Mafie al Nord: vecchio radicamento o nuovo trapianto

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Mafie al Nord: vecchio radicamento o nuovo trapianto
Come studiare le mafie nelle aree non tradizionali. Un nuovo progetto
della Fondazione Res
Rocco Sciarrone
CRIMINALITÀ
È necessario approfondire con metodi empirici i contorni e la presenza dell’area grigia nel centro nord per individuare
attori e settori di attività, modelli relazionali o di radicamento e, più in generale, le caratteristiche dei labili confini tra
lecito e illecito.
1. La Fondazione Res ha promosso e avviato un programma di ricerca sulla presenza delle mafie in
aree non tradizionali, ovvero diverse da quelle di genesi storica. Il progetto – coordinato da chi scrive,
con la partecipazione di un ampio gruppo di ricercatori di diverse sedi universitarie – è in continuità
con quello realizzato per la ricerca annuale Res nel 2010, i cui risultati sono stati pubblicati nel 20111.
L’obiettivo è quello di indagare empiricamente i processi di diffusione territoriale della criminalità
organizzata di tipo mafioso nelle regioni del Centro e del Nord Italia. L’analisi sarà rivolta a mettere a
fuoco le dinamiche di espansione e di insediamento territoriale, i meccanismi di radicamento e i settori
di attività. In questo articolo, dopo aver presentato alcuni elementi distintivi della presenza delle mafie
nelle regioni del Centro Nord, si espongono le linee generali e alcune ipotesi interpretative che la
ricerca intende seguire e approfondire.
2. Sulla presenza delle mafie nelle regioni del Centro-Nord si ravvisano due opposte tendenze, in
verità da sempre molto diffuse quando si discute del fenomeno anche con riferimento alle aree
tradizionali: da un lato prevale la minimizzazione, dall’altro predomina l’allarmismo. In un caso si
arriva a negare la rilevanza del problema, nell’altro si tende a esagerarne la portata, descrivendo un
Nord ormai completamente conquistato dalle mafie. Inutile dire che entrambi gli orientamenti sono
fuorvianti, inadeguati non solo a comprendere il fenomeno ma anche ad approntare efficaci strategie
di contrasto.
È dunque opportuno innanzitutto problematizzare il quadro che emerge dalle recenti inchieste
giudiziarie, mentre sino ad ora è stata prodotta una pubblicistica che si limita a raccontare – in una
forma fruibile anche per i non addetti ai lavori – vicende e «gesta» dei soggetti indagati dall’autorità
giudiziaria. Gran parte dei libri che si stanno pubblicando sulle mafie al Nord non fa altro che
riprendere – in uno stile più narrativo – quanto è emerso ed è stato ricostruito nelle indagini
giudiziarie, offrendo spesso soltanto un resoconto o una cronaca di episodi e reati, descritti con una
certa dose di sensazionalismo. Si avverte pertanto la necessità di approfondire l’analisi delle dinamiche
e dei processi che caratterizzano il fenomeno mafioso nelle aree non tradizionali.
Gli osservatori più attenti condividono questa preoccupazione, denunciando l’assenza di schemi
interpretativi o, forse peggio ancora, l’inadeguatezza o superficialità di quelli che vengono proposti. In
particolare, desta sorpresa la scarsa capacità di leggere il fenomeno da parte del ceto politico e
amministrativo locale, presso il quale è spesso rilevabile un deficit di conoscenze, prima ancora che di
attenzione.
La diffusione delle mafie nel Centro-Nord è ormai un fenomeno di lunga data che rende quindi
necessario interrogarsi sui meccanismi attraverso cui si è realizzato e perpetuato nel tempo. Adottando
questa prospettiva, emerge in primo luogo l’esigenza di formulare un quadro di ipotesi interpretative
da vagliare attraverso un programma di ricerca mirato.
