I fiduciary duties degli amministratori
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I fiduciary duties degli amministratori
Link Campus University of Malta Academic Year 2009-2010 Cattedra di Diritto Societario Comparato Prof. Ferruccio M. Sbarbaro Dispensa n. 2 I “FIDUCIARY DUTIES” DEGLI AMMINISTRATORI I “FIDUCIARY DUTIES” DEGLI AMMINISTRATORI 1 – Caratteri generali Nell’ordinamento statunitense, con l’espressione “fiduciary obligations” si vuole connotare il rapporto che esiste fra il titolare del diritto di proprietà e colui che assume compiti di gestione, rapporto che, più specificamente, nelle corporations riguarda quello fra società e amministratori. Per questi ultimi, l’imposizione di tali doveri è quindi una conseguenza necessaria dell’obbligo di tutelare al meglio gli interessi della società e trova fondamento, originariamente, in quell’idea di affidamento1 su cui si fonda la nozione di trust. La circostanza che, a seguito della sua evoluzione, la corporate law si sia progressivamente affrancata dalla law of trust non ha, comunque, messo in discussione la rilevanza del principio; ad esso, per contro, si è dato ora rilievo normativo – il legislatore precisando le condizioni in presenza delle quali ritenere esistente un fiduciary duty – ora si è lasciato alle corti il potere di specificarne i contenuti. Peraltro, che la responsabilità per violazione dei fiduciary duties non possa espandersi all’infinito ma debba trovare il suo limite nel diligente adempimento, sembra rispondere ad un generale criterio di ragionevolezza, giacché qualunque siano i fiduciary duties, ciò che ci si attende è che “a director shall discharge his duties […] in good faith”2. Nella realtà le cose sono abbastanza diverse. La complessità delle funzioni svolte dai managers è, infatti, da mettere in relazione alla circostanza che la loro attività si dispiega in un continuum di decisioni, controlli, scelte, indagini e quant’altro, che rende impossibile procedere ad una precisa individuazione dei fiduciary duties. Il fatto che essi si differenzino da caso a caso e da società a società, fa comprendere come la formula finisca con l’essere un’espressione troppo generica che riceve specificazione, esclusivamente, da una valutazione attenta della condotta3. 1 Sulle obbligazioni assunte dal trustee si è osservato come esse consistano – nel loro contenuto attivo – nell’adoperarsi “affinché l’affidamento giunga al suo compimento”, delineandosi la sua posizione come un complesso fascio di rapporti obbligatori, cfr. M. LUPOI, Trusts, Milano, 1997, p. 236 ss. In proposito, altresì, E. M. TABELLINI, L’azione individuale del socio a tutela dell’interesse sociale secondo il diritto Statunitense, in Contr. Impr., 1998 , p. 811 ss. 2 Così la RMBCA § 80.30(a) che oltre ad introdurre il concetto di buona fede, discorre altresì di adempimento “with the care an ordinarly prudent person in a like position would exercise under similar circumstances and in a manner he reasonably believe to be in the best interest of the corporation”. 3 Cfr. L. HERZEL, L. KATZ, Smith v Van Gorkom: the Business of Judging Business Judgement, in Bus. Law., 1986, n. 41, pp. 1188-1191, che evidenziano la difficoltà di giudicare scelte che possono rivelarsi efficienti per il mercato alla luce di parametri di natura giuridica. Inoltre, osservano gli AA. che il mercato “evaluetes directors on the basis of a long record of transactions. Because over time good luck and bad luck cancel out, the long term record is the best available indicator of a director’s shortcoming”. Proprio la difficoltà di procedere a tale individuazione ha fatto dire, ad una parte della dottrina, che l’imposizione di fiduciary duties si fonderebbe sull’osservazione che è “too costy to contract for every contingency”4. Il principio sotteso all’espressione fiduciary duties troverebbe perciò fondamento nella difficoltà di procedere ad una contrattualizzazione dei rischi da parte degli investitori. Costoro sono, in genere, poco interessati alla politica della singola