Le opinioni - Ordine Avvocati Milano

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Le opinioni - Ordine Avvocati Milano
LA PENA DI MORTE (1)
L'angoscioso problema della pena di morte, ha avuto negli ultimi tempi accenti di
particolare gravità e, come sempre succede ai nostri giorni, quando tutti i mezzi di
comunicazione entrano in gioco per avvenimenti eccezionali che hanno scosso l'opinione
pubblica, dibattiti ed interventi si sono avvicendati alla televisione o sulle pagine dei
giornali, rinnovando l'orrore per i crimini compiuti ma anche la pietà alla vista dei mezzi
usati per punirne gli artefici e _ soprattutto _ il terribile dubbio dell'errore.
«Non uccidere», sono le parole con le quali Enzo Biagi, concluse una sua nota
trasmissione dal titolo «Il fatto».
«Non uccidere»: un grido che da secoli echeggia nel mondo senza essere ascoltato.
«Non uccidere», scriveva Giovanni Papini in una rara pagina, certo dimenticata. «Fra
qualche secolo o qualche millennio» _ aveva affermato lo scrittore toscano _ «se il genere
umano nel frattempo non sarà del tutto abbruttito o del tutto sterminato, questa nostra età
presente, che a noi sembra superiore a tutte quelle che l'hanno preceduta, susciterà stupore e
ribrezzo in quei lontani pronipoti che vorranno o dovranno, per ragioni di studio o di
curiosità, occuparsi dei fatti nostri e dei nostri usi e costumi».
Sono trascorsi 238 anni da quando uno studioso milanese ancora assai giovane, Cesare
Bonesana marchese di Beccaria, scriveva a venticinque anni un trattato ispiratogli da un
forte sentimento di giustizia: era la reazione del suo animo sensibile di fronte ad esempi
avvilenti di sopraffazione e di dolore.
Scritto fra il marzo 1763 e il gennaio 1764, fu stampato a Livorno nell'estate del 1764.
Il Beccaria si propose con la sua opera di rivelare i difetti della legislazione giudiziaria dei
suoi tempi, invocandone la correzione ed esponendo in proposito le proprie vedute. Egli
partiva dal concetto (Cap. I e III), già esposto da J.J. Rousseau nel «Contratto Sociale»,
secondo il quale gli uomini, per libero accordo, si sarebbero riuniti a comune convivenza,
sacrificando una parte di libertà, la minore possibile, in vista dell'utilità maggiore: e questa
concezione aveva influito su tutto il suo modo di esaminare la questione, inducendolo a
considerare il diritto penale come fondato non sul classico principio della restituito juris,
secondo il quale «punitur quia peccatum est», ma su quello, relativista e pragmatico, per cui
«punitur ne peccetur».
Il piccolo libro Dei Delitti e delle Pene, al quale il Foscolo doveva riconoscere «stile
assoluto e sicuro», ebbe un'eco vastissima: commentato da Diderot e da Voltaire fu
conosciuto ed ammirato da studiosi e maestri quali D'Alembert, Helvetius, Holbach, Hume,
Hegel.
Ma, con i consensi e le lodi, si levarono violente polemiche.
Il primo attacco, di padre Ferdinando Facchini, comparve a Venezia nel 1765; nel gennaio
del 1766 il libro venne messo all'Indice. Frattanto esso continuava a circolare tra le mani
degli Enciclopedisti parigini e veniva tradotto in francese dall'abate Morellet.
«Questa inutile prodigalità di supplici, che non ha mai reso migliori gli uomini» _ scriveva
il giovane giurista milanese _ «mi ha spinto ad esaminare se la morte sia veramente utile e
giusta in un governo bene organizzato. Qual può essere il diritto che si attribuiscono gli
uomini di trucidare i loro simili? Non certamente quello da cui risultano la sovranità e le
leggi. Esse non sono che una somma di minime porzioni della privata libertà di ciascuno;
esse rappresentano la volontà generale, che è l'aggregato delle particolari. Chi è mai colui
che abbia voluto lasciare ad altri uomini l'arbitrio di ucciderlo? Come mai nel minimo
sacrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo tra tutti i beni, la vita? E
se ciò fu fatto, come si accorda un tal principio coll'altro, che l'uomo non è padrone di
uccidersi, e doveva esserlo se ha potuto dare altrui questo diritto o alla società intera? Non è
dunque la pena di morte un diritto mentre ho dimostrato che tale essere non può, ma è una
guerra della nazione con un cittadino, perché giudica necessaria o utile la distruzione del suo
essere. Ma se dimostrerò non essere la morte né utile né necessaria avrò vinto la causa
dell'umanità» (cap. XXVIII).