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Fondazione Res, Alleanze nell’ombra. Mafie ed economie locali in Sicilia e nel Mezzogiorno, a cura di R. Sciarrone,
Donzelli, Roma 2011
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3. Per lungo tempo, la mafia è stata considerata un fenomeno non esportabile dai contesti di origine, in
quanto caratterizzato da forti vincoli localizzativi. Una tesi che ha trovato largo credito non solo sul
piano istituzionale, ma anche in studi autorevoli, e che spesso è sfociata in interpretazioni che
tendevano a confondere il fenomeno con il suo contesto. In sintesi, secondo questa ottica, il problema
non era dato da individui o gruppi mafiosi; a essere considerato mafioso era piuttosto il contesto (inteso,
in diverse varianti, in termini di cultura, subcultura, mentalità, valori tradizionali). La tesi della non
esportabilità è stata a lungo dominante, e ancora oggi viene utilizzata per negare la rilevanza della
diffusione mafiosa in aree non tradizionali. In passato ha avuto largo seguito perché si conciliava con
le interpretazioni correnti sulla mafia, tanto da ispirare anche politiche e strategie di contrasto. È il
caso della tanto discussa misura dell’invio al soggiorno obbligato, basata sul presupposto che la
pericolosità di un mafioso potesse essere neutralizzata allontanandolo semplicemente dal suo contesto
di origine. Pur trattandosi di una misura che ha provocato effetti perversi, il suo ruolo come veicolo di
diffusione mafiosa è tuttavia troppo enfatizzato. Può essere considerato un fattore concomitante per
spiegare i processi di espansione mafiosa, ma non causa sufficiente né necessaria.
Le interpretazioni legate al soggiorno obbligato possono ricadere nell’ambito di un altro tipo di
spiegazioni collocabili sotto l’etichetta della tesi del contagio. In questo caso, insieme al soggiorno
obbligato, si fa riferimento ai flussi migratori che, negli anni passati, si sono indirizzati da Sud verso
Nord. È una questione molto controversa, che nella discussione pubblica viene invece data spesso per
scontata: si sostiene infatti che la mafia si sarebbe diffusa laddove si è verificata una concentrazione di
immigrati meridionali, in particolare provenienti dalle regioni di tradizionale insediamento mafioso. Si
tratta di una tesi che ha trovato ampio spazio anche in documenti di agenzie istituzionali e
investigative (ad esempio, negli atti della Commissione parlamentare antimafia o nei rapporti delle
forze dell’ordine). È un’interpretazione che presenta vizi analoghi a quelli della precedente: in questo
caso sono i cittadini del Sud a essere considerati veicolo dell’infezione mafiosa, in quanto
riprodurrebbero nei contesti di emigrazione quelle condizioni originarie – cultura, mentalità, valori –
che generano e fanno prosperare le mafie. Anche tra i sostenitori più cauti di questa tesi, vi è chi si
premura di precisare che non tutti i meridionali vanno considerati come veicolo di mafiosità, anche se
finisce per trovare conferma l’idea che essi possano essere comunque considerati «portatori sani della
malattia».
È certamente importante tenere presenti le conseguenze inattese di movimenti demografici, quali
sono gli invii al soggiorno obbligato e i flussi migratori. Ma neppure la tesi del contagio è appropriata
per mettere a fuoco i meccanismi che sono alla base dei processi di espansione mafiosa.
Per parlare di mafia si ricorre molto spesso a metafore di tipo sanitario, ma se proprio di malattia si
vuole parlare bisogna forse rendersi conto che siamo di fronte a una patologia diversa da quelle
veicolate da virus e batteri. Oppure che ogni forma di contagio non è tanto determinata da un agente
infettivo, quanto dal terreno di coltura che permette a quest’ultimo di svilupparsi. Eppure, nei libri e
nei dibattiti pubblici sulle mafie al Nord prevale ancora la metafora sanitaria del cancro e delle
metastasi tumorali. In questo caso l’idea sottostante, già presente nelle interpretazioni
precedentemente esposte, è quella di un tessuto sano aggredito da cellule maligne. Compare qui –
ancora una volta – una mafia rappresentata in termini di radicale alterità rispetto al contesto di
ricezione. Ne sono esempi emblematici recenti libri di successo sulla mafia a Milano e in Lombardia:
uno ha come titolo appunto Metastasi, un altro recita nel sottotitolo «i boss della ‘ndrangheta vivono
tra noi…», come a voler dire che i mafiosi sono degli alieni, che hanno invaso il nostro territorio. Una
dicotomia tra noi e loro, tra una società sana e il male che la aggredisce.
