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GLI “IRREGOLARI” NELLA LETTERATURA ETERODOSSI, PARODISTI, FUNAMBOLI DELLA PAROLA Atti del Convegno di Catania 31 ottobre-2 novembre 2005 SALERNO EDITRICE ROMA Il volume è stato stampato con un contributo della Provincia Regionale di Catania ISBN 978-88-8402-560-9 Tutti i diritti riservati - All rights reserved Copyright © 2007 by Salerno Editrice S.r.l., Roma. Sono rigorosamente vietati la riproduzione, la traduzione, l’adattamento, anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi mezzo effettuati, compresi la copia fotostatica, il microfilm, la memorizzazione elettronica, ecc., senza la preventiva autorizzazione scritta della Salerno Editrice S.r.l. Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge. Claudio Gigante LA TRADIZIONE DEL MACARONICO NELL’ETÀ DELLA RIFORMA. DAGLI “ERASMIANI” A RABELAIS (ATTRAVERSO FOLENGO) 1. Il chorus porcorum Te deum laudamus, quod istam putanam portamus, quae Magistros Nostros tam multos semper contempsit ut stultos: quod dixit crassum potare vinum, sed crassius loqui latinum, nec respexit a tergo quantum valeat utrum et ergo. Nunc deiiciemus eam per praecipitia, et populo dicemus quod fuit haeretica: sic nemo audebit ponere suum rostrum contra aliquem Magistrum Nostrum.1 Sono i versi del chorus porcorum del Dialogus saneque festivus bilinguium ac trilinguium, sive De funere Calliopes che fu pubblicato nel 1519 a Parigi probabilmente sotto falso nome, quello dell’oscuro Conrad Nesen, fratello di Wilhelm, un umanista che faceva parte della brigata erasmiana: fu lui, secondo una recente attendibile ricostruzione, l’autore del pamphlet.2 Siamo a Lovanio, roccaforte del1. ‘Dio ti lodiamo / perché questa puttana portiamo / che i nostri maestri cosí tanti / ha sempre trattato da deficienti: / dicendo che se bevevano uno schifo di vino / parlavano uno schifosissimo latino; / né ha mai portato rispetto / a quanto valga un utrum o un ergo. / Ora per un precipizio la butteremo / e che fosse eretica al popolo racconteremo: / cosí piú nessuno oserà il suo rostro / porre contro un maestro nostro’. 2. Cfr. Les funérailles de la Muse de Guillaume Nesen suivi de La conférence macaronique d’Ulrich von Hutten, textes latins présentés et traduits par J.-Ch. Saladin, Paris, Les Belles Lettres, 2001 (di qui le citazioni con interventi su maiusco- 93 claudio gigante la teologia tardo-scolastica, dove nel 1517 – grazie anche al contributo di Erasmo – era nato il famoso Collegium trilingue Buslidianum3 che promuoveva una rifondazione della filologia biblica attraverso lo studio combinato di ebraico, greco e latino, le lingue, come si riteneva, della Rivelazione: è noto quanto tale istituzione fosse avversata dall’antica Facoltà di teologia, dove insegnavano personaggi comunque insigni, fra cui Adriano di Utrecht, il futuro papa olandese, e Jacques Masson. Proprio quest’ultimo, il cui nome era (ed è) abitualmente latinizzato in Latomus, era fra gli oppositori piú tenaci del nuovo Collegio: nello stesso 1519 aveva pubblicato il dialogo De trium linguarum et studii theologici ratione, dove contestava l’idea-fondamento del Collegium che il teologo dovesse formarsi sullo studio, oltre che del latino, delle altre due lingue sacre, e rivendicava l’importanza del cursus di studi tradizionale, basato sulla progressiva assimilazione degli stadi della sapienza: dalla grammatica alla filosofia naturale, alla metafisica, alla teologia speculativa. Il bersaglio era primo fra tutti Erasmo, che sulle orme di Valla aveva applicato i principî di critica testuale alle Scritture, nel Novum Instrumentum (1516), e che d’altronde non mancò di pubblicare una serrata Apologia in risposta a Latomus. Questi era professore di teologia al Collège du Porc di Lovanio: perciò nel Dialogus da cui siamo partiti è definito sarcasticamente ingens porcus e i versi intonati (o piuttosto stonati) dai suoi allievi sono detti chorus porcorum: perché tutti i suoi studenti, secondo l’autore del libello, sono destinati come i compagni di Odisseo a trasformarsi in maiali non appena attingono al suo sapere.4 le e interpunzione; il coro si legge a p. 64). Vd. del curatore, oltre al saggio introduttivo (Une littérature de combat), il vol. La bataille du grec à la Renaissance, ivi, id., 2000. 3. Dal nome di Girolamo di Busleyden, l’umanista che morendo nel 1517 aveva disposto un lascito per questo scopo. Le attività del Collegio iniziarono ufficialmente nel dicembre 1520: vd. F. Nève, La Renaissance des lettres et l’essor de l’érudition ancienne en Belgique, Louvain, C. Peeters, 1890. 4. « Isti nuper homines erant, sed habet hoc Gryllides quod olim Circe: quisquis adolescens ex eodem alveo comederit, protinus in porcum vertitur » (Les funérailles, cit., p. 62). Latomus è qui definito Gryllides, perché nel testo si finge 94 la tradizione del macaronico nell’età della riforma Nel Dialogus in compagnia di Baramia, Titus e Pomponius, controfigure dei professori di ebraico, greco e latino del Collegio, il dio Mercurio assiste ai funerali della Musa Calliope che una banda di personaggi grotteschi – dietro ai quali non è difficile scorgere i professori di teologia dell’università di Lovanio – intende celebrare. Calliope è stata condannata a morte con l’accusa di eresia: si tratta di un pretesto, spiega Mercurio, in realtà la Musa è portata a morire per aver peccato di lesa maestà nei confronti dei teologi nemici dello studio delle lingue antiche al di fuori del latino: ha infatti cercato di far cadere la loro tirannia. Il chorus porcorum è l’unico brano del testo in versi ed è l’unica occasione in cui a parlare sono alcuni degli uomini che compongono il corteo funebre di Calliope, gli alunni di Latomus. Questo spiega il latino ridicolmente pedestre nel quale si esprimono, l’ignoranza delle regole quantitative e l’introduzione di rime baciate che ho cercato di preservare, dove possibile, anche nella traduzione che ho proposto. La degradazione della povera Musa, condannata come una strega e insultata nel modo che si è visto, ha un significato simbolico: i teologi conservatori, che amano disputare di vacui distingui, armati di utrum e di ergo, piuttosto che studiare le radici