I fiduciary duties degli amministratori

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I fiduciary duties degli amministratori
Link Campus University of Malta
Academic Year 2009-2010
Cattedra di Diritto Societario Comparato
Prof. Ferruccio M. Sbarbaro
Dispensa n. 2
I “FIDUCIARY DUTIES” DEGLI AMMINISTRATORI
I “FIDUCIARY DUTIES” DEGLI AMMINISTRATORI
1 – Caratteri generali
Nell’ordinamento statunitense, con l’espressione “fiduciary obligations” si
vuole connotare il rapporto che esiste fra il titolare del diritto di proprietà e colui
che assume compiti di gestione, rapporto che, più specificamente, nelle
corporations riguarda quello fra società e amministratori.
Per questi ultimi, l’imposizione di tali doveri è quindi una conseguenza
necessaria dell’obbligo di tutelare al meglio gli interessi della società e trova
fondamento, originariamente, in quell’idea di affidamento1 su cui si fonda la
nozione di trust.
La circostanza che, a seguito della sua evoluzione, la corporate law si sia
progressivamente affrancata dalla law of trust non ha, comunque, messo in
discussione la rilevanza del principio; ad esso, per contro, si è dato ora rilievo
normativo – il legislatore precisando le condizioni in presenza delle quali ritenere
esistente un fiduciary duty – ora si è lasciato alle corti il potere di specificarne i
contenuti.
Peraltro, che la responsabilità per violazione dei fiduciary duties non possa
espandersi all’infinito ma debba trovare il suo limite nel diligente adempimento,
sembra rispondere ad un generale criterio di ragionevolezza, giacché qualunque
siano i fiduciary duties, ciò che ci si attende è che “a director shall discharge his
duties […] in good faith”2.
Nella realtà le cose sono abbastanza diverse. La complessità delle funzioni
svolte dai managers è, infatti, da mettere in relazione alla circostanza che la loro
attività si dispiega in un continuum di decisioni, controlli, scelte, indagini e
quant’altro, che rende impossibile procedere ad una precisa individuazione dei
fiduciary duties. Il fatto che essi si differenzino da caso a caso e da società a
società, fa comprendere come la formula finisca con l’essere un’espressione
troppo generica che riceve specificazione, esclusivamente, da una valutazione
attenta della condotta3.
1
Sulle obbligazioni assunte dal trustee si è osservato come esse consistano – nel loro contenuto
attivo – nell’adoperarsi “affinché l’affidamento giunga al suo compimento”, delineandosi la sua
posizione come un complesso fascio di rapporti obbligatori, cfr. M. LUPOI, Trusts, Milano, 1997,
p. 236 ss. In proposito, altresì, E. M. TABELLINI, L’azione individuale del socio a tutela
dell’interesse sociale secondo il diritto Statunitense, in Contr. Impr., 1998 , p. 811 ss.
2
Così la RMBCA § 80.30(a) che oltre ad introdurre il concetto di buona fede, discorre altresì di
adempimento “with the care an ordinarly prudent person in a like position would exercise under
similar circumstances and in a manner he reasonably believe to be in the best interest of the
corporation”.
3
Cfr. L. HERZEL, L. KATZ, Smith v Van Gorkom: the Business of Judging Business Judgement, in
Bus. Law., 1986, n. 41, pp. 1188-1191, che evidenziano la difficoltà di giudicare scelte che
possono rivelarsi efficienti per il mercato alla luce di parametri di natura giuridica. Inoltre,
osservano gli AA. che il mercato “evaluetes directors on the basis of a long record of transactions.
Because over time good luck and bad luck cancel out, the long term record is the best available
indicator of a director’s shortcoming”.
Proprio la difficoltà di procedere a tale individuazione ha fatto dire, ad una
parte della dottrina, che l’imposizione di fiduciary duties si fonderebbe
sull’osservazione che è “too costy to contract for every contingency”4.
Il principio sotteso all’espressione fiduciary duties troverebbe perciò
fondamento nella difficoltà di procedere ad una contrattualizzazione dei rischi da
parte degli investitori. Costoro sono, in genere, poco interessati alla politica della
singola società, e le ragioni del loro intervento sul mercato vanno individuate
nell’aumento di patrimonio che sperano di realizzare, piuttosto che
nell’incremento di valore della singola partecipazione azionaria.
Nelle corporations ci si trova, dunque, dinanzi ad una situazione molto
complessa poiché i managers per tutelare l’interesse della società sono chiamati a
far uso di un potere discrezionale (cosa che peraltro è insita nell’attività di
gestione) che il più delle volte sottende la necessità di correre il rischio economico
connesso ad iniziative temerarie. Perché anzi, tanto più il rischio dell’operazione
economica è alto, tanto maggiore, in teoria, dovrebbe essere la sua convenienza
economica.