società, e le ragioni del loro intervento sul mercato vanno individuate nell’aumento di patrimonio che sperano di realizzare, piuttosto che nell’incremento di valore della singola partecipazione azionaria. Nelle corporations ci si trova, dunque, dinanzi ad una situazione molto complessa poiché i managers per tutelare l’interesse della società sono chiamati a far uso di un potere discrezionale (cosa che peraltro è insita nell’attività di gestione) che il più delle volte sottende la necessità di correre il rischio economico connesso ad iniziative temerarie. Perché anzi, tanto più il rischio dell’operazione economica è alto, tanto maggiore, in teoria, dovrebbe essere la sua convenienza economica. Inoltre, la tempestività con cui vanno effettuate determinate scelte può, tante volte, significare che il manager è costretto ad agire senza le informazioni adeguate, e cioè senza poter attendere i risultati di una inquiry magari già predisposta. Il ritardo, infatti, potrebbe essere all’origine di un danno più rilevante di quello derivante dall’assumere la decisione: in situazioni del genere è chiaro che soltanto a posteriori sarà possibile dire quale sarebbe stata la scelta più opportuna5. In questo senso, se è vero che il bagaglio di esperienze, di sensibilità, di senso degli affari, di conoscenze tecniche gioca un ruolo fondamentale nella realizzazione dell’interesse della società, è anche vero che non offre criteri per stabilire quando vi sia stata violazione dei fiduciary duties, né cosa essi siano. Né sarebbe opportuno sottoporre l’amministratore a regole di responsabilità particolarmente rigorose, perché tale eventualità finirebbe con “il condurre a soluzioni in contrasto con l’interesse sociale, in quanto [lo] incentiverebbe ad evitare rischi che sarebbe invece opportuno correre”6. In altro senso è conveniente sottolineare come non ogni carelesness conduct dia vita “to a claim for a breach of fiduciary duties” e come, quindi, la responsabilità sia una conseguenza del tipo di attività svolta dai managers, e non della posizione che essi occupano7. 4 Testualmente, F. K. EASTERBROOK, D. R. FISCHEL, op. cit., p. 98. Gli AA. muovendosi in una prospettiva di analisi economica del diritto, sottolineano come gli incentivi offerti dal mercato influenzino le soluzioni in tema di corporate law e come la logica contrattuale mal si concili con i fiduciary principles. 5 Così in Joy v. North, 692 F.2d 880 (2d Cir. 1982) dove rischio e profitto appaiono in rapporto di diretta proporzionalità. 6 Si esamini sul punto l’analisi di, F. K. EASTERBROOK, D. R. FISCHEL, op. cit., p. 90, nonché quella di M. A. EISENBERG, Obblighi e responsabilià degli amministratori e dei funzionari delle società americane, in Giur. Comm., 1992, I., p. 624. 7 Così i giudici in Lac Minerals v International Corona Ltd., 61 DLR 14, 28 (4th 1989). Si è precisato, H. B. MANNING, The business judgement rule and the directors duty of attention: time for reality, in Bus. Law., 1984, n. 39, pp. 1492-1495, “we do not have any common standard or experience as to what directors do; and what they do varies from company to company, from situation to situation and from time to time. Abandoning all effort to state what directors do, the present law simply announce that they must do it‘carefully’, like a prudent person”. In questo contesto si colloca la distinzione fatta dalla Supreme Court of Delaware che ha ritenuto di comprendere gli obblighi degli amministratori in due categorie: duty of care e duty of loyalty8. 