linguistiche dei testi sacri, sono nemici delle belle lettere e della poesia, si esprimono in un latino fasullo. Nello sbeffeggiamento delle quaestiones quodlibeticae d’uso nelle facoltà universitarie non è difficile cogliere un’eco della satira erasmiana, nell’Elogio della follia, delle «sottigliezze senza numero, […] le formalità, le quiddità, le ecceità »,5 ma è interessante anche ricordare – in una circolarità di idee e di temi che si ritrova in tutti gli (p. 60) che sia un discendente di Gryllos, personaggio del dialogo Bruta animalia ratione uti di Plutarco (Mor., 985d-92e: vd. Plutarch’s Moralia, edd. H.F. Cherniss and W.C. Helmbold, London-Cambridge [Mass.], Harvard Univ. Press, vol. xii 1957, pp. 492-533): Grillo, trasformato in bestia da Circe, spiega a Odisseo di non desiderare affatto di tornare uomo, essendo del tutto appagato dalla nuova condizione. L’autore del pamphlet vuole dunque rappresentare Latomus come un pedante consapevole e felice della propria bestialità. 5. Trad. it. di T. Fiore, Torino, Einaudi, 19572, p. 91. 95 claudio gigante autori maccheronici dei primi decenni del Cinquecento – che Folengo, nell’ultimo libro del Baldus, propone da par suo una grottesca personificazione dell’Utrum, definito «monstrum […] duplici cum ventre […] / qui sustentatur binis tantummodo gambis»: «Dicit hic Utrum; Utrum forma ista vocatur, / qui sibimet alterutrum pars haec, pars ila flagellat: / haec probat, illa negat, tandemque venitur in unum».6 Calliope è infine salvata da un intervento delle altre Muse che giungono armate e scortate da Apollo, deus ex machina di questo dramma burlesco, che fra gli altri colpisce Latomus con una freccia: i pedanti hanno perso la loro battaglia, Mercurio invita i tre erasmiani a celebrare l’evento in tutte le lingue, s’intende in bello stile. 2. Le Epistolae obscurorum virorum La prospettiva storiografica con cui si è soliti affrontare la tradizione maccheronica ha un profilo essenzialmente nazionale: al riguardo esistono imprescindibili contributi di taglio linguistico (ricorderò almeno gli interventi di Segre e Paccagnella,7 senza dimenticare i numerosi spunti proposti da Contini)8 e sintesi stori6. T. Folengo, Baldus, a cura di E. Faccioli, Torino, Einaudi, 1989, xxv 55666 (« un altro mostro con duplice ventre, il quale è sorretto solamente da due gambe: […] il suo nome è Utrum: proprio Utrum viene chiamata questa forma che si dà sempre dei colpi da se stessa con pugni spietati, ovverosia una parte flagella l’altra mentre questa flagella la prima. L’una afferma, l’altra nega, e da ultimo la conclusione è la stessa »). 7. C. Segre, La tradizione macaronica da Folengo a Gadda (e oltre), in Cultura letteraria e tradizione popolare in Teofilo Folengo. Atti del Convegno di Mantova, 15-17 settembre 1977, a cura di E. Bonora e M. Chiesa, Milano, Feltrinelli, 1979, pp. 62-74; Id., Nuove indagini sulla “funzione Gadda”, in Id., Notizie dalla crisi. Dove va la critica letteraria?, Torino, Einaudi, 1993, pp. 179-204; I. Paccagnella, Pluringuismo letterario: lingue, dialetti, linguaggi, in Letteratura italiana, dir. A. Asor Rosa, ivi, id., vol. ii 1983, pp. 103-67; Id., Il fasto delle lingue. Plurilinguismo letterario del Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1984. 8. Vd. almeno G. Contini, Espressionismo letterario, in Id., Ultimi esercizi ed elzeviri (1968-1987), Torino, Einaudi, 1988, pp. 41-105. 96 la tradizione del macaronico nell’età della riforma co-letterarie ben fatte, dal Bonora degli anni Cinquanta9 al piú recente Ferroni:10 studi che pongono chi voglia riattraversare l’argomento in una situazione nel contempo difficile e comoda. Comoda, perché il diagramma della nostra tradizione maccheronica è già stato definito nelle sue linee portanti; difficile, perché non avrebbe nessun senso da parte mia riproporre in questa sede un profilo, sia pure con qualche aggiunta o aggiornamento, concepito sulla falsariga dei precedenti. Vorrei quindi allargare il discorso in sentieri forse secondari della tradizione maccheronica ma che, proprio per la loro oggettiva distanza rispetto alla ben nota genealogia nostrana (dai pionieristici esperimenti goliardici, come la Repetitio Zanini di Ugolino Pisani, alla Tosontea del misterioso Corado, ai Macaronea di Tifi Odasi, per giungere al corpus completo del geniale Folengo),11 possono tratteggiare in termini meno abituali la fisionomia della poesia maccheronica italiana. Si tratta di guardare ai lati, in senso geografico e linguistico, del paradigma proposto da Segre per precisare la distanza fra i «macaronici» e i tanti mescidatori alto e basso-medioevali di volgare e latino: Ciò che hanno fatto i macaronici – scriveva lo studioso – senz’altro 9. E. Bonora, Le Maccheronee di Teofilo Folengo, Venezia, Neri Pozza, 1956. 10. G. Ferroni, Teofilo Folengo e la letteratura maccheronica, in Storia generale della letteratura italiana, dirr. N. Borsellino e W. Pedullà, vol. iv. Rinascimento e umanesimo. Il pieno Cinquecento, Milano, Motta, 2004, pp. 379-408, cui si rinvia anche per la bibliografia generale (e cfr. n. 11). Vd. anche U.E. Paoli, Il latino maccheronico, Firenze, Le Monnier, 1959; L. Lazzerini, « Per latinos grossos… ». Studio sui sermoni mescidati, in « Studi di filologia italiana », xxix 1971, pp. 219-339; Ead., Aux origines du macaronique, in « Revue des études italiennes », lxxxvi 1982, pp. 11-33; G. Folena, Il linguaggio del caos. Studi sul plurilinguismo rinascimentale, Torino, Einaudi, 1991. 11. Su Folengo, dato il taglio del mio saggio, rinuncio in partenza a dare anche minime indicazioni orientative per navigare attraverso il mare magnum bibliografico che lo riguarda; per il quale rinvio senz’altro al fondamentale repertorio di M. Zaggia, Schedario folenghiano dal 1977 al 1993, Firenze, Olschki, 1994 (in costante aggiornamento sul sito web dell’Univ. di Torino, a cura del Gruppo di ricerca internazionale Universitas Cipadensis, presieduto da G. Bernardi Perini e coordinato da M. Chiesa), e al recente M. Scalabrini, L’incarnazione del macaronico. Percorsi nel comico folenghiano, Bologna, Il Mulino, 2003. 