Manerbio, 15 ottobre 2013 Schema dell`intervento di Brunetto
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Manerbio, 15 ottobre 2013 Schema dell`intervento di Brunetto
Manerbio, 15 ottobre 2013 Schema dell’intervento di Brunetto Salvarani (Facoltà Teologica dell’EmiliaRomagna, Bologna, e direttore di CEM Mondialità, Brescia) “EDUCARE AL PLURALISMO RELIGIOSO. PER UN DECALOGO DEL DIALOGO” Introduzione: “L’educazione interculturale non può non fare i conti con le religioni “ (A.Canevaro) 1) Le migrazioni del sacro dal Vaticano II ad oggi e il mosaico delle fedi in Italia 2) La centralità della dimensione educativa e dialogica per una formazione interreligiosa 3) Per un decalogo del dialogo Conclusioni. “Quello che per il bruco è la fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla” (massima zen) Bibliografia minima - S. ALLIEVI, Pluralismo, Collana “Parole delle fedi”, EMI, Bologna 2006 E. BIANCHI, La differenza cristiana, Einaudi, Torino 2006 P. JENKINS, La terza chiesa, Fazi, Roma 2004 P. NASO – B.SALVARANI, a cura, Il cantiere senza progetto. Secondo rapporto sull’Italia delle religioni, EMI, Bologna 2012 P. NASO, Laicità, Collana “Parole delle fedi”, EMI, Bologna 2005 R. PANIKKAR, Il dialogo intrareligioso, Cittadella, Assisi 1988 R. PANIKKAR, L’incontro indispensabile: dialogo delle religioni, Jaca Book, Milano 2001 L. PEDRALI, a cura, E’ l’ora delle religioni, EMI, Bologna 2002 A.M. RIVERA, La guerra dei simboli, Dedalo, Bari 2005 B. SALVARANI, Vocabolario minimo del dialogo interreligioso, EDB, Bologna 2008 (2° ed. aumentata e aggiornata) B. SALVARANI, Educare al pluralismo religioso. Bradford chiama Italia, EMI, Bologna 2006 - - B. SALVARANI, Il dialogo è finito? Ripensare la Chiesa nel tempo del pluralismo e del cristianesimo globale, EDB, Bologna 2012 - A. SEN, Identità e violenza, Laterza, Roma-Bari 2006. - J.M.R. TILLARD, Siamo gli ultimi cristiani? Lettera ai cristiani del Duemila, Queriniana, Brescia 1999 MATERIALI 1) IDENTITA’ CRISTIANA E DIALOGO Spunti per una discussione C’è un ruolo molto importante che l’educazione può svolgere, in rapporto all’ambiente nel quale siamo immersi: quello di aiutarci ad interagire in modo positivo con esso, a favorire la crescita di una relazione armonica, di un arricchimento reciproco. Considerazioni che valgono in generale, senza dubbio, ma che credo assai rilevanti soprattutto per quell’angolatura particolare rappresentata dall’ambiente religioso, segnato negli ultimi due decenni da profondi mutamenti anche in paesi quali l’Italia (tradizionalmente connotata al riguardo da immobilismo, stanchezza, sfilacciamento). Diversamente rispetto ad un passato recente, oggi, infatti, persino una rapida istantanea sulle religioni le fotografa innanzitutto come un processo in divenire: “è possibile scegliere di essere atei, seguire un’ortodossia religiosa, cambiare confessione, ritagliarsi un proprio percorso all’interno delle religioni” (P.Berger). Tutto ci appare più frastagliato, meno certo rispetto a ieri, e i credenti, in genere, si sentono più liberi, pur se meno sicuri della loro direzione spirituale. Le grandi istituzioni religiose appaiono più vulnerabili, e l’assolutezza del messaggio religioso viene di regola messa in discussione della pluralità delle scelte possibili che ci troviamo davanti. Il mosaico delle fedi si va complicando giorno dopo giorno, creando perplessità, dubbi e solo talvolta anche speranze. A questi rapidissimi mutamenti nell’ambiente religioso, secondo le indicazioni di Franco Sottocornola, missionario in Giappone, “occorre reagire con un processo di adattamento ad essi, che a sua volta richiede un approccio nuovo nei campi dell’educazione e della formazione, in modo tale che gli esseri umani possano affrontare questo nuovo cambiamento in modo positivo e fecondo”1. Fino a poco tempo fa la maggioranza delle persone, nel nostro Paese ma anche altrove, vivevano all’interno di gruppi religiosi ristretti e circoscritti nei loro contorni sociali, con una consapevolezza piuttosto marcata – poiché sostanzialmente indisturbata – della propria identità e della differenza che li separava da persone appartenenti a tradizioni