lando tra il sonno e la veglia sul sedile nella cabi

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lando tra il sonno e la veglia sul sedile nella cabi
La notte è dei camionisti, pensava Maja ciondolando tra il sonno e la veglia sul sedile nella cabina di guida. Se riusciva a tenere gli occhi semiaperti per qualche secondo, vedeva sulla sinistra
dell’autostrada costellazioni di luci simili a bizzarri alberi di Natale, o a giganteschi dadi da gioco con quattro, sei, otto punti o più, scivolarle incontro dall’oscurità, e piccole luci rosse serpeggiare dolcemente davanti a lei a due a due in una
lunga fila, a tratti sparendo per ricomparire l’attimo dopo nel buio. Il rombo del pesante motore
era dentro di lei. Aveva come l’impressione di essere un insignificante ingranaggio di quel colosso
su ruote, partecipava inerte alle vibrazioni e ai
sussulti del tronco metallico e al ritmico accelerare e rallentare della corsa; e ogni volta che sentiva sotto di sé lo sbuffo di vapore dei freni idraulici, era come se lei stessa si liberasse con un sospiro da una sensazione opprimente cui (stanca com’era) non sapeva più dare un nome. Ogni tanto
riemergeva un attimo da quello stato di semincoscienza, nauseata dall’odore di olio, di rivestimenti di plastica e di sudore. Alla luce fioca del cruscotto il camionista accanto a lei era una montagna d’ombra. Sedeva lì, mezzo nudo nella sua canottiera, emanando calore come un grosso animale. Con stivali delle sette leghe venivano porta11
ti via nella notte, lei e i suoi tre bambini. Un gigante, una forza sovrumana, li aveva presi sotto la
sua protezione.
Nuovi rovesci di pioggia sferzavano il parabrezza. Una mano destra pelosa tastò sul pannello pieno di numeri e lancette, ed ecco che i tergicristalli cominciarono a passare energicamente avanti e indietro sul vetro grondante.
Poco prima, quella sera, quando erano ancora
sulla Mini, ogni scroscio di quel temporale estivo
di una durata e di una violenza eccezionali le era
parso il presagio di una catastrofe naturale. Klaas
stringeva spasmodicamente il volante, proteso in
avanti, imprecando tra sé, accecato dai fari dei
veicoli in senso opposto, cercava di tenere la rotta
tra quei marosi di pioggia; Maja puliva come meglio poteva con il palmo della mano il vapore che
continuava a formarsi sul parabrezza. Imponenti
ruote di camion passavano rasenti, le vetture dietro reagivano con impazienti lampeggiamenti alle manovre incerte della Mini. Temendo incidenti, Maja faceva star zitti i bambini che, eccitati da
tutta quell’acqua che si riversava su di loro dal
cielo e dalla strada, giocavano a far finta di essere
in motoscafo o in sommergibile.
Ora, al sicuro su quel sedile sopraelevato nella cabina del camion, Maja trovava la bufera notturna di una grandiosa bellezza. Nubi di vapore
fluttuavano tutto intorno, e in quella nebbia sfavillante sfrecciavano veicoli grandi e piccoli in un
brulichio di luci bianche, rosse e gialle e di vaghi
riflessi deformati sul manto bagnato della strada: ma lei troneggiava sopra i pericoli, tutt’uno
con il leviatano che fendeva quell’oscurità e quella pioggia.
Tastò dietro di sé la brandina aperta; sentì un
piedino in una calza (Nijn), una testa tonda e
dura di maschietto (Koos) e un ginocchio con un
cerotto (Rutger).
“Dormono come ghiri, quei marmocchi”, disse il camionista.
Erano le prime parole che pronunciava da
quando (da quanto, in effetti?) lei e i bambini erano saliti sul camion. Maja provò una tale gratitudine per quella voce che tutt’a un tratto dava un senso quasi familiare a quella corsa nella
notte, che si svegliò del tutto.
“Sono pigiati uno sull’altro...”
“Come sardine”, terminò lui.
Maja guardò di sottecchi quel corpo massiccio
e quella testa barbuta che arrivava quasi fino al
tetto della cabina. Aveva l’impressione di essere
seduta accanto a un grande orso nero. Lui non aggiunse altro, ma lei aveva voglia di continuare la
conversazione.
“Ha figli?”
Sbuffò nel naso. “Una bambina.”