97 claudio gigante collegandosi ai precedenti prima ricordati, è incastrare la colonna dei livelli superiori del latino con quella dei livelli inferiori, del dialetto, fondendo due estremi linguistici, storici, stilistici, funzionali. Si tratta infatti di due strutture linguistiche del tutto separate (a differenza di quelle del toscano e del dialetto); appartenenti l’una a quindici secoli prima (dato che il fondo è virgiliano), l’altra alla contemporaneità; la prima di stile sublime, l’altra di stile basso; la prima esclusivamente scritta, la seconda esclusivamente parlata e informale, almeno nelle varianti usate.12 Se per la tradizione italiana la tipologia linguistica qui evocata soddisfa la necessaria esigenza di distinguere il latino maccheronico dai vari possibili “espressionismi”, dai pastiches antipedanteschi e fidenziani (dov’è l’italiano ad assorbire i lemmi latini e non viceversa), dai vari gerghi studenteschi, burleschi, furbeschi, furfanteschi (si pensi all’anonimo Nuovo modo de entendere la lingua zerga), ecc., va da sé che per i testi non italiani vi sono due variabili da aggiungere: il “volgare” di riferimento è talvolta il toscano (essendo gli umanisti, almeno idealmente, proiettati verso l’Italia), ma certo non necessariamente; il patrimonio dialettale – si ponga mente, per fare un esempio lampante, alla cosiddetta “brescianità” di Folengo,13 indagata da Giuseppe Tonna, o piuttosto alla “mantovanità” che emerge dal commento di Emilio Faccioli al Baldus – viene meno, ma la carica popolare e “plebea” è mantenuta attraverso il ricorso ad altri registri e in particolare a quello goliardico. Nel testo che abbiamo prima considerato, scritto in un elegante latino inframmezzato da espressioni greche e ebraiche, i versi maccheronici servono per porre alla berlina i professori di Lovanio e i loro discepoli. Se nel Ciceronianus (1528) di Erasmo il pedante Nosopono è satireggiato per l’ossequio cieco alle forme classiche – un vuoto formalismo che ottiene il solo risultato di definire il 12. Segre, La tradizione macaronica, cit., p. 67. 13. Che è il titolo del contributo di G. Tonna, nel vol. cit. Cultura letteraria e tradizione popolare, pp. 144-52. E si vedano gli studi di L. Messedaglia, Vita e costume della Rinascenza in Merlin Cocai, Padova, Antenore, 1974. 98 la tradizione del macaronico nell’età della riforma dio cristiano come Giove o la Vergine come Diana –, nel Dialogus di Nesen la parodia del pedante-teologo è realizzata con un procedimento inverso, la “funzione” maccheronica, che è conseguita attraverso la degradazione del lessico latino e l’accumulazione grottesca di espressioni rozze: tale tipo di satira, che può essere accostata a quella messa in scena nelle nostre commedie antipedantesche (da Francesco Belo al Manfurio di Giordano Bruno), che però alludono a tipi sociali piú che a persone riconoscibili o definite, è piuttosto diffusa in Europa nei primi decenni del Cinquecento, gli anni della battaglia (perduta) dagli umanisti per un ritorno al Cristianesimo delle origini, gli anni che preparano gli esiti imprevedibili della Riforma. In tal senso l’episodio piú clamoroso avvenne nel corso della durissima polemica che nel secondo decennio del secolo contrappose in Germania, e in modo particolare a Colonia (Lovanio e Colonia erano due fra le sedi universitarie piú conservatrici), coloro che, come il rude teologo Ortwin Gratius (spesso da noi italianizzato come ‘Maestro Arduino’), il domenicano Johannes Pfefferkorn (un ebreo convertito) e il temibile Grande Inquisitore Jacob Hochstraten, ritenevano che dovessero essere bruciati i commenti ebraici ai testi sacri e, sull’altro fronte, il filologo Johannes Reuchlin che difendeva, anche da un punto di vista cristiano, l’importanza di questa letteratura.14 La polemica – che diede luogo a un numero impressionante di libelli in Germania e in Francia e vide in un primo momento papa Leone X esprimersi in favore di Reuchlin – ha un’interessante appendice che riguarda la letteratura maccheronica. Beninteso, la vicenda nel complesso, tra minacce inquisitoriali, libri al rogo e persecuzioni antisemite, presenta tratti assai poco burleschi, che qui non tratterò ma che è bene considerare sullo sfondo. Tra il 1515 e il 1517 apparvero a stampa i due tomi di Epistolae obscurorum virorum ad Magistrum Ortvinum Gratium:15 raccolta di 119 lettere fittizie che per la 14. Cfr. H. Peterse, Jacobus Hoogstraeten gegen Johannes Reuchlin: ein Beitrag zur Geschichte des Antijudäismus im 16. Jahrhundert, Mainz, Ph. von Zabern, 1995. 15. Vd. Ulrich von Hutten, Lettres des hommes obscurs, présentées et traduites 99 claudio gigante maggior parte si immaginavano indirizzate a Ortwin, il nemico di Reuchlin. Si tratta, com’è noto, di lettere fasulle, inviate da personaggi di fantasia definiti come amici o discepoli del destinatario, composte in un latino grondante di germanismi, francesismi e italianismi. Una sola missiva si immagina composta dallo stesso Ortwin, qualche altra, dello stesso tipo, corre fra personaggi della sua cerchia. L’artificio era ben congegnato. I fittizi corrispondenti di Ortwin, nel lodare la dottrina e lo spessore del teologo, non fanno altro che metterne in risalto l’ignoranza, o proponendogli quesiti imbarazzanti a cui solo lui può dar risposta (ad esempio un tale Lupoldus gli chiede se quando un ebreo si converte al Cristianesimo «renascitur sibi praeputium»)16 o riferendo giudizi sferzanti sulla sua sapienza e la moralità della sua vita pronunciati da suoi nemici: giudizi che i fittizi corrispondenti riportano sdegnosamente, ma che intanto, s’intende, secondo gli usi della “migliore” tradizione accademica, lasciano trapelare. Detto per inciso, la stramberia dei quesiti teologici era stata oggetto della satira dell’Elogio della Follia; ad esempio: «Avrebbe potuto Dio prender forma di donna, o del diavolo, d’un asino, d’una zucca, d’una pietra? E in tal caso, come avrebbe una zucca parlato al popolo e fatto miracoli? Come sarebbe stato crocifisso? Se san Pietro avesse detto messa, allorché il corpo di Cristo pendeva sulla croce, che cosa avrebbe consacrato?».17 Il titolo umoristico di entrambi i volumi (pur con intestazioni lievemente differenti), Epistolae obscurorum virorum ad Magistrum Ortvinum Gratium, allude all’oscurità degli amici di Ortwin e alla sua propria;18 il preteso autore della prima lettera del secondo volume, tale Iohannes Labia (i cognomi alludono spesso a parti del corpo e/o a pratiche sessuali), sedicente Prothonotarius apostolicus, par J.