La stessa immagine che in fondo si ritrova quando sono chiamati in causa – come si diceva – le
migrazioni meridionali. Si parla persino di «meridionalizzazione» della società settentrionale che
sarebbe diventata ormai identica a quella del Sud, quasi che l’unificazione del Paese si fosse rinnovata
in tempi recenti sotto l’insegna della mafia. Queste letture stereotipate sono confutate dal fatto che i
movimenti dei mafiosi non implicano migrazioni di popolazione, né sono a queste paragonabili. Nel
Centro-Nord le mafie non si sono sviluppate in concomitanza ai grandi flussi migratori provenienti
dal Mezzogiorno, ma in un periodo successivo. Il problema è capire se e in che misura il fattore
«migrazione» ha giocato un ruolo nel favorire o meno la presenza e l’insediamento di organizzazioni
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criminali di tipo mafioso; chiedendosi altresì perché questo ruolo può essere stato più o meno
decisivo in alcuni casi ma non in altri.
Parlare di meridionalizzazione non pare quindi utile per far comprendere cosa è accaduto e sta
accadendo nelle regioni centro-settentrionali. Nelle aree non tradizionali i mafiosi sono presenti in
forme e con intensità variabili. D’altra parte, anche nel Mezzogiorno la presenza mafiosa è fortemente
differenziata a livello territoriale. Non ha molto senso paragonare la situazione di Milano, Torino e
Genova con quella di Palermo, Reggio Calabria e Napoli. Bisogna infatti distinguere tra la presenza di
gruppi mafiosi in un determinato contesto, attivi ad esempio nel campo dei traffici illeciti, e
l’insediamento stabile che può dare vita a forme più o meno pervasive di controllo del territorio. In
altri termini, non è detto che dalla diffusione si passi al radicamento, e anche quando ciò accade non
c’è un unico modello di insediamento territoriale. È quindi opportuno evitare generalizzazioni
affrettate, ma anche riferimenti generici a categorie «vecchie» e non adeguate, come ad esempio quella
dell’omertà, in sé poco esplicativa nelle aree tradizionali e, dunque, ancora meno utile in quelle di
nuova espansione.
4. Una variabile importante da tenere presente riguarda l’efficacia delle azioni di contrasto e di
repressione. Come per i contesti di origine, anche nelle aree non tradizionali mafia e antimafia vanno
analizzate insieme: la forza di un’organizzazione mafiosa dipende anche dalla qualità dell’azione
antimafia. Quest’ultima va intesa nel suo insieme, non solo a livello investigativo e giudiziario, ma
anche con riferimento alla sfera politica, a quella economica e a quella della cosiddetta società civile.
Al riguardo non si può fare a meno di ricordare che, nei decenni scorsi, soprattutto in Lombardia e
Piemonte, le cosche mafiose sono state oggetto di un’intensa attività repressiva, che ha prodotto
migliaia di arresti. I processi che ne sono seguiti hanno portato – negli anni Novanta – a un numero
elevato di condanne definitive, grazie anche al contributo offerto da centinaia di collaboratori di
giustizia (il cui numero è invece letteralmente crollato nell’ultimo decennio).
Una domanda ineludibile riguarda dunque gli esiti di questa importante stagione giudiziaria: che effetti
ha avuto sugli assetti complessivi della criminalità organizzata di tipo mafioso? Quanto emerso nelle
ultime indagini ha elementi di continuità con lo scenario ricostruito nei processi degli anni Novanta,
ma bisogna interrogarsi anche su differenze e punti di discontinuità. Chiedersi, ad esempio, come mai
la ‘ndrangheta si è rafforzata negli ultimi anni, mentre la presenza di Cosa nostra sembra di fatto
molto ridimensionata.
Sono domande da porsi rispetto agli attori, ai gruppi criminali, alla loro struttura organizzativa, ai loro
campi di attività, alle relazioni instaurate con il mondo legale della politica e dell’economia. Si tratta di
questioni trascurate nel dibattito in corso, importanti per comprendere non solo le dinamiche del
fenomeno ma anche l’efficacia dell’azione di contrasto al di fuori delle aule dei tribunali.