Inoltre, la tempestività con cui vanno effettuate determinate scelte può, tante
volte, significare che il manager è costretto ad agire senza le informazioni
adeguate, e cioè senza poter attendere i risultati di una inquiry magari già
predisposta. Il ritardo, infatti, potrebbe essere all’origine di un danno più rilevante
di quello derivante dall’assumere la decisione: in situazioni del genere è chiaro
che soltanto a posteriori sarà possibile dire quale sarebbe stata la scelta più
opportuna5.
In questo senso, se è vero che il bagaglio di esperienze, di sensibilità, di
senso degli affari, di conoscenze tecniche gioca un ruolo fondamentale nella
realizzazione dell’interesse della società, è anche vero che non offre criteri per
stabilire quando vi sia stata violazione dei fiduciary duties, né cosa essi siano.
Né sarebbe opportuno sottoporre l’amministratore a regole di responsabilità
particolarmente rigorose, perché tale eventualità finirebbe con “il condurre a
soluzioni in contrasto con l’interesse sociale, in quanto [lo] incentiverebbe ad
evitare rischi che sarebbe invece opportuno correre”6.
In altro senso è conveniente sottolineare come non ogni carelesness conduct
dia vita “to a claim for a breach of fiduciary duties” e come, quindi, la
responsabilità sia una conseguenza del tipo di attività svolta dai managers, e non
della posizione che essi occupano7.
4
Testualmente, F. K. EASTERBROOK, D. R. FISCHEL, op. cit., p. 98. Gli AA. muovendosi in una
prospettiva di analisi economica del diritto, sottolineano come gli incentivi offerti dal mercato
influenzino le soluzioni in tema di corporate law e come la logica contrattuale mal si concili con i
fiduciary principles.
5
Così in Joy v. North, 692 F.2d 880 (2d Cir. 1982) dove rischio e profitto appaiono in rapporto di
diretta proporzionalità.
6
Si esamini sul punto l’analisi di, F. K. EASTERBROOK, D. R. FISCHEL, op. cit., p. 90, nonché
quella di M. A. EISENBERG, Obblighi e responsabilià degli amministratori e dei funzionari delle
società americane, in Giur. Comm., 1992, I., p. 624.
7
Così i giudici in Lac Minerals v International Corona Ltd., 61 DLR 14, 28 (4th 1989). Si è
precisato, H. B. MANNING, The business judgement rule and the directors duty of attention: time
for reality, in Bus. Law., 1984, n. 39, pp. 1492-1495, “we do not have any common standard or
experience as to what directors do; and what they do varies from company to company, from
situation to situation and from time to time. Abandoning all effort to state what directors do, the
present law simply announce that they must do it‘carefully’, like a prudent person”.
In questo contesto si colloca la distinzione fatta dalla Supreme Court of
Delaware che ha ritenuto di comprendere gli obblighi degli amministratori in due
categorie: duty of care e duty of loyalty8.
2 - Responsabilità e duty of care
L’espressione duty of care assume nel contesto americano della corporate
governance un significato tutt’altro che univoco, non solo in considerazione della
difficoltà di verificarne i contenuti, ma anche per la necessità di rapportarla al tipo
di attività svolta. Sebbene rinvii a quel modello di condotta generalmente
accettato – e che è lecito attendersi da chi esercita un certo tipo di attività
professionale la cui violazione, a partire da Donoghue v. Stevenson9, è a
fondamento della Law of Tort – non si può negare che qui i suoi profili applicativi
finiscano con il chiamare in causa un diverso ordine di considerazioni.
In effetti, se è vero che il principio in base al quale “managers must act with
reasonable care”, e cioè con diligenza, non può essere seriamente messo in
discussione, è anche vero che quando dalle astratte affermazioni si passa ad
individuarne i contenuti, ci si avvede di quanto quel principio possa risultare
indeterminato, sia sotto l’aspetto contenutistico, sia in relazione all’individuazione
dei soggetti nei cui confronti esiste l’obbligo.
Le ragioni di questa incertezza sono da imputare al fatto che i managers, per
tutelare l’interesse della corporation, sono chiamati non solamente a scelte
difficili, dove il coefficiente di rischio (in termini di perdite economiche) può
essere molto elevato, ma anche a valutare l’opportunità, secondo quanto si
osservava in precedenza, di effettuarle.
