Chiesa, mondo e missione Alexander Schmemann

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Chiesa, mondo e missione Alexander Schmemann
Alexander Schmemann
Chiesa, mondo
e missione
“È il tempo quando fiorisce il
tiglio”
Lipa
Indice
© 1979 St Vladimir’s Seminary Press
© Serge Schmemann
© 2014 Lipa Srl, Roma
Introduzione ........................................................ 7
Chiesa, mondo e missione
prima edizione: ottobre 2014
1. L’interrogativo di fondo ................................ 20
Lipa Edizioni
via Paolina, 25
00184 Roma
& 06 4747770
fax 06 485876
e-mail: [email protected]
http: //www.lipaonline.org
2. Il “mondo ortodosso”, passato e presente ...... 44
Autore: Alexander Schmemann
Titolo: Chiesa, mondo e missione
(titolo originale: Church, World and Mission.
Reflections on Orthodoxy in the West)
Sottotitolo: Per una cultura della vita nuova
Traduzione: Maria Campatelli
Collana: Pubblicazioni del Centro Aletti
Formato: 130x210 mm
Pagine: 320
In copertina: Stella Secchiaroli, “Il Seminatore”, tempera su carta, Atelier del
Centro Aletti
Stampato nel novembre 2014
Impianti e stampa: Graficapuntoprint, Roma
Proprietà letteraria riservata Printed in Italy
codice ISBN 978-88-89667-51-4
3. Il mondo nel pensiero e nell’esperienza ortodossi.102
4. Una tempesta significativa.............................. 126
5. Il compito della teologia ortodossa oggi ........ 169
6. Teologia e liturgia............................................. 185
7. Rinnovamento ..................................................210
8. Verso una teologia dei concili ............................225
9. La libertà nella chiesa .........................................253
10. L’agonia ecumenica .........................................270
11. L’imperativo missionario ..................................292
12. Il mondo come sacramento ..............................303
5
Introduzione
Una conoscenza ecclesiale
In duemila anni di storia del cristianesimo, abbiamo
ereditato tante cose, alcune di cui rallegrarsi e ringraziare
Dio, altre per cui provare pentimento. La consapevolezza di questa storia ci può essere assai utile per affrontare
le sfide dei nostri giorni. Ma spesso la sua lettura è viziata dalle categorie che questa stessa storia ha prodotto
e che formano come delle lenti spesse che sfocano la
nostra visione. Bisogna essere capaci di trascendere tali
categorie per vedere nella storia la mano di Dio che ci
guida e ci rivela qualcosa di sé che diventa per noi una
chiamata alla salvezza.
Per fare questo diventa allora estremamente importante confrontarsi con un teologo “di razza” di un’altra
confessione cristiana, per scoprire che è possibile avere
una diversa valutazione di questi stessi fenomeni, delle
loro radici, dei loro esiti e della maniera in cui farvi
fronte. Del resto, la chiesa di Cristo, anche se vive nello
stato anomalo della divisione, è una sola. Pertanto la conoscenza di Cristo – e di conseguenza la testimonianza
di Lui – passa attraverso la comunione, il che significa
il superamento dell’autosufficienza – anche della comprensione degli eventi – che le singole Chiese hanno da
sole. L’intelligenza della chiesa è un’intelligenza della
comunione.
7
A. Schmemann, Chiesa, mondo e missione
A questo scopo, Schmemann è un ottimo aiuto: vissuto per decenni prima in Francia e poi negli Stati Uniti,
partecipa dall’interno alle vicende della cultura occidentale, ma allo stesso tempo le guarda come passandovi
accanto, come se fosse qualcosa che non è completamente suo. E questo gli permette di leggere anche certe
dinamiche proprie al cristianesimo occidentale come un
prodotto della chiusura del cristianesimo in tale cultura.
Si conosce a partire dall’antinomia fondamentale
Il primo limite che Schmemann vede nelle varie
letture della situazione che normalmente circolano
nel contesto ecclesiale occidentale è che sono prive di
quella apertura alla dimensione escatologica che sola ci
permette di essere liberi dai vincoli della storia. Il che
non significa vivere in un mondo artificiale.
Noi sappiamo che la chiesa vive nel mondo, ma non
è del mondo. Sappiamo che le frontiere tra la chiesa e il
mondo sono spesso difficili da stabilire e che talvolta abbiamo mescolato il Vangelo ai valori culturali di un tempo particolare, mancando di compiere con ciò una vera
inculturazione. Ma sappiamo anche che la chiesa deve
preservare la propria identità senza fuggire dal mondo,
perché altrimenti ridurrebbe se stessa ad un ghetto. La
vocazione della chiesa non si è mai limitata a rimanere
una comunità eletta che alla fine potrebbe essere presa
per una setta di “puri”, separati dalla vita del resto del
mondo. La natura della chiesa è “cattolica”, è l’unione
di tutto l’uomo con tutto Dio, l’assunzione dell’intera
vita dell’uomo e del mondo e la sua trasfigurazione in
eucaristia e comunione.
8
Introduzione
È dentro questa antinomia – nel mondo, ma non del
mondo – che si colloca allora un’esperienza di chiesa si­­
gnificativa e attuale per la cultura.
Schmemann, con la chiarezza che lo contraddistingue, non ha peli sulla lingua nel sottolineare che l’enfatizzazione della presenza della chiesa nel mondo tipica
del cristianesimo occidentale, la sua costante preoccupazione di ridurre il Vangelo ad un messaggio sociale
rilevante, è la conseguenza della perdita di questa antinomia, dove tutto si appiattisce in un’ottica immanente.