-Ch. Saladin, Paris, Les Belles Lettres, 2004; cfr. il ricco e fondamentale saggio introduttivo del curatore (Présentation), pp. 12-124. 16. Lettres des hommes obscurs, cit., i 37, p. 283. Sul tema vd. anche F. Rabelais, Gargantua et Pantagruel, iii 18. 17. Trad. it. cit., p. 91. 18. Vd. Saladin, Présentation, cit., pp. 53-65. 100 la tradizione del macaronico nell’età della riforma racconta a Ortwin di aver assistito a un dibattito fra cortigiani della Curia romana che si interrogavano sul senso di obscuri; un Magister Parisiensis, dopo aver ascoltato le spiegazioni variamente bizzarre proposte dai commensali, ricorda che qualche anno prima (nel 1514) Reuchlin aveva pubblicato una raccolta di lettere (stavolta vere) a lui indirizzate da umanisti di grande notorietà con il titolo Epistolae clarorum virorum: libro di lettere che, oltre a rientrare in un consolidato uso umanistico, era stato concepito dal filologo tedesco per mostrare di quale sostegno, diremmo oggi internazionale, godessero lui e la sua difesa dell’esegesi ebraica. Ortwin, spiega il Magister, ha voluto mostrare di non esser da meno e ha messo insieme questa raccolta di lettere dei suoi corrispondenti che, «humiliter, minorando et humiliando se»,19 ha definito, per contrappunto, obscuri. La beffa ebbe risonanza enorme e a lungo ci si interrogò sull’identità dell’autore. Ieri come oggi, i nomi piú accreditati sono quelli di Ulrich von Hutten, partigiano di Reuchlin e poi luterano, che pure – forse anche per la piega pericolosa presa dagli avvenimenti – smentí in sedi diverse l’attribuzione, e di Croto Rubeano, ossia Johann Jäger, altro umanista idealmente “evangelico”, ma al di qua della linea luterana.20 La questione è aperta, e nel corso dei secoli le lettere sono state attribuite anche, fra gli altri, a Erasmo, a Reuchlin stesso e a Willibald Pirckeimer, di cui parleremo piú avanti. Si è anche ipotizzato – mi sembra ragionevolmente – che piú d’uno ne sia il compilatore o che comunque a mani diverse siano da attribuire i due volumi. La matassa non è sbrogliabile in questa sede né d’altra parte ho alcuna intenzione di provarci; vale la pena però di ricordare che Erasmo intervenne in due occasioni in difesa di Reuchlin: in una lettera all’inquisitore, moderata nei toni, ma ferma nella sostanza, e soprattutto nell’Apotheosis Capnionis,21 l’apoteosi di Reuchlin, scritta nell’estate del 1522 all’indomani della sua morte, dove il filologo tedesco è immaginato beato nei cieli, 19. Lettres des hommes obscurs, cit., p. 361. 20. Per tutta la questione vd. Saladin, Présentation, cit., pp. 105-17. 21. Dal greco kapnion, ‘piccolo fumo’, gioco di parole con il tedesco Rauch. 101 claudio gigante in compagnia di san Girolamo e invano inseguito, anche lí, da «alcuni uccellacci dalle penne nere», strepitanti e puzzolenti:22 in modo figurale, invece che con il ricorso alla parodia linguistica, Erasmo condannava i persecutori della nuova filologia. Nelle Epistolae obscurae, come prima si è visto per i discepoli di Latomus, la funzione maccheronica è utilizzata per denunciare la pochezza dei fanatici conservatori. Molte delle lettere contengono brani in versi di varia estensione nei quali la carica comica della lingua esplode in modo esilarante, talora come nella lettera (i 19) che si finge inviata a Ortwin da un tale Sthephanus Calvastrius, mescolando in un pastiche indiavolato i versi maccheronici con parole o interi versi in tedesco. In altri casi l’artificio maccheronico è raggiunto in modo meno sofisticato e piú immediatamente comico; ad esempio, un tale Cornelius Fenestrificis (i 11) confida a Ortwin la propria invettiva poetica, composta contro due «trufatores» incontrati in un albergo di Magonza, che hanno osato definire i maestri di Parigi e Colonia come «fantasticos et stultos»: Sunt Maguntiae in publica Corona, in qua nuper dormivi in propria persona, duo indiscreti bufones in magistros nostros irreverentiales nebulones, qui audent reprehendere magistros in Theologia, quamvis ipsi non sunt promoti in Philosophia, nec sciunt in scholis formaliter disputare, et ex una conclusione multa corollaria formare, ut docet fundamentaliter doctor subtilis. […] Et non sciunt quid est doctor Seraphicus, […] et qui veraciter scribit, doctor sanctus 23 […]. Quae omnia non intelligunt poetae. 22. Cfr. Erasmo, L’apoteosi di Giovanni Reuchlin, a cura di G. Vallese, Napoli, Pironti, 1949, pp. 120-22. 23. Il doctor subtilis è Duns Scoto, il seraphicus Bonaventura da Bagnoregio, il sanctus Tommaso d’Aquino. 102 la tradizione del macaronico nell’età della riforma Ideo loquuntur ita indiscrete, ut isti duo praesumptuosi trufatores.24 Ancora per qualche saggio, si consideri il modo (con tanto di rima al mezzo, come da tradizione leonina) in cui un tale Willibrordus Niceti saluta Bartholomeus Colpio in una lettera (i 31) dedicata a uno dei soliti assurdi quesiti teologici (p. 255): Quot in mari sunt guttae et quot in Colonia sancta beguttae quot pilos habent asinorum cutes, tot et plures tibi mitto salutes. Un’altra formula di saluto, rivolta stavolta in prosa (ma non senza qualche goffa rima) al consueto Ortwin da un tale Iohannes Pileatoris, merita di essere ricordata (ii 16): «salutes vobis, plures quam sunt in Polonia fures, in Bohemia haeretici, […] in Italia scorpiones, in Hispania lenones, […] meretrices in Bamberga, […] naves in Neapoli, […] sodamitici Florentiae, ex ordine praedicatorum indulgentiae […]» (pp. 437-39), e cosí via. Il catalogo sarebbe piú lungo: né può sfuggire che l’enumerazione e la caotica accumulazione di immagini grottesche sia di per sé un artificio d’immediato effetto comico. È quanto avviene – e sarà il mio ultimo cenno alle Epistolae – nella lettera che s’immagina composta da Philippus Schlaurauff (ii 9): un elenco di città tedesche dalle quali questo buffo figuro è stato costretto a fuggire in quanto nemico di Reuchlin; antieroica persecuzione che, secondo il principio del rovesciamento paradossale dei valori e l’esaltazione del contrario della verità – tipico di ogni tradizione satirica –, vuole essere nelle intenzioni del misterioso autore del finto epistolario una denuncia della persecuzione reale, questa sí pericolosa, che subivano i teologi filologi. 