“Oh, davvero?” esclamò Maja incoraggiante.
“Quanti anni ha?”
“Undici, quasi.”
Tacque di nuovo per un po’. Poi prese qualcosa dall’angolo del parabrezza in alto a sinistra e lo
porse a Maja.
“Eccola, può vederla qui. Ha un accendino?”
“No, non fumo.”
“Allora siamo dello stesso club. Prenda pure la
pila. In quello scomparto.”
Alla luce della torcia di gomma Maja si mise a
osservare la foto di una bambina con gli occhiali,
bruttina e grassoccia. “Per papà da Annie”, c’era
scritto con cura in stampatello di traverso sulla
gonnellina bianca. Il ritratto era in una cornice
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ovale di finta pelle con una scritta dorata: PENSA
A ME. Maja spense la pila.
“Scommetto che è brava a scuola”, commentò,
non riuscendo proprio a farsi venire alle labbra
parole tipo: “che carina”, o “che bella bambina”.
Il guidatore rimise la foto nell’angolo. “Quel
che non sa, quel demonietto, ci starebbe tutto nel
mio pugno.”
Si mise a sorpassare. Con maestà il camion
con rimorchio sfilò accanto a tutta una lunga fila
di autocarri che, con la loro andatura al passo e i
loro teloni fradici, parevano un corteo di pachidermi.
“E’ la prima della classe.”
“Sarà molto fiero di lei.”
Rientrando nella corsia di destra fece un segno all’ultimo della fila che gli rispose con un
doppio lampeggio.
“Deve andare al liceo. E ci andrà, altro che se
ci andrà. Tutto quello che vuole, avrà. E’ per questo che mi spacco la schiena sei giorni la settimana. Sabato sera a casa, e domenica notte via di
nuovo.”
“Non sarà tanto contenta sua moglie.”
“Oh, quella!” sbuffò di nuovo. “Quella non è
mai contenta.”
Ci fu un lungo silenzio. Aveva smesso di piovere; i tergicristalli gemevano sfregando sul vetro.
Con un colpo al pulsante il guidatore li zittì.
Fuori non regnava più il caos, il cielo e la terra
erano tornati a separarsi. Le nuvole si aprirono,
per un attimo comparve anche una falce di luna,
e in quel vago chiarore Maja riuscì a distinguere
le forme e i contorni del paesaggio: scure macchie di alberi, chiazze grigiastre di campi, e qua e
là, come punte di spillo nell’oscurità, le luci di
lampioni lontani. Socchiuse il finestrino dal suo
lato e lasciò il vento fresco, ancora umido, soffiarle sul viso.
“Così i bambini sono in piena corrente”, disse il camionista. Maja richiuse il finestrino. Stava
giusto cercando un nuovo argomento per riprendere la conversazione, quando lui di colpo si mise
a parlare, ma non pareva rivolgersi a lei, era come
se volesse liberarsi di ciò che l’occupava giorno e
notte nella solitudine della sua cabina. Maja aveva la sensazione di essere testimone per caso –
per il solo fatto di essere lì – di un monologo che
doveva aver già ripetuto centinaia di volte guidando il suo camion in autostrada.
Parlava di sua moglie, che non era mai contenta né di lui né della figlia. L’unica cosa che
contava per lei era la casa, l’appartamento, comprato con un mutuo. Per quella casa niente era
troppo bello, niente abbastanza buono. Il suo stipendio veniva speso sempre tutto per cose nuove. Quando erano entrati nell’appartamento l’avevano arredato di tutto punto. Ma le tende erano appena state appese, che già lei aveva voluto cambiarle perché il colore proprio non andava.
E poi la tappezzeria non si intonava più con le
tende nuove che aveva scelto, e infine era l’intera
moquette che aveva dovuto sostituire. Dopo erano stati eliminati i mobili della cucina e i sanitari in bagno, tutto nuovo, rovere invece della formica, e una vasca da bagno verde muschio al posto della solita bianca. E poi c’erano volute le
pentole adatte e gli asciugamani in tinta. Gli armadi rigurgitavano di lenzuola e tovaglie. Lui e la
bambina dovevano togliersi le scarpe all’ingresso.