Come sappiamo, l’antimafia giudiziaria è un’azione necessaria, fondamentale, ma non sufficiente a
rompere definitivamente la rete criminale intrecciata dai gruppi mafiosi. Ripercorrere le vicende che
hanno interessato il Piemonte e la Lombardia può costituire un osservatorio privilegiato per cogliere
come queste reti si ricostituiscono, come si riproducono oppure come si ricreano in forme nuove.
Ricordiamo ad esempio che in Piemonte nel 1983 venne assassinato il Procuratore della Repubblica
Bruno Caccia mentre si svolgeva una violenta competizione tra il clan dei «catanesi» e quello dei
«calabresi». Saranno quest’ultimi ad avere la meglio, ma anch’essi saranno colpiti duramente
dall’intervento delle forze dell’ordine e della magistratura. Com’è noto, nel 1995 viene sciolto il
comune di Bardonecchia, una misura applicata per la prima volta in una regione del Nord. Nel piccolo
centro della Val Susa si era manifestata una evidente e pericolosa situazione di condizionamento
mafioso. Sarebbe tuttavia errato considerare il caso Bardonecchia come quello del comune più
mafioso dell’Italia settentrionale. Sicuramente lo era meno di alcuni comuni dell’hinterland milanese,
che già in quel periodo erano caratterizzati da una presenza mafiosa più pervasiva. E nello stesso
Piemonte la situazione era ben più grave in altre zone, ad esempio nel Canavese e, ancor più, nella Val
d’Ossola. È quindi interessante chiedersi come mai nel Centro-Nord sia stato sciolto soltanto il
comune di Bardonecchia e non altri. Evidentemente in altri contesti non c’erano le condizioni
politiche per applicare questa misura, come peraltro testimoniano vicende più recenti. Come
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sappiamo, in quest’ultimo periodo sono stati sciolti i comuni di Nettuno in Lazio, di Bordighera e
Ventimiglia in Liguria, di Leinì ancora in Piemonte, mentre molte polemiche hanno suscitato le ipotesi
di scioglimento di altri comuni, come quello di Fondi, oppure i casi di Desio e di altri comuni
lombardi, per i quali è stata trovata una soluzione diversa (negando il problema, indicendo nuove
elezioni, cambiando semplicemente la maggioranza in consiglio comunale).
Tornando a ragionare oggi del caso Bardonecchia, appare quindi troppo riduttivo inquadrarlo soltanto
come un caso di successo della penetrazione mafiosa, mentre sarebbe molto più proficuo chiedersi
cosa è successo dopo lo scioglimento dell’amministrazione comunale e dopo gli esiti giudiziari (che in
gran parte non hanno confermato la tesi della pervasività mafiosa).
5. In passato, nelle aree non tradizionali l’attenzione e gli interessi dei gruppi mafiosi erano rivolti in
primo luogo ai mercati illeciti, in particolare al traffico di stupefacenti, ai sequestri di persona,
all’offerta di protezione su attività illegali (soprattutto bische e gioco clandestino), in qualche caso
anche alle rapine. In alcuni centri più piccoli, gruppi mafiosi riuscivano a controllare segmenti
importanti del mercato del lavoro, nello specifico nel campo dell’edilizia, e per questa via la loro
presenza si avvicinava – date alcune circostanze – alla forma tipica del controllo del territorio, tanto
che poteva manifestarsi un condizionamento del voto a livello locale. A Milano la situazione era già
più preoccupante, in quanto gli interessi mafiosi si saldavano con quelli di settori importanti del
capitalismo speculativo-finanziario, come testimoniano peraltro i casi Calvi e Sindona, per citare solo i
più noti.
Nella fase attuale si registra una riconfigurazione dei grandi traffici illeciti, che naturalmente non
scompaiono, ma si trasformano profondamente soprattutto per quanto riguarda attori, opportunità e
regole di funzionamento. I mercati illegali appaiono più destrutturati e subiscono anch’essi – al pari di
quelli legali – gli effetti dei processi di globalizzazione. Ne consegue che gli affari illeciti sono più
difficili da condurre a livello centralizzato oppure attraverso la costituzione di grandi cartelli. Al tempo
stesso si rileva una maggiore concorrenza di altri gruppi criminali, ma anche una maggiore efficacia
dell’azione repressiva.