Il riconoscimento di un duty of care attribuisce, nondimeno, ai soci uno
strumento di controllo sull’operato dei managers che abbiano, con la loro
condotta, causato un danno alla corporation.
Le diverse sfumature offerte in proposito dalla case law testimoniano, per
un verso, della necessità di individuare principi che controllino esclusivamente la
regolarità del processo decisionale e non anche i suoi risultati e, per l’altro, danno
conto di un articolarsi del duty of care, in duty of monitor, duty of inquiry, rispetto
nelle decisioni del criterio di ragionevolezza, dovere di compiere scelte
ragionevoli.
Emblematico, in tal senso è Francis v. United Jersey Bank10. Il caso
riguardava un’attempata signora che, dopo la morte del marito, aveva continuato
ad occuparsi della gestione della società senza la dovuta attenzione e senza
accorgersi che i figli “began to draw ever larger sums (still characterizing them
as loan) that greatly exceeded profits”, al punto che la società fu costretta a
dichiarare bancarotta. I giudici, osservarono che, sebbene la signora fosse una
semplice casalinga con funzioni di amministratore “as an accomodation to her
8
COMMITTEE ON CORPORATE LAW, Corporate director’s guidebook-1994, in Bus. Law., 1994, n.
49, p. 1252 che precisa “the legal obligations of directors fall into two broad categoris: a duty of
care and a duty of loyalty”. Sul punto E. M. TABELLINI, op. cit., p. 812 che non manca di
sottolineare come con ciò siano evocate categorie ben note al nostro ordinamento.
9
In un caso britannico – Donogue v. Stevenson (1932) A.C. 562, 569 – Lord Atkin osservò “the
nature of thing may vary well call for different degreees of care”.
10
87 N.J. 15, 432 A.2d 814 (1981).
husband and son”, non si era, tuttavia, mai preoccupata di fare il benché minimo
tentativo per liberarsi da tale situazione che è comunque fonte di responsabilità,
giacché “directors are under a continuing obligation to keep informed, […] to
attend board meetings […] to assure that bookkeeping methods conform to
industry custom and usage […] to sometimes call for more than mere objection
and resignation”.
I giudici, in Francis, nel ritenere la responsabilità della disattenta
amministratrice, individuano gli estremi della condotta diligente in un
comportamento prudente ed attento ai compiti che una carica di tale natura
ordinariamente richiede.
Comunque sia, anche se si ammette che una decisione sia correttamente
assunta non è detto che si risolva in un vantaggio per la società e, quella
dell’amministratore sembra essere un’obbligazione di mezzi più che di risultato.
La considerazione che una decisione possa essere non irragionevole pur
avendo prodotto un pessimo risultato e il fatto che l’interesse dei soci possa
meglio essere perseguito applicando ai managers un criterio di responsabilità
meno rigoroso, ha indotto a ritenere che, qualora ricorrano talune circostanze, gli
amministratori non siano responsabili delle perdite arrecate alla società.
La regola si fonda sulla presunzione a) che gli amministratori siano in una
posizione migliore di quella in cui si trovano i giudici per decidere della
convenienza dell’affare, e che essi agiscano non solamente b) nell’interesse della
società, c) ma anche in buona fede e con la normale diligenza11.
L’affermarsi della business judgement rule, chiamata ad operare come vera
e propria regola di default, sposta in questo modo l’accento dalla ragionevolezza
della decisione alla razionalità della stessa.
Nei suoi sviluppi, la business judgment rule serve, da un lato, a non
compromettere il potere discrezionale degli amministratori, i quali, secondo
l’approccio dominante, “are more qualified to make business decisions than are
judges”12; dall’altro, fa sì che il potere decisionale sia effettivamente esercitato dal
consiglio d’amministrazione piuttosto che “any shareholder who is willing to sign
a complaint”13.
Il filtro rappresentato dalla business judgment rule implica, dunque, che solo
quando l’attore riesca a superare il meccanismo presuntivo su cui si fonda,
l’operato degli amministratori sarà oggetto di una valutazione da parte del giudice
che ne apprezzerà la meritevolezza sia in termini di fairness to shareholders, che
in termini di fair price.