Il libro, destinato ad ingigantirsi ed a fiammeggiare nel pensiero filosofico e morale dei
grandi protagonisti del secolo dei lumi, era nato dal «dialogo interno» di un gruppo
d'intellettuali di avanguardia tra i quali Pietro Verri, che di Cesare Beccaria fu il modello,
l'esempio, il sostegno.
E si era aperto con uno squillo di fanfara: il premio famoso: «Alcuni avanzi di legge di un
antico popolo conquistatore» _ aveva scritto Cesare Beccaria _ «fatte compilare da un
principe che dodici secoli fa regnava in Costantinopoli, frammischiate poscia coi riti
longobardi, ed involte in farraginosi volumi di oscuri e privati interpreti, formano quella
tradizione di opinioni che in gran parte d'Europa ha tuttavia nome di leggi».
Alcuni avanzi di legge di un antico popolo conquistatore: il diritto romano. Fatte
compilare da un principe che dodici secoli fa regnava in Costantinopoli: Giustiniano e il
Codice giustinianeo.
Involte in farraginosi volumi di privati e oscuri interpreti: la Glossa, in cui si riassume la
sapienza giuridica medievale.
Le Costituzioni di Melfi _ considerate la prima legislazione ad impronta costituzionale di
uno Stato moderno _ che Federico II promulgò a Melfi nell'agosto 1231, non erano state
ancora pubblicate.
Non sarebbe certamente sfuggita alla fervida attenzione ed all'acuta capacità di analisi del
giovane studioso milanese l'opera legislativa del famoso Imperatore, che fu la struttura
portante della sua costruzione politica. Cesare Beccaria ne avrebbe certamente biasimato la
severità eccessiva, la ferrea intransigenza, l'indiscutibile crudeltà con la quale, per tanti
Titoli delle sue Leggi, Federico aveva dettato le parole tremende «capite punjatur», «furca
suspensi», «capitali poena feriatur», «capitis subjacebit», «poenam capitis irrogamus»,
«poenae capitali succumbat».
Il Beccaria non avrebbe ignorato le Costituzioni federiciane.
Ma la prima edizione organica _ apparve solo nel 1786 _ cioè vent'anni dopo l'edizione
anonima del suo Trattato. Tale edizione fu stampata a Napoli da Gaetano Carcani, prefetto
della Regia Biblioteca Borbonica, il quale si servì di due manoscritti latini giunti fino a noi,
dell'unico testo originale greco scoperto presso la Regia Biblioteca di Parigi e, naturalmente,
dei commenti e delle interpretazioni dei glossatori della Scuola giuridica dell'Università di
Napoli nel periodo immediatamente successivo alla sua fondazione.
A quella edizione seguiva, nel 1854, il testo classico pubblicato in «Historia Federici
Secondi» dal francese Huillard Brèhalles, che riordinò per materia le leggi federiciane,
dando ad esse un titolo ed una numerazione.
E Cesare Beccaria, che aveva affermato: «Nonostante la luce di questo secolo, pochissimi
hanno esaminato la crudeltà della pena, l'irregolarità delle procedure criminali, annientati gli
errori accumulati nei secoli frenando, con la forza che hanno le verità sconosciute, il troppo
libero corso della mal diretta potenza»; che era stato veramente l'interprete fedele del secolo
dei lumi, aggiornando all'evoluzione del pensiero moderno un settore, come quello del
diritto penale dominio fino allora incontrastato della tradizione, volle contrapporre la viva
realtà del presente alla morta eredità del passato; il diritto vivente, basato sulla natura e sulla
ragione al diritto vigente, basato sull'autorità e sulla tradizione.
Le grandi, monumentali opere del passato, illuminate quando già la sua piccola opera
andava per il mondo, diffusa dalle sottili ed accurate speculazioni dei dotti, sarebbero state
ormai soltanto Storia.