3. Gli umanisti e i pedanti Un altro scritto pubblicato anonimo nello stesso torno di anni – e variamente attribuito (anche in questo caso è stata proposta la 24. Lettres des hommes obscurs, cit., pp. 173-75 (le successive indicazioni a testo). 103 claudio gigante paternità di Hutten) –25 è il Dialogus novus et mire festivus ex quorundam virorum salibus cribratus non minus eruditiones quam macaronices amplectens, vale a dire ‘Dialogo nuovo e mirabilmente spiritoso, pieno di arguzie salaci di alcuni uomini, che offre spunti sia eruditi che maccheronici’. Siamo nello stesso agone polemico dei testi precedenti: nel libretto attraverso eruditiones e macaronices si definiscono i due campi in cui si fronteggiano i personaggi. Da un lato tres celebres viri, Reuchlin, Erasmo e Jacques Lefèvre (quest’ultimo, filologo anche lui, aveva posto il problema della distinzione nei Vangeli di tre differenti Marie-Maddalene),26 dall’altro tre teologi di Colonia che appaiono con i nomi di Magister Ortvinus, Magister Gingolphus e Magister Lupoldus. I secondi due sono personaggi oggi non piú identificabili o forse, semplicemente, le incarnazioni di un tipo, il teologo pedante e prepotente; il primo, Ortvinus, è naturalmente l’Ortwin Gratius che già conosciamo. In ogni modo, tutti e tre compaiono in un luogo rabelaisiano (ma di questo ci occuperemo tra poco). In una Colonia surreale si svolge il buffissimo dialogo iniziale fra i tre teologi; l’autore, Hutten o chi per lui, li mette impietosamente in scena mentre si esprimono maccheronicamente in un latino rigurgitante di neologismi e volgarismi. Nell’esempio che segue, Gingolphus e Lupoldus rispondono al quesito di Ortvinus che ha chiesto se vi siano novità: M. Lupoldus. Certe, zelosissime domine Magister noster Ortvine, ego nihil audivi novi. M. Ortvinus. Et vos, viscerosissime Magister noster Gingolphe? M. Gingolphus. Certe nec ego etiam, Magister noster Ortvine, nisi unam novitatem: sed ego credo quod vos bene scitis. M. Ortvinus. De quo est illa novitas? M. Gingolphus. De quibusdam ribaldis qui non faciunt nisi facere 25. Vd. l’ed. Saladin, cit. alla n. 2 (La conférence macaronique), che seguo per le citazioni. 26. Cfr. A. Hufstader, Lefèvre d’Etaples and the Magdalen, in « Studies in the Renaissance », xvi 1969, pp. 31-60. 104 la tradizione del macaronico nell’età della riforma guerras et disturbia in tota Ecclesia. Diabolus possit eos importare per terras et per maria! […] M. Ortvinus. Per deum sanctum […], bene esset factum si illuminatissima Theologiae facultas avisaret quid oportet facere de illis rabientibus et truffatoribus! 27 Poco piú sotto Gingolphus esclama: «Etiam papa est bene fatuus, quod non excommunicat istos grossos buffones» (p. 102). Sarebbe divertente continuare: nel prosieguo del dialogo si assiste allo scontro fra Erasmo, Reuchlin e Lefèvre e i tre magistri che è anzitutto, prevedibilmente, uno scontro tra latini diversi che vorrebbe simbolizzare la differenza fra la perizia e la cialtroneria, l’umiltà dei veri sapienti e l’arroganza dei teologi dogmatici. Soffermandoci sul brano citato, possiamo rapidamente definirne le caratteristiche; anzitutto i volgarismi, che sono il sale della lingua maccheronica: zelosissime e viscerosissime, per cominciare, e poi ribaldis, guerras et disturbia, senza contare il sublime truffatoribus (di trufatores e bufones si parlava anche nei versi, tratti dalle Epistolae, citati poc’anzi; il termine era già stato censito da Segre nella Cronica di Salimbene);28 andrà poi considerata la costruzione sintattica, che prevede la presenza (insistente nel dialogo) del quod dichiarativo in luogo dell’infinitiva (è il caso qui di credo quod vos bene scitis) oppure la costruzione scio de che segue subito dopo. Ma il tono da latino comicamente fasullo è raggiunto da espressioni, come l’invettiva Diabolus possit eos importare per terras et per maria, che somigliano al latino caricaturale che gli studenti praticavano un tempo nelle università. Al proposito si veda il modo con cui Lupoldus, in principio di dialogo, saluta i suoi due compari: «Salutem maximam et multas bonas noctes, sicut sunt stellae in coelo et pisces in mari»,29 saluto che a chi abbia familiarità con Folengo può evocare il modo con cui Cingar esprime il proprio sdegno contro 27. Dialogus novus, cit., pp. 92-94. 28. Cfr. Segre, Nuove indagini, cit., p. 192. 29. Dialogus novus, cit., p. 90. 105 claudio gigante la moltitudine di regole e ordini di frati poltroni: «Quantae stant coelo stellae, foiamina sylvis, / tantae sunt normae fratrum, tantique capuzzi» (viii 487-88). 4. Gargantua e le campane di Notre-Dame Citavo poco fa François Rabelais, una tappa d’obbligo – con l’immancabile ossequio al grande Bachtin –30 se soltanto si sfiora l’àmbito del grottesco letterario. Ma anche limitando il discorso al maccheronico, i cinque libri di Gargantua et Pantagruel 31 offrono nel loro indiavolato impasto linguistico numerosi esempi: retaggio, almeno in parte, di Folengo, a cui è tributato un esplicito omaggio, ma anche prosecuzione in forme diverse della polemica degli umanisti contro il vacuo sapere teologico e la cultura pedantesca degli ambienti universitari. Nel cap. 14 del primo libro Gargantua viene affidato dal padre alle cure di un gran «docteur sophiste»,32 Thubal Holoferne, che nel modico tempo di cinque anni e tre mesi gli insegna l’alfabeto cosí bene da poterlo recitare a memoria all’inverso (un po’ come il prete Iacopinus del Baldus, che però arresta la propria scienza alla lettera O);33 Gargantua passa quindi per il suo apprendistato alla lettura per diciotto anni e undici mesi del De modis significandi di Jean de Garland (una sorta di trattato sui diversi significati delle parole), letto con le glosse di immaginari esegeti, per giungere alla conclusione che de modis significandi non erat scientia. Piú o meno simili sono gli insegnamenti degli altri precettori, finché il padre Grangousier – accortosi che il figlio diviene sempre piú stupido – gli fa mutare maestro e metodo: Gargantua riceve cosí un’educazione “naturalistica”, fondata sulla co30. Cfr. M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale (1965), trad. it. Torino, Einaudi, 1979. 