Quando beveva una birra lei era già pronta con la
spugnetta per pulire i cerchi sul tavolo. Dapper-
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tutto vedeva briciole e macchie e ditate. Considerava lui un maiale e la bambina una disordinata. Usciva solo per fare la spesa, il resto della
giornata non esisteva altro che pulire, pulire e
ancora pulire. Adesso era di nuovo insoddisfatta
perché si era messa in testa il parquet. Un sabato
sarebbe tornato a casa e l’avrebbe trovato bell’e
posato, quel maledetto parquet. E un nuovo pagamento a rate sul gobbo. Sapeva già che dopo il
parquet sarebbe stata la volta dei mobili. Non sarebbe mai finita. Quando l’aveva sposata gli era
sembrata un tipo ordinato e senza complicazioni.
Si era sbagliato di grosso. Un marito mai a casa
ma che guadagna bene, e lei le mani sul portafoglio, ecco tutto quel che voleva. Dopo la nascita
della piccola la porta della camera da letto si era
chiusa a doppio mandato davanti a lui. Era diventato l’ospite del sabato che dormiva nella stanzetta sul retro. Non che gliene importasse, aveva
di che consolarsi. Purché fosse una buona madre.
Mica poteva trattarla come un mobile, la bambina, né scambiarla con un tipo che le andava più
a genio.
Annie era sveglia, lo sapeva quanto valeva, le
sue consolazioni ce le aveva a scuola e nei suoi libri. Senza la bambina se ne sarebbe andato da un
pezzo. Già quell’unico giorno alla settimana lo tirava scemo.
Il camion, la strada, lì era la sua casa. E aveva
un libretto di risparmio, già da anni, per far studiare la bambina. Quello sua moglie non poteva
toccarlo. “Dicono che sia una malattia, ma a me
proprio non me la danno a bere. E’ pura voglia di
potere. Per tenere sotto me e la bambina. Quell’arpia.”
Maja non sapeva come reagire. Tacendo forse
l’avrebbe ferito. Ma cosa doveva dire? Che il suo
mestiere di camionista sulle grandi autostrade internazionali gli dava una forma di libertà eccezionale? Che sua figlia si sarebbe emancipata grazie alla sua intelligenza? Che forse sua moglie
nella sua ossessione di pulire la casa e renderla
perfetta trovava l’appagamento di desideri che lui,
grande e grosso come un orso, neanche sospettava, e che neppure quella ragazzina così intelligente poteva capire?
Ma la risposta diventò superflua. Il camion si
portò sulla destra e, infilandosi in un’uscita laterale, si fermò a un’area di servizio.
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Sotto un baldacchino ondulato di cemento, le sette corsie dove le automobili potevano fare rifornimento ai doppi distributori (Super, Normale) erano deserte nella notte. Cinque erano chiuse da
una fila di birilli bianchi e rossi simili a berretti a
punta. Le cabine di vetro in cui di giorno c’era il
personale che incassava i soldi dai clienti erano
vuote. In cima a un alto palo sventolavano sbatacchiando decine di bandierine triangolari, pubblicità di un olio lubrificante noto in tutto il mondo. L’area illuminata da centinaia di lampadine
sembrava sospesa nel vuoto. Maja era seduta nella cabina del camion fermo accanto alla stazione
di servizio in mezzo a una dozzina di altri camion
con rimorchio parcheggiati paralleli ed equidistanti. Da quando l’uomo era sceso per andare a
bere qualcosa al Relais pour routiers decorato con
ghirlande di lampadine elettriche gialle, rosse e
blu (a lei aveva portato un caffè in un bicchiere di
carta), aveva già letto meccanicamente chissà
quante volte i nomi delle società di trasporti scritti sui fianchi dei camion: Mahé, Onatra, Mazet,
Cadwallader, Giraud, Gondrand, Lamot, De Rijke, Danzas... E in uno stato di semitorpore continuava a ripetere distrattamente quei nomi come
una litania. I bambini respiravano tranquilli sulla
brandina. Si sentiva intorpidita per essere stata
seduta così a lungo, le girava la testa dalla stanchezza. Quanto tempo era passato da quando il
guidatore aveva detto: “Vado a sgranchirmi un
po’ le gambe, prendo un caffè al bar, ne porto uno anche a lei, resti pure con i bambini”?
