la mia vita appartiene a voi
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la mia vita appartiene a voi
GIORNATA DI PREGHIERA E DIGIUNO IN MEMORIA DEI MISSIONARI MARTIRI 24 MARZO 2010 la mia vita appartiene a voi (Oscar A. Romero) da l’animatore missionario n° 1/10 a cura di MISSIO •organismo pastorale della CEI presentazione Un filo ideale lega ogni 24 marzo al 24 marzo 1980: la celebrazione annuale di una Giornata di preghiera e digiuno in memoria dei missionari martiri ha preso ispirazione dal martirio, in quella data, di mons. Oscar Arnulfo Romero, Arcivescovo di San Salvador. Trent’anni esatti dunque ci separano da quell’episodio emblematico, ma non unico. Non unico. Occorrerebbe dire “purtroppo”: ogni martirio, ogni uccisione, ogni assassinio porta con sé il sapore amaro della prevaricazione, dell’ingiustizia, dell’arbitrio, delle peggiori realizzazioni umane. E porta con sé la frase illuminante di Gesù sulla Croce: “non sanno quello che fanno”. Il ripetersi fin troppo frequente di episodi di martirio tra i missionari e tra i cristiani rinnovano dolore, smarrimento, talvolta anche paura e rabbia. Eppure ogni martirio cristiano appartiene alle “beatitudini” di Gesù: “Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia” (Mt 5,11). La beatitudine è certamente proclamata di fronte a Dio e a favore del singolo martire, ma non vi resta estranea per la comunità che si sente privata di un fratello, di una sorella. Difficile pensare di essere “beati” in quei frangenti. Però sul seme di Romero, come su quello dei martiri cristiani antichi o contemporanei, ogni comunità cristiana ha ritrovato anzitutto il senso profondo della vita secondo il Vangelo e spesso il coraggio di una memoria attiva, non rassegnata, capace di continuare il cammino con uno slancio migliore. “La mia vita appartiene a voi”. Romero ha vissuto la logica di una vita ricevuta che si trasforma in vita donata: una logica in verità normale, quotidiana, per tutti i discepoli di Gesù. Anche noi – singoli e comunità cristiane – non vogliamo solo ricordare i missionari martiri, tra cui annoveriamo amici fraterni, ma vedere in loro il totale affidamento a Colui che per primo ha dato la vita per noi. don Gianni Cesena gli AMMALATI e i SOFFERENTI • ad unire ed offrire la loro sofferenza in memoria delle missionarie e dei missionari uccisi per l’annuncio del Vangelo, per sostenere il lavoro apostolico di quanti operano in ogni angolo della terra e per chiedere al Signore il dono di sante e numerose vocazione missionarie; • a sottoscrivere l’atto di offerta della sofferenza; i GIOVANI • A visitare, singolarmente o in gruppo, l’ospedale, una casa di riposo, il carcere, gli ammalati o anziani soli in casa, un campo Rom, etc.; • a donare il proprio sangue; • ad offrire l’offerta del digiuno per sostenere il progetto di solidarietà proposto da Missio. “Con la loro testimonianza illuminano il nostro cammino spirituale verso la santità, e ci esortano a dedicare la nostra vita come offerta d’amore a Dio e ai fratelli”. Benedetto XVI INDICAZIONI PER LA CELEBRAZIONE DELLA GIORNATA INVITIAMO: le COMUNITA’ parrocchiali e di vita consacrata, i seminari, i noviziati • ad utilizzare la veglia, la via crucis, l’adorazione eucaristica, per vivere momenti di preghiera non solo il 24 marzo ma anche nei giorni precedenti o successivi; • a creare in Chiesa l’angolo del martirio utilizzando una croce, un drappo rosso (che potrebbe essere esposto anche davanti alla porta principale), un ramo d’olivo con i nomi delle missionarie e dei missionari uccisi; • a suonare le campane alle ore 15,00 del 24 marzo per invitare alla meditazione sul sacrificio di Cristo e delle tante donne e uomini di buona volontà; • a piantare un albero per fare memoria di quanti hanno dato tutto per amore; le FAMIGLIE • ad accendere un cero rosso sul davanzale della finestra o ad esporre un drappo rosso, non per folklore ma per una memoria visibile del tempo che stiamo vivendo; • a compiere un gesto di riconciliazione: tra marito e moglie, tra genitori e figli, tra fratelli e sorelle, tra vicini di casa, tra membri della stessa famiglia, etc.; • ad offrire l’offerta del digiuno per sostenere il progetto di solidarietà proposto da Missio; LA MIA VITA NON APPARTIENE A ME, MA A VOI (Oscar A. Romero) Era questa la frase che citava spesso mons. Oscar A. Romero, Vescovo di San Salvador, nel piccolo stato centroamericano di El Salvador. "Sono spesso stato minacciato di morte... Come pastore sono obbligato, per mandato divino, a dare la vita per coloro che amo, che sono salvadoregni, anche per quelli che mi vogliono uccidere. Il martirio è una grazia di Dio che non credo di meritare. Ma se Dio accetta il sacrificio della mia vita, possa il mio sangue essere semente di libertà e segno che la speranza sarà presto realtà. Se è accetta a