31. Cito da F. Rabelais, Œuvres complètes, édition établie, présentée et annotée par M. Huchon avec la collaboration de F. Moreau, Paris, Gallimard, 1994. Mi sono giovato anche dell’édition établie par L. Barré, Paris, V. Lecou, 1854. 32. Rabelais, Gargantua, cit., p. 43. 33. Baldus, ed. Faccioli cit., viii 522-99. 106 la tradizione del macaronico nell’età della riforma noscenza delle scienze, sull’osservazione del cielo e dei pianeti e cosí via: ai fumosi precetti della scolastica Rabelais contrappone l’esperienza e l’osservazione diretta, fondamento, del resto, della sua formazione di medico. Rabelais impiega la funzione maccheronica con fini analoghi a quelli degli umanisti in senso lato erasmiani di cui si è discorso prima, né si potrebbe sottoscrivere la tesi che l’intento polemico sia attenuato dal carattere paradossale del suo universo narrativo. Un esempio di rilievo riguarda l’episodio delle campane di Notre-Dame che Gargantua ruba per cingerne la sua giumenta (i cap. 17):34 Janotus de Bragmardo, il piú anziano e valente professore della Sorbonne, è inviato in missione da lui per ottenerne la restituzione (cap. 18). La perorazione di Janotus è infarcita di citazioni latine pronunciate a sproposito, secondo i modi della tradizionale satira del pedante, di cui lo stesso Rabelais offre nel Pantagruel un esempio formidabile (alludo all’episodio dello scolaro Limosino: ii cap. 6); il ragionamento di Janotus (cap. 19), che in realtà mira solo a ottenere dall’università il premio promessogli di un paio di brache (altro simbolo tradizionale della pedanteria), è suggellato da una memorabile sfilza maccheronica: Ça je vous prouve que me les doibvez bailler. Ego sic argumentor: « Omnis clocha clochabilis, in clocherio clochando, clochans clochativo clochare facit clochabiliter clochantes. Parisius habet clochas. Ergo gluc».35 In genere gli interpreti si astengono (saggiamente) dal tradurre,36 ma il gioco potrebbe essere reso in questi termini: ‘Ogni campana è scampanabile, scampanando il campanile che, scampanando come una campana, fa scampanantemente degli scampanii. E visto che Parigi ha delle campane, ne segue…’. 34. Vd. G. Defaux, Rabelais et les cloches de Notre-Dame, in « Études rabelaisiennes », ix 1971, pp. 1-28. 35. Rabelais, Gargantua, cit., p. 52. La frase in francese suona: ‘Ecco qua! Ora vi dimostro che dovete consegnarmele’. 36. Vd. le trad. it. di M. Bonfantini, Milano, Mondadori, 19652, vol. i p. 102, e di A. Frassineti, Milano, Rizzoli, 1984, vol. i p. 107. 107 claudio gigante Nel settimo capitolo del secondo libro (cioè il primo di Pantagruel ) Rabelais si cimenta in una sorta di enumerazione biblioburlesca: alludo al famoso catalogo della Librairie de Sainct Victor, che si conclude con il nome di Merlinus Coccaius.37 L’importanza del catalogo per quel che riguarda non solo la querelle di Colonia ma anche e soprattutto la bufera luterana è stata messa in luce da Lucien Febvre nel suo libro sull’incredulità nel secolo XVI.38 La Librairie offre titoli in francese e in latino maccheronico (scelta che spiega anche l’omaggio a Folengo), fra i quali – oltre alla Pantophla decretorum, al Malogranatum vitiorum, al Decretum universitatis Parisiensis super gorgiositate muliercularum ad placitum (la gorgiositas muliercularum dovrebbe essere qualcosa tipo ‘la tettosità delle sgualdrine’), a un De optimitate triparum attribuito a Nöel Beda (un fanatico antierasmiano della Sorbonne)39 e al De brodiorum usu et honestate chopinandi di un domenicano nemico di Reuchlin (da chopiner, ‘sbevazzare’, e d’altra parte Rabelais ama scrivere chopiner théologalement, ‘sbevazzare come solo un teologo’) – vi figura un sublime Ars honeste pettandi in societate per M[agistrum] Ortvinum. E Rabelais non soltanto sbeffeggia, lui pure, Ortwin (ironicamente citato nel terzo libro insieme a Pitagora, Socrate ed Empedocle), ma mostra di conoscere anche gli altri due protagonisti del Dialogus novus et mire festivus: a magister Guingolfus attribuisce una Ingeniositas invocandi diabolos et diabolas, mentre piú sobriamente di Lupoldus sono citate le Lyripipii Sorbonici moralisationes, ovvero le ‘Moralizzazioni del cappuccio dottorale sorbonico’.40 La menzione degli altri due e soprattutto l’allusione al milieu accademico parigino del secondo, sembra suggerire che anche Gingolphus e Lupoldus avessero un’identità riconoscibile al tempo loro e di Rabelais. 37. Rabelais, Pantagruel, cit., pp. 235-41. 38. L. Febvre, Il problema dell’incredulità nel secolo XVI. La religione di Rabelais (1942), trad. it. con prefaz. di A.J. Gurevic], Torino, Einaudi, 1978, pp. 279-84. 39. Vd. Saladin, La bataille du grec à la Renaissance, cit., pp. 390-92. 40. « Le lyripipion était le capuchon distinctif porté par les docteurs en théologie » (J.-Ch. Saladin, in Les funérailles de la Muse, cit., p. 87). 108 la tradizione del macaronico nell’età della riforma La funzione maccheronica è anche per Rabelais un modo per porre alla berlina gli usi ecclesiastici del tempo: la sua satira insiste, oltre che sull’ignoranza dei teologi (per converso, da buon erasmiano, nell’esortazione allo studio di Gargantua a Pantagruel viene esaltata la conoscenza delle buone lettere e delle lingue antiche, comprese l’ebraica e la caldaica, mentre attraverso la panglossia di Panurge quella delle lingue moderne), su altri aspetti della polemica umanistica. Molti esempi potrebbero essere prodotti (in modo particolare la satira sui costumi degli ordini mendicanti, quella sul papa, affidata alle isole dei Papefigues e dei Papimanes, il sarcasmo sui decretali); mi limiterò a due casi, maccheronicamente rilevanti, che riguardano le indulgenze: nella Librairie de Sainct Victor figura, attribuito al vescovo Boudarino, il De emulgentiarum profectibus eneades novem, cum privilegio papali, dove evidente in emulgentiarum è il gioco di parole fra indulgentiae e il verbo emungere. Piú avanti, nel cap. 17, Panurge (come il folenghiano