Diario di un cercatore di funghi
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Diario di un cercatore di funghi
Diario di un cercatore di funghi Il manoscritto gli capitò fra le mani rovistando tra le vecchie carte di suo padre. Conosceva la sua passione e a volte ne aveva condiviso le uscite lungo le rive del Ticino. Ma non immaginava un diario a futura memoria, lui tanto schivo; addirittura con delle ricette, poi. Era stato un magistrato severo, intransigente, per tanti anche antipatico. Ora mostrava aspetti che la figlia, nemmeno lei, aveva mai colto. Fu una buona lettura e una scoperta piacevole. Fu contenta di far partecipare alcune pagine di quel diario ad un concorso ecologico. Le pagine erano quelle che i topi avevano risparmiato, frammentarie di necessità, come segnate da un’accidentale casualità. Suo padre avrebbe, forse, approvato. Di certo ai topi il testo era piaciuto, almeno la parte mancante. Data illeggibile rovinata da una macchia umida, di acqua forse L’argine, a Pavia, comunemente inteso senza bisogno di altre specificazioni, protegge cascine e campi dalle piene del Ticino; in Borgo, cioè sulla sponda destra del fiume, s’incunea tra Ticino e Po nella zona di San Martino Siccomario (sicut mare: qualcuno dice fosse così chiamata quella zona in cui le acque spesso vincono la terra); quell’argine appunto, dalla parte del fiume, è lambito dal letto di un vecchio canale, asciutto per gran parte dell’anno, paludoso e pestifero quando il Ticino o il Po o assieme tracimano o crescono di livello per le piene. Il fondo di questo canale dalle caratteristiche anfibie è un intrico di vegetazione rigogliosa, ordinata a tratti in filari di salici avviluppati dai rovi, dal luppolo selvatico, ma spesso disordinata e marcescente con l’acqua; giunglesca e quasi impenetrabile all’uomo nei periodi di asciutta. E’ il regno del milò (forse da milord, per l’eleganza forse della livrea), l’anaconda della Pianura Padana che le leggende popolari assicurano avere un morso non velenoso, ma dal quale non ci si può liberare. La primavera, se le piene lo permettono, si può scendere nel fondo del canale. Rovi, sambuco e luppolo selvatico (i vertiss) con cui si preparano minestre, risotti e frittate, infatti non ne hanno ancora ostruito i passaggi. Girovagando per l’argine sul sentiero che domina i campi da un lato e la boscaglia di ripa dall’altro, si possono scoprire quei salici morti e spelati ricoperti da strana fioritura: dal tronco, dai rami, dai ceppi, dalle radici, addirittura affioranti dal terreno spuntano a frotte funghi grigiastri, dal cappello ancora chiuso al gambo; poi, man mano che si aprono, il grigio nerastro si frantuma in scaglie diffuse, lasciandosi dominare dal biancastro del fondo. A cespi, come fiori, unici fiori di una primavera appena iniziata. E’ il Lentinus tigrinus. I testi lo danno non commestibile per la carne coriacea, ma i giovani esemplari sembravano abbastanza teneri da sperimentarne il gusto. Trascrivo la ricetta, da me sperimentata, di gusto gradevole e forse l’unica possibile per rendere piacevole a tavola un fungo dalla consistenza quasi legnosa. Il tigrino in rosa Si mettono a bollire i funghi interi, dopo averli ben lavati, in acqua e aceto ( tre parti di acqua e una d’aceto). Dopo un quarto d’ora si scolano, si mettono sopra un panno ad asciugare ( per una notte), poi si invasano alternandoli con anelli di cipolla e spicchi d’aglio; si copre il tutto con aceto di buona qualità; sopra, un filo d’olio. Dopo un mese sono pronti; la carne ha assunto una delicata tinta rosa e s’è ammorbidita. Si servono come accompagnamento a bolliti, messi, mezz’ora prima di servirli, scosso l’aceto, in un pinzimonio d’olio e prezzemolo trito. 