La dimensione esclusivamente giurisprudenziale della regola in esame, e
cioè il fatto che sia un prodotto delle corti è, comunque, dimostrato dall’estrema
11
Così, Gries Sports Enterprises, Inc. v. Cleveland Browns Football Co., Inc. 26 St.3d 15, 29
(Ohio 1986). In Aronson v Lewis, 473 A.2d 805, 812 (Del. 1984), i giudici hanno offerto una
definizione della business judgment rule che tenta di conciliare i profili processuali e sostanziali
della stessa. Secondo M. A. EISENBERG, op. cit., 621-622, la business judgement rule si fonda su
tre condizioni di applicazione e su un criterio di valutazione. Le tre condizioni sono rappresentate
1) dall’esistenza di una decisione, cosa che esclude la valutazione di un’eventuale condotta
omissiva; 2) assenza di un interesse personale di natura finanziaria del manager; 3) corretta
applicazione delle regole che presiedono all’assunzione di una decisione. Solo dopo aver
soddisfatto questi elementi segue la valutazione, alla luce di un criterio di razionalità, del
comportamento tenuto dagli amministratori.
12
Così International Ins. Co. v. Johns, 874 F.2d 1447 (11th Cir. 1989) cit. in D. J. BLOCK, S. A.
RADIN, M. J. MAIMONE, Derivative Litigation: Current Law versus the American Law Institute, in
Bus. Law., 1993, n.48., p. 1458 n. 20.
13
M. P. DOOLEY, Two Models of Corporate Governance, in Bus. Law., 1992, n.48., p. 470.
difficoltà di attribuire ad essa una portata sostanziale, affidando agli statutes il
compito di stabilirne i contenuti14.
In tal senso è interessante osservare come, ad esempio, la definizione
contenuta nel § 4.01© dei Principles appaia privilegiare taluni profili sostanziali,
rifiutando l’impostazione processuale che ne hanno dato invece le Corti del
Delaware; dal canto suo, il § 8.30(d) del MBCA, pur evidenziando l’importanza di
un regime di responsabilità meno rigoroso per i managers, evita di fornire una
qualsiasi definizione della rule.
In conclusione, dunque, la difficoltà di individuare i contenuti della business
judgement rule rende palese, per un verso, l’inadeguatezza delle regole di
responsabilità contrattuale a sanzionare la condotta dei managers e, per l’altro,
l’impossibilità per il giudice di entrare appieno nelle logiche societarie.
Il rapporto fra duty of care e business judgement rule segue, in questo senso,
il difficile cammino della colpa grave. Il principio, affermato in Smith v Van
Gorkom, sebbene criticato perché legittimerebbe un sindacato dei giudici, i quali
non hanno competenze specifiche in materia economica, si è mosso nella
direzione di individuare la responsabilità dei managers esclusivamente in una
condotta che violi le più evidenti regole di comportamento. In realtà,
l’orientamento di Van Gorkom non può considerarsi eccezionale, ma applicazione
di un criterio generale che, come nella specie è accaduto, può anche condurre a
riconoscere un diritto al risarcimento dei danni di rilevante ammontare15.
Per ovviare a queste difficoltà, e per ridurre il rischio di azioni nei confronti
dei managers, per i danni arrecati alla società, talune legislazioni hanno introdotto
limitazioni alla loro responsabilità che, però non escludono del tutto una qualsiasi
forma di controllo sull’operato dei managers, sebbene la restringano ad ipotesi
ben determinate16.
In dottrina, non sono mancate voci critiche verso sistemi di questo genere,
poiché “indemnification and insurance reduces management’s incentive to act
responsibly and thus impedes an effective system of accountability”17.
Si è però osservato che il modo più efficiente, per ottenere il comportamento
desiderato, è quello di “shifting the risk”, e cioè di individuare un soggetto che li
sopporti e che sia diverso dai managers i quali altrimenti, finiranno con
l’indirizzarsi verso una decisione meno rischiosa18.
Che, peraltro, il duty of care possegga una forza minore rispetto al duty of
loyalty, sembra in concreto non solo dimostrato dall’esiguo numero di questioni
che sono approdate dinanzi alle Corti, ma altresì testimoniato da quanto sostiene
14
Cfr., R. H. HAMILTON, Cases and Materials on Corporations - Including Partnership and
limited Partnership, St. Paul, 1990, pp. 702-703, che, riportando le conclusioni della COMMITTEE
ON CORPORATE LAW osserva come la soluzione di compromesso sia condensata nella frase “we
are saying that there is a business judgement rule, that we know what it is and when it should be
applied, but we can’t define it”.
15
Smith v. van Gorkom, 488 A.2d 858 (Del. 1985); così, A. T. MOORE, The 1980s – Did we save
the Stockholders while the Corporation burned?, in Wash. Univ. L. Q., 1992, n.70, pp. 277, 281280.
16
J. J. HANKS Jr., Evaluating Recent State Lagislation on Director and Officer Liability
Indemnification, in Bus. Law., 1988, n. 43, p. 1236, che riporta gli esempi dello stato della
Virginia, che fissa un tetto massimo al risarcimento; e lo stato dell’Indiana che, in “accordance
with the statutory standard of care”, stabilisce che i managers “[…]will not be liable for breach or
failure unless it constituted willful misconduct or recklesness”.