Per far fronte a queste difficoltà, e cercando anche di tenere presente la «lezione» appresa dal passato,
quando – come si è detto – le cosche erano state duramente colpite dall’autorità giudiziaria, è possibile
ipotizzare che i gruppi più forti o più consolidati si siano posti l’obiettivo di realizzare una maggiore
integrazione verticale, creando economie di scala di tipo territoriale e accrescendo le relazioni interorganizzative.
Come sappiamo, protagoniste di queste trasformazioni sono state le cosche della ‘ndrangheta, che
occupano una posizione di netto predominio nello scenario criminale delle regioni centrosettentrionali. Da quanto emerso nelle ultime inchieste giudiziarie, le cosche calabresi hanno avviato
una vera e propria ristrutturazione organizzativa, con l’obiettivo di stabilire un maggiore
coordinamento non solo tra quelle presenti nelle regioni del Nord, ma anche rispetto a quelle insediate
nelle aree di origine. Un collaboratore di giustizia racconta che negli anni Novanta nell’area torinese
c’era un unico «locale», ma poi in Piemonte se ne sono costituiti ben nove. Da questo punto di vista,
può essere riduttivo parlare di clonazione di «locali» e di strutture organizzative originarie. Ad
esempio, spostandoci in Lombardia, nel «locale» di Rho ci sono affiliati di provenienza diversa, non
solo da diverse zone della Calabria ma anche della Sicilia e della Puglia, e il capo del «locale» è
addirittura originario di Gela. Mentre nel «locale» di Erba risulta affiliato persino un milanese. La
maggior parte dei «locali» individuati fanno riferimento a cosche della ‘ndrangheta ionica, un dato che
merita di essere approfondito, così come quello relativo al fatto che un certo numero di affiliazioni è
avvenuto in tempi recenti (peraltro molti imputati sono giovani e risultano nati in Calabria, il che
evidenzia che si sono trasferiti al Nord da non molti anni). Il processo di strutturazione delle cosche
sul territorio non sembra caratterizzato da un unico vettore che va dalla Calabria alle regioni del Nord,
quanto piuttosto da uno scambio bidirezionale: non solo dalle aree tradizionali a quelle non
tradizionali, ma anche viceversa.
D’altra parte, non pare ci sia traccia di un piano centralizzato di colonizzazione – una sorta di master
plan delle cosche – per conquistare nuovi territori. Come detto, si osserva piuttosto il tentativo di
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coordinare le azioni di gruppi presenti in diversi contesti della stessa area o regione, dotandosi di una
struttura organizzativa di coordinamento di tipo unitario (il carattere dell’unitarietà non implica
necessariamente centralizzazione).
Per quanto riguarda i settori di attività, si rileva una maggiore diversificazione rispetto al passato,
anche se continuano a essere privilegiati quelli in cui i mafiosi hanno tradizionalmente più
competenze. È tuttavia da verificare se l’insediamento in nuovi territori risponda a esigenze di
differenziazione funzionale delle attività svolte. I settori in cui i mafiosi sono impegnati sono molto
simili a quelli delle aree tradizionali: edilizia e appalti, smaltimento rifiuti, sanità privata, esercizi
commerciali (in particolare, bar, ristoranti, alberghi, discoteche e locali notturni, concessionarie
automobilistiche, distributori di carburante), compravendita di immobili, trasporti e logistica,
cooperative di servizi, agenzie di sicurezza, sale gioco e scommesse.
Emerge tuttavia una maggiore apertura e disponibilità – anche ai livelli più bassi – degli ambienti
economici legali, insieme a una maggiore permeabilità della sfera politica e amministrativa (con casi
eclatanti come quelli dell’azienda sanitaria di Pavia o dei rapporti intrattenuti tra esponenti della
‘ndrangheta e della Lega Nord). In definitiva, la novità più importante riguarda il fatto che anche in
alcune aree del Centro-Nord si registra la strutturazione di un’area grigia, composta da attori
eterogenei e dai confini non definiti tra lecito e illecito. Da questo punto di vista, è significativo
l’atteggiamento di numerosi imprenditori che cercano di trasformare i vincoli imposti dalla presenza
mafiosa in opportunità, se non in veri e propri vantaggi competitivi. Cruciali risultano anche i rapporti
con il mondo della politica e della pubblica amministrazione.