Nei ricordi di Maja l’attesa con i bambini nel negozio della stazione di servizio era durata un’eternità. Aveva dovuto dividere la sua attenzione tra Koos e Rutger che gironzolavano annoiati
tra gli espositori di souvenir, dolciumi e gadget
per automobilisti, Nijn che le ciondolava in braccio mezza addormentata, pesantissima, e quello
che succedeva fuori, sotto la tettoia dell’officina
(“Multi-service”, annunciavano le lettere al neon
rosse), che vedeva dal suo angolo vicino alla vetrina. A quanto pareva era in corso una conversazione per nulla soddisfacente. Klaas aveva un’aria
abbattuta; l’atteggiamento del suo corpo allampanato e il modo in cui continuava a passarsi la mano tra i capelli la dicevano lunga: non sapeva che
fare. Due uomini in tuta da lavoro spiegavano
qualcosa di complicato rafforzando le loro parole
con grandi gesti. Il camionista, Joop, sembrava
svolgere il ruolo di interprete e mediatore, e ogni
tanto diceva qualcosa a cui Klaas e i meccanici
reagivano con pensierosi cenni affermativi o negativi. Pioveva ininterrottamente.
“Mamma, freddo...” gemeva Nijn.
“Dove andiamo a dormire?” voleva sapere Koos.
Rutger premeva il naso contro il vetro e guardava fuori preoccupato. “Ma la macchina è proprio tutta rotta? Dobbiamo tornare a casa? O prendiamo il treno?”
“Prima papà deve vedere cos’è successo”, aveva detto Maja. “Nijn, non puoi stare un po’ in piedi da sola? Rimetti a posto quel sacchetto, Koos.”
“Sono stufo...” si lamentava Rutger. Koos rimetteva a posto controvoglia la merendina che si
era scelto: “Non mi piace stare qui.”
Sua sorella, che nel frattempo era stata posata a terra e chiaramente condivideva la stessa opinione, era scoppiata a piangere. Con uno sguardo
alla cassiera che, disturbata dal loro arrivo nei
suoi preparativi per chiudere il negozio, già da un
po’ sospirava ostentatamente sbatacchiando chiavi e chiudendo cassetti, Maja spinse i bambini davanti a sé, fuori, sotto la tettoia. Che ci faccio qui?
pensava. Se fossero rimasti in panne solo Klaas e
lei, forse sarebbe riuscita a riderci sopra: la pre-
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In una stazione di servizio identica a quella, due
o trecento chilometri indietro, per una manovra
maldestra di Klaas la Mini era finita contro un
muretto con una violenza tale che entrambi i fanali erano andati in frantumi. Mentre cercavano
di valutare l’entità del danno sotto la pioggia battente ammutoliti dallo spavento (il bordo dei fari
sembrava irrimediabilmente accartocciato), la portiera di un camion fermo accanto a loro si era aperta ed era saltato fuori un uomo. Era comparso
così, con il suo corpo colossale, la testa di riccioli
arruffati e la folta barba scura, il petto villoso nudo: un gigante da fiaba smarrito nel presente, un
Titano in pantaloncini corti, canottiera e scarpe
da tennis fuori misura.
“Bisogno di una mano? Piacere, Joop!”
matura conclusione di un viaggio che nessuno dei
due desiderava fare! Nonostante tutti gli obblighi
e gli impegni, insieme avrebbero trovato una soluzione. Ma era vero? si chiese ripensandoci. A
un tratto non era più sicura nemmeno di Klaas;
peggio, le sembrava di non sentirsi sicura già da
parecchio tempo, ma di non averlo voluto ammettere. E adesso era lì, in quella sera fredda e umida, con tre bambini che cascavano dal sonno.
Per quei bambini, per la loro famiglia, Klaas non
poteva permettersi di lasciar perdere una cosa
che in realtà non gli interessava. E poiché lui non
poteva, lei, per quanto controvoglia, doveva sostenerlo. Tutta la situazione era irreale come un sogno. Si trovava in una specie di terra di nessuno,
diretta verso una destinazione sconosciuta. La sua
consapevolezza era cambiata. Era come se fosse
vissuta per anni in un film in technicolor, con colori falsati, idilliaci. E poi di colpo tutto era diventato bianco e nero. Dormo a occhi aperti, aveva
mormorato tra sé. I bambini ora erano tutti e tre
abbandonati contro di lei. Allora aveva visto Klaas
che si avvicinava, seguito dal grosso camionista.
“Tutto a posto!” aveva esclamato Klaas. “Vi
porta lui fino a Marsiglia.”