7 aprile Argine Negli stessi luoghi in cui cresce il Lentino tigrino, a distanza di poche settimane, spunta un fungo che non tutti conoscono, la Mitrophora hybrida. Ha un aroma spermatico ed un buon gusto, con un cappello a mitra papale, di colore bruno, trapuntato di alveoli, il gambo dalla consistenza cerosa, sottile ma tenace. Tra l’argine e il letto paludoso del canale dove crescono i salici si snoda un sentiero, sgombro di primavera per il trapestio dei contadini che scendono a far virgulti con i rami giovani dei salici e dei raccoglitori di cime di luppolo, in quella zona particolarmente abbondanti; d’estate l’erba e i rovi riconquistano il sentiero e lo rendono quasi impraticabile fino all’inverno. Ai lati di questo passaggio provvisorio il terreno, ancora zuppo di umori, si ricopre di svelte e sferzanti ramaglie di bosso; in mezzo, da guadagnarle a fatica, crescono le mitrofore. Spuntano anche sull’altra riva del canalone per chilometri e chilometri verso il Po, e non solo tra i bossi, ma anche sul nudo terreno che scende verso il fondo del canale, là dove la riva è stata rinforzata da olmi, pioppi e sambuchi, in particolare dove le erbacce e i rovi non soffocano la terra. E’ una ricerca testarda, a schiena china, vigile, perché il fungo è molto piccolo. Bisogna sapere quello che si vuole trovare; difficilmente vi ci si imbatte a caso. Unico indizio per l’occhio esperto il biancore del gambo che annulla il perfetto mimetismo del cappello. A casa si lavino con cura: negli alveoli si rintana la terra e ogni tipo di animaletto attratto dal penetrante profumo. Penne con cappelli da prete Fate sciogliere il burro in un padellino e gettatevi i funghi ben lavati, interi. Quando avranno consumato l’acqua di vegetazione, bagnare con poco vino bianco secco. Evaporato il vino, aggiungere poca acqua e il giusto sale. Scolare, poi, la pasta, versarla in una zuppiera calda in cui si sarà fatto sciogliere del burro, mescolarla con prezzemolo trito e sugo di funghi. Servire, a parte, per chi vuole, con grana padano. Consiglio un fresco Pinot dell’Oltrepò pavese. Fine aprile Il Ticino è un fiume mutante, dalle tante risorse. In alcuni tratti gli ontani e i salici sfiorano l’acqua, in altri la sponda è una pietraia senza vita vegetale se non nel ricordo bituminoso di zolle di torba, nere fra i sassi, in altri ancora si apre a lambire praterie d’erba; l’anno dopo, quando torni, non trovi gli alberi e il verde della vegetazione è disseminato di dune sabbiose in cui i conigli scavano le tane e, dove la corrente vorticava mulinelli ribollenti, scopri le erbacce e la rosa canina a rivendicarne il possesso. E pensi. Pensando appunto, mentre aprile scalda la schiena, si può raggiungere Torre d’Isola. Il centro del paese, diventato in pochi anni zona residenziale di prestigio, è costituito da un bar, il municipio con ufficio postale e farmacia, la magnifica villa signorile, un negozio, una tenuta e il monumento ai caduti. Il parco della villa s’affaccia su un’ansa del Ticino, con una vista emozionante. Solo per chi sa, alla fine del paese, di fianco alla vecchia corte della tenuta , parte un sentiero che porta alla curva del fiume da una parte e dall’altra, attraversato un corso d’acqua, a boschi e praterie che accompagnano il corso del Ticino, ma più avanti. Seguendo il sentiero, ma puntando, poi, al fiume si arriva ad uno stabilimento balneare di rustica semplicità: un capanno d’assi, un tavolaccio, rozze ma confortevoli panche, uno spiazzo erboso aperto fra i cespugli e dossi di sabbia fine emergenti dalle magre estive, meta ai bagnanti; davanti il Ticino, largo e veloce. Sono i ragazzi dei dintorni che l’hanno predisposto e lo tengono curato, invitando i fruitori di passaggio ad usarne, con il solo obbligo di tenerlo pulito. E’ stato così, curiosando tra l’erba e i cespugli che lo circondano che ogni anno, puntualmente, in aprile, trovo funghi copiosi, a gruppi. La prima volta fui subito certo: Entolomi, per le lamelle rosate, quasi certamente clypeatum, per l’habitat, la stagione, la forma. La consultazione, a casa, dei testi, confermò l’ipotesi formulata sul campo: sembrava proprio lui. Per scrupolo scorsi gli altri Entolomi: un altro era molto simile, l’aprile. Dalla descrizione e dalle osservazioni a fine pagina l’unica differenza di rilievo sembrava legata al colore del gambo, bianco sporco per l’una specie, con fibrille grigie per l’altra. A rigirare il gambo fra le mani non capivo il limite, non era chiara la differenza. Ne controllai la commestibilità: ottimo l’uno, buono l’altro. Ero disposto a sorvolare sulle divisioni scientifiche. Sempre per scrupolo