Il delitto di lesa maestà _ crimen laesae maiestatis _ giunse sino al Rinascimento, che
hanno ricevuto dall'Impero titoli e dignità, si appellano per avere difesa, contro chiunque osi
attentare alla loro autorità. I Visconti, gli Scaligeri, proclamano altamente il diritto di punire
chiunque si ribelli in qualsiasi modo. L'offesa alla persona del Principe e dei suoi
rappresentanti comporta senz'altro morte e sconfitta secondo le pene stabilite dal diritto
romano.
Il delitto di lesa maestà comprende tutti i delitti che possono mettere in pericolo l'esistenza
dello Stato e intaccare l'eredità territoriale, ma anche criticare l'operato del governo,
discutere la gravità dei tributi, malignare contro l'onore del Principe e dei suoi familiari.
Torture, decapitazioni e rogo erano pene usuali dei sistemi processuali.
Il furto, se con violenza, portava alla impiccagione. Il veneficio alla decapitazione o al
rogo. Un testimone falso era punito col taglio della lingua o di una mano. Reati di eresie, di
negromanzia, di stregoneria, puniti col rogo. Lo stupro della donna portava alla
decapitazione. I rei di furti sacrileghi, martoriati con tenaglie roventi, venivano poi
trascinati, decapitati e squartati. I falsificatori di monete erano fatti bollire in caldaia.
¤a6¥ Sulle immagini tetre delle folle assiepate nelle piazze d'Italia destinate a divenire nei
secoli futuri mete agognate di milioni di visitatori; sui corpi degli impiccati che pendevano
dai merli delle torri; a Ponte Sant'Angelo, a Campo de' Fiori, a Piazza del Duomo, a Piazza
San Marco, a Piazza di Rialto, si era levato il grido ammonitore e la fiera protesta del
giovane giurista lombardo, che attraversò l'Europa, scossa da un capo all'altro dai fremiti e
dagli orrori delle passioni e delle vendette, placando gli odi e aprendo i cuori a nuove
speranze.
L'errore giudiziario commesso nel 1762 a Tolosa a danno del negoziante protestante Jean
Calas, che aveva riempito d'orrore l'Europa intera, diede impulso a tutto il movimento.
Voltaire, nel suo scritto Sur la Tolèrance, accusò con roventi parole il Tribunale di Tolosa
per aver condannato un innocente alla pena capitale.
Già negli ultimi decenni del secolo XVIII l'agitazione aveva raggiunto il suo culmine. Le
prime riforme avvennero in Russia, dove Caterina II sovrana illuminata, abolì la pena di
morte. In Austria, l'abolizione avvenne con la celebre Legge di Giuseppe II, emanata il 13
gennaio 1787.
In Italia, dove i fermenti del secolo XVIII avevano segnato un risveglio nelle filosofie e
nelle dottrine giuridiche, Giambattista Vico lanciava nuove e feconde idee sull'origine e lo
sviluppo della società e del diritto, tracciando con la Scienza nuova, la storia ideale
dell'umanità e mettendo l'Italia alla testa della giurisprudenza europea.
Con il suo caldo, vivo, sincero soffio d'altissima idealità l'opera di Cesare Beccaria aveva
varcato i confini d'Italia, imponendosi ai pensatori di ogni paese. Ad essa avrebbe fatto
seguito, in uno stupendo ingranaggio di principi astratti e di osservazioni concrete, la Genesi
del diritto penale di Gian Domenico Romagnosi, rigorosa dimostrazione scientifica e
sistemazione logica della vasta ed ardua materia.
In quest'aura vivificatrice ed animatrice, Ferdinando IV, soggiogato dal pensiero di
Gaetano Filangieri che con La Scienza della legislazione dava agli uomini un sistema di
leggi ispirate alle più gloriose istituzioni del mondo, fondava a Caserta l'arcadica Colonia di
S. Leucio, che doveva vivere secondo la legge dei filosofi.
«Finché v'è scintilla di pensiero nell'uomo» _ disse Enrico Pessina _ «vi è sempre la
possibilità che il raggio dell'idea morale illumini la coscienza, e ravvivando la voce
imperiosa del senso morale, riabiliti il delinquente risollevandolo dal fango della colpa».
Chiudiamo così, ricordando coloro che vissero l'angoscioso problema nel tormento del loro
pensiero, per affidarlo, messaggio di vita e di Umanità, agli studiosi di ogni Paese e di ogni
tempo.
(1) Per gentile concessione della rivista forense Giustiziaoggi di S. Maria Capua Vetere.
MARIA ANTONIETTA STECCHI DE BELLIS