È invece l’orizzonte escatologico a costituire il fine e il
cuore dell’esperienza ecclesiale.
Il XIX secolo – Hegel & co. – hanno divinizzato la
storia. Attualmente, la maggioranza dei pensatori,
delusi da essa, la “detronizzano”. E lo stesso fanno gli
“spiritualisti” di tutti i generi. Gli uni affermano che
l’uomo non trova il senso della sua vita che nella storia,
servendola e andando “nel suo senso”. Gli altri, con
altrettanta passione, ci assicurano che si può trovare il
senso della nostra vita solo liberandoci dalla storia. E
i cristiani hanno accettato questo “aut-aut” e interiormente, nella loro coscienza, vi si sono sottomessi – qui
sta la tragedia del cristianesimo moderno. Dico bene:
tragedia, perché alla fine tutta la novità del cristianesimo
stava (e sta) nel fatto che sopprime questa alternativa. E
questa soppressione è l’essenza del cristianesimo, che
è escatologia. Il regno di Dio è lo scopo della storia, e il
regno di Dio è già, ora, “tra noi”, “dentro di noi”. Il
cristianesimo è un evento storico unico, ed è la presenza
di quest’evento – nel presente – come compimento di
tutti gli eventi e della storia stessa. È perché sia così e
9
A. Schmemann, Chiesa, mondo e missione
solo per questo che è necessaria la chiesa, in questo solo
consiste la chiesa, il suo “senso” e la sua “essenza”.1
Leggere la vita, la storia personale e collettiva, gli
eventi nella luce giusta richiede questa luce escatologica:
Ieri, durante la Liturgia (Domenica della Samaritana),
ho sentito in tutta chiarezza una presenza, la verità,
la luce. Tutto è concentrato qui, in questa Liturgia, lo
“Spirito e Verità” che fanno nascere veri adoratori del
Padre. Qui c’è la realtà della chiesa, da cui dovrebbe
cominciare a diffondersi la sua profezia nel mondo.
[…] Oggi l’ultima lezione di quest’anno: “Eucarestia ed
escatologia”. Ci ho messo tutta la mia anima.2
La centralità della liturgia
La chiesa è la presenza del regno in mezzo alla storia
perché la storia possa trovare il suo significato, è un modo
nuovo di esistenza – la vita della comunione divina comunicata agli uomini in Cristo – che deve abbracciare ogni
dimensione della vita dell’uomo, è la presenza nel mondo
1
A. Schmemann, Journal (1973-1983), domenica 14 ottobre
1979, ed. Nikita Struve, tr. A. Davidenkoff, A. Kichilov, R. Marichal,
Éditions des Syrtes, Paris 2009, 643; del Diario esiste una ed. inglese
(The Journals of Father Alexander Schmemann, tr. J. Schmemann, SVSP,
Crestwood, NY, 2000). Questa edizione manca di molte parti perché in
un primo tempo, contenendo giudizi su persone e situazioni, era stato considerato opportuno ometterle. È poi uscita una ed. russa ampliata (Dnevniki
1973-1983, Russkij Put’, Moskva 2005) e la traduzione francese di questa,
dalla quale si cita. In verità, non si tratta di una vera e propria traduzione, dal momento che nei Diari, anche se il russo è la lingua prevalente,
Schmemann scrive spesso anche in francese e in inglese.
2
10
A. Schmemann, Journal, lunedì 9 maggio 1977, cit., 490-1.
Introduzione
del mondo salvato. La chiesa appartiene al tempo futuro,
ma abita in “questo mondo” e la sua missione è rendere
testimonianza a questo futuro, essere vita nuova della nuova creazione e presenza, parousia, del regno. Da qui una
prima affermazione che sconcerterebbe un occidentale:
l’importanza, per la missione, della liturgia. La chiesa è anzitutto un anticipo dell’assemblea escatologica del Signore.
Questo spiega perché la liturgia eucaristica è fondamentale
per l’identità della chiesa: perché tale dimensione escatologica ci è data principalmente nella celebrazione eucaristica.
Nell’eucarestia, la chiesa non fa semplicemente memoria di
un evento storico, ma compie un atto escatologico, contempla la propria natura escatologica, il modo di esistenza
trinitario che costituisce la sua vita definitivamente realizzata. Così l’eucarestia è un evento costitutivo dell’essere della
chiesa, quello che permette alla chiesa di esistere e diventare
ciò che deve essere. Perciò, afferma Schmemann,
3
Sono sicuro che il rinnovamento autentico della chiesa
debba iniziare da un movimento di rinnovamento
dell’eucaristia, ma nel significato pieno dell’espressione
[…]. La chiesa non è un’istituzione, è il nuovo popolo
di Dio. Il cristianesimo non è una religione cultuale, è
la Liturgia che abbraccia tutta la creazione di Dio; non
3
“Dio e la religione. Non è Dio, è la religione che pone il
‘problema del mondo’ e precisamente perché è una parte del mondo e
perciò percepisce il problema del legame del suo rapporto con il ‘tutto’.