sfogliai i volumi di altri autori. L’aiuto non fu decisivo alla determinazione, ma sollevò un problema d’altro tipo: un autore considerava l’aprile leggermente tossico. Non lo assaggiai quella volta né provai gli altri anni. Aumentarono i volumi a mia disposizione, crebbero gli Entoloma descritti e s’insinuò il sospetto di una sistematica provvisoria e incerta, mutante nel tempo, un po’ come il fiume sulle cui sponde crescevano. Da allora, quando mi muovo in primavera, è fungo che mi viene incontro, in maniera quasi spudorata, invitante. Di recente, sull’altra sponda, in un vecchio campo militare abbandonato, nelle radure erbose in mezzo ai biancospini ho incrociato cercatori che ne avevano le borse piene. Non ho voluto chiedere se li mangiassero, per rispetto al dubbio. Maggio. Le gambesecche Quando i casi della vita mi portarono ad abitare a Pavia scoprii la gambasecca (Marasmius oreades), che qui chiamano sabbiarö perché predilige il terreno fresco e sabbioso dei lungofiume, degli argini, dei depositi fluviali. Cresce, se le condizioni lo permettono, anche in primavera, da maggio a tutto giugno, per continuare per tutto l’autunno. E’ un minuscolo funghetto, dal cappello bruno, ma che l’umidità o il secco fanno variare dal marrone cioccolato al beige chiaro, con la particolarità costante del gambo tenace e del profumo quasi mandorlato. Cresce a gruppi in mezzo all’erba dei prati, degli incolti, in particolare lungo i sentieri di campagna, ai lati delle carraie e fra l’erba in mezzo. Se cresce dal lato destro è molto probabile che non cresca da quello opposto o viceversa e non chiedetemi la ragione. Spunta lungo gli argini, le sponde dei fiumi e dei torrenti, le aiuole cittadine, i parchi erbosi, i cortili dei caseggiati signorili con giardino, ovunque insomma cresca dell’erba. Non è mai solo, ma a gruppi numerosi, molto spesso organizzato in circoli, a volte in lunghe strisce, sia tra l’erba alta che sui prati rasati. Dove il micelio fruttifica il verde è molto più intenso e scuro. La raccolta deve seguire alcune semplici regole, per essere proficua e certa: a) non ramazzare, una volta individuato un gruppo di funghi, tutto quello che cresce attorno, senza analizzare, al momento della raccolta, ogni singolo esemplare: accanto e con le gambesecche spuntano sui prati alcuni altri piccoli funghetti che possono essere molto pericolosi b) la raccolta singola permette anche di coglierli e pulirli subito, spezzando parte del gambo, una volta individuato con certezza che si tratti del nostro, per evitare di raccattare, con i funghi, anche erba, terriccio e, quel che è peggio, sabbia che si infilerà tra le lamelle rendendone la pulitura, a casa, difficile e fastidiosa e mai sicura; per cui spesso capita, al momento di gustarli, di sentirne stridere tra i denti i granelli: il che non è piacevole. c) armarsi di pazienza: è raccolta da pensionati, con ritmi lenti e rilassati, da seduti, spesso, e per farne un piatto dignitoso sono necessari parecchi esemplari. Risotto e gambesecche Si procede alla preparazione di un risotto allo zafferano. Intanto si fanno rosolare i funghi nel burro, interi per non perdere consistenza e aroma, con la parte superiore del gambo, tenace ma gustoso. Si salano e , quando l’acqua di vegetazione sarà stata assorbita, si aggiunge poco vino. Alla fine prezzemolo trito. Si allargherà nel piatto il risotto arrivato a cottura, lasciando uno spazio al centro che verrà riempito da alcune generose cucchiaiate di funghi e sughetto. Del parmigiano, per chi vuole. Si accompagni con Lambrusco gelato, naturalmente secco. (senza indicazioni) Introdurre la categoria della simpatia nella ricerca dei funghi può sembrare folle, ma non riesco a definire in modo diverso l’impressione che il piopparello esercita su chi lo vede per la prima volta: genera simpatia, forse per il lungo gambo bianco e per il cappello di un morbido color tabacco (dai toni chiari fino a scuri), grinzoso ma baldanzoso. Il piopparello o pioppino è gran fungo, resistente alla cottura, sempre crocchiante, mai viscido e inconsistente, dall’aroma penetrante e armonico. Appare a maggio, continua la crescita a giugno, ricompare rigoglioso