Cingar, semper truffare paratus)41 descrive il modo grazie al quale ruba i soldi destinati alle indulgenze, giovandosi di un’interpretazione singolare (e direi idealmente maccheronica) del motto evangelico centuplum accipies che i predicatori citavano come formula di ringraziamento (e di promessa) per chi versava un obolo per la salvezza della propria anima: dopo il versamento dell’obolo Panurge si sente autorizzato a rubarne cento volte il valore, come a riscuotere in terra gli interessi a lui dovuti. Un ultimo riferimento a Rabelais sarà per l’unica volta in cui è lui stesso a definire due suoi versi come maccheronici. Siamo nel quarto libro, quello del viaggio per mare di Pantagruel, e si narra uno dei tanti aneddoti che circolavano sul poeta maledetto François Villon: la spedizione punitiva che questi avrebbe organizzato contro un sacrestano che aveva rifiutato il suo aiuto per la preparazione di una sacra rappresentazione della Passione. Senza ulteriori dettagli, mi limiterò a ricordare il modo in cui il frate, di 41. Vd. A. Capata, Semper truffare paratus. Genere e ideologia nel ‘Baldus’ di Folengo, Roma, Bulzoni, 2000. 109 claudio gigante nome Tappecoue (ossia, in senso osceno, ‘Batticoda’), è descritto da Villon in «vers Macaronicques», mentre ritorna da una delle solite questue: Hic est de patria, natus de gente belistra, qui solet antiquo bribas portare bisacco.42 L’effetto comico è raggiunto sia attraverso la latinizzazione di belître, che era un modo ingiurioso per indicare un mendicante (in termini folenghiani villanus piuttosto che pitoccus), e di bribe, ‘tozzo di pane’, sia grazie alla perfezione metrica (si tratta di due esametri), che avvicina Rabelais all’arte di Folengo, piuttosto che ai pastiches grossolani che gli umanisti attribuivano agli odiati teologi. In questo caso Rabelais fa pronunciare dei versi maccheronici a un personaggio per lui “positivo”, Villon, con cui si sente idealmente affine: il suo intento non è quindi certo quello di denigrarlo (come avviene per i pedanti e i loro libri), ma, al contrario, di mostrarne l’acume. La coppia di versi si presta insomma a una valutazione completamente differente: qui Rabelais esplora un territorio diverso con l’occhio, senza dubbio, a quel Merlinus Coccaius che, non a caso, è citato per ultimo, con l’apparentemente immaginoso De patria diabolorum, nel catalogo di Sainct Victor. Il titolo non è invenzione di Rabelais: figurava già, attribuito al solito Merlino, nel Libellus de laudibus Merlini Cocai – firmato da un’altra maschera folenghiana, Acquario Lodola – con cui si apriva nel 1517 la princeps del Baldus (la cosiddetta «Paganini»). Ed è possibile che Rabelais fosse rimasto affascinato dall’ultima parte del poema dove, già nella prima versione, l’eroe eponimo e i suoi compagni fronteggiano diavolacci, streghe e mostri furiosi, e che ne abbia tratto ispirazione per il viaggio fantastico di Pantagruel e Panurge degli ultimi capitoli del suo capolavoro. 42. Rabelais, Pantagruel, cit., p. 569 (‘questi discende dalla patria e dal popolo dei miserabili, / gente che ha l’abitudine di portare resti di pane nella bisaccia consunta’). 110 la tradizione del macaronico nell’età della riforma 5. Prima e dopo Folengo “Macaronico” tout court, Folengo ha sottratto l’arte maccheronica all’àmbito esclusivo della satira per costruire un sistema poetico autonomo, dove il verso può ambire tanto al canto liricopastorale (mi riferisco evidentemente alla Zanitonella) – con la consueta, anche qui, prevalenza del “basso-corporeo” –, tanto all’orizzonte eroico (le imprese di Baldus), tanto infine alla rappresentazione grottesca dell’universo municipale, animato da una violenza che non conosce limiti: i “villani”, i politici corrotti, i sordidi frati imbroglioni. Per Folengo, a differenza della tradizione umanistica, la lingua maccheronica non è una funzione, ma un sistema, non è una sottolineatura, ma il fondo e la struttura della sua opera, regolato da Normulae de sillabis che ne sanciscono il ritmo regolare e inconfondibile. Rispetto alla tradizione italiana che lo precede – e che prima ho rapidamente evocato – Folengo assorbe nella sua scrittura, dal “basso” e in una prospettiva volutamente sfuggente quanto al punto di vista autoriale, i grandi temi dell’evangelismo del primo Cinquecento (dalle indulgenze – condannate nel libro vii della stampa del 1521, la «Toscolanense» –, alla satira dei costumi conventuali, all’invettiva anti-romana), senza per questo rinunciare a un autonomo piacere della narrazione, a quella «fagocitazione ludica di materiali eterogenei», per dirla con il Segre recente,43 che al di là di coincidenze nella storia dei testi che non possono non colpire (penso in particolare al fatto che sia il Baldus sia Gargantua et Pantagruel approdano nelle stampe “definitive” a risultati ideologicamente meno esplosivi), e al di là di coincidenze personali (sia Folengo che Rabelais sono problematicamente benedettini), donano un’aria di famiglia a due opere pure cosí distanti: un’affinità che era colta da un anonimo secentesco che pubblicava nel 1605 una traduzione in prosa del Baldus intitolata Histoire maccaronique de Merlin Coccaie prototype de Rabelais.44 43. Segre, Nuove indagini, cit., p. 199. 44. Vd. l’édition revue et corrigée par P.L. Jacob, Paris, A. Delahays, 1859. 