religiose altre. Buddhisti, hinduisti, sikh, ad esempio, ma pure musulmani, abitavano in nazioni lontane frequentate solo da pochi turisti e studiosi occidentali, ed erano percepiti 1 F. SOTTOCORNOLA, “Alcune osservazioni sulla formazione al dialogo interreligioso”, in Concilium n.4 (2002), p.140. come testimoni di percorsi spirituali curiosi, esotici, talvolta appena folkloristici. L’attuale prossimità forzata, peraltro, non è stata accompagnata da una formazione specifica, un’informazione corretta, una riflessione adeguata; mentre l’emozione collettiva suscitata da eventi quali quelli dell’11 settembre 2001 ha contribuito a diffondere paure, sospetti, diffidenze. Ed una percezione quanto mai negativa del pluralismo religioso, colto come un cuneo insensato improvvisamente infisso nel tranquillo scenario delle precedenti indifferenza, apatia, secolarizzazione, mascherate da un cattolicesimo di facciata e dal retroterra sotteso del crociano “non possiamo non dirci cristiani”. Sullo sfondo di tale panorama in progress, vorrei di soffermarmi sui criteri fondamentali in vista di un corretto dialogo interreligioso. Sintetizzando, credo possano ridursi appena ad un paio, a partire dai quali sarà più agevole – mi auguro – effettuare un sano discernimento rispetto a quanto sta accadendo. In primo luogo, ritengo sia necessario prendere le mosse il più possibile da una seria consapevolezza della propria identità religiosa. Del proprio specifico. A lungo, persino in ambiti sensibili al dialogo ecumenico/interreligioso, si è ritenuto che esso sarebbe stato favorito dalla rinuncia (quanto meno tattica e momentanea) alla propria peculiare identità da parte delle religioni coinvolte. L' incontro si sarebbe svolto più agevolmente, in tale ottica, a partire dalla scelta del cristiano che, posto di fronte ad un musulmano, ad esempio, avesse optato per trascurare, o almeno porre fra parentesi, le verità più scomode agli occhi dell' interlocutore. Ritengo occorra, ora, capovolgere una simile prospettiva. Nessun dialogo autentico potrà avvenire sulla base di una rinuncia alla propria identità (che non è un idolo né un moloch, ma un cammino di ricerca e un processo in perenne divenire), un generico volemose bene, o un indifferentismo che banalizzi a basso prezzo le differenze. Che ci sono, resteranno, e non vanno minimizzate: semmai, opportunamente contestualizzate, e mai drammatizzate. Un dialogo serio, d’altra parte, implica interlocutori consci e innamorati della loro identità! “Avere convincimenti fermi – scrive il teologo peruviano Gustavo Gutierrez - non è di ostacolo al dialogo, né è piuttosto la condizione necessaria. Accogliere, non per merito proprio ma per grazia di Dio, la verità di Gesù Cristo nelle proprie vite è qualcosa che non solo non invalida il nostro modo di fare nei riguardi di persone che hanno assunto prospettive diverse dalla nostra, ma conferisce al nostro atteggiamento il suo genuino significato”2. Ricorrendo ad un paradosso solo apparente, penso davvero che la capacità di ascoltare gli altri risulti tanto maggiore quanto più fermo è il nostro convincimento e più trasparente la nostra identità di fede. Un secondo criterio per un dialogo interreligioso fruttuoso è di maturare un atteggiamento positivo verso le altre religioni. Questo è il filo rosso del Concilio Vaticano II, in particolare nella dichiarazione Nostra Aetate, ma anche nelle tappe successive: dalla scelta di una pedagogia dei gesti da parte di Giovanni Paolo II (dall’abbraccio a rav Toaff al tempio maggiore a Roma alla Giornata mondiale di preghiera delle religioni per la pace ad Assisi, dal suo avvicinarsi compunto al muro 2 G. GUTIERREZ, “Un nuovo tempo della teologia della liberazione”, in Il Regno – Attualità n.10 (1997), pp.298-315. occidentale a Gerusalemme al suo passeggiare scalzo nella moschea di Damasco) alla proclamazione congiunta da parte delle chiese cristiane europee della Charta Oecumenica a Strasburgo (2001). Mentre persino la bufera scatenatasi dopo il discorso di Benedetto XVI a Ratisbona del 12 settembre 2006, a gioco lungo, potrebbe trasformarsi (paradossalmente) in un input positivo sul dialogo