Il sesso debole della guerra
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Il sesso debole della guerra
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶7 marzo 2016¶N. 10 23 Politica e Economia Il sesso debole della guerra 8 marzo L’Alto commissario Onu per i diritti umani è allarmato per la grave spirale di violenze in Burundi, dove sono segnalati casi di violenze sessuali contro le donne. Tema affrontato nel saggio di Simona La Rocca Nelle guerre, i corpi delle donne diventano terreno di battaglia. Contro di loro viene usata l’arma dello stupro di massa, una «pratica» bellica che ha caratterizzato gran parte della storia dell’umanità, ma che soltanto dagli anni Novanta è stata riconosciuta nella sua portata. Prima veniva considerata un «effetto collaterale» dei conflitti armati, un male minore, come spiega Simona La Rocca, ricercatrice universitaria, nel corposo volume (di cui è curatrice) pubblicato dalla casa editrice italiana Ediesse, Stupri di guerra e violenze di genere. Sono stati gli orrori compiuti nella ex Jugoslavia e in Ruanda, insieme alla critica che ne è stata fatta da giuriste, studiose e attiviste di diversi Paesi, a fare capire che le donne vengono colpite in quanto parte più vulnerabile della società. È emersa così la reale portata del fenomeno: i campi di stupro, le gravidanze forzate, le violenze di massa, la tratta delle donne a scopo di sfruttamento sessuale, non sono il risultato di eventi casuali, dovuti alla libera iniziativa dei singoli soldati, ma azioni pianificate dai leader politici. I numeri forniti dalle Nazioni Unite permettono di avere un quadro più chiaro della situazione. In Ruanda, durante il genocidio del 1994, sono state stuprate tra le 100mila e le 250mila donne (il 70% delle quali ha contratto il virus dell’HIV); in Sierra Leone, tra il 1991 e il 2002, oltre 60mila; in Liberia, tra il 1989 e il 2003, più di 40mila; fino a 60mila, tra il 1992 e il 1995, nell’ex Jugoslavia; almeno 200mila nella Repubblica Democratica del Congo, negli ultimi 12 anni di guerra. Violenze ordinate dall’alto, come quelle in corso in queste settimane in Burundi, dove secondo Zeid Ra’ad Al Hussein, alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, ci sono stati stupri di gruppo contro donne considerate non allineate alla posizione del governo. Il Burundi è scosso da tensioni etniche ai danni della minoranza tutsi, che sembrano destinate ad aggravarsi, portando alla guerra civile. Stando alle ricostruzioni dell’Onu, le forze di sicurezza sono entrate nelle case delle vittime, hanno separato le donne dagli altri membri della famiglia e hanno abusato di loro, in alcuni casi sottoponendole a stupri collettivi. Anche in Darfur sono stati compiuti crimini organizzati contro le donne, nei mesi scorsi. Un rapporto di Human Rights Watch denuncia che a ottobre 2015 le forze armate sudanesi hanno violentato circa 220 donne, in un attacco organizzato nella città di Tabit. Una vittima ha raccontato che i militari sono piombati nella stanza dove si trovava con le tre figlie, due delle quali con meno di 11 anni, abusando prima di loro e poi di lei. E resta tragica la situazione nelle zone controllate dallo Stato Islamico, per le quali è difficile trovare numeri attendibili. Alcune fonti riportano che 7mila curde sono state imprigionate nel carcere di Telafer, vicino a Mosul, in Iraq; 5mila donne sono state sottoposte a mutilazioni genitali in diverse città irachene; oltre 3mila sono state rapite e vendute al mercato degli schiavi, per un minimo di 50 e un massimo di 150 dollari. Il riconoscimento internazionale dello stupro e della violenza come arma di guerra, non solo per le conseguenze fisiche e psicologiche sulle vittime, ma per la sua dimensione sociale (porta, molto spesso, le donne colpite e i figli «illegittimi» a venire abbandonati dalla famiglia di origine, dal marito e dall’intera comunità), è stato fondamentale per riuscire ad avviare azioni giudiziarie. È degno di nota quanto sta accadendo in Guatemala, dove è in corso un processo storico contro due ex militari, Francisco Reyes Giron e il suo comandante regionale Heriberto Valdez Asij, alla sbarra per le accuse di abusi contro donne indigene commessi negli anni Ottanta, al tempo della guerra tra l’esercito e i movimenti di guerriglia di sinistra. Almeno 15 donne, tra il 1982 e il 1983, sarebbero state detenute nel distaccamento militare Sepur Zarco, dove furono stuprate e ridotte in schiavitù. In aula, a chiedere giustizia, ci sono 11 sopravvissute. Per