Maja van Hove e Klaas Welling si erano conosciuti alla redazione del quotidiano di provincia
per cui entrambi lavoravano, lui alla sezione cultura, lei come giornalista alle prime armi. Di quel
periodo Maja ricordava soprattutto quanto parlavano, le conversazioni interminabili tra loro, con
amici, a casa di questo o di quello, nelle passeggiate in foresta, in campagna. Leggevano anche
molto, il loro mondo era fatto di carta stampata,
di prese di opinioni, analisi, riflessioni scritte e o-
rali. Nella letteratura che prediligevano cercavano
il contrario della finzione. “La poesia è la forma
d’informazione più integra”, diceva Klaas convinto che nulla potesse essere al di sopra della verità
nascosta nell’ermetismo. Maja riteneva che anche
a un livello meno elevato fosse possibile una riproduzione della realtà che meritasse di essere definita “veritiera”. Si erano dati un nome: I Compagni della Parola. Klaas sperava un giorno di
fondare una rivista chiamata così.
Grazie all’impegno e all’entusiasmo, ognuno di
loro aveva saputo emanciparsi con le proprie forze dall’ambiente familiare ristretto da cui proveniva. Klaas si era scrollato di dosso il peso di tre
generazioni di maestri elementari calvinisti, e Maja aveva aspirazioni che andavano ben al di là della cartoleria paterna nel suo paesino sperduto.
All’inizio erano andati a vivere insieme in una
rustica casetta di contadini a distanza di bicicletta dalla cittadina dove si pubblicava il giornale.
Messi insieme, i due modesti stipendi bastavano
a soddisfare le loro altrettanto modeste esigenze.
Se il conto dei libri saliva troppo, per qualche settimana non andavano dal macellaio e facevano a
meno del loro vino locale. Per la Maja di adesso
quella vita a due nella casetta con i gerani alle finestre, i mobili di vimini dipinti di azzurro, una
libreria di assi e mattoni, un’autentica alcova contadina e una piccola stufa di ghisa, era lontana e
irreale come una fiaba di fate e folletti. Il giovane
Klaas e la giovane Maja erano stati in effetti creature molto ingenue. Poi di colpo, per caso o destino, tutto era cambiato.
Klaas accettò l’offerta di diventare redattore
(erano in tutto tre) di una nuova rivista culturale,
Enigma, che si sarebbe occupata in particolare di
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misteri irrisolti in campo artistico e storico. Maja
scoprì di essere incinta. Allergica alla pillola, utilizzava un altro contraccettivo; e ora a quanto pareva il suo caso rientrava nella trascurabile percentuale in cui il metodo non funzionava. Per un
attimo li sfiorò l’idea dell’aborto, ma fu presto respinta. A entrambi piacevano i bambini, ed erano
sempre stati d’accordo di voler un giorno formare una famiglia. Si sposarono. Ormai che c’erano,
si disse Maja, tanto valeva adeguarsi. Lavorò al
giornale finché poté, mise al mondo il bambino
(un maschio, Rutger), e dovendo rimanere a casa, si convinse di dare un senso a quella sua provvisoria sorte scrivendo a macchina e correggendo
bozze per conto di Klaas. Ogni tanto – cosa per
lei più importante – riassumeva libri e articoli che
gli servivano per i suoi interventi mensili su Enigma. La formula della rivista ebbe successo, la
cerchia dei suoi lettori continuava a espandersi.
Lo stipendio di Klaas corrispondeva più o meno
ai loro due messi insieme quando lavoravano al
quotidiano; inoltre aveva anche qualche entrata
supplementare per conferenze e presentazioni di
libri. Riuscivano a cavarsela decentemente.
A ben guardare quella nuova situazione non
dispiaceva affatto a Maja. I progetti e le aspirazioni di Klaas erano anche i suoi. Considerava la sua
collaborazione dietro le quinte come un periodo
di apprendistato.