Ma in quei rari momenti in cui, attraverso la religione, si crea un’apertura
fino a Dio, non c’è più nessun problema, perché Dio non è ‘una parte del
mondo’. In quei momenti, il mondo stesso diventa vita in Lui, incontro
con Lui, comunione con Lui. Il mondo non diventa Dio, ma vita con
Dio, gioioso e pieno. Questa è la ‘salvezza del mondo’ ad opera di Dio. E
si compie ogni volta che noi crediamo. La chiesa non è un’istituzione religiosa, ma la presenza nel mondo di un ‘mondo salvato’”: A. Schmemann,
Journal, domenica 16 febbraio 1974, cit., 99.
11
A. Schmemann, Chiesa, mondo e missione
è una dottrina delle realtà ultime, è l’incontro gioioso
con il regno di Dio. La chiesa è il sacramento del mondo, il sacramento della salvezza e dell’instaurazione di
Cristo come Re.4
La liturgia anticipa il regno, reso già reale per noi nel
sacramento, è un passaggio nel regno. La chiesa stessa è il
sacramento di questo passaggio e ciascuno dei suoi sacramenti ci porta là, nel regno di Dio. La chiesa è pienezza
escatologica donata al mondo per essere sacramento di
redenzione e di salvezza, è
unione, rivelazione, attualizzazione della storicità del
cristianesimo (il “ricordo”) che nello stesso tempo trascende questa storicità (“oggi stesso, Figlio di Dio…”).
L’unione dell’inizio e della fine, ma unione oggi. Da
qui il legame della chiesa con il mondo. Essa è per il
mondo, ma come suo inizio e sua fine, come l’affermazione che il mondo è per la chiesa, poiché la chiesa è la
presenza del regno di Dio. Ecco l’eterna antinomia del
cristianesimo e l’essenza di tutte le discussioni attuali
su di esso. Il compito della teologia è di essere fedeli
all’antinomia, che sparisce nell’esperienza della chiesa
come pascha: un passaggio continuo (non solo storico)
del mondo al regno. Si deve senza sosta uscire dal
mondo e senza sosta si deve rimanere nel mondo.5
Nell’eucarestia la chiesa – e ciascuno di noi dentro –
passa al di là del suo peccato e della sua miseria e si trova
come è “nascosto con Cristo in Dio” (cf Col 3,3): l’eucarestia è una pasqua, un passaggio appunto. E la chiesa è
nel mondo per testimoniare questa “arte del passaggio”.
4
A. Schmemann, L’eucaristia sacramento del regno, tr. it. (or.
YMCA-Press, Paris 1984) Qiqajon, Bose 2005, 331-2.
5
12
A. Schmemann, Journal, domenica 14 ottobre 1979, cit., 643.
Introduzione
Una totalità di vita chiamata a redimere la totalità della
vita
La liturgia è il compimento della chiesa alla mensa del
Signore nel suo regno. Non è un rito, ma è l’ascesa del­la
chiesa al luogo a cui essa appartiene in statu patriae. Ed
è qui che sperimenta questa integrità di vita dove tutto
si ricongiunge, questa cattolicità (secondo il tutto), questa
unitarietà e unità inseparabile e indivisibile di vita che è
chiamata a vivere poi nell’esistenza quotidiana. È nello
sguardo globale concesso in questa visione che si coglie
il rapporto della chiesa con l’uomo e con il mondo
come oggetto della missione, dove l’uomo non è mai
preso isolatamente, separato dal mondo in una maniera
artificialmente “religiosa”, né il “mondo” è una entità
della quale l’uomo sarebbe solo una “parte”. In questa
visione, l’uomo è l’oggetto essenziale della missione, ma
questa affermazione non ha nessuna sfumatura individualistica o spiritualistica:
[la chiesa] è vita nuova, e per questo redime tutta la
vita umana, l’essere globale dell’uomo. Questa totalità
dell’uomo è proprio il mondo nel quale e del quale
egli vive. Mediante l’uomo, la chiesa salva e redime il
mondo. Si potrebbe dire che “questo mondo” è salvato e redento ogni volta che un uomo risponde alla
grazia divina, accetta e vive di essa. Ciò non trasforma
il mondo nel regno o la società nella chiesa. L’abisso
ontologico fra il vecchio e il nuovo rimane immutato e
non può essere colmato in questo “eone”. Il regno
deve ancora venire, e la chiesa non è di questo mondo.
Ma questo regno che deve venire è già presente, e la
chiesa è già pienezza in questo mondo. La chiesa e il
regno sono presenti non solo come “proclamazione”,
ma nella loro autentica realtà, e attraverso l’agape divi-
13
A. Schmemann, Chiesa, mondo e missione
na, che ne è il frutto, chiesa e regno compiono ogni volta
la medesima trasformazione sacramentale di ciò che è
vecchio nel nuovo, rendono possibile un’azione reale, un
“fare” autentico in questo mondo.6
Tutto ciò dà alla missione della chiesa una dimensione cosmica e storica che rende la società e la cultura un
oggetto reale della sua missione e non semplicemente
un ambito neutro in cui esprimere una “vita religiosa”.
Ma, se si perde di vista l’antinomia fondamentale richiamata all’inizio, si compromette la qualità stessa delle
varie dimensioni della vita ecclesiale e con ciò viene
meno il senso della presenza della chiesa nel mondo. È
proprio la memoria del regno che diventa la molla del
divenire del mondo, il lievito che fa fermentare il mondo per l’escatologia.