contrastare in modo efficace il fenomeno, secondo le studiose che hanno contribuito al testo pubblicato da Ediesse, non basta però la giustizia dei tribunali, ma è necessario un cambiamento culturale, che richiede an- AFP Stefania Prandi che il superamento della vergogna, che spinge le donne vittime a non parlare. Una storia esemplare, in questo senso, è quella del Ruanda. Dopo quello che è stato definito il genocidio più veloce e sistematico della storia dell’umanità, con 1 milione di persone uccise in 3 mesi, «le donne hanno raccontato, contro l’imposizione del silenzio, una storia di violenza ma anche di reazione, hanno iniziato a riflettere e a mettere seriamente in discussione quelli che erano stati i loro ruoli tradizionali, assegnando al racconto della violenza subita e al tentativo di superarla un forte significato politico». Oltre ai processi, che hanno coinvolto migliaia di persone, sono stati creati comitati di donne per l’accesso femminile a ogni livello amministrativo, che hanno permesso la riabilitazione nel periodo post genocidio e la partecipazione a tutti i livelli dell’attività politica. Il passato degli stupri di guerra non si cancella né si dimentica, ma può aiutare per costruire un presente migliore. Da questa premessa prende le mosse il lavoro di Elisabeth Wood, docente di Scienze politiche e internazionali nella prestigiosa università statunitense di Yale, esperta di violenza sessuale durante i conflitti armati, e consulente per diverse associazioni internazionali. Wood sostiene che la violenza sessuale nelle guerre è evitabile. Infatti, non tutti gli eserciti la usano: alcuni hanno come specifica linea interna quella di non commettere abusi sessuali. In Sri Lanka, le Tigri Tamil, che pur sono state brutali nelle insurrezioni degli anni Ottanta e Novanta, hanno monitorato da vicino le truppe e punito i pochi soldati che si sono macchiati di abusi. Un comportamento simile è stato tenuto in El Salvador nel 1980, durante la guerra civile. E ancora: sia da parte delle forze di difesa israeliana sia dai gruppi militanti palestinesi, negli anni più recenti, lo stupro è stato estremamente raro. Prendendo spunto da queste esperienze, la studiosa teorizza la possibilità di lavorare sulla prevenzione. Un primo passo importante è parlare del problema mentre è in corso, sostenendo e diffondendo le narrazioni delle sopravvissute. In secondo luogo si deve operare per dissuadere chi compie i crimini sessuali, pubblicando nomi e cognomi dei comandanti, mettendo in discussione il loro onore e la reputazione di fronte alle truppe che vengono così spronate a non imitarli, introducendo sanzioni. Misure che possono convincere i leader dei gruppi armati che i costi degli stupri sono troppo alti e non valgono la pena. Un altro possibile modello di reazione, suggerito da Stupri di guerra e violenze di genere, è rappresentato dall’empowerment delle donne, che deve avvenire dall’interno, senza imposizioni esterne. Un esempio viene dalle donne curde che combattono nelle fila dell’Ypg, le unità per la protezione della popolazione. Attraverso percorsi di studio e pratica politica, hanno iniziato ad avere un ruolo istituzionale, sociale ed economico attivo, nelle loro comunità, ottenendo una vera e propria parità di genere, che spaventa i nemici. Succede così che i fanatici dell’Isis, pur volendole assoggettare, abbiano paura di loro, sul campo di battaglia. Qualche religioso, infatti, ha prospettato che l’essere uccisi da una donna non farebbe entrare in paradiso dopo la morte. Contro i delitti d’onore Condizione femminile L’Oscar al documentario-denuncia A Girl in the River Francesca Marino Da questa parte del mondo, è passato abbastanza inosservato il fatto che una signora chiamata Sharmeen Obaid ha vinto, e per la seconda volta, l’Oscar per il miglior documentario. Il film si intitola A Girl in the River, e accende i riflettori su una delle (numerose) piaghe del Pakistan: il delitto d’onore. Omicidi cioè in cui le vittime, preferibilmente donne, vengono uccise per aver in qualche modo violato un particolare codice morale familiare o religioso. «Soltanto una minima parte degli autori di questi delitti viene arrestata, e la maggior parte di questi riceve condanne puramente simboliche» ha dichiarato tempo fa Asma Jahangir, eminente avvocato pakistano in odor di Nobel e per anni consulente delle Nazioni Unite per le esecuzioni sommarie e gli omicidi. Il documentario, qualche giorno prima della cerimonia degli Oscar, era stato proiettato a beneficio