cristianoislamico. Ciò, si badi, correggendo molto di quello che era stato l’atteggiamento generale e reciproco del passato, contrassegnato - ad esempio - da guerre religiose, crociate, antigiudaismo… “L’educazione e la formazione al dialogo interreligioso, o a una vita di amicizia e di simpatia con persone di altre religioni - scrive ancora Sottocornola deve anzitutto cercare di creare questo atteggiamento generale col quale noi sottolineiamo quello che è positivo, buono, bello nell’altra religione piuttosto che i suoi aspetti negativi, e poniamo l’accento su tutto quello che unisce o favorisce la collaborazione e l’amicizia, piuttosto che su ciò che divide”3. Si tratta, in vista di tale acquisizione, evidentemente, di avviare un cammino che potrà rivelarsi anche lungo, complesso e accidentato: è inutile farsi troppe illusioni (ma anche fasciarsi la testa prima di averci provato seriamente, beninteso!). Ecco dunque alcune indicazioni di metodo che favorirebbero questo incontro e lo renderebbero meno teso e drammatizzato. Prima di tutto, il dialogo interreligioso dovrà maturare nel quadro di un riconoscimento che chi dialoga non sono le religioni (entità astratte) bensì delle donne e degli uomini in carne ed ossa, con storie, vissuti, sofferenze, speranze, peculiari e irripetibili. Non appaia una considerazione banale, o scontata: quanti errori sono stati compiuti, e continuano a farsi, a causa di una lettura tutta ideologica e metafisica dell’altro4! Gli esempi si sprecherebbero. In primis, creare e favorire occasioni di incontro, dunque, in ambienti che favoriscano il contatto effettivo. Occorrerà poi una buona conoscenza reciproca degli interlocutori coinvolti: conoscenza intellettuale, dei testi e dei documenti ufficiali delle chiese e delle religioni (imparare le religioni), certo, ma anche umana, a partire da un atteggiamento sincero di ascolto delle narrazioni altrui (imparare dalle religioni). Lavorare assieme in qualche settore specifico, ad esempio, affrontando problemi sociali o discriminazioni ingiuste, potrebbe rendere più denso e convincente un rapporto interreligioso. Valorizzare esperienze e testimonianze vissute in un dialogo fecondo, quindi, soprattutto agli occhi dei più giovani – bisognosi di modelli e refrattari alle eccessive teorizzazioni – aiuterà senz’altro il percorso: con l’incontro diretto, quando sia possibile, la visita ai diversi luoghi delle comunità, o almeno il ricorso ai canali audiovisivi (Internet, ad esempio, è uno degli ambiti in cui la dimensione interreligiosa è maggiormente visibile). In caso di interlocutori già maturi, un momento rilevante di formazione alla pratica del dialogo può essere, quindi, l’esperienza o la preparazione ad una condivisione nella preghiera, cioè l’espressione esterna della propria fede personale alla presenza di altri provenienti da differenti contesti religiosi, o insieme ad essi. 3 F. SOTTOCORNOLA, ivi, p.144. Potrà aiutarci a decostruire il mito pericoloso dell’identità unica, in questa direzione, la lettura del testo del premio Nobel per l’economia Amartya Sen, Identità e violenza, Laterza, Roma-Bari 2006. 4 Un’ultima considerazione riguarda la necessità di investire maggiormente nella preparazione e formazione di giovani (presbiteri ma anche laici) che si accingano a svolgere un ruolo di guida e di stimolatori sul tema del dialogo nelle diverse comunità. La generazione che ha vissuto in pieno il Concilio sta infatti per concludere la sua vicenda terrena, e il rischio di non passare il testimone a quelle di oggi appare palpabile. Ecco allora l’importanza di ricentrare i curricula degli studi teologici facendo attenzione al dialogo interreligioso e alla conoscenza delle religioni altre, ma anche la pastorale delle parrocchie, i programmi dei movimenti, e così via. L’obiettivo è quello di uscire dal falso presupposto secondo cui il dialogo interreligioso sarebbe un’attività riservata agli specialisti, e assumere come caso serio l’invito dell’enciclica di Giovanni Paolo II “Redemptoris Missio”, per cui “tutti i fedeli e le comunità cristiane sono chiamati a praticare il dialogo interreligioso, anche se non nello stesso grado