La vita del regno, che è la vita di Dio, è infatti una
vita che si realizza e si esprime come evento di comunione, dove tutto si ricongiunge e si compenetra. Qui la
vita ci giunge come comunione, si articola e si esprime
come comunione, ed ogni dimensione di questa vita
diventa un organo di partecipazione ad un’unica vita integrale. Ma, una volta separata la chiesa dalla vita nuova,
dal modo trinitario di esistenza, ogni dimensione della
sua esistenza si smembra. Di conseguenza, non solo non
sa più integrarsi in un tutto coerente, ma perde la sua
capacità di espressione viva e adeguata della natura della
chiesa come evento di comunione e si sottomette alle
leggi della vita vecchia, dominata dalle logiche dell’individualità e della frammentazione: la teologia diventa
un insieme di proposizioni razionali che funzionano
6
14
A. Schmemann, “L’imperativo missionario”, infra, 302.
Introduzione
autonomamente dall’esperienza, dove la verità viene
identificata con la sua formulazione e la conoscenza con
la comprensione individuale di quella verità; la pietà è
la realizzazione delle emozioni e dei sentimenti religiosi
psicologici del soggetto; la liturgia si riduce al culto, alle
cerimonie, senza più nessuna capacità di visione e di
potere sulla nostra esistenza.
Senza questo radicamento nella vita nuova, senza
questo orizzonte del regno, senza questa esperienza
glo­bale che dà la visione globale, senza questa “arte del
passaggio”, che cosa diventa allora la missione? O un
adattare la fede e le sue espressioni ai “bisogni moderni”, aggiustandola ai gusti dei fedeli, oppure restaurare il
passato, sulla pressione di una visione nostalgica.
Ma, se siamo sinceri, il tentativo di avvicinare la vita
di fede alle necessità, alle concezioni, al linguaggio e alle
esigenze del mondo attuale, che per tanti è la risoluzione
di tutti i problemi, senza una trasmissione organica che
comunichi all’interno di nuove categorie l’esperienza
della vita nuova, ha portato non ad un avvicinamento
del mondo alla chiesa, piuttosto ad una secolarizzazione
della chiesa stessa. E questo ha provocato una vera e
propria riduzione della fede: o una riduzione a qualcosa
di esteriore e formale, a scapito dell’adesione libera e
personale, o una riduzione a qualcosa di soggettivo e individuale a spese della vita stessa, che con ciò non si considera più oggetto dell’azione trasfigurativa della fede. In
entrambi i casi, la fede non è collegata alla vita, accolta e
accettata come fondamento, sorgente, struttura di quella
vita nuova che è al cuore del Vangelo. Ci possono essere
fedeli tradizionalisti, altri progressisti, ma la differenza e
l’opposizione tra di loro è a livello di gusti piuttosto che
15
A. Schmemann, Chiesa, mondo e missione
di qualità di vita. Ma, se la fede non interpella la totalità
della vita, non giudica, illumina e trasfigura tutti i suoi
aspetti, allora la “vita” diventa inevitabilmente governata
da altre “filosofie di vita”. E siccome una semplice coesistenza della fede con una filosofia di vita ad essa estranea
è impossibile, se la fede non controlla la filosofia di vita,
sarà la filosofia di vita a controllare inevitabilmente la
fede e a subordinarla ai suoi stessi valori. Si comincia con
l’essere fedeli in chiesa e secolarizzati nella vita e si finisce per diventare secolarizzati anche nella chiesa. E così
anche i criteri di riferimento per la stessa vita ecclesiale
funzionano secondo logiche totalmente immanenti.7
Come leggere il libro
La crisi non investe solo il mondo cattolico. Anzi,
Schmemann ha parole durissime nello smascherare l’istituzionalizzazione religiosa della fede che diventa una
sorta di sua traduzione ideologica. E questa è una tentazione tanto più forte quanto più il passato ci è sottratto.
Perché la fede rimanga tale, c’è bisogno di un continuo
processo di purificazione, rinnovo, rinuncia agli idoli,
soprattutto agli idoli del passato, cosa della quale gli
ortodossi parrebbero particolarmente incapaci, dal momento che sembra amino proprio questi nell’ortodossia.8
Perciò Schmemann afferma che questa crisi, nella sua
gravità, per il mondo ortodosso è “più radicale e decisiva
7
Cf A. Schmemann, “Problems of Orthodoxy in America: III.
The Spiritual Problem”, St. Vladimir’s Seminary Quarterly 9 (1965), n. 4,
171-193, qui 176.
8
16
Cf A. Schmemann, Journal, Sabato 16 febbraio 1974, cit., 99.
Introduzione
di quella provocata dalla caduta di Bisanzio”. Ma, con i
criteri sopra menzionati, ricordando che la fede cristiana
è escatologica, che dal giorno di Pentecoste la chiesa ha
vissuto negli ultimi giorni e che la sua ragione d’essere
è collegare questo mondo al regno, cerca di leggere i
fatti storici del passato della sua chiesa (l’epoca bizantina,
l’organizzazione ecclesiastica antica) e le sfide di oggi
(le crisi giurisdizionali, la secolarizzazione della diaspora
ortodossa in America). Forse il lettore italiano potrebbe
pensare che questi siano capitoli che non lo interessano.