17
Cfr. J. W. BISHOP, Sitting Ducks and Decoy Ducks: New Trends in the Indemnification of
Corporate Directors and Officers, in Yale L. J., 1968, n. 787, p. 1078.
18
Così, invece, R. KRAAKMAN, Corporate Liability Strategies and the Cost of Legal Controls, in
Yale L. J., 1984, n. 93, p. 857.
parte della dottrina, per la quale “the differences between the duty of care and the
duty of loyalty are so fundamental that the latter should be strengthened and the
former abolished”19.
3- Profili del duty of loyalty
Secondo la definizione data dalla corte del Delaware, il duty of loyalty si
fonda sulla posizione di trust and confiance di cui godono gli amministratori e di
cui non dovrebbero abusare per perseguire interessi personali20. L’articolazione
del duty in esame, in una serie di ipotesi specifiche è stata, poi, tratteggiata in
dottrina al fine di rendere più chiare le diverse situazioni contrattuali, e non, in cui
può venirsi a trovare un amministratore21.
In teoria, infatti, nulla impedisce che egli possa in assenza di una eventuale
situazione di conflitto d’interessi rendersi acquirente di un bene della società o,
magari servirsene. Il problema è semmai nello stabilire quando questa situazione
non si crei o, in altri termini, quando la qualificazione soggettiva da lui rivestita
non abbia influenza alcuna sul tipo di negoziazione che lo vede coinvolto.
In questo senso, si può evidenziare come la fairness dello scambio dipenda
da circostanze tanto interne che esterne.
A fondamento dell’invalidità del contratto concluso dal manager si pone
l’osservazione che egli è portatore di un interesse, quello della società, che non
può più adeguatamente tutelare, allorché sia anch’egli interessato all’affare.
L’attività svolta fa, infatti, presumere che essi vengano in possesso di
informazioni delicate e di cui potrebbero facilmente profittare. L’oggetto della
negoziazione qui non è indifferente poiché una cosa è comprare, ad esempio, un
bene fungibile che magari possegga un prezzo di mercato ben determinato, altra
rendersi acquirente di un bene infungibile.
Nel primo caso l’esistenza di un elemento esterno, già fissato esclude in
radice qualsiasi conflitto d’interesse senza che sia necessario imporre ulteriori
obblighi, quali ad esempio quelli di informazione. Nel secondo, viceversa, lo
spazio assegnato ad un’eventuale contrattazione impone si rendano note le
condizioni della stessa, onde consentire una qualche attività di controllo.
19
K. E. SCOTT, Corporation law and the American Law Institute Corporate Governace Project, in
Stan. L. Rev., 1983, n. 35, p. 927.
20
Guth v. Loft. Inc., 5 A.2d 503, 510 (Del. 1939); M. A. EISENBERG, op. cit., p. 629.
21
Secondo l’elaborazione di R.C. CLARK, Corporate Law., Boston-Toronto, 1986, pp. 143, 160,
191 e 264, esistono talune categorie che possono implicare fenomeni di abuso. Le ipotesi sono
quelle di self-dealing; executive compensation; corporate opportunity; insider trading; corporate
action with mixed motives. In particolare, il §144 del Del. Gen. Corp. Law, prevede che per una
serie di transactions la fairness sia salva laddove intervenga l’approvazione da parte di fullyinformed disinterested directors, o disinterested shareholders, in base al §4 (a)(2). Ciò
consentirebbe di invocare la business judgement rule e limitare la “judicial review to issue of gift
or was with the burden of proof upon the party attacking the transaction”. Più rigido
l’atteggiamento dell’ALI che richiede oltre alla fairness, anche un’adeguata disclosure. In questi
casi la ratifica da parte del corporate decision maker, alla luce di quanto stabilito nei ccdd. safe
harbour statutes, serve a superare la regola dell’automatica invalidità del contratto concluso dagli
amministratori, cfr. E. M. TABELLINI, op. cit., p. 818 ss.
Accanto a questa ipotesi un elemento che consente di escludere un qualsiasi
conflitto di interessi è rappresentato da una forma di autorizzazione conseguente
alla disclosure plus approval by disinterested directors ovvero alla disclosure plus
shareholders’ approval. Solo se la situazione obiettiva di conflitto d’interessi
influisce sul contenuto del contratto essa è causa di invalidità dello stesso, con la
conseguenza di aprire ad un’azione in rescission
o di restitution. Sia
l’autorizzazione del dominus (nella duplice veste dei disinterested directors o dei
shareholder) sia l’esistenza di un prezzo già fissato escludono, dunque, il conflitto
d’interessi22.
