ERGO SUM - Exibart
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13 settembre 2010 delle ore 05:10 indice dei nomi: Theodor Ludwig Wiesengrund Adorno, marcello faletra, Immanuel Kant, Damien Hirst, André Breton ERGO SUM “L’arte è la più vigliacca delle alternative. Se riuscissimo a impegnarci con la gente come ci impegniamo nell’arte avremmo una vita molto più piena, brillante... La vita significa vivere, non fare un cazzo di arte qualsiasi”, afferma in un’intervista Damien Hirst. Senza peli sulla lingua, Hirst centra il problema. Mettendo in gioco il suo mestiere d’artista, confessa la vanità dell’arte di fronte alle contraddizioni sociali... Perché impegnarsi nel sociale quando è più facile "fare un cazzo di arte qualsiasi”? Se accettiamo di Damien Hirst le provocazioni più estreme, esposte nei più importanti musei del mondo, allora non dovremmo avere alcuna difficoltà ad accettare questa confessione, che in parte lo riscatta dalle sue stesse banalità e in apparenza lo tira fuori dalla mischia degli eroi della contemporaneità. In un certo senso è lui che usa strategicamente il mondo dell’arte per arricchirsi, avere successo e dire quel che caspita gli pare. E ci riesce. D’altra parte, la confessione di Hirst è l’indice di quanta banalità vi sia nell’arte " contemporanea” e come attorno a questa arrogante banalità vi siano un alone di rispetto e un senso di timore a chiamarla "un cazzo di arte qualsiasi”. Quel che ci dice Hirst è che il banale ha la meglio sull’arte e che in un certo senso lui, che preferirebbe "impegnarsi con la gente”, è però costretto a fare dell’arte "qualsiasi”. L’arte in questo scenario è come un giocattolo nei confronti del quale si è sottomessi, dolcemente schiavizzati: una specie di sindrome da Peter Pan, il bambino che voleva sfuggire il proprio futuro. Apprendiamo adesso che la banalità che si è infiltrata nell’arte attraverso i suoi enfant prodige è un grande giocattolo di distrazione di massa con cui un intero sistema gioca senza limiti d’età. Ma, come confessa Hirst, è un’infanzia priva d’innocenza perché è "vigliacca”. E si sa che i bambini sono a volte crudeli con gli animali. Vivisezionandoli ed esponendoli in trofeo, sperimentano la superiorità dell’uomo sulla bestia. La bestia non è un "soggetto” e, come dice Adorno, "la carezza sulla pelle dell’animale significa che la mano, qui, può distruggere”. L’occhio vitreo delle bestie imbalsamate ricorda il terrore procurato dagli incubi d’infanzia, di fronte a cui gli adulti infantilizzati si vendicano esponendone lo scalpo. Insomma, per dirla con Kant quando parlava di Illuminismo (e con Hirst che auspica un’uscita dalla vigliaccaggine), questi giochini di società prolungano lo stato di "minorità” di fronte al banale causato dalla pigrizia imputabile solo a se stessi. Uno stato di minorità, di dipendenza e assuefazione al banale che, come dice Hirst, è lo specchio del fallimento anche dell’arte. Il . fallimento di questa età neoliberista con la sua cornice estetica postmoderna, l’età che si è voluta "liberata” dalla modernità e dal futuro, e che coincide integralmente con l’impero del mercato. Questo fallimento è uno dei grandi tabù del presente. In effetti, in un mondo che abbonda di ricette per il successo, non c’è posto per pensare al fallimento. L’arte dunque non muore, e non ha alcun senso pensare che sia morta, ma di fronte ai disastri del sociale può senz’altro fallire. Fu di fronte ad analoghi disastri che Breton affermò una volta: "Per quanto mi riguarda, i soli quadri che amo, compresi quelli di Braque, sono quelli che reggono davanti alla fame”. Perché il banale è questa declinazione infantile di ogni ideale o valore, cioè la scomparsa della responsabilità a cui segue l’epifania globale della spazzatura, e per noi che non abbiamo più un Dio, il banale è l’attrattore strano che risucchia il nostro immaginario, una specie di pulsione di morte che ci fa assistere allo sterminio quotidiano di tutto ciò che ha la presunzione di essere un " valore culturale”. D’altra parte, l’irresponsabilità è diventata un diritto preteso anche dai governanti per gli atti criminosi compiuti ai danni del bene comune. Se c’è un enigma dell’arte oggi, questo non è nell’arte ma nello spettatore, nel suo encefalo spugnoso che si fa recettore passivo davanti a opere arrogantemente imbecilli. Gli atti di crudeltà deliberata, di mortificazione della carne, di vessazione dei sensi, di cristianizzazione del corpo (c’è una vera epidemia del corpo crocifisso) che vengono inflitti allo spettatore sono così massicci che richiedono da parte di questo una complicità segreta con l’artista. Una partecipazione consenziente all’elevazione della soglia di tolleranza al più che banale, cioè a "un cazzo d’arte qualsiasi”, come giustamente dice Hirst. articoli correlati L’ultimo libro di Marcello Faletra Faletra e l’ergo sum marcello faletra saggista e redattore di cyberzone *articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 66. Te l’eri perso? Abbonati! pagina 1