a settembre, ottobre e novembre, purché le condizioni di umidità e tepore o almeno non di gelo permangano. Cresce su legno degradato, ma soprattutto vivo, in particolare di pioppo. In pianura padana il termine dialettale è anche gabarö, termine con cui viene anche definito il chiodino; questo genera dispute e discussioni, considerata la differenza organolettica dei due generi: di gran lunga migliore il piopparello come gusto, consistenza, adattabilità alle varie combinazioni culinarie, per chi vuole anche simpatia. Cresce sempre, nelle varie stagioni, sugli stessi ceppi e alberi vivi per cui, individuata la stazione di crescita, dopo ogni pioggia, se ne può fare una buona raccolta; tanto più che spunta a mazzi di parecchi esemplari nel cavo dei ceppi e nelle ferite della corteccia degli alberi. Un’essenza che privilegia è il pioppo piramidale, albero altissimo che fiancheggia spesso i viali d’accesso alle cascine lombarde, quello per intenderci della piccola vedetta lombarda; e lo si trova in basso, ma anche a diversi metri da terra. Per la raccolta è bene munirsi di un coltello; cresce infatti inserito profondamente nel substrato legnoso e, a volte, è complicato coglierlo a mani nude senza rovinarne il cappello. Altre zone dove si può trovare sono le rive dei fiumi dove resistono alla sconsideratezza dell’uomo enormi pioppi spontanei. Quasi sempre il micelio, anche nei tronchi meno malati, avrà trovato un modo per infiltrarsi e allora si potranno scoprire, anche a centinaia, le brune capocchie del fungo. La base del tronco, tra le radici, è habitat eccellente. Sempre in riva al fiume i vecchi pioppeti rovinati dalle piene e lasciati inselvatichire sono ottimi posti. La loro simpatia resta tale anche in tavola: in umido, al funghetto, come accompagnamento a carni che esigono lunga cottura, nei sughi, sott’olio, sono eccellenti, di bell’aspetto e di resa e gusto di alto livello. La ricetta che propongo me l’ha suggerita un usciere del tribunale, nativo del sud, della Campania. Si parlava di funghi e il discorso cadde sui piopparelli. Scoprii che a lui era specie nota non perché vivesse da anni ormai nel vigevanese: li conosceva da quand’era ragazzo. Raccontò che al paese suo, in provincia di Avellino, si sposava la vite con il pioppo piramidale e da sempre il piopparello veniva raccolto, al tempo della vendemmia, usando le scale e riempiendo ceste con grappoli e cestini con funghi. Pizza al piopparello Si predispone tutto per la pizza Margherita, non eccedendo nel sugo di pomodoro, anzi usando solo quel poco che serve a colorare la pasta, mozzarella abbondante e funghi crudi, tagliati a fettine sottili. S’inforna e si serve con birra fresca. Il ciclo è di circa 21 giorni e qualcuno, anche in condizioni difficili, spunta sempre. Ogni albero, come ogni donna, ha un suo calendario, a volte sfasato da quello degli altri, a volte sincrono. Li ferma solo il gelo, il vento e un’aridità prolungata: nella parte del ceppo riparata dal fosso alcuni anni fa li ho raccolti il giorno di Natale. Il gusto varia con le stagioni, con l’esposizione al sole, con l’umidità, con il substrato di cui si alimentano. Migliori in primavera ed autunno; troppo profumati in estate e di vita breve, presto verminosi; poco saporiti in tardo autunno e in inverno. Esili nel cavo degli alberi, di gambo lungo e cappello stretto; larghi e spessi quelli che spuntano rosicchiando le piante alle radici, ma non troppo numerosi. 8 settembre, sul Ticino nei pressi della baracca del vigile La mazza da tamburo (Macrolepiota procera) è un fungo molto conosciuto, apprezzato e abbondante, così vistoso quando cresce da essere raccolto indiscriminatamente senza estenuanti ricerche. Nei dintorni di Pavia spunta nei boschetti di robinie, fra i rovi e le ortiche, raramente nei prati, a volte lungo i fossi. Cresce poi frequentemente lungo le rive del Ticino, nel territorio del Parco, nei boschetti riparii, tra roveri e biancospini, sul terreno sabbioso, accidentato, tipico della sponda del fiume. E’ altissimo rispetto agli altri funghi, con portamento svettante e altero; al termine del longilineo gambo, circondato da un mobile anello, si apre un cappello vasto