111 claudio gigante Su questa falsariga, quantunque con un respiro incomparabilmente minore, si pongono altri testi dell’età della Riforma che coniugano maccaronico e satira anticlericale: un caso interessante è il poeta polacco Jan Kochanowski, autore, oltre che di versi in volgare e in latino, di un Carmen macaronicum de eligendo vitae genere scritto probabilmente negli anni Cinquanta, dopo un soggiorno a Padova: una disputa vivace tra un prete, un monaco, un signorotto di campagna e un cortigiano si risolve in tirate sarcastiche contro il clero regolare e secolare, tacciato – secondo un luogo comune della satira del tempo – di ignavia e pigrizia. Prendendo spunto dalle macheronee italiane, Kochanowski (che fu messo all’Indice proprio come Folengo) latinizza il suo volgare creando un impasto linguistico che sembra efficace, almeno a un’impressione esterna (personalmente, ignaro di polacco, mi sono giovato di una traduzione francese).45 Ricca di testi a sfondo religioso, e in genere di tipo “evangelico”, è la tradizione cinquecentesca francese: ricordo almeno i due pamphlets maccheronici di Théodore de Bèze, calvinista implicato nella guerra civile contro i cattolici, l’Epistola magistri Benedicti Passavanti (1554) e la Harenga macaronica […] ad M. card. de Lotharingia (1566). Se Folengo contribuisce alla formazione dell’estro di Rabelais, in Italia dopo di lui la letteratura maccheronica si può dire che torni ai temi delle origini: se Tifi Odasi invocava la sua Phrosina come «putanarum putanissima, vaca vacarum, / potifarum potissima pota potaza»,46 e se dal canto suo l’anonimo padovano del Nobile vigonze opus si rivolgeva alla sua Musa Roseta come «Rica putanarum notissima […] / vaca vacarum multo bertone superba»,47 Cesare Orsini, in arte Stopinus, comprendeva nei suoi Ca45. J. Kochanowski, La Vie qu’il faut choisir, traduit du polonais et du latin, et présenté par A.-C. Carls, Paris, Orphée-La Différence, 1992. 46. Tifi Odasi, Macaronea, 20-21, in I Maccheronici prefolenghiani, Appendice a T. Folengo, Opere, a cura di C. Cordié, Milano-Napoli, Ricciardi, 1977; il poema alle pp. 957-74, la citaz. a p. 957. 47. L’Opus si legge ivi, pp. 975-82, la citaz. a p. 975. 112 la tradizione del macaronico nell’età della riforma priccia macaronica del 163648 un De malitiis putanarum, evocativo sin dal titolo, e uno sbiadito De laudibus pazziae, privo di furori erasmiani. Anche un altro filone prefolenghiano, sempre di origine padana, l’invettiva personale in versi maccheronici, del genere di Bassano Mantovano e di Giovan Giorgio Alione, resiste, in forme piú o meno innocue, nel tempo: ne sono esempio i Carmina macaronica di Luciano Rossi, un prete genovese – autore fecondo anche di versi di occasione in latino e in volgare – che negli anni Trenta del Settecento compone macheronee per vendicarsi dei cittadini di Molare che non gli avevano dato il salario meritato in qualità di precettore dei loro figli.49 Niente di paragonabile, insomma, con le forme maccheroniche usate dagli umanisti della stagione erasmiana. 6. Epilogo Vorrei concludere proprio con un altro amico di Erasmo che ho avuto occasione di citare prima, Willibald Pirckeimer. Fra altri importanti lavori, questi pubblicò nel 1531 per i tipi del Froben, il famoso libraio-editore di Basilea, una traduzione in latino delle Orazioni di Gregorio di Nazianzo. La versione di Gregorio era parte di quel programma di recupero e diffusione delle fonti antiche del Cristianesimo (e in modo particolare quelle greche) condiviso dagli umanisti della generazione di Erasmo, in un filo rosso che idealmente conduce sino al primo Leopardi, in polemica con quanti preferivano Duns Scoto, Bonaventura o Tommaso d’Aquino. Traducendo la quarta orazione di Gregorio, la prima delle due invettive contro Giuliano l’Apostata che per l’illustre destinatario godevano di una fortuna autonoma rispetto al resto del 48. Padue, apud Gasparem Ganassam. Vd. G. Boffito, D’un imitatore del Cocai nel Seicento: Maestro Stopino (Cesare Orsini), in « Giornale storico della letteratura italiana », vol. xxxi 1898, pp. 331-42. 49. Vd. L. Rossi, Carmina macaronica, a cura di G. Ponte, Genova, Univ. di Genova, 1984; G. Ponte, Luciano Rossi, settecentista solitario, in Id., Storia e scrittori in Liguria (secoli XV-XX), Genova, Brigati, 2000, pp. 125-69. 113 claudio gigante corpus, Pirckeimer si trova di fronte a quattro versi che la tradizione attribuiva al mitico Orfeo: Zeu` kuvdiste, mevgiste qew`n, eijlume;ne kovprw/, o{sh te mhleivh, o{sh te i{ppwn, o{sh te hJmiovnwn,50 ossia, in una versione moderna,51 «O Zeus gloriosissimo, sommo tra gli dèi, che ti avvolgi di sterco / sia di pecore, che di cavalli, che di muli». Nelle intenzioni di Gregorio la citazione del frammento orfico, che a quel che pare era in realtà uno dei «frammenti di età ellenistica, di parodie delle credenze panteistiche stoiche, a cui si rimproverava di mescolare Dio con le cose piú vili»,52 era un modo per satireggiare i miti classici e nel contempo aggredire, sia pure post mortem, il disperato tentativo di restaurazione pagana dell’imperatore Giuliano. Mi sembra notevole il modo in cui Pirckeimer rende i due versi; conia due esametri perfetti puntando a un abbassamento del linguaggio che, se non è propriamente maccheronico – non essendoci una contaminazione tra lemmi in volgare e forme latine –, è in ogni caso un curioso pastiche linguistico: Iuppiter alme parens divum, conversibile stercus Sive caballorum mulorum sive bidentum.53 Per rendere il disprezzo di Gregorio verso presunti testi sacri del paganesimo, Pirckeimer trasforma l’aulica lingua del frammento greco in un’altalenante scansione, volutamente goffa, di forme alte e basse, che dovrebbe nell’imperizia presunta dell’autore ci50. Gregorio di Nazianzo, Contro Giuliano l’Apostata. Oratio iv, a cura di L. Lugaresi, Firenze, Nardini, 1993, par. 115, p. 200. 51. Ivi, p. 201. 52. Ivi, p. 404. In generale su Gregorio e la tradizione orfica vd. M.L. West, I poemi orfici, trad. it. Napoli, Loffredo, 1993, pp. 196-97. 53. D. Gregorii Nazianzeni Orationes 30, Bilibaldo Pirckheimero interprete, nunc primum editae […], Basileae, in officina Frobeniana, 1531, p. 105. 114 la tradizione del macaronico nell’età della riforma tato rappresentare la confusione e la mancanza di idee: a uno stilema classico come Iuppiter alme parens divum segue un’espressione dubbia come conversibile stercus (l’aggettivo esiste solo nel latino tardo); la serie di animali è formata da caballus, tardo e poco amato dai classici, dal medio mulus, e del raffinato bidentes. Pur senza ricorrere al bagaglio maccheronico, che poco si sarebbe giustificato nella traduzione di Gregorio, Pirckeimer adotta un sistema stilistico che ne è influenzato: mi sembra un caso insolito, credo mai notato, di riecheggiamento del maccheronico pur nel recinto di un latino formalmente corretto. Se le forme hanno un significato, la traduzione dell’invettiva contro l’Apostata diviene cosí un accenno polemico contro le idolatrie del suo tempo, nemiche della ricerca umanistica della Verità. 115