e forma” (n.57)5. Il che significa, da una parte, che la formazione al dialogo dovrà diventare azione normale della formazione cristiana in quanto tale; e dall’altra, che l’investimento nella preparazione di esperti nel ramo avrà bisogno di una specifica attenzione, in una chiesa finalmente capace di dialogo. Anche perché oggi non possiamo più negare che “senza dialogo, le religioni si aggrovigliano in se stesse oppure dormono agli ormeggi… o si aprono l’una all’altra, o degenerano”6. E che, come ripete spesso Edgar Morin, “chi non si rigenera degenera”. (B.S.) 2) PAPA FRANCESCO E IL DIALOGO COME STILE In quel 1964 – penultimo anno del Vaticano II - Jorge Mario Bergoglio era un giovane docente di letteratura e psicologia nei seminari di Buenos Aires e di Santa Fè, non ancora prete (lo sarebbe diventato un lustro più tardi). In quell’anno, il 6 agosto, Paolo VI firmava quella che è considerata unanimemente l’enciclica del dialogo, l’Ecclesiam suam, sorprendendo il mondo ecclesiale tutto impegnato a seguire l’andamento del concilio. Perché Montini aveva scelto di dedicare tempo e impegno a stilare un altro documento, oltre a quelli che i padri conciliari stavano sfornando? Si tratta di una domanda non da poco. La risposta, peraltro, sembra evidente: egli intendeva fornire una chiave di lettura, personale quanto autorevole, da utilizzare per comprendere al meglio il senso dell’assise vaticana. A suo parere era giunto il momento in cui “la chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere”; anzi, scrisse con un bell’effetto di climax, “la chiesa si fa parola; la chiesa si fa messaggio; la chiesa si fa colloquio” (ES n.67). Non è casuale, infatti, che il termine latino qui utilizzato sia colloquium, a indicarne la dimensione quotidiana, feriale, non necessariamente collegata a una prospettiva filosofica; mentre dialogus sarebbe comparso solo nei testi conciliari successivi all’enciclica montiniana. Che 5 6 EV 12, EDB, Bologna 1992, 559. R. PANIKKAR, L’incontro indispensabile: dialogo delle religioni, Jaca Book, Milano 2001, p.25. ancor oggi risulta utile a chiarire il significato dell’esperienza del dialogo, che per la prima volta nella sua lunga storia la chiesa di Roma decideva di porre nel cuore della propria autocoscienza. Al n.83 Paolo VI ne spiega i principali caratteri: “La chiarezza innanzi tutto; il dialogo suppone ed esige comprensibilità, è un travaso di pensiero, è un invito all' esercizio delle superiori facoltà dell' uomo; basterebbe questo suo titolo per classificarlo fra i fenomeni migliori dell' attività e della cultura umana”. I PRIMI PASSI DEL NUOVO VESCOVO DI ROMA Ripercorrere l’Ecclesiam suam è importante, dunque, non solo per cogliere la portata dei due documenti che il Vaticano II dedica al dialogo: l’Unitatis redintegratio, sull’ecumenismo, e la Nostra aetate, sull’incontro con le grandi religioni mondiali; ma anche per spiegare le ragioni per cui, con l’elezione di Francesco lo scorso 13 marzo, il popolo del dialogo – reduce da stagioni non certo entusiasmanti, segnate più da delusioni che da attese compiute – ha risollevato il capo ed è tornato a sperare. Con ragioni che erano emerse da subito, da quel saluto dal balcone di San Pietro: a partire dalla scelta del nome, che rimandava evidentemente al Poverello d’Assisi, come ha spiegato un paio di giorni più tardi lui stesso, per il tema della povertà, della pace e della custodia del creato. Impossibile dimenticare, però, che San Francesco è anche colui che ebbe il coraggio di confrontarsi con l’islam con un atteggiamento pacifico e aperto (fu a Damietta, in Egitto, nel 1219, in piena epoca crociata); e che al numero 16 della sua Regola non bollata, quella più vicina al suo spirito originario, affidava l’efficacia del suo messaggio evangelico sine glossa prima di tutto alle opere e alla testimonianza del buon esempio, e solo in un secondo tempo a un’esortazione verbale. Oltre al nome, è apparsa chiara la sua scelta di autodefinirsi preferibilmente vescovo di Roma, e non papa. Non si tratta, sia chiaro, di un problema di modestia, o, peggio, di un bizantinismo: si è papi in quanto vescovi di Roma, e non