Con riferimento alla situazione della Lombardia i magistrati della Direzione Nazionale Antimafia
hanno recentemente osservato:
«I risultati delle indagini della Dda milanese confermano che la vocazione
imprenditoriale della criminalità organizzata si realizza sul territorio attraverso un
tasso di violenza marginale, privilegiando, invece forme di accordo e
collaborazione con settori della politica, dell’imprenditoria e della Pubblica
Amministrazione. In questo territorio infatti per le organizzazioni criminali, è
molto più conveniente occuparsi di imprenditoria, infiltrandosi nell’economia
legale in campo immobiliare, nell’edilizia, nel commercio, nella grande
distribuzione, nell’erogazione del credito, nella ristorazione, nell’energia e nei
settori turistico - alberghiero, dei giochi e delle scommesse. In tale contesto, le
potenzialità delle organizzazioni mafiose si sono alimentate, accresciute e arricchite,
negli anni, di quelle indispensabili relazioni che l’A.G. milanese ha definito “capitale
sociale” e senza le quali il fenomeno sarebbe rimasto sottotraccia e privo di ogni
consenso. È di tutta evidenza che per il raggiungimento di tali obiettivi, le
organizzazioni mafiose non possono prescindere dall’interazione con la P.A. e la
politica2».
Tra i fattori di contesto che possono favorire nuovi insediamenti mafiosi assume particolare rilievo la
presenza di pratiche diffuse di illegalità, soprattutto fenomeni di corruzione in ambito economico,
politico e amministrativo. Rispetto alle aree di origine, nelle inchieste giudiziarie emerge un ruolo più
rilevante di funzionari di istituti di credito e un maggior numero di episodi riconducibili a casi di
usura. Sempre tenendo conto dei fattori di contesto, sono anche da verificare alcune tesi che indicano
in un’economia fortemente esposta alla concorrenza internazionale e quindi orientata all’export un
fattore in grado di neutralizzare i tentativi di infiltrazione mafiosa.
Un altro aspetto importante da tener presente è dato dal fatto che negli ultimi anni si è intensificata al
Sud l’azione antimafia sia delle agenzie di contrasto sia della società civile. Invece, nelle regioni del
Centro-Nord l’opinione pubblica e la politica sono meno attente e anche meno attrezzate per
2
Direzione nazionale antimafia, Relazione annuale sulle attività svolte dal Procuratore nazionale antimafia e dalla
Direzione nazionale antimafia, nonché sulle dinamiche e strategie della criminalità organizzata di tipo mafioso nel
periodo 1 luglio 2010 – 30 giugno 2011, Roma, dicembre 2011, p. 554.
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decifrare la presenza della criminalità organizzata. Nelle aree non tradizionali i gruppi mafiosi non
hanno il grado di consenso sociale su cui possono contare nei contesti di origine, ma risulta molto più
debole la percezione della loro pericolosità.
Al tempo stesso, come si diceva, essi avvertono l’esigenza di rendersi meno vulnerabili, adottando
nuovi modelli di azione e di organizzazione. Come si ascolta in una intercettazione di un affiliato alla
‘ndrangheta in Liguria: «L’Italia è cambiata, anche noi dobbiamo fare le nostre riforme». È proprio la
‘ndrangheta che mette in campo una strategia orientata innanzitutto a rendere più solidi i legami
interni, dotandosi di una struttura di coordinamento e di criteri accettati di riconoscimento.
L’obiettivo non sembra essere quello di costruire un piano unitario di azione e di espansione, bensì
una struttura di regole in grado di rinsaldare i vincoli interni e quindi la lealtà degli affiliati, ma anche
di favorire il riconoscimento reciproco e, di conseguenza, la possibilità di massimizzare il valore del
loro capitale sociale, ovvero le risorse ottenute grazie a legami con soggetti esterni.