del premier pakistano Nawaz Sharif (nella foto) che, con l’occasione, aveva scoperto ciò che accade ogni giorno nel suo Paese e rilasciato alla stampa entusiastici commenti su quanto «illuminante» fosse stata l’inchiesta della Obaid. Che per la sua seconda vittoria agli Oscar, come da copione, è stata in patria molto più violentemente criticata che lodata. Le argomentazioni sono sempre le stesse. Le stesse che spingono larghe fette della società pakistana a criticare violentemente Malala Yousufzai, ad esempio. Sharmeen è colpevole di mostrare al mondo soltanto il negativo e non il positivo del Pakistan. Di essersi venduta ai media occidentali che vogliono vedere, e premiano, soltanto chi mette in luce le deviazioni marginali di una democrazia come quella pakistana. Il Parlamento si è rifiutato più di una volta di varare una legge che sanzioni il cosiddetto «delitto d’onore» in un Paese in cui la condizione femminile diffusa, a parte i casi emblematici di donne come Sharmeen o come la stessa Jehangir che appartengono però a una élite culturale urbana e cosmopolita, assume secondo Human Rights Watch, le caratteristiche di un vero e proprio stato di calamità nazionale. Ostentatamente ignorato dalle autorità dello Stato. Circa tre donne vengono uccise ogni giorno per motivi legati all’onore familiare, e più di mille donne l’anno muoiono in «incidenti domestici». Ogni due ore una donna viene rapita, seviziata o stuprata. Ogni otto ore, qualcuna è vittima di uno stupro di gruppo. Più del novanta per cento della popolazione femminile è vittima di qualche forma di violenza da parte dei familiari. Il comportamento femminile considerato come disonorevole comprende relazioni extraconiugali presunte o reali, la scelta di un marito contro il volere dei genitori, la richiesta di divorzio. O, an- che, l’essere stata vittima di uno stupro. Stupro che, dopo anni, nel 2007 è stato finalmente considerato dal Parlamento un delitto da codice penale e non un’offesa contro la morale punibile, quindi, secondo il famigerato Hudood, la legge islamica. Secondo l’Hodood, la prova dello stupro è a carico della donna che lo subisce. La signora deve poter produrre, per provare di essere stata stuprata, quattro testimoni musulmani e di sesso maschile. Altrimenti, viene processata d’ufficio per adulterio: crimine per cui la stessa legge prescrive la lapidazione. In generale, la testimonianza di una donna vale metà di quella di un uomo, e l’adulterio, o il sesso prematrimoniale, vengono considerati un crimine contro lo Stato e puniti di conseguenza. Mentre Sharmeen calcava il tappeto rosso agli Oscar, nell’illuminata nazione di cui i media occidentali non mettono in risalto tutto il bello e il buono, lo Stato del Punjab varava una legge contro la violenza domestica. Legge accolta favorevolmente dalle associazioni femministe e da buona parte della società, convinta che qualcosa sia pur meglio di niente. Perché in realtà la legge è più ricca di buone intenzioni che di effettive misure. Eppure, è bastata per scatenare le ire dei partiti islamici e, nello specifico, del capo della Jamiat Ulema-i-IslamFazl: il famoso (o famigerato) Maulana Fazlur Rehman, meglio noto alle masse come Maulana Diesel. Secondo Rehman e i suoi compari la legge va contro i principi dell’Islam e della Costituzione pakistana e «sarà causa di divisione nelle famiglie e aumento dei casi di divorzio». Questo, dichiarato senza alcuna vergogna in un Paese in cui il politico Imran Khan ha di recente divorziato dalla sua ancora neo-sposa inviandole un sms con su scritto «talaq» per tre volte. Secondo i pii compari dei partiti islamici, però, attribuire a una donna il diritto di denunciare il marito o di chiedere il divorzio in caso di violenza domestica, mina alle fondamenta i sani principi su cui si basa la società pakistana. Quindi, la prima donna che è andata a registrare una denuncia per violenze domestiche a Lahore è stata rimandata a casa perché le botte, se non arrivano alla tortura, costituiscono parte integrante della normale dialettica di coppia. Nella stessa giornata sono stati registrati un altro paio di casi di delitto d’onore e uno stupro di gruppo ai danni di una tredicenne mentre il giorno prima una folla oceanica assisteva alle esequie di tale Mumtaz Qadri. Un signore, sconosciuto ai media occidentali, giustiziato per aver ucciso l’ex governatore del Punjab Salman Taseer, colpevole di essersi battuto contro la legge sulla blasfemia e considerato un eroe da una (non piccola) parte della società.