viceversa; Roma, che presiede nella carità tutte le chiese (citazione tratta da Ignazio d’Antiochia). Un’opzione carica di significati anche nell’ambito del dialogo ecumenico, dato che le modalità con cui viene vissuto e percepito il primato petrino è ancora uno degli ostacoli più significativi in chiave di unità delle chiese (come aveva sottolineato lo stesso Giovanni Paolo II nell’enciclica Ut unum sint, del 1995, dove, al n.96, era giunto a chiedere ai responsabili delle chiese e ai loro teologi di avviare sul tema “un dialogo fraterno, paziente, nel quale potremmo ascoltarci al di là di sterili polemiche”). Ecco allora che non appare casuale che, una settimana dopo l’elezione, in occasione dell’incontro con i leader delle chiese cristiane e delle grandi religioni Francesco, nella Sala Clementina - dove uno strappo al protocollo evidenziava l' assenza del trono, sostituito da un semplice seggio - abbia compiuto il gesto che fece Paolo VI a Gerusalemme con il patriarca di Costantinopoli Athenagoras (5/1/1964): ha abbracciato il patriarca Bartolomeo I e l’ha chiamato Andrea in quanto erede dell' Apostolo, così come Athenagoras chiamò Pietro l’allora papa Montini. “Ci rallegriamo di tutto cuore con la vostra amata santità per la vostra elezione ispirata da Dio e l' assunzione dei vostri doveri quale primo vescovo della chiesa cattolica”, ha detto a sua volta Bartolomeo I al pontefice, aggiungendo che “compiti enormi per l' unità l' attendono”. Nel frangente il vescovo di Roma si è riproposto di non solo di “continuare nel cammino verso l' unità della chiesa”, ma anche di proseguire il dialogo “che ha portato frutti” con l' ebraismo, senza tralasciare quello con le altre religioni, in primis con i “musulmani che adorano Dio unico, vivente e misericordioso”. Nella stessa direzione vanno letti la ribadita fedeltà al Vaticano II, il ricordo dello “specialissimo vincolo spirituale” che lega il popolo cristiano a Israele, e la citazione delle parole che Giovanni XXIII pronunciò nel suo discorso di inaugurazione del concilio dell’11 ottobre 1962, ossia che “la chiesa Cattolica ritiene suo dovere adoperarsi attivamente perché si compia il grande mistero di quell' unità che Cristo Gesù con ardentissime preghiere ha chiesto al Padre Celeste nell' imminenza del suo sacrificio”. Due giorni dopo, il 22 marzo, parlando al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede solo in italiano, Francesco ha indicato poi le linee-guida del pontificato, affermando fra l’altro che “non si possono costruire ponti tra gli uomini dimenticando Dio” e definendosi “costruttore di ponti”. Fino a dirsi desideroso che “il dialogo tra noi aiuti a costruire ponti fra tutti gli uomini, così che ognuno possa trovare nell’altro non un nemico, non un concorrente, ma un fratello da accogliere e abbracciare”. Del resto, ha confessato con un cenno autobiografico, le sue stesse origini lo “spingono a lavorare per edificare ponti”. Infatti, “la mia famiglia è di origini italiane; e così in me è sempre vivo questo dialogo tra luoghi e culture fra loro distanti, tra un capo del mondo e l’altro, oggi sempre più vicini, interdipendenti, bisognosi di incontrarsi e di creare spazi reali di autentica fraternità”. In quest’opera è fondamentale anche il ruolo della religione: “Non si possono vivere legami veri con Dio, ignorando gli altri. Per questo è importante intensificare il dialogo fra le varie religioni, penso anzitutto a quello con l’islam, e ho molto apprezzato la presenza, durante la messa d’inizio del mio ministero, di tante autorità civili e religiose del mondo islamico”. Un paio di settimane più tardi, l’8 aprile, un viaggio a Roma del presidente delle chiese Evangeliche in Germania, Nikolaus Schneider, ha rappresentato la prima visita privata di un leader protestante con papa Bergoglio. Si è trattato, riferiscono le cronache, di un incontro caloroso in cui i due si sono reciprocamente definiti fratelli; e in cui si è parlato di un appuntamento che si presenta assai rilevante per tutto il mondo evangelico, il cinquecentesimo anniversario della Riforma previsto per il 2017, del quale Schneider ha evidenziato: “Questa ricorrenza non