Il sesso debole della guerra

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Il sesso debole della guerra
Azione Settimanale della Cooperativa Migros Ticino¶7 marzo 2016¶N. 10
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Politica e Economia
Il sesso debole
della guerra
8 marzo L’Alto commissario Onu per i diritti umani è allarmato
per la grave spirale di violenze in Burundi, dove sono segnalati casi
di violenze sessuali contro le donne. Tema affrontato nel saggio
di Simona La Rocca
Nelle guerre, i corpi delle donne diventano terreno di battaglia. Contro
di loro viene usata l’arma dello stupro
di massa, una «pratica» bellica che ha
caratterizzato gran parte della storia
dell’umanità, ma che soltanto dagli
anni Novanta è stata riconosciuta nella
sua portata. Prima veniva considerata un «effetto collaterale» dei conflitti
armati, un male minore, come spiega
Simona La Rocca, ricercatrice universitaria, nel corposo volume (di cui è
curatrice) pubblicato dalla casa editrice italiana Ediesse, Stupri di guerra
e violenze di genere. Sono stati gli orrori compiuti nella ex Jugoslavia e in
Ruanda, insieme alla critica che ne è
stata fatta da giuriste, studiose e attiviste di diversi Paesi, a fare capire che le
donne vengono colpite in quanto parte
più vulnerabile della società. È emersa così la reale portata del fenomeno: i
campi di stupro, le gravidanze forzate,
le violenze di massa, la tratta delle donne a scopo di sfruttamento sessuale,
non sono il risultato di eventi casuali,
dovuti alla libera iniziativa dei singoli
soldati, ma azioni pianificate dai leader
politici.
I numeri forniti dalle Nazioni
Unite permettono di avere un quadro
più chiaro della situazione. In Ruanda, durante il genocidio del 1994,
sono state stuprate tra le 100mila e le
250mila donne (il 70% delle quali ha
contratto il virus dell’HIV); in Sierra Leone, tra il 1991 e il 2002, oltre
60mila; in Liberia, tra il 1989 e il 2003,
più di 40mila; fino a 60mila, tra il 1992
e il 1995, nell’ex Jugoslavia; almeno
200mila nella Repubblica Democratica del Congo, negli ultimi 12 anni
di guerra. Violenze ordinate dall’alto,
come quelle in corso in queste settimane in Burundi, dove secondo Zeid
Ra’ad Al Hussein, alto commissario
delle Nazioni Unite per i diritti umani, ci sono stati stupri di gruppo contro donne considerate non allineate
alla posizione del governo. Il Burundi
è scosso da tensioni etniche ai danni
della minoranza tutsi, che sembrano
destinate ad aggravarsi, portando alla
guerra civile. Stando alle ricostruzioni dell’Onu, le forze di sicurezza sono
entrate nelle case delle vittime, hanno
separato le donne dagli altri membri
della famiglia e hanno abusato di loro,
in alcuni casi sottoponendole a stupri
collettivi.
Anche in Darfur sono stati compiuti crimini organizzati contro le
donne, nei mesi scorsi. Un rapporto di
Human Rights Watch denuncia che a
ottobre 2015 le forze armate sudanesi
hanno violentato circa 220 donne, in
un attacco organizzato nella città di Tabit. Una vittima ha raccontato che i militari sono piombati nella stanza dove si
trovava con le tre figlie, due delle quali
con meno di 11 anni, abusando prima
di loro e poi di lei.
E resta tragica la situazione nelle
zone controllate dallo Stato Islamico,
per le quali è difficile trovare numeri
attendibili. Alcune fonti riportano che
7mila curde sono state imprigionate
nel carcere di Telafer, vicino a Mosul, in
Iraq; 5mila donne sono state sottoposte
a mutilazioni genitali in diverse città
irachene; oltre 3mila sono state rapite
e vendute al mercato degli schiavi, per
un minimo di 50 e un massimo di 150
dollari.
Il riconoscimento internazionale dello stupro e della violenza come
arma di guerra, non solo per le conseguenze fisiche e psicologiche sulle vittime, ma per la sua dimensione
sociale (porta, molto spesso, le donne
colpite e i figli «illegittimi» a venire
abbandonati dalla famiglia di origine, dal marito e dall’intera comunità), è stato fondamentale per riuscire
ad avviare azioni giudiziarie. È degno
di nota quanto sta accadendo in Guatemala, dove è in corso un processo
storico contro due ex militari, Francisco Reyes Giron e il suo comandante
regionale Heriberto Valdez Asij, alla
sbarra per le accuse di abusi contro
donne indigene commessi negli anni
Ottanta, al tempo della guerra tra l’esercito e i movimenti di guerriglia di
sinistra. Almeno 15 donne, tra il 1982
e il 1983, sarebbero state detenute nel
distaccamento militare Sepur Zarco,
dove furono stuprate e ridotte in schiavitù. In aula, a chiedere giustizia, ci
sono 11 sopravvissute.