6. A grandi linee è possibile ipotizzare il seguente scenario, con specifico riferimento alla ‘ndrangheta.
Sul versante interno si cerca di ricompattare l’organizzazione e di recuperare competitività nei mercati
illegali, mentre sul versante esterno il tentativo è di estendere e ramificare le reti di relazioni, in modo
da intrecciare legami con la politica e l’economia locale. I mafiosi vogliono infatti allargare la loro
presenza anche nelle attività legali o formalmente legali: non avendo grandi capacità imprenditoriali
(contrariamente a quanto in genere si pensa), hanno bisogno di sostegno, servizi e competenze di
soggetti esterni. Si creano in questo modo le condizioni affinché si instaurino tra le diverse parti
scambi reciprocamente vantaggiosi. A loro volta, i soggetti esterni pensano di poter ottenere grandi
benefici se si avvalgono dei servizi della mafia, quindi diventano più disponibili. I mafiosi possono
offrire risorse molto appetibili: la violenza come vantaggio competitivo nelle relazioni economiche, la
disponibilità di ingenti quantità di denaro, la predisposizione di servizi di protezione e di
intermediazione.
Per comprendere come queste dinamiche prendono forma, è fondamentale focalizzare l’attenzione sui
contesti locali, sui fattori che le rendono possibili e sulle pratiche che le favoriscono. Gli esiti non
sono sempre scontati, alcuni tentativi di espansione falliscono. D’altra parte, come si è detto, la
presenza delle mafie non è omogenea su tutto il territorio del Centro-Nord: ci sono forti differenze tra
territori, in relazione alle diverse caratteristiche socio-economiche, ad esempio tra aree urbane e
piccoli centri, ma anche tra specifici settori di attività. Da questo punto di vista, è necessario
distinguere e analizzare in modo accurato – insieme ai fattori di contesto – gli attori, le reti di relazioni
e i campi di attività. All’incrocio tra fattori di contesto e fattori di agenzia sembrano infatti essere
all’opera meccanismi diversi di diffusione territoriale.
La distribuzione geografica dei beni immobili e delle aziende confiscate offre una mappa –
necessariamente approssimativa – della diffusione territoriale di questo tipo di criminalità (Figg. 1 e 2).
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Fig. 1 - Distribuzione geografica degli immobili confiscati (31 dicembre 2010)
Fonte: Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla
criminalità organizzata.
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Fig. 2 - Distribuzione geografica delle aziende confiscate (31 dicembre 2010)
Fonte: Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla
criminalità organizzata.
Grazie alle recenti inchieste giudiziarie, oggi abbiamo una conoscenza più approfondita per quanto
riguarda la Lombardia e il Piemonte (di grande interesse è anche la situazione della Valle d’Aosta).
Stanno emergendo riscontri importanti anche in Liguria, una regione in cui la presenza mafiosa è stata
molto sottovalutata, anche per effetto di carenze ravvisabili nell’azione degli apparati investigativi e
giudiziari.
Spostandoci dal Nord Ovest verso il Nord Est, si riscontra una presenza mafiosa di lunga data in
alcune aree dell’Emilia Romagna. Più difficile da decifrare è la situazione del Veneto, in cui la presenza
della ‘ndrangheta sembra più circoscritta a fronte di un maggiore attivismo di gruppi criminali legati
alla camorra. Peculiare infine la situazione del Lazio, dove risultano rilevanti attività di riciclaggio e
una maggiore compresenza di diversi gruppi criminali: è molto forte la presenza della ‘ndrangheta, ma
conta molto la contiguità territoriale dei clan dei Casalesi.
Le agenzie di contrasto sono naturalmente più focalizzate sulle caratteristiche dei gruppi criminali e
molto meno sui fattori di contesto che possono favorire o meno la loro espansione. Nella fase attuale
sono disponibili strumenti più adeguati per colpire i boss e le attività illecite, ma si è molto meno
preparati e attrezzati per colpire le aree grigie, ovvero le relazioni di collusione e complicità. Questo
problema, già evidente nei contesti originari, si ripresenta con urgenza anche in quelli di nuovo
insediamento.
Anche in questa ottica appare necessario approfondire in modo più puntuale la conoscenza e l’analisi
del fenomeno, mettendo in campo ricerche empiriche fondate su solide basi teoriche e
metodologiche.
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