2 - Responsabilità e duty of care L’espressione duty of care assume nel contesto americano della corporate governance un significato tutt’altro che univoco, non solo in considerazione della difficoltà di verificarne i contenuti, ma anche per la necessità di rapportarla al tipo di attività svolta. Sebbene rinvii a quel modello di condotta generalmente accettato – e che è lecito attendersi da chi esercita un certo tipo di attività professionale la cui violazione, a partire da Donoghue v. Stevenson9, è a fondamento della Law of Tort – non si può negare che qui i suoi profili applicativi finiscano con il chiamare in causa un diverso ordine di considerazioni. In effetti, se è vero che il principio in base al quale “managers must act with reasonable care”, e cioè con diligenza, non può essere seriamente messo in discussione, è anche vero che quando dalle astratte affermazioni si passa ad individuarne i contenuti, ci si avvede di quanto quel principio possa risultare indeterminato, sia sotto l’aspetto contenutistico, sia in relazione all’individuazione dei soggetti nei cui confronti esiste l’obbligo. Le ragioni di questa incertezza sono da imputare al fatto che i managers, per tutelare l’interesse della corporation, sono chiamati non solamente a scelte difficili, dove il coefficiente di rischio (in termini di perdite economiche) può essere molto elevato, ma anche a valutare l’opportunità, secondo quanto si osservava in precedenza, di effettuarle. Il riconoscimento di un duty of care attribuisce, nondimeno, ai soci uno strumento di controllo sull’operato dei managers che abbiano, con la loro condotta, causato un danno alla corporation. Le diverse sfumature offerte in proposito dalla case law testimoniano, per un verso, della necessità di individuare principi che controllino esclusivamente la regolarità del processo decisionale e non anche i suoi risultati e, per l’altro, danno conto di un articolarsi del duty of care, in duty of monitor, duty of inquiry, rispetto nelle decisioni del criterio di ragionevolezza, dovere di compiere scelte ragionevoli. Emblematico, in tal senso è Francis v. United Jersey Bank10. Il caso riguardava un’attempata signora che, dopo la morte del marito, aveva continuato ad occuparsi della gestione della società senza la dovuta attenzione e senza accorgersi che i figli “began to draw ever larger sums (still characterizing them as loan) that greatly exceeded profits”, al punto che la società fu costretta a dichiarare bancarotta. I giudici, osservarono che, sebbene la signora fosse una semplice casalinga con funzioni di amministratore “as an accomodation to her 8 COMMITTEE ON CORPORATE LAW, Corporate director’s guidebook-1994, in Bus. Law., 1994, n. 49, p. 1252 che precisa “the legal obligations of directors fall into two broad categoris: a duty of care and a duty of loyalty”. Sul punto E. M. TABELLINI, op. cit., p. 812 che non manca di sottolineare come con ciò siano evocate categorie ben note al nostro ordinamento. 9 In un caso britannico – Donogue v. Stevenson (1932) A.C. 562, 569 – Lord Atkin osservò “the nature of thing may vary well call for different degreees of care”. 10 87 N.J. 15, 432 A.2d 814 (1981). husband and son”, non si era, tuttavia, mai preoccupata di fare il benché minimo tentativo per liberarsi da tale situazione che è comunque fonte di responsabilità, giacché “directors are under a continuing obligation to keep informed, […] to attend board meetings […] to assure that bookkeeping methods conform to industry custom and usage […] to sometimes call for more than mere objection and resignation”. I giudici, in Francis, nel ritenere la responsabilità della disattenta amministratrice, individuano gli estremi della condotta diligente in un comportamento prudente ed attento ai compiti che una carica di tale natura ordinariamente richiede. Comunque sia, anche se si ammette che una decisione sia correttamente assunta non è detto che si risolva in un vantaggio per la società e, quella dell’amministratore sembra essere un’obbligazione di mezzi più che di risultato. La considerazione che una decisione possa essere non irragionevole pur avendo prodotto un pessimo risultato e il fatto che l’interesse dei soci possa meglio essere perseguito applicando ai managers un criterio di responsabilità meno rigoroso, ha indotto a ritenere che, qualora ricorrano talune circostanze, gli amministratori non siano responsabili delle perdite arrecate alla società. La regola si fonda sulla presunzione a) che gli amministratori siano in una posizione migliore di quella in cui si trovano