Per contrastare in modo efficace
il fenomeno, secondo le studiose che
hanno contribuito al testo pubblicato
da Ediesse, non basta però la giustizia
dei tribunali, ma è necessario un cambiamento culturale, che richiede an-
AFP
Stefania Prandi
che il superamento della vergogna, che
spinge le donne vittime a non parlare.
Una storia esemplare, in questo
senso, è quella del Ruanda. Dopo quello che è stato definito il genocidio più
veloce e sistematico della storia dell’umanità, con 1 milione di persone uccise
in 3 mesi, «le donne hanno raccontato,
contro l’imposizione del silenzio, una
storia di violenza ma anche di reazione,
hanno iniziato a riflettere e a mettere
seriamente in discussione quelli che
erano stati i loro ruoli tradizionali, assegnando al racconto della violenza subita e al tentativo di superarla un forte
significato politico». Oltre ai processi,
che hanno coinvolto migliaia di persone, sono stati creati comitati di donne
per l’accesso femminile a ogni livello
amministrativo, che hanno permesso
la riabilitazione nel periodo post genocidio e la partecipazione a tutti i livelli
dell’attività politica.
Il passato degli stupri di guerra non si cancella né si dimentica, ma
può aiutare per costruire un presente
migliore. Da questa premessa prende
le mosse il lavoro di Elisabeth Wood,
docente di Scienze politiche e internazionali nella prestigiosa università
statunitense di Yale, esperta di violenza sessuale durante i conflitti armati, e
consulente per diverse associazioni internazionali. Wood sostiene che la violenza sessuale nelle guerre è evitabile.
Infatti, non tutti gli eserciti la usano: alcuni hanno come specifica linea interna quella di non commettere abusi sessuali. In Sri Lanka, le Tigri Tamil, che
pur sono state brutali nelle insurrezioni
degli anni Ottanta e Novanta, hanno
monitorato da vicino le truppe e punito
i pochi soldati che si sono macchiati di
abusi.
Un comportamento simile è stato tenuto in El Salvador nel 1980, durante la guerra civile. E ancora: sia da
parte delle forze di difesa israeliana sia
dai gruppi militanti palestinesi, negli
anni più recenti, lo stupro è stato estremamente raro. Prendendo spunto da
queste esperienze, la studiosa teorizza
la possibilità di lavorare sulla prevenzione. Un primo passo importante è
parlare del problema mentre è in corso,
sostenendo e diffondendo le narrazioni
delle sopravvissute. In secondo luogo si
deve operare per dissuadere chi compie
i crimini sessuali, pubblicando nomi e
cognomi dei comandanti, mettendo
in discussione il loro onore e la reputazione di fronte alle truppe che vengono
così spronate a non imitarli, introducendo sanzioni. Misure che possono
convincere i leader dei gruppi armati
che i costi degli stupri sono troppo alti e
non valgono la pena.
Un altro possibile modello di reazione, suggerito da Stupri di guerra
e violenze di genere, è rappresentato
dall’empowerment delle donne, che
deve avvenire dall’interno, senza imposizioni esterne. Un esempio viene
dalle donne curde che combattono
nelle fila dell’Ypg, le unità per la protezione della popolazione. Attraverso
percorsi di studio e pratica politica,
hanno iniziato ad avere un ruolo istituzionale, sociale ed economico attivo,
nelle loro comunità, ottenendo una
vera e propria parità di genere, che spaventa i nemici. Succede così che i fanatici dell’Isis, pur volendole assoggettare, abbiano paura di loro, sul campo di
battaglia. Qualche religioso, infatti, ha
prospettato che l’essere uccisi da una
donna non farebbe entrare in paradiso
dopo la morte.
Contro i delitti
d’onore
Condizione femminile L’Oscar
al documentario-denuncia A Girl in the River
Francesca Marino
Da questa parte del mondo, è passato
abbastanza inosservato il fatto che una
signora chiamata Sharmeen Obaid ha
vinto, e per la seconda volta, l’Oscar per
il miglior documentario. Il film si intitola A Girl in the River, e accende i riflettori su una delle (numerose) piaghe
del Pakistan: il delitto d’onore. Omicidi
cioè in cui le vittime, preferibilmente
donne, vengono uccise per aver in qualche modo violato un particolare codice
morale familiare o religioso. «Soltanto
una minima parte degli autori di questi
delitti viene arrestata, e la maggior parte di questi riceve condanne puramente simboliche» ha dichiarato tempo
fa Asma Jahangir, eminente avvocato
pakistano in odor di Nobel e per anni
consulente delle Nazioni Unite per le
esecuzioni sommarie e gli omicidi.