come un ombrello, bruno grigiastro presto squamato come un lebbroso, a scaglie scure e irregolari. Lo ritengo un fungo sorprendente perché mi coglie sempre alla sprovvista. E’ un’impressione, probabilmente solo mia. Raramente lo noto per primo: è come se da tempo lui fosse lì a spiare me, con il capo che emerge dai bassi cespugli, come la testa di un brontosauro. A volte li cerco, parto col proposito di trovarli e fallisco; quando non me ne curo, sono concentrato su altre specie, eccoli attorno come se mi accerchiassero, sottili sulle lunghe gambe, curiosi come giraffe. Spesso, chino nell’intrico della sterpaglia, a maledire rovi e spine in cerca di chiodini, sento prudere la schiena come succede quando qualcuno ti guarda fisso alle spalle: sono loro, dietro di me, in lunghe file, aperti e chiusi, e potrei giurare che venivo da dove sono loro adesso e che non li ho notati prima… o forse prima non c’erano. D’autunno a Bereguardo I boschi riparii sono quanto di meno monotono e scontato io abbia esplorato; quelli del Ticino, poi, che sono quelli che conosco meglio, sono una vera miniera di novità e sorprese. Un amico un giorno mi disse che quello che m’avrebbe mostrato era così curioso da scommettere che sarei rimasto veramente stupefatto. Era un altro mistero dei favolosi boschi di Bereguardo. Prendemmo il sentiero che costeggia il fiume. Ad un certo punto, ad una biforcazione, voltammo in direzione della zona chiamata Bosco bruciato, ricordo di un vecchio incendio. Arrivammo fin dove il sentiero scavalcava un fossone. L’amico si diresse alla sua destra e mi mise all’erta: eravamo vicini. Poi successe. Ero partito da Pavia in direzione Bereguardo, costeggiando il Ticino e all’improvviso mi trovavo catapultato in Estremo Oriente, nella foresta equatoriale di bambù che ricordavo avere visto solo al cinema, in Apocalypse now. Non sto parlando di una macchia di giovani alberelli, ma di un lembo di foresta di enormi bambù, grandi come pioppi, con tronchi in sfacelo e giovani virgulti che spuntavano dal terreno: incredibile! Ricordo di essermi guardato in giro per paura che apparisse qualche tigre. Più in là, di botto, la fine del sogno, improvvisamente com’era iniziato, e di nuovo querce, carpini, noccioli selvatici, robinie e sambuchi. In alcune zone ricordo di essermi imbattuto con stupore in oasi di castagneto puro, da perdere l’orizzonte; a volte nei pini; talora in noccioleti così densi da dover avanzare proni; o in querceti così vecchi da far pensare di essere tornati indietro nel tempo e di trovarsi di fronte qualche druido solennemente impegnato nei suoi riti; o in slarghi improvvisi, da savana africana, con l’erba alta e arsiccia attorno a rade e maestose piante da cui poteva spuntare il capo dell’antilope o il cui silenzio poteva essere rotto dal ruggito del leone. Questa è la boscaglia del Ticino: imprevedibile, diversa, coloniale. In questo habitat cresce il Boletus badius. Si riconosce per la tinta del cappello color cioccolato, calda e forte, vellutato e non vischioso; pori giallastri, poi giallo verdastri, che si tingono di blu scuro a toccarli; gambo slanciato, ma a volte anche tozzo, bruno giallastro. Spunta, nei boschi del Ticino, nei tratti dove domina la quercia, di solito molto vicino all’albero, ai piedi del tronco, nei siti più aperti, anche se non disdegna il sottobosco fitto di pruno e biancospino. E’ difficile da scoprire, molto difficile; i toni che si mimetizzano perfettamente con il caldo colore delle foglie morte e del terreno e l’aspetto non imponente lo proteggono alla vista. Buon commestibile, pur appartenendo ad una famiglia propriamente diversa da quella dei boleti, per compattezza della carne e gusto. Buoni i risultati all’essiccamento, anche se la tarda stagione ne rende la pratica incerta. Pasticcio di patate e funghi Lessare le patate. Intanto pulire rapidamente i funghi, affettarli e buttarli in un tegame in cui si è fatto sciogliere del burro profumato con uno spicchio d’aglio. Appena l’acqua di vegetazione sarà stata assorbita, salare e spegnere. Controllare che le patate siano lessate al dente; scolarle, pelarle e lasciarle raffreddare. Preparare una besciamella piuttosto liquida – se potete evitate quelle già pronte, sarebbe meglio e ogni tanto ne vale la pena -. Ungere col burro il fondo e i fianchi di una teglia. Affettare le patate e sistemarne uno strato nella teglia. Salarle e coprirle con parte della besciamella. Stendervi sopra uno strato di funghi. Ripetere l’operazione con altre patate, pepe, ancora besciamella, ancora funghi. Terminare con le patate e con la besciamella restante. Infornare e ritirare quando in superficie si sarà formata una leggera crosticina dorata. Servire con il vino rosso che preferite. 