La verifica della trasparenza della self-dealing transaction, vale a dire la sua
fairness sembra tuttavia giocare un ruolo sussidiario, essendo chiamata ad operare
solo dopo che si sia verificato il mancato rispetto di uno, o entrambi, i requisiti cui
si accennava in precedenza.
Il duty of loyalty dunque si sostanzia in un divieto, per i managers, di
attribuirsi eccessive compensations, utilizzare beni della società, profittare della
propria posizione per tornaconto personale, o anche svolgere attività di insider
trading23. In tutte queste ipotesi, il principio secondo cui la transaction non è
necessariamente invalida se sia intervenuta l’approvazione by disinterested
directors or shareholders fa trasparire una certa flessibilità della regola,
mostrando, in sostanza, come il ricorso a soluzioni alternative mascheri il
tentativo di evitare l’applicazione di “stricter standards of judicial review”,
sebbene l’intervento delle corti continui a rimanere a garanzia di comportamenti
disonesti24.
4 – I fiduciary duties nel contesto di takeover
In relazione al contesto delle takeover defenses, sono opportune, tuttavia,
talune precisazioni. La sfumatura fiduciaria dei duties degli amministratori rende,
infatti, indispensabile un’ulteriore indagine, riguardo ad una questione pur
primaria: segnatamente, l’individuazione di chi siano i destinatari di tali doveri.
Considerando l’esperienza della dottrina e giurisprudenza americana, e
considerando che nella galassia globale della corporate governance i fiduciary
duties sono generalmente “dovuti alla società”, vale a dire vincolano i fiduciari
alla società e non ai soci, la precisazione delle eccezioni a questo principio non
22
In dottrina si precisa che “The fiduciary cannot represent both himself and his principal or
beneficiary. Validation of the transaction then requires (1) a full disclosure by the fiduciary of his
conflict of interest and any material information he may have about the transaction, and (2)
informed consent by or on behalf of the principal or beneficiary”, N. P. BEVERIDGE, Jr., The
Corporate Directors’ Fiduciary Duty of Loyalty: Understanding the Self-Interested Director
Transaction, in De Paul L.Rev., 1992, n. 41, pp. 659-62.
23
M. A. EISENBERG, op. cit., p. 632, sottolinea come sia l’interesse personale a viziare questo tipo
di atti. In quei casi in cui l’autorizzazione intervenga a rimuovere questo conflitto, un’eventuale
azione di responsabilità riposa sulla prova che, il contratto concluso dall’amministratore, manchi
di fairness. L’amministratore, dal canto suo, per liberarsi da responsabilità, dovrà semplicemente
dimostrare che lo scambio era fair. La tendenza a regolare legislativamente questi profili ha dato
origine a leggi di difficile interpretazione che testimoniano dell’indagine sulla fairness. Sulla
delicatezza dello statutory approach, cfr. Remillard Brick Co. v. Remillard-Dandini Co. 109
Cal.App.2d 405, 241 P.2d 66, 73-77 (1952), nonché Marciano v. Nakash 535 A.2d 400 (Del.
1987).
24
Cfr. F. H. EASTERBROOK e D. R. FISCHEL, op. cit., p. 104.
può essere svincolata da un confronto con gli aspetti procedurali e sostanziali
delle azioni di responsabilità nei confonti degli amministratori.
Se l’obiettivo è dimostrare che nel contesto di un corporate takeover i
fiduciary duties sono dovuti direttamente ai soci, il percorso deve prevedere la
risposta ad una questione procedurale: possono in questo caso, gli azionisti, citare
gli amministratori direttamente ed in tutela di un proprio diritto, anziché proporre
un’azione derivativa nell’interesse della società25?
Nel panorama delle azioni contro le tattiche difensive da scalate ostili risulta
particolarmente difficile fissare una linea di demarcazione tra azione derivativa ed
individuale, anche perché la medesima domanda potrebbe avere una differente
natura a seconda della natura del diritto di cui si lamenta la violazione. E la
conseguenza non è di poco conto, se è vero che solo nel caso di direct action il
risarcimento potrà essere legittimamente riconosciuto in capo ai soci; tanto
volendo tacere dell’assenza, nell’esperimento di un’azione diretta, dell’ampio
numero di standing requirements che giurisprudenza e legislazione impongono
alle derivative suits.
