronte dell’onere della prova, che resta a carico del datore rispetto «alla legittimità del motivo addotto per il licenziamento», mentre passa in capo al lavoratore solamente «rispetto all’insussistenza del fatto materiale contestato» (l’unica fattispecie dove rimane in vigore la tutela reale). Oggi, spiega Arturo Maresca, ordinario di diritto del Lavoro alla Sapienza di Roma, «è il datore che deve provare la sussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o soggettivo. Da domani invece la dimostrazione diretta ai fini della reintegra spetterà al lavoratore perchè, in concreto, chiede qualcosa di più rispetto al regime ordinario della tutela monetaria». L’altro chiarimento fornito dal Governo è quando si ha diritto all’indennizzo minimo (4 mensilità) per evitare licenziamenti nella prima fase del contratto a tutele crescenti. E cioè: «Nel caso in cui il rapporto di lavoro abbia una durata inferiore ai 2 anni». 49