27 ottobre, Vigna del Pero Ci sono giorni in cui la nebbia è così fitta che non ci si vede e anche il senso dell’udito, da solo, si confonde. Ero sceso per il sentiero che porta ai boschi del Ticino nei pressi del cavalcavia sotto cui passa l’autostrada Milano – Genova. Accanto al fiume si stende la boscaglia verso cui ero diretto. La mattina era umida e nebbiosa. Dalla strada al Ticino ci sarà un chilometro di sentiero scivoloso, in pendenza, piuttosto malagevole. Con gli stivali dovevo fare attenzione a dove mettevo i piedi per non trovarmi col sedere per terra; per questo non avevo fatto caso alla nebbia la quale, man mano che scendevo, diventava più spessa. Ad un certo punto avevo preso una biforcazione per costeggiare il fiume e non arrivarci di fronte. E improvvisamente avvertii la nebbia. Sembrerà ridicolo ma ne percepivo lo spessore quasi al tatto. Non si vedeva proprio nulla se non un grigiore diffuso, umido e pesante. Mi girai per capire se riuscivo a distinguere qualche punto di riferimento, poi mi rigirai, mi voltai ancora, inquieto e mi sentii perduto, smarrito. Non sapevo più da dove ero venuto, dov’era il fiume, dov’era l’autostrada. Fu un momento di panico primordiale. Mi venne in mente il film “Amarcord”. … il nonno esce di casa e si perde nella nebbia fatti pochi metri. Provai a calmarmi e a riflettere: mi sarei orientato con i rumori: il fiume o le auto; udivo la corrente dell’uno e il brusìo del flusso delle altre, ma sembravano venire da ogni punto cardinale, con la stessa intensità. Provai a sorridere: nessuno s’era perso mai in Pianura padana, alle 8 di mattina, a poche centinaia di metri da strada e abitazioni. Ma il senso di smarrimento, interiore e cosmico, mi sconcertava. Udii distintamente dei passi. Mi sentii sollevato. Era un lavorante che regolava le acque dei fossi. Gli confessai di essermi perduto. Fu gentile e per niente meravigliato:“ Succede più spesso di quanto non si creda” disse e m’indicò la direzione del fiume, del cavalcavia e della strada da cui ero venuto. Non avevo quasi più in mente i funghi, ma nello stesso tempo l’ansia era passata; ero di nuovo tra gli umani e non sospeso tra cielo e terra. Comunque mi tuffai tra ombre di tronchi che mi si erano parate davanti e come per incanto la nebbia cominciò a dissolversi. Da dentro la boscaglia la si poteva percepire come esterna, quasi fosse una muraglia che proteggesse l’ignoto con un potente effetto di straniamento. Il fitto della macchia era luogo sicuro, certo ed affidabile; le cose a cui normalmente mi ancoravo erano diventate impalpabili, incerte. Fu così, guardando a terra per non smarrirmi, che scopersi una colonia interminabile di Clitocybe nebularis. Mi rendo conto che l’aggettivo interminabile può sembrare ridondante, letterario, ma il fatto è che si prolungava oltre il limite della visibilità e pareva continuare. Lividi e tozzi, zigzagando ai confini della percettività visiva invitavano a tuffarsi nel mondo dell’irrealtà per dominarlo. Mi fu così svelata l’essenza filosofica di un fungo che s’incontra facilmente, ma che non ho mai amato. Cresce a cerchi o a file dove il bosco, come il mare sul bagnasciuga, abbandona i suoi detriti vegetali, ai margini o nelle conche, tra ortiche e rovi dove il tasso d’azoto è molto alto. Privilegia le essenze poco nobili come la robinia e il sambuco, ma soprattutto la parte residuale, lo scarto. Di grande peso specifico, grigio monocorde di colore, riesce solo invitante per la copiosità. Ha un forte odore che disturba per l’intensità. E’ certamente tossico poco cotto o ingerito smodatamente. Viene raccolto per essere