Ad esempio, qualificare la violazione del diritto di condurre una proxy
contest come danno immediato o mediato dell’azionista, e di conseguenza
consentire a questi un’azione individuale o derivativa, non è circostanza sempre
agevole; non è, in altri termini, semplice comprendere se si lamenti
l’inosservanza di un diritto dovuto direttamente al socio o generalmente alla
società, poichè la condotta lesiva si invera, spesso, in situazioni liminari, passibili
di definizione diretta o derivativa a seconda della ricostruzione e
dell’orientamento cui si aderisca. Nell’esempio che si proponeva, un
comportamento teso ad impedire ad uno specifico azionista l’accesso ad una
proxy contest o ad una tender offer potrebbe integrare quella “particular injury”
che permetta all’azionista di agire individualmente; con beneficio diretto, come
detto, del proprio patrimonio26. Ma se, al contrario, nessuna specifica persona
abbia iniziato una control contest, e nella domanda si evidenzi un danno in capo a
tutti gli azionisti, egualmente, l’azione non potrà non essere considerata
derivativa.
Tuttavia, ulteriori precisazioni si impongono.
Non dimenticando che, di là dal contenuto sostanziale della domanda, una
certa terminologia potrebbe bastare a colorare l’azione come diretta o derivativa27,
si può generalmente osservare che, nei casi di proxy contests, takeovers o proposte
di fusione, è più facile che i giudici riconoscano il mutamento di destinatario dei
fiduciary duties, ammettendo, così, l’azione diretta.
L’elemento che complica ulteriormente lo scenario, in vero, è la necessaria
concorrenza di almeno due di queste situazioni, nel senso che, per legittimare una
direct action, è necessario che, in pendenza o nell’imminenza di una proxy
contest, un soggetto stia tentando di acquistare il controllo della società28. In tal
modo, infatti, si può sostenere che l’adozione di una tattica possa integrare i
requisiti necessari all’esperimento dell’azione individuale, vale a dire uno “special
25
Da ultimo, in argomento, J. SHOENBLUM, Fiduciary Duty and the Direct-Derivative Distinction
in the Takeover-Merger Context, in A. D’ANGELO (a cura di) Amministratori fiduciari: di chi?,
vol. 3, pp. 261-271, Milano 2001; ma la letteratura in materia è, come noto, vastissima.
26
Cfr. Packer v. Yampol C. A. No. 8432 (Del. Ch. Apr. 18, 1986); MacAndrews & Forbes
Holding, Inc. v. Revlon, Inc. C. A. No. 8126 (Del. Ch. Oct. 9, 1985); Lerman v. Diagnostic
Data, Inc. 421 A.2d 906 (Del. Ch. 1980)
27
Si veda Kramer v. Western Pac. Indus., Inc., 546 A.2d 348 (1988).
28
J. SHOEBLUM, op. cit., p. 264
injury” ed un “breach of a contractual right” (in specie il diritto di voto),
bastando anche una sola di tali condizioni per produrre l’effetto descritto29.
Da questa costruzione sembrerebbero derivare due ulteriori considerazioni.
Innanzitutto, colui che agisce per ottenere il controllo della società deve esserne
già un socio; altrimenti come giustificare le implicazioni contrattuali? In secondo
luogo soltanto questo soggetto, a differenza degli altri azionisti, può lamentare la
lesione diretta del diritto e proporre azione individuale.
Queste osservazioni devono, tuttavia, essere investite da una concezione
particolare ma quantomai persuasiva fornita nel caso Gaylord Container30, ove si è
riconosciuta l’esistenza, nell’ambito di una takeover contest, di una
contrapposizione tra prospective sellers (gli azionisti) e prospective buyers (gli
scalatori) a prescindere dal loro status di soci, entrambi legittimati a proporre
azioni individuali per proteggere da interferenze improprie (non necessariamente
legate a violazioni dei fiduciary duties) il proprio interesse a negoziare.
Da una summa delle argomentazioni sopra descritte si può ricavare che, in
genere, il contesto di takeover pone le basi per considerare che i fiduciary duties
siano, in determinate circostanze, dovuti ai soci e non alla società, legittimando
quindi il socio-scalatore, nei cui confronti una tattica difensiva abbia provocato un
“breach of contractual rights” o uno “special injury” a proporre, in via diretta ed
individuale, un’azione di responsabilità verso gli amministratori.
Tuttavia, l’azione per la lesione di un diritto individuale potrà essere
proposta anche dal bidder non azionista e dai soci riceventi l’offerta non,
ovviamente, nella forma di azione di responsabilità sociale, ma come azione di
responsabilità extracontrattuale tout court (tort).