Nessuno dei due voleva che Rutger rimanesse
figlio unico, e meno era la differenza di età, meglio era. Così quando Rutger festeggiò il suo primo compleanno, era già in arrivo un altro bambino. I due maschietti, uno nella sua culla bassa e
l’altro che gattonava, misero Maja, letteralmente
e metaforicamente, in ginocchio. Da quel mo-
mento ebbe bisogno di tutto il suo tempo per allevare i bambini e mantenere una parvenza di ordine e pulizia nella casetta, diventata troppo angusta per un’idilliaca esistenza da fiaba. Mentre
Klaas viaggiava in lungo e in largo per il paese per
riunioni, inchieste e interviste (e spesso per risparmiare – erano senza automobile – pernottava
da colleghi e conoscenti), Maja viveva come su una barca che faceva acqua, che doveva tenere a
galla sgottando incessantemente. La posizione isolata della casetta, un tempo un punto a suo favore, ora appariva un grave handicap. Per dura
necessità Maja imparò a fare cose di cui non si era mai interessata. Si arrangiava in piccoli lavori
di falegnameria, sapeva dipingere e saldare, cuciva e lavorava a maglia, zappava e piantava, faceva il pane, insegnava ai suoi figli quello che avrebbero imparato all’asilo se non fosse stato troppo
lontano per andarci. All’inizio faceva tutto con
una certa caparbietà, ma a poco a poco cominciò
a trarne piacere. Aveva turato la falla, era il capitano della nave. Lei stessa era cambiata. Non era più l’animatrice loquace e appassionata di un
tempo, la Compagna della Parola che faceva di
tutto per scrivere servizi interessanti su questioni
apparentemente prive di importanza. Se nel frettoloso vestirsi o svestirsi quotidiano si guardava
allo specchio, vedeva quello che vedeva Klaas
con quel suo nuovo sguardo disincantato con cui
a volte lo sorprendeva, e che la offendeva perché
vi leggeva dell’incomprensione. Aveva messo su
qualche chilo, le era venuta la tipica pelle un po’
sciupata di chi vive all’aria aperta, e aveva i calli
alle mani. Portava i capelli biondi tirati all’indietro
e legati, perché era pratico per le sue varie attività. Ogni tanto la domenica Klaas invitava a
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pranzo qualche conoscenza di lavoro, o vecchi amici del giornale venivano a trovarli, e una o due
volte all’anno andavano insieme agli incontri organizzati da Enigma. Era lì che Maja avvertiva più
che mai quanto fosse cambiata. Non apriva bocca, e la musica di sottofondo, le luci, il passare dall’uno all’altro e le chiacchiere inconcludenti di gente che beveva la stremavano. Sapeva che a Klaas
dava fastidio, ma non poteva farci niente. Si rifiutava di credere che sotto sotto si stessero allontanando uno dall’altra. Perché, a suo modo, non lo
stava aiutando a sviluppare i suoi talenti? Che
l’impulso e l’approccio creativo di Klaas fossero
di un altro genere dal suo, l’aveva sempre saputo. Anche all’epoca in cui scriveva ancora brevi
articoli, l’aveva trovato perfettamente normale.
Quello che faceva ora, con i bambini, in casa e in
giardino, aveva – ai suoi occhi – il valore di una
creazione, su un piano diverso, ovviamente, ma
non certo più basso. Benché le mancassero le discussioni che un tempo erano la sua passione e la
sua vita, e non riuscisse più a trovare la concentrazione per leggere un buon libro (e preferiva
non leggere niente piuttosto che roba qualunque),
non si sentiva particolarmente frustrata. Trovava
la sua esistenza spesso difficile e solitaria, ma non
priva di senso, e non si annoiava mai. Più tardi,
quando Rutger e Koos fossero cresciuti, avrebbe
potuto riemergere dal mondo orizzontale del
quotidiano. Forse avrebbe ripreso a scrivere.
Solo di rado ora tra Klaas e lei riaffiorava qualcosa dell’amore spensierato di un tempo, quell’allegro scambio di affettuosità e battute scherzose,
quella calda complicità. C’era perfino stato un
lungo periodo di astinenza. Klaas, a suo dire impegnato in un saggio su un argomento che richie-
deva tutta la sua concentrazione, lavorava spesso
fino a tarda notte, e Maja, stanca dopo una giornata piena, non di rado andava a dormire insieme
ai bambini. Una volta potevano parlare di qualsiasi cosa; ora era come se si fossero tacitamente
accordati di evitare ogni confidenza. Maja credeva di conoscere Klaas meglio di chiunque altro. Supponeva che i primi risultati del suo lavoro
non corrispondessero agli obiettivi che lui stesso
si era posto: quella situazione per lui intollerabile
assorbiva tutte le sue energie. Per aiutarlo non
poteva fare altro che stare con i bambini in modo
che lui non fosse disturbato nelle ore che passava
a casa. Ogni tanto aveva qualche dubbio che la
sua spiegazione fosse quella giusta e la sua condotta adeguata. Allora si convinceva che stavano
vivendo un difficile periodo di crescita; sia per
quanto riguardava la carriera di Klaas sia nella loro vita familiare erano come pionieri; la sola possibilità era tenere duro.