messo sott’olio o sott’aceto, ma generalmente sconsigliato per una certa sua tossicità da accumulo. Simile a lui per habitat, frequenza dei ritrovamenti, abitudini gregarie è il Rhodopaxillus nudus (Agarico violetto). Completamente dissimile per le tinte, blu viola intenso, inconfondibile; per il profumo, anch’esso forte ma gradevole; per il gusto: aggressivo ma non volgare, difficile da armonizzare, ma mai completamente dominante come per la nebularis che invece alla lunga riesce disgustoso. Fungo saprofita spunta dove l’acqua accumula e abbandona rami e foglie nello sforzo di tenere pulita la boscaglia. Vegeta nei luoghi umidi, riparati, abbastanza indifferente al substrato e, pur amando anch’esso spine e intrichi, lo si può trovare spesso negli spazi aperti, nei noccioleti radi, tra i carpini dove il sottobosco è luminoso e invitante. Tra l’edera e l’erba la sua nota di colore stacca e s’impone per alterità. Incerto tra il kitch e l’eleganza dei contrasti, colpisce di certo per la sua stravaganza. E poi è veramente prolifico. Di solito il micelio affonda i tentacoli nell’humus molle della sabbia e delle foglie marce per cui quando lo si estrae si finisce per asportare anche buona parte delle radichette vitali assieme a sabbia e terriccio. Così è invalso l’uso di cogliere sia il nudus che la nebularis tagliando il gambo a pochi centimetri dal suolo. Non so con certezza quanto di ecologicamente corretto vi sia in questa pratica, certo che lo spettacolo di decine e decine di moncherini lasciati a penzolare sul terreno sembra il day after di una battaglia sanguinosa con resti di corpi indecentemente esposti al ludibrio del tempo. Uova strapazzate e Agarici violetti Rosolare i funghi, tagliati a fettine, nel burro. Intanto sbattere le uova per amalgamare tuorli e albume. Quando i funghi avranno assorbito l’acqua di vegetazione aggiungere un altro po’ di burro e, a fuoco bassissimo, sempre mescolando con un cucchiaio di legno, versare le uova e farle rapprendere appena. Il composto dovrà rimanere morbido. Salare, pepare e servire con crostoni di pane passati al forno. Vino rosso novello per accompagnare. Anche d’inverno si può Ancora una volta la piatta, monotona, inquinata, nebbiosa Pianura padana riserva sorprese a chi si lascia guidare dai suoi ritmi lenti. Il Ticino finalmente sgombro agli uomini riprende il suo dominio e il suo mistero e lo rivela intatto con la forza della sua solitudine, quasi consegnasse a pochi iniziati uno scampolo del suo passato preumano. Per questo la mattina di Natale esco sul fiume a raccogliere funghi come se fosse un rito propiziatorio. E di solito ci sono; quasi ci tenessero anch’essi a questa forma di sacralità panteistica in cui in fondo recitano la parte di vittime sacrificali. Il fungo di cui parlo è la Flammulina velutipes o sghiarö (che scivola) per il glutine piuttosto abbondante che ricopre i piccoli cappelli e che li rende appunto viscidi al tatto. Spuntano per tutto il mese di dicembre, purché ci sia abbastanza umidità. Non temono la neve ed è veramente eccitante coglierli nella boscaglia ammantata di bianco. La pianta ospite di norma sarebbe l’olmo che però dalle nostre parti è stato decimato e quasi annientato da misterioso morbo; è più facile, quindi, trovarlo sui ceppi di robinia, nei boschetti lungo la riva del fiume o lungo le scarpate della ferrovia il cui terrapieno contribuiscono a rinsaldare. Di piccole dimensioni (5-6 cm al massimo) spunta su legno, a cespi di numerosissimi esemplari concresciuti fitti fitti. Il cappello presenta una vivace tinta gialloaranciorossastra che ne permette senza sforzo l’identificazione. Caratteristica particolare, però, è il gambo, delicatamente vellutato e, soprattutto, bruno scuro o nerastro in fondo. E’ molto facile che scoperto il primo mazzo la ricerca degli altri diventi quasi automatica: se il periodo è quello giusto v’accorgerete che ogni gruppo di robinie è pronto ad offrirvi il suo tesoro invernale. Contorno di Natale Pulite i funghi e usate solo i cappelli. Per eliminare la vischiosità fastidiosa buttateli un attimo in acqua bollente e scolateli. Intanto in una padella fate sciogliere il burro in cui metterete