Ma, tranne il fatto che Schmemann fa riferimento a
situazioni meno conosciute (che, del resto, le note cercano di chiarire), basta essere un po’ “svelti” per cogliere
in questo materiale tante cose che ci interpellano e che
possono suggerire tante ispirazioni. Anzitutto, appunto,
il modo della lettura. Schmemann passa in rassegna la
storia, si domanda perché tutto questo è accaduto, ma
in qualche modo afferma che, anche se l’esame storico
dell’origine e dello sviluppo di un fenomeno è necessario, tuttavia non basta. Non serve quindi mettere tutto il
proprio acume nell’analisi dell’esistente, perché il massimo ottenibile non sta nella comprensione del fenomeno
chiuso in sé. Nel fenomeno bisogna studiare non solo le
contingenze all’opera, ma la manifestazione contestuale
di questa vita che ci viene dalla fine dei tempi, in modo
che noi possiamo cogliere in che maniera questa stessa
vita chiede di trasformare noi oggi. È questo che permette di cogliere il senso della tradizione e di trovarla in
ciò che è accidentale e temporaneo.
9
9
Cf infra, 23.
17
A. Schmemann, Chiesa, mondo e missione
Lo studio del suo passato [della chiesa] ha un solo scopo: cercare e rendere nostro di nuovo ciò che nel suo
insegnamento e nella sua vita è veramente eterno, cioè
ciò che precisamente trascende le categorie di passato,
presente e futuro e ha il potere di trasformare la nostra
vita in tutti i tempi e in tutte le situazioni.10
Introduzione
Schmemann, possiamo considerare questo mondo, di
per sé insufficiente e limitato, non solo come un oggetto
della missione, ma come un dono, un sacramento che
rivela l’amore di Dio per noi, e fare una nuova esperienza
del mondo stesso, della vita stessa unita alla vita di Dio.
Questa apertura all’orizzonte escatologico è forse anche l’unico modo per dare un senso fecondo ai fallimenti
che l’esperienza ecclesiale dei nostri giorni colleziona
uno dopo l’altro. Se Paolo scrive che la potenza di Dio
“si manifesta pienamente nella debolezza” (2Cor 12,9),
ciò significa che una grande potenza della chiesa sono
anche i suoi fallimenti storici, i suoi peccati, le sue impotenze. È infatti solo grazie al riconoscimento dell’insufficienza umana che possiamo continuare ad attendere
la risurrezione dei morti, cioè a trasferire la possibilità
di vita non alla nostra bravura, ma all’amore di Dio. La
chiusura nell’autosufficienza, nell’essere soddisfatti della
propria virtù, forza, coerenza, buon senso, non ci fa fare
quel salto della rinuncia a noi stessi che lascia lo spazio
a Dio. Nella misura in cui aspettiamo frutti di salvezza
dalla nostra religiosità, dalla nostra morale, dalla efficacia
delle nostre istituzioni, nella stessa misura ci allontaniamo dalla possibilità di accedere alla vera vita.
Custodire questa vita che non viene da noi, farne
continua memoria, è in fondo l’unica vera preoccupazione della chiesa e del singolo credente. Solo a partire da qui possiamo rapportarci al mondo con le sue
problematiche e le sue tensioni. E solo da qui, afferma
10 Of Water and the Spirit: A Liturgical Study of Baptism, SVSP,
Crestwood, NY 31995, 150.
18
19
1. L’interrogativo
di fondo
È giunto infatti il momento
in cui inizia la crisi (giudizio)
della casa di Dio (1Pt 4,17)
1.
Gli articoli e i saggi raccolti in questo volume sono
stati scritti nell’arco di più di 20 anni per una grande
varietà di lettori, sia ortodossi che non ortodossi, e nella
maggior parte dei casi come una risposta ad hoc o una
riflessione su qualche evento, su qualche sviluppo che
considero di vitale significato per la chiesa ortodossa. Se
oggi, nonostante il carattere occasionale e datato di queste membra disiecta, oso dar loro “un’altra chance”, non
è tanto per le risposte che contengono o propongono
e che possono apparire, ora come allora, provvisorie e
incomplete, ma a causa delle questioni che ho cercato
di formulare e che sono convinto rimangano essenziali
e urgenti oggi così come lo erano uno o due decenni fa.
Tali questioni, come il lettore vedrà, si riferiscono
ad un’ampia gamma di argomenti: storia, teologia,
liturgia, ordinamento canonico, il movimento ecumenico, la missione… Ciò che dà loro, così spero, una
certa unità interiore e una prospettiva comune è l’unico
interrogativo sottostante dal quale, in un modo o in
un altro, tutti derivano e al quale fondamentalmente
tutti si riferiscono: la questione della sorte della chiesa
ortodossa in questa seconda metà del XX secolo in un
mondo radicalmente diverso da quello che ha plasmato
20
1. L’interrogativo di fondo
la nostra mentalità, le nostre forme di pensiero, la nostra
intera vita come ortodossi, in un mondo inoltre segnato
in profondità da una crisi spirituale che acquisisce ogni
anno che passa dimensioni realmente universali.
Sono convinto che questo “interrogativo di fondo”,
nella sua essenza e nella sua urgenza, sia radicato primariamente in due sviluppi che, data la loro novità e
la loro mancanza di precedenti nella storia della chiesa
ortodossa, costituiscono il nucleo di una profonda crisi
che permea oggi l’intera vita della nostra chiesa. Il primo sviluppo è il collasso tragicamente spettacolare, uno
dopo l’altro, degli antichi e organici “mondi ortodossi”
che solo pochi decenni fa apparivano come la “dimora”
ovvia, naturale e permanente della Chieda ortodossa – e
non solo il loro collasso, ma anche la loro trasformazione
in scenario per un violento attacco sferrato da un secolarismo estremo e totalitario contro la religione, contro la
natura e la vocazione spirituali dell’uomo. Il secondo è
la crescita rapida e massiccia, in occidente, della diaspora
ortodossa che, per quanto possa essere “accidentale” nelle sue origini, determina la fine dell’isolamento dell’ortodossia in “oriente” e della sua identificazione con esso,
e pertanto l’inizio di un nuovo destino – in occidente e
nel contesto della cultura occidentale.