Di là da fattispecie particolari, da orientamenti più o meno “estremi” e da
pronunce che sembrano non in linea con quanto sostenuto, appare qui quantomai
necessario cogliere il trend. Risponde ad una logica di equità, peraltro, che,
laddove l’intervento dell’amministratore incida direttamente sulla decisione del
socio di aderire o meno all’offerta d’acquisto, il rapporto che si instauri sia tale da
fondare una situazione giuridica attiva in capo all’azionista e di conseguenza una
direct action. Di nuovo rileva, allora, quell’idea di affidamento cui si è accennato
in precedenza. L’amministratore, infatti, in ragione della sua posizione, ed in
specie delle informazioni che egli, e solo egli detiene, avrà il potere di influenzare
in maniera decisiva la maggior parte degli azionisti; potere che non può essere
lasciato dall’ordinamento privo di limiti e di sanzioni nell’eventualità di un suo
abuso.
Pare, allora, non improbabile ipotizzarsi come, nell’intervento diretto
dell’amministratore nella decisione di vendere da parte dell’azionista si possa
ravvisare un contatto di sapore negoziale, tale da giustificare la responsabilità
29
Si veda Moran v. Household 490 A.2d 1059, 1070 (Del. Ch.), aff’d, 500 A.2d 1346 (Del.
1985) “To set out an individual action, the plaintiff must allege either ‘an injury which is separate
and distinct from that suffered by other shareholders[…]’ or a wrong involving a contractual right
of a shareholder, such as the right to vote, or assert majority control, which exists independently
of any right of the corporation.” L’azione è stata considerate individuale, fra l’altro, nelle
seguenti circostanze: azione di tutela del diritto di voto (Lipton v. News Int’l Plc. 514 A.2d 10751078 [Del. 1986]; Margolies v. Pope & Talbot, Inc. C. A. No. 8244 [Del. Ch. 1986] ); azione
contro una operazione che avrebbe diluito impropriamente gli interessi proporzionali degli
azionisti nella società (Bennett v. Breuil Petroleum Corp., 34 Del. Ch. 6, 99 A.2d 236 [Del. Ch.
1935]; Crane Co. v. Harsco Corp., 511 F. Supp. 294-304 [D.Del. 1981] ); azione contro il rinvio
dell’assemblea annuale con l’obiettivo di neutralizzare il proxy contest sollecitato dall’attore (
Thorpe v. CERBCO, Inc., C. A. No. 11713 [Del. Ch. 1993] )
30
In re Gaylord Container Corp. Shareholder Litigation, 747 A.2d 71 (Del. Ch. 1999). La
considerazione di Strine è stata riportata da J. SHOENBLUM, op. cit., pp.269-270
diretta. E così i doveri fiduciari, che pur di norma vincolano il fiduciario alla sola
società, nelle particolari ed eccezionali fattispecie in cui gli amministratori, in
virtù della loro funzione, assumono (finanche non volendo) un ruolo determinante
nella modificazione della sfera giuridica del socio, estendono la loro efficacia e la
relativa tutela anche in capo al singolo soggetto azionista.
Questa considerazione non inficia la regola generale, ma la completa, non
essendo sostenibile come, in situazioni di tal sorta, l’azionista debba rimanere
privo di una tutela diretta; d’altronde, diretto e determinante è l’intervento, diretto
sarà l’eventuale danno, diretta deve essere l’azione31.
La teoria risponde a ragioni pratiche di giustizia sostanziale e, nel
tradizionale pragmatismo delle corti americane, sembra prescindere da un
inquadramento in termini di agency conclusa tacitamente o imposta ex lege; e
sembra aver riguardo maggiormente alla situazione di fatto, sufficiente
all’estensione dei fiduciary duties in commento.
Ciò volendo tacere del fatto che la copertura dei fiduciary duties, in una
prospettiva di analisi economica del diritto, consente di espandere il relativo
meccanismo di controllo alle ipotesi di takeover, a supporto degli strumenti che il
mercato e la legislazione già offrono32.
In questo senso, vieppiù, sembra spingere lo stesso dato normativo,
nell’attribuire in capo agli azionisti una serie di diritti da essi direttamente
azionabili33.
31
Per tutti cfr. R.C. CLARK, op. cit., p.588
Si veda, per tutti, F.H. EASTERBROOK, D.R. FISCHEL, op. cit., pp. 162 ss.
33
Si pensi alla circostanza che il Williams Act riconosce in capo agli azionisti il diritto ad essere
inclusi nella tender offer ed ricevere lo stesso prezzo, come sottolinea A.R. PINTO, Corporate
Takeover in the Public Market in the United States, in Am. J. Comp. L., 1994, pp. 350-354
32