a rosolare l’aglio. Accomodatevi i funghi e cuoceteli adagio. Quando l’acqua di vegetazione sarà quasi asciugata aggiungete il sale e il prezzemolo trito e portate in tavola. Li servirete come contorno al piatto di carne. L’orecchietta Il Pleurotus ostreatus è il vero re dell’inverno padano. Fungo semplice e lineare viene venduto anche coltivato; addirittura con poca spesa se ne può impiantare la coltivazione nell’orto: vengono venduti appositi contenitori che offrono micelio e substrato: basta aspettare la fioritura e procedere al raccolto. Ma si perde il gusto del cercare, del capire, del prevedere; si perdono le immagini spettrali dei pioppeti che appaiono all’improvviso dalla caligine della nebbia come folla di extraterrestri in cerca di contatti e di calore umano; si perde il sogno di trovare la vita nella desolazione e nella morte apparente; si perde la sfida a cui il cercatore e il raccoglitore sono chiamati a far fronte, dalla notte dei tempi, contro il freddo, il letargo delle cose, il ciclo perenne e maledetto del sonno e del risveglio della natura. A volte con un briciolo di ironia antiretorica penso che si perde anche il tepore del letto caldo; il senso di smarrimento che arriva con barlumi di pensiero al cervello quando provi a riflettere su quello che stai facendo e ne cogli l’insensatezza; e si guadagna un freddo tagliente che congela orecchie e naso e paralizza gli arti. Ma il fungo è molto amato e i seguaci del suo culto non sono spariti, anche se lo si può, certo con minore spesa e minore fatica, raccogliere confezionato e pulito al supermercato. L’orecchietta è lo strappo alla regola, la svista che sconfigge l’uniformità e l’assolutezza della legge; ci richiama al caso e al disordine; alla vita nonostante tutto. Cresce su legno, quasi esclusivamente di pioppo, normale al tronco che festona di mensole a volte enormi, blu cupo, ferrigne e rutilanti. Infesta anche i ceppi lasciati a marcire sul terreno che contribuisce a disfare. Alberga anche sugli alberi vivi, a decine di metri d’altezza da dove sbeffeggia il cercatore a naso in su, alta a dominare il mare di nebbia che si stende ai suoi piedi. Ma l’uomo ragiona e non si lascia irridere. La gente di pianura si arma di pertiche che arrivano al cielo, che si snodano e si allungano come cane da pesca e sulla cui cima viene legata una lama tagliente. Così anche gli abitanti del cielo non hanno pace. Si trova pure lungo i fossi e le rive dei canali dove sono rimasti i resti in decomposizione di vecchi filari di pioppi o nelle piantate lungo le rive dei fiumi inselvatichite dall’abbandono, visitate dai picchi, malate d’umidità. O negli ammassi di legname accumulati per il trasporto primaverile o addirittura tra la ramaglia di cui il vecchio pioppo s’è liberato lasciandola cadere ai suoi piedi nella furia di rigenerarsi. Si evitino i filari di pioppi d’allevamento, avvelenati dai funghicidi, dalla perfezione neutra e glaciale, dove non c’è vita né morte. Servirsene in cucina è antica tradizione invernale che riporta il sapore e il calore degli umidi e dei grassi corroboranti. A questa cottura lenta, faticosa, umorale, si adatta la consistenza della sua carne, mai scotta; con il maiale, carne invernale per eccellenza, dà il meglio di sé. Nel connubio riesce a cedere con perfetta armonia la sua selvatichezza vegetale e ad acquistare la ricchezza del sapore animale. Spezzatino di lombo, funghi e salsiccia con polenta Mentre si prepara la polenta, che dovrà risultate piuttosto morbida, allestire lo spezzatino. Tagliare a pezzetti il lombo e la salsiccia, preferibilmente quella di grosso diametro. Intanto lavare i funghi e affettarli non troppo sottilmente. In un tegame soffriggere nel burro un battuto di cipolla e la carota. Unire le carni e farle rosolare, poi bagnarle con un bicchiere di vino rosso robusto. Quando il vino si sarà ritirato aggiungere i funghi, mescolare perché non si attacchino e salare. Aggiungere poco brodo in cui si sarà sciolta la conserva di pomodoro. Portare a cottura a fuoco lento, semicoperto e continuare a versare brodo se il sugo si restringesse troppo. Accompagnare con la polenta e con un rosso vigoroso. Angelo Minetti