intende essere un appuntamento puramente tedesco e non vuole neanche mettere in risalto Lutero come eroe, ma anzi, vuole celebrare il ritorno al vangelo e questa è una cosa che riguarda tutti i cristiani, quindi include anche i cattolici.” IL DIALOGO DELLA FRANCHEZZA E DELLA COLLABORAZIONE Occorre dire, del resto, che la consuetudine dei rapporti fraterni con esponenti di varie religioni era già un atteggiamento abituale per l’arcivescovo di Buenos Aires Bergoglio. Le buone relazioni con gli ebrei sono testimoniate, fra l’altro, dal volume scritto a quattro mani con il rabbino Abraham Skorka, Il cielo e la terra, fra i primi usciti in italiano dopo la sua elezione. In occasione del Te Deum, la liturgia di ringraziamento di fine anno, egli era solito chiedere ai leader religiosi locali di partecipare alla cerimonia e, negli ultimi anni, li invitò anche a recitare una preghiera. Non mancano testimonianze di un suo rapporto fraterno con l’imam della capitale argentina. Nel libro sopra citato, sostiene fra l’altro che “Dio si fa sentire nel cuore di ogni persona. E rispetta anche la cultura dei popoli. Ogni popolo coglie una visione di Dio, la traduce in accordo con la propria cultura e la elabora, perfezionandola, dandogli una specifica forma”. Fino ad accreditare la sensazione che, se per Benedetto XVI dialogo interreligioso e dialogo interculturale si muovono su due piani diversi e in particolare con l’islam sarebbe praticabile solo il secondo, Francesco ritenga che il confronto religioso e quello culturale siano strettamente connessi, e che l’uno non possa procedere senza l’altro. Del resto, al di là dei suoi primi passi nelle sue relazioni con le altre chiese e le altre religioni, un motivo di speranza per il popolo del dialogo va rintracciato, direi, nella scelta del suo stile di pontificato. Cosa che, beninteso, va ben oltre i pur rilevanti cambiamenti nella quotidianità che i media hanno puntualmente sottolineato. Il riferimento, infatti, è alla visione del cristianesimo suggerita dal teologo Cristoph Theobald, quando rilegge il cristianesimo come stile. Perché ciò che Gesù fa e dice nei suoi incontri è un tutt’uno con il suo essere, in lui ci sono un’assoluta unità e trasparenza di pensiero, parola e azione che sono manifestazione del Padre: dal suo stile emerge la provocazione di un cristianesimo che apprende, mentre le patologie e le infedeltà al vangelo che pervadono ogni epoca della storia ecclesiale – compresa la nostra, alla fine del regime di cristianità - possono essere lette come rottura della corrispondenza tra forma e contenuto. Quando prevale la forma, si ha un cristianesimo ridotto a estetismo liturgico, istituzione gerarchica, struttura dove, però, è assente la sostanza di quell’amore che porta Gesù fino alla croce. Se invece prevale il contenuto, si ha un cristianesimo ridotto a impianto dottrinale e dogmatico, verità fatta di formule cui credere, priva di un legame vitale con l’esistenza delle persone. Una chiesa fedele allo stile di Gesù, perciò, non si presenta come istituzione detentrice di un sistema di dogmi da insegnare al mondo, ma spazio in cui le persone trovano la libertà di far emergere la presenza di Dio che già abita la propria esistenza. Ogni persona – quali che siano la sua religione, il suo pensiero e la sua cultura – è portatrice di un’immagine di Dio che aspetta di rivelarsi come per gli apostoli nella Pentecoste, cioè di fare proprio lo stile di Gesù: quindi i cristiani dovrebbero essere in ricerca della manifestazione di Dio propria di ogni religione, cultura e pensiero, invece di assumere atteggiamenti di svalutazione e condanna. Almeno per ora, si può affermare che papa Bergoglio abbia ben chiara questa traiettoria, e abbia scelto di vivere in prima persona questo stile. E’ questo l’atteggiamento che può far sperare che, esauritosi il tempo di quello che il cardinal Kasper aveva definito il dialogo delle coccole (Sibiu 2007), possa cominciare la stagione del dialogo della franchezza e della collaborazione: quello di cui le chiese, le religioni stesse e il mondo intero hanno un estremo bisogno. Brunetto Salvarani per Testimoni (EDB, settembre 2013)