Mi sembra che persino un’analisi superficiale di
questi sviluppi riveli la loro importanza eccezionale,
veramente cruciale per la chiesa ortodossa, in quanto
fine di un’epoca e inizio di un’altra. Ciò che questi due
sviluppi portano a termine non è qualcosa di “accidentale”, qualcosa di marginale alla vita della chiesa, ma
la correlazione organica e la mutua integrazione della
chiesa con una società, una cultura, un modo di vita
21
A. Schmemann, Chiesa, mondo e missione
plasmato e nutrito dalla chiesa che, fino ad un tempo
abbastanza recente era il modo essenziale e, di fatto, il
solo della relazione della chiesa ortodossa con il “mondo”. Esiste, certo, una profonda differenza tra la tragica
sorte della chiesa sotto i regimi totalitari e atei militanti
dell’est e il suo apparente “successo” nell’occidente libero e democratico. Ma questa differenza non dovrebbe
nasconderci un significato più profondo comune ad
entrambi gli sviluppi, che li rende due dimensioni, due
“espressioni” della stessa situazione radicalmente nuova
e senza precedenti – una situazione caratterizzata dalla
perdita da parte dell’ortodossia della sua patria storica,
del “mondo ortodosso”; dal suo forzato divorzio dalla
“cultura”, cioè dall’intero tessuto della vita nazionale
e sociale; e, ultima cosa ma non meno importante, da
un incontro imposto con l’“occidente”. Certamente le
ideologie in nome delle quali l’ortodossia è perseguitata
in “oriente” e quelle che in un modo molto sottile, ma
ugualmente potente, la sfidano in “occidente” non solo
sono occidentali per la loro origine, ma sono anche,
nonostante le loro differenze e il loro scontro l’una con
l’altra, il risultato – la krisis – dello sviluppo spirituale e
intellettuale dell’occidente e pertanto i frutti dello stesso
albero chiaramente occidentale.
Di conseguenza, il significato fondamentale della nostra crisi attuale è che il mondo in cui la chiesa ortodossa
deve vivere oggi, sia all’est che all’ovest, non è il suo
mondo, neanche un mondo “neutrale”, ma un mondo
che la sfida nella sua stessa essenza, un mondo che cerca
consciamente o inconsciamente di ridurla a valori, filosofie di vita e visioni del mondo profondamente diverse,
se non totalmente opposte, alla sua visione ed esperienza
22
1. L’interrogativo di fondo
di Dio, dell’uomo e della vita. Tutto ciò rende la crisi
attuale infinitamente più radicale e decisiva di quella
provocata dalla caduta di Bisanzio del 1453. La conquista
turca fu una catastrofe politica e nazionale; si trattò non
della fine, e neanche di una “interruzione” del “mondo
ortodosso”, cioè di una cultura, di un modo di vita, di
una visione del mondo che integrava religione e vita
rendendoli, per quanto imperfettamente, una “sinfonia”.
Per secoli gli ortodossi hanno vissuto sotto i turchi,
ma nel loro mondo, secondo una loro maniera di vita,
radicati nella loro visione religiosa. Oggi quel mondo
non c’è più e quello stile di vita è stato spazzato via da
una cultura che non solo è estranea all’ortodossia, ma
che l’ha allontanata sempre più dalle sue radici cristiane.
Ho usato il termine krisis che, come tutti sanno, oggi
è molto abusato. Ma, se lo adoperiamo nel suo significato originario e cristiano – come giudizio, come una
situazione che richiama ad una scelta e ad una decisione
per discernere la volontà di Dio e il coraggio di obbedirle –, allora la situazione della chiesa ortodossa oggi è
veramente critica. Questo libro è costituito di riflessioni
e reazioni a tale crisi e ai suoi vari aspetti e dimensioni.
È un tentativo, per quanto provvisorio e incompleto,
non solo di discernere il vero significato della crisi, ma
anche la volontà di Dio che essa ci rivela.
2.
Ciò che mi preoccupa, e che pertanto costituisce di
fatto la principale motivazione dietro ad ogni articolo
qui contenuto, non è tanto la crisi stessa che, per ragioni
spiegate altrove, considero in questo libro potenzial23
A. Schmemann, Chiesa, mondo e missione
mente benefica per l’ortodossia. È sempre buono per
la chiesa essere richiamata da Dio al fatto che “questo
mondo”, persino quando si definisce cristiano, in realtà
è in contrasto con il Vangelo di Cristo, e che questa
“crisi” e la tensione da essa creata sono, dopo tutto, il
solo modo “normale” della relazione della chiesa con
il mondo, con ogni mondo. Ciò che mi preoccupa è
l’assenza di una tale tensione dalla coscienza ortodossa
attuale, la nostra apparente incapacità di comprendere
il reale significato della crisi, di affrontarla e di cercare
modi di fare i conti con essa.