Il documentario, qualche giorno
prima della cerimonia degli Oscar, era
stato proiettato a beneficio del premier
pakistano Nawaz Sharif (nella foto)
che, con l’occasione, aveva scoperto ciò
che accade ogni giorno nel suo Paese e
rilasciato alla stampa entusiastici commenti su quanto «illuminante» fosse
stata l’inchiesta della Obaid. Che per la
sua seconda vittoria agli Oscar, come
da copione, è stata in patria molto più
violentemente criticata che lodata. Le
argomentazioni sono sempre le stesse.
Le stesse che spingono larghe fette della
società pakistana a criticare violentemente Malala Yousufzai, ad esempio.
Sharmeen è colpevole di mostrare al
mondo soltanto il negativo e non il positivo del Pakistan. Di essersi venduta
ai media occidentali che vogliono vedere, e premiano, soltanto chi mette in
luce le deviazioni marginali di una democrazia come quella pakistana.
Il Parlamento si è rifiutato più di
una volta di varare una legge che sanzioni il cosiddetto «delitto d’onore» in
un Paese in cui la condizione femminile diffusa, a parte i casi emblematici di
donne come Sharmeen o come la stessa
Jehangir che appartengono però a una
élite culturale urbana e cosmopolita,
assume secondo Human Rights Watch,
le caratteristiche di un vero e proprio
stato di calamità nazionale. Ostentatamente ignorato dalle autorità dello Stato. Circa tre donne vengono uccise ogni
giorno per motivi legati all’onore familiare, e più di mille donne l’anno muoiono in «incidenti domestici». Ogni due
ore una donna viene rapita, seviziata
o stuprata. Ogni otto ore, qualcuna è
vittima di uno stupro di gruppo. Più
del novanta per cento della popolazione femminile è vittima di qualche forma di violenza da parte dei familiari. Il
comportamento femminile considerato come disonorevole comprende relazioni extraconiugali presunte o reali, la
scelta di un marito contro il volere dei
genitori, la richiesta di divorzio. O, an-
che, l’essere stata vittima di uno stupro.
Stupro che, dopo anni, nel 2007 è stato
finalmente considerato dal Parlamento
un delitto da codice penale e non un’offesa contro la morale punibile, quindi,
secondo il famigerato Hudood, la legge
islamica.
Secondo l’Hodood, la prova dello stupro è a carico della donna che lo
subisce. La signora deve poter produrre, per provare di essere stata stuprata,
quattro testimoni musulmani e di sesso maschile. Altrimenti, viene processata d’ufficio per adulterio: crimine per
cui la stessa legge prescrive la lapidazione. In generale, la testimonianza di una
donna vale metà di quella di un uomo, e
l’adulterio, o il sesso prematrimoniale,
vengono considerati un crimine contro
lo Stato e puniti di conseguenza.
Mentre Sharmeen calcava il tappeto rosso agli Oscar, nell’illuminata
nazione di cui i media occidentali non
mettono in risalto tutto il bello e il buono, lo Stato del Punjab varava una legge contro la violenza domestica. Legge
accolta favorevolmente dalle associazioni femministe e da buona parte della
società, convinta che qualcosa sia pur
meglio di niente. Perché in realtà la legge è più ricca di buone intenzioni che di
effettive misure.
Eppure, è bastata per scatenare le
ire dei partiti islamici e, nello specifico,
del capo della Jamiat Ulema-i-IslamFazl: il famoso (o famigerato) Maulana Fazlur Rehman, meglio noto alle
masse come Maulana Diesel. Secondo
Rehman e i suoi compari la legge va
contro i principi dell’Islam e della Costituzione pakistana e «sarà causa di
divisione nelle famiglie e aumento dei
casi di divorzio». Questo, dichiarato
senza alcuna vergogna in un Paese in
cui il politico Imran Khan ha di recente
divorziato dalla sua ancora neo-sposa
inviandole un sms con su scritto «talaq» per tre volte.
Secondo i pii compari dei partiti
islamici, però, attribuire a una donna
il diritto di denunciare il marito o di
chiedere il divorzio in caso di violenza
domestica, mina alle fondamenta i sani
principi su cui si basa la società pakistana. Quindi, la prima donna che è andata
a registrare una denuncia per violenze
domestiche a Lahore è stata rimandata a
casa perché le botte, se non arrivano alla
tortura, costituiscono parte integrante
della normale dialettica di coppia.
Nella stessa giornata sono stati registrati un altro paio di casi di delitto
d’onore e uno stupro di gruppo ai danni
di una tredicenne mentre il giorno prima una folla oceanica assisteva alle esequie di tale Mumtaz Qadri. Un signore,
sconosciuto ai media occidentali, giustiziato per aver ucciso l’ex governatore
del Punjab Salman Taseer, colpevole
di essersi battuto contro la legge sulla
blasfemia e considerato un eroe da una
(non piccola) parte della società.