Dio, possa la mia morte servire alla liberazione del mio popolo. Perdono e benedico coloro che ne saranno la causa... perderanno il loro tempo: morirà un Vescovo, ma la Chiesa di Dio, che è il popolo, non perirà mai”. La chiara coscienza che la sua vita non era sua, rimbalza da una frase all’altra di questo suo testamento spirituale, perla del suo essere ed esistere per la Chiesa e il bene comune, appunto la vita piena. Sono passati ormai 30 anni, da quando quel 24 marzo 1980, Mons. Romero venne ucciso da un sicario con un colpo al cuore mentre stava celebrando l' Eucaristia nella cappella dell' ospedale della Divina Provvidenza. Nell' omelia aveva ribadito la sua denuncia contro il governo di El Salvador, che aggiornava quotidianamente le mappe dei campi minati mandando avanti bambini che restavano squarciati dalle esplosioni. Oggi vogliamo ricordare non solo un martire, ma la nostra stessa provenienza, la radice del nostro esistere: veniamo dalla vita, viviamo nella vita e non possiamo possederla, siamo destinati a lasciarla e a donarla pienamente, a tutti. Quando Mauricio Funes è stato eletto presidente de El Salvador, nel suo discorso ha citato il "suo maestro e guida spirituale" Mons. Romero e quando ha fatto il suo nome è scattato un applauso liberatorio, tutti in piedi e con le lacrime agli occhi. Il ricordare produce sempre lacrime, tristezza, ma anche tanta gioia soprattutto per chi rimane, per chi vive ancora la fatica del dover lottare con chi vuole calpestare i diritti elementari della vita. Chi rimane ha più speranza sapendo che qualcuno ci ha creduto davvero e ha dato la sua vita per questo ideale di giustizia, di pace, senza paura, sapendo che con questo esempio altri potranno avere la forza di continuare a lottare. Ancora oggi piangiamo e soffriamo se ricordiamo chi è morto credendo nel valore essenziale della vita, dono prezioso per tutti, e si mette in prima fila per lottare contro chi la vuole sopprimere. Uno si rende conto così di appartenere alla vita di tutta l’umanità e di dover agire secondo il valore supremo della vita: donarla. Ricordare che Romero è stato ucciso sicuro e convinto che la vita non apparteneva a se stesso ma all’umanità ci fa riflettere ed è per questo che si piange, si pensa, si parla uno con l’altro quasi a cercar certezze, quasi a voler accertarsi che è proprio così: il bene è stato ucciso. Il bene viene ucciso. Ogni volta che qualcuno in nome di questo bene muore, sentiamo anche noi che la nostra vita non ci appartiene, che potrebbe esserci tolta da un momento all’altro se agiamo in nome di questo bene che è la vita, il benessere per tutti. Sono ancora molti quelli che muoiono in nome di Cristo, offrendo la loro vita a causa della fedeltà al Vangelo. Essi, apparentemente perdenti agli occhi del mondo, sono beati agli occhi del Signore che ne assicura la ricompensa nei cieli. (cfr. Mt 5,11-12). Paolo di Tarso ci ha fatto conoscere, servendosi delle sue molte lettere, i numerosi disagi affrontati per amore di Cristo; persecuzioni, catene, percosse di ogni tipo, fatiche, veglie, digiuni, freddo, nudità… (cfr. 2Cor 11, 23-32). Egli è convinto che “Né morte, né vita, né angeli, né principati, né presente, né avvenire, né potenze, né altezze, né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù nostro Signore” (Rm 8,38-39). E’ consapevole, però che “Come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione” (2Cor 1,5). Al termine della sua vita, quando si trova in carcere a Roma, Paolo dà ancora più forza alle sue determinazioni “sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch' essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna. [...] Se moriamo con Lui, con Lui anche vivremo” (2Tim 2,10-11). Ed esorta i suoi discepoli ad annunziare la Parola, insistendo al momento opportuno e non opportuno, a vigilare attentamente, a sopportare le sofferenze per portare a compimento l’opera di annunciatore del Vangelo. Con verità e serenità, Paolo può affermare: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno” (2Tim 4, 1.8). Per la riflessione personale e di gruppo: • "La nostra vita non appartiene a noi", ma quante volte la sete di possesso ci ha spinti a sentirci padroni assoluti del nostro corpo e della nostra vita fino al punto di fare scelte egoistiche tali da negarci la gioia di vivere in comunione con gli altri e con tutto quello che ci circonda? • Quali volti, quali fatti, quali parole ci scuotono dal torpore e risvegliano in noi la speranza di pace e di giustizia per tutti gli uomini e le donne? • "Se moriamo con Lui, con Lui anche vivremo". La morte non è solamente la fine di tutte le nostre attività cerebrali, ma è anche la libertà da tutte le zavorre che appesantiscono la nostra vita e ci impediscono di annunziare la Parola "insistendo al momento opportuno e non opportuno”.