Vediamo, è vero, il riapparire dentro alla chiesa di
quella frangia apocalittica che regolarmente emerge ad
ogni “svolta” fondamentale nel pellegrinaggio terreno
della chiesa con un annuncio della fine del mondo. Ma
questo atteggiamento non è stato mai accettato dalla
chiesa ortodossa come espressione della sua fede, come
comprensione della sua missione nel mondo. Infatti,
se la fede cristiana è certamente escatologica, non è
esattamente apocalittica. Escatologico significa che la
chiesa appartiene per la sua stessa natura alla fine: alla
realtà ultima del “mondo futuro”, al regno di Dio. Ciò
significa che, fin dal suo stesso inizio, dal giorno “ultimo
e grande” di Pentecoste, essa ha vissuto negli “ultimi
giorni”, nella luce del regno, e che la sua vita reale è
sempre “nascosta con Cristo in Dio” (Col 3,3). Ciò significa anche che è precisamente la sua conoscenza e la
sua costante partecipazione alla “fine”che collega la chiesa
al mondo, crea la correlazione tra il già e il non ancora
che è l’essenza stessa del suo messaggio al mondo ed anche la sola fonte della “vittoria che ha vinto il mondo”
(1Gv 5,4). D’altra parte, un atteggiamento apocalittico è
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1. L’interrogativo di fondo
veramente un’eresia, perché è il rigetto dell’escatologia
cristiana, la sua sostituzione con un dualismo manicheo,
l’abbandono di quella tensione tra l’essere “nel mondo”,
eppure “non del mondo” che è costitutivo della chiesa e
della sua vita. Ciò che i nostri neo-apocalittici non sanno
è che, nonostante la loro auto-proclamata lealtà esclusiva
alla “vera ortodossia”, essi sono spiritualmente più vicini
a certi movimenti e sette marginali tipici del panorama
religioso occidentale piuttosto che alla cattolicità della
tradizione ortodossa, con la sua sobrietà e la sua libertà
dall’emotività, dalla paura e dai riduzionismi di ogni
genere. Il loro è l’atteggiamento tipico dei “disfattisti”
che, incapaci di fronteggiare la crisi, di discernere il suo
vero significato, ne sono stati semplicemente schiacciati
e, come tutti i loro predecessori, cercano rifugio nella
pseudo-sicurezza nevrotica del “santo resto”.
E la “maggioranza”? L’“istituzione” – gerarchica,
ecclesiastica, teologica? Qui, proprio perché abbiamo a
che fare non con qualche deviazione settaria, ma con la
chiesa stessa, la situazione mi sembra persino più seria.
L’atteggiamento di questa “istituzione” è quello di una
semplice negazione, conscia o inconscia, di qualsiasi crisi
significativa. Qualcuno una volta ha osservato, quasi
scherzando, che i nostri fratelli greci non sanno ancora
che nel 1453 Costantinopoli è stata presa dai turchi e
che da allora si chiama Istanbul. Mutatis mutandis, questa osservazione può oggi essere estesa alla schiacciante
maggioranza del popolo ortodosso di tutto il mondo. È
come se i cambiamenti radicali menzionati sopra fossero
solo “accidenti” passeggeri senza alcun significato speciale per la routine ordinaria della chiesa, o senza alcun
impatto su di essa.
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A. Schmemann, Chiesa, mondo e missione
Questo atteggiamento è espresso ed illustrato nel modo migliore dalla retorica che è diventata praticamente
il solo linguaggio “ufficiale” dell’istituzione ortodossa,
retorica fatta di un miscuglio di incrollabile ottimismo,
di trionfalismo d’obbligo e di sorprendente auto-giustificazione. Coloro che non usano questo linguaggio,
che osano fare domande ed esprimere dubbi sullo stato
della chiesa in un mondo che cambia rapidamente, sono
accusati di disturbare la pace della chiesa, di provocare
guai e, in breve, di minare l’ortodossia. La funzione
stessa di questa retorica consiste nel suo straordinario
potere di occultare la realtà sostituendola con un’illusoria
“pseudo-realtà”, e perciò semplicemente di eliminare le
questioni che la realtà “reale” avrebbe inevitabilmente
sollevato.