Una calda sera d’estate – i bambini dormivano già da tempo – Maja si era lavata i capelli. Avvolta soltanto in un asciugamano, le spalle e le
braccia scoperte, si era accoccolata sulla soglia
della cucina dietro casa e si tagliava le unghie dei
piedi. Klaas era seduto in giardino con un libro,
ma non lo sentiva voltare le pagine. Quando alzò
la testa, vide che la stava osservando. C’era qualcosa nel suo sguardo che non conosceva. Il suo istinto le disse cos’era; ma benché un fremito di
piacere le attraversasse tutto il corpo, il profondo
del suo essere si opponeva a quel desiderio come
un nuotatore che lotta contro una forte corrente.
Un elemento estraneo di una forza inaudita, che
mai prima di allora era entrato nel loro rapporto,
imponeva la sua presenza. Ed era proprio quell’e-
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straneità che provocava la sua resistenza. Avrebbe voluto gridare: sono io! Avrebbe voluto sfuggire a quello sconosciuto che aveva le sembianze di
Klaas, e che si era alzato e le era andato incontro,
respingere le sue mani, che le toglievano l’asciugamano e passavano tra i suoi capelli sciolti ancora
umidi, avrebbe voluto sottrarsi alla costrizione di
quell’abbraccio, ma era così sorpresa, così ammutolita dallo stupore, che cadde nell’erba con lui,
e subì carezze appassionate – ben presto ricambiate con lo stesso ardore – che, così avvertiva, non
erano dirette a lei, ma a qualcosa di cui lei in quel
momento non era che il simbolo. Il sole era scomparso dietro gli alberi, l’oscurità calava sul giardino, su loro. Da allora ebbe inizio una breve ma intensa fase della loro vita, una sorta di ebbrezza da
mezz’estate. Maja non capiva cosa le stesse accadendo. All’inizio aveva l’impressione di gustare un
frutto proibito. Che non aveva niente a che fare
con la Maja in zoccoli, la Maja in jeans e maglione che non si poteva permettere di abbandonarsi
ai sogni come una sposa in luna di miele, dovendosi occupare di due diavoletti di tre e quattro
anni e dell’andamento di casa, giardino e cucina.
Quella situazione le ricordava una fiaba che le
avevano raccontato quand’era bambina, la storia
di una guardiana di oche che al calare del sole si
toglieva i rozzi vestiti da lavoro e assumeva le sue
vere sembianze di fata. Come la guardiana di oche, anche lei durante il giorno non doveva alludere con parole o gesti alla sua metamorfosi notturna, altrimenti l’incantesimo si sarebbe rotto. E
questo non lo voleva per nessun motivo, per quanto strano fosse. Era due esseri diversi, viveva in
due realtà.
Klaas le pareva altrettanto scisso; ma sia nel
suo comportamento diurno, distratto, frettoloso,
non di rado un po’ lunatico, cui da qualche tempo
era abituata, sia nella sua nuova veste notturna di
amante focoso, era talmente lontano da quello che
costituiva la sua quotidianità, che non osava chiedergli che cosa gli fosse successo (e di riflesso cosa
fosse successo a lei). Pensava comunque di dover
partecipare a quel gioco misterioso finché durava; ciò che sopravviveva in lei del suo io intraprendente e sbrigliato di un tempo lo faceva con
una gioia e un abbandono che in seguito, ripensandoci, l’avrebbe stupita. Ormai era sicura di ciò
che aveva intuito in quei primi momenti in giardino (e questo la irritava, di giorno, quand’era sola),
e cioè che quell’atmosfera da luna di miele di paradisiaca sregolatezza, per quanto propizia al loro
rapporto, non era dovuta a un’attrazione che le sue
qualità fisiche o morali esercitavano su di lui. Per
questo fu con sentimenti contrastanti che, verso la
fine dell’estate, scoprì di essere di nuovo incinta.
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