Pertanto, se noi prendiamo in considerazione il
primo dei due principali sviluppi menzionati sopra – il
collasso dei “mondi ortodossi” organici e la persecuzione della religione da parte dell’ateismo militante –,
esso diventa nell’interpretazione “ufficiale” una vittoria
temporanea delle “forze oscure” dopo la cui imminente
sconfitta le nazioni ortodosse, sostanzialmente buone,
fedeli e innocenti, purificate dalle sofferenze e adorne
dei loro martiri, torneranno entusiasticamente agli eterni
ideali ortodossi e al modo di vita che ha plasmato una
volta per tutte la loro “anima”. Come prove decisive di
questa imminente risurrezione, vengono sottolineati diversi fatti: la sopravvivenza della chiesa come istituzione
sotto i regimi totalitari, il rinnovato fervore dei fedeli
“che affollano le chiese come mai in passato”, il crescente interesse per la religione tra i giovani e l’intelligencija…
Ora, ciascuno di questi fatti è di per sé vero, importante
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1. L’interrogativo di fondo
e promettente. Ma giustifica l’interpretazione che così
facilmente trasforma un’indicibile tragedia in un potenziale trionfo? Ciò che qui viene perduto di vista non è
solo una valutazione più sobria dei fatti stessi: il riconoscimento, ad esempio, che la sopravvivenza della chiesa
è pagata con la sua resa senza precedenti allo stato, con il
ripugnante servilismo della sua leadership e il quasi totale
controllo della sua vita da parte del KGB e dei suoi molti
equivalenti; la spiegazione, almeno parziale, del sovraffollamento delle chiese con la loro radicale riduzione di
numero (ad esempio, a Mosca ci sono circa 50 chiese
che funzionano per una popolazione di circa cinque
milioni); il riconoscimento che il risveglio religioso tra
i giovani e l’intelligencija li porta non solo all’ortodossia
ma, in un numero addirittura più grande, alle sette,
allo zen, all’astrologia e praticamente ad ogni forma di
dubbia e confusa “religiosità” tipica oggi dell’occidente… Ciò che si perde nell’interpretazione “ufficiale”
è, soprattutto, la questione preliminare, che include in
se stessa tutte le altre questioni: perché e come tutto questo
è successo? Perché è accaduto che le “forze oscure” del
secolarismo, del materialismo e dell’ateismo, le cui radici sono attribuite, non senza motivo, all’occidente, di
fatto hanno trionfato all’est? Perché i “mondi ortodossi”
si sono dimostrati così fragili e vulnerabili? Perché, ad
esempio, la resistenza religiosa è così forte nella Polonia
cattolica e, in paragone, così debole nelle terre ortodosse? Ma tali questioni non sono sollevate perché tutte, in
un modo o in un altro, implicano e presuppongono una
messa in questione del passato, cioè di quella mitica “età
dell’oro” dell’ortodossia che, non solo nella retorica
ufficiale di oggi, ma ad un livello più profondo della
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A. Schmemann, Chiesa, mondo e missione
mentalità ortodossa, costituisce il solo termine di riferimento, la destinazione finale di tutti i “ritorni”, il tesoro
unico del desiderio del cuore. Sollevare tali questioni è
affrontare il passato, esplorarlo e riconsiderarlo e, soprattutto, chiedere se i semi di corruzione e di decadenza, di
un tragico tradimento di qualcosa di essenziale nell’ortodossia non fossero all’opera da lungo tempo in quei
“mondi ortodossi”, rendendo inevitabile il loro collasso
spettacolare e quasi istantaneo.
Addirittura peggiore, nella sua cecità e nella sua insensibilità, è la reazione del nostro “establishment” alla
diaspora ortodossa in occidente. Anche qui, l’esistenza
stessa di qualsiasi serio problema derivante dall’implantazione delle Chiese ortodosse in una cultura diversa, e per
molti versi estranea, è il più delle volte semplicemente
ignorato. L’esistenza, in primo luogo, di un problema
canonico, ecclesiologico fondamentale. Il fatto che, da
un punto di vista ecclesiale, la diaspora abbia avuto come conseguenza la coesistenza negli stessi territori, nelle
stesse città, di una dozzina di giurisdizioni “nazionali”
o “etniche”, è considerato dalla stragrande maggioranza degli ortodossi qualcosa di assolutamente normale,
espressivo dell’essenza stessa di quella diaspora la cui
vocazione principale, come tutti sanno e proclamano
orgogliosamente, è la conservazione delle varie “eredità culturali” proprie a ciascun “mondo ortodosso”.
L’esistenza, in secondo luogo, di un problema ancora
più profondo e più minaccioso: quello della progressiva,
anche se spesso inconsapevole, capitolazione della “coscienza” ortodossa alla visione secolarizzata del mondo
e al suo stile di vita. Infatti, per quanto paradossale possa
sembrare, ciò che rende tale capitolazione inconsapevole
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1. L’interrogativo di fondo
e inavvertita è proprio questa stessa fedeltà all’“eredità”
con cui si pensa di preservare e di assicurare l’“identità”
ortodossa. L’“establishment” ortodosso e la vasta maggioranza degli ortodossi che vivono in occidente non
comprendono che l’“eredità” che dichiarano di preservare non è quell’unica eredità degna di essere preservata
e vissuta: la visione di Dio, dell’uomo e della vita rivelata
nella fede ortodossa.
Non è neanche la cultura ricca e per molti versi
profondamente cristiana cresciuta da tale visione e che
ci costringerebbe a discernere e ad affrontare la sfida
dell’occidente, ma una miserevole riduzione di tale
eredità a pochi “simboli” superficiali che, creando l’illusione della fedeltà alla “fede dei nostri padri”, maschera
il progressivo cedimento della “vita reale” alla grande
eresia “occidentale” del nostro tempo: il secolarismo.
Cedimento non solo della vita “secolare”, ma anche della vita della chiesa, del suo approccio sia alla fede che alla
liturgia, all’amministrazione parrocchiale e al ministero
pastorale, all’educazione e alla missione.
La nostra “retorica ufficiale” ignora tutto questo e
la ragione di ciò, ancora una volta, è l’incapacità della
coscienza ortodossa contemporanea di fare i conti con il
passato, una fondamentale confusione sul vero contenuto
e significato della nostra “eredità” e pertanto sul significato della tradizione stessa. Se la chiesa ortodossa sembra
incapace di discernere la situazione radicalmente nuova
in cui essa vive, se è inconsapevole del mondo nuovo
che la circonda e che la sfida, è perché continua a vivere
in un “mondo” che, sebbene non esista più da tempo,
ancora plasma e determina la sua coscienza. Da qui il
tragico nominalismo che permea l’intera vita della chiesa
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