i giudici per decidere della convenienza dell’affare, e che essi agiscano non solamente b) nell’interesse della società, c) ma anche in buona fede e con la normale diligenza11. L’affermarsi della business judgement rule, chiamata ad operare come vera e propria regola di default, sposta in questo modo l’accento dalla ragionevolezza della decisione alla razionalità della stessa. Nei suoi sviluppi, la business judgment rule serve, da un lato, a non compromettere il potere discrezionale degli amministratori, i quali, secondo l’approccio dominante, “are more qualified to make business decisions than are judges”12; dall’altro, fa sì che il potere decisionale sia effettivamente esercitato dal consiglio d’amministrazione piuttosto che “any shareholder who is willing to sign a complaint”13. Il filtro rappresentato dalla business judgment rule implica, dunque, che solo quando l’attore riesca a superare il meccanismo presuntivo su cui si fonda, l’operato degli amministratori sarà oggetto di una valutazione da parte del giudice che ne apprezzerà la meritevolezza sia in termini di fairness to shareholders, che in termini di fair price. La dimensione esclusivamente giurisprudenziale della regola in esame, e cioè il fatto che sia un prodotto delle corti è, comunque, dimostrato dall’estrema 11 Così, Gries Sports Enterprises, Inc. v. Cleveland Browns Football Co., Inc. 26 St.3d 15, 29 (Ohio 1986). In Aronson v Lewis, 473 A.2d 805, 812 (Del. 1984), i giudici hanno offerto una definizione della business judgment rule che tenta di conciliare i profili processuali e sostanziali della stessa. Secondo M. A. EISENBERG, op. cit., 621-622, la business judgement rule si fonda su tre condizioni di applicazione e su un criterio di valutazione. Le tre condizioni sono rappresentate 1) dall’esistenza di una decisione, cosa che esclude la valutazione di un’eventuale condotta omissiva; 2) assenza di un interesse personale di natura finanziaria del manager; 3) corretta applicazione delle regole che presiedono all’assunzione di una decisione. Solo dopo aver soddisfatto questi elementi segue la valutazione, alla luce di un criterio di razionalità, del comportamento tenuto dagli amministratori. 12 Così International Ins. Co. v. Johns, 874 F.2d 1447 (11th Cir. 1989) cit. in D. J. BLOCK, S. A. RADIN, M. J. MAIMONE, Derivative Litigation: Current Law versus the American Law Institute, in Bus. Law., 1993, n.48., p. 1458 n. 20. 13 M. P. DOOLEY, Two Models of Corporate Governance, in Bus. Law., 1992, n.48., p. 470. difficoltà di attribuire ad essa una portata sostanziale, affidando agli statutes il compito di stabilirne i contenuti14. In tal senso è interessante osservare come, ad esempio, la definizione contenuta nel § 4.01© dei Principles appaia privilegiare taluni profili sostanziali, rifiutando l’impostazione processuale che ne hanno dato invece le Corti del Delaware; dal canto suo, il § 8.30(d) del MBCA, pur evidenziando l’importanza di un regime di responsabilità meno rigoroso per i managers, evita di fornire una qualsiasi definizione della rule. In conclusione, dunque, la difficoltà di individuare i contenuti della business judgement rule rende palese, per un verso, l’inadeguatezza delle regole di responsabilità contrattuale a sanzionare la condotta dei managers e, per l’altro, l’impossibilità per il giudice di entrare appieno nelle logiche societarie. Il rapporto fra duty of care e business judgement rule segue, in questo senso, il difficile cammino della colpa grave. Il principio, affermato in Smith v Van Gorkom, sebbene criticato perché legittimerebbe un sindacato dei giudici, i quali non hanno competenze specifiche in materia economica, si è mosso nella direzione di individuare la responsabilità dei managers esclusivamente in una condotta che violi le più evidenti regole di comportamento. In realtà, l’orientamento di Van Gorkom non può considerarsi eccezionale, ma applicazione di un criterio generale che, come nella specie è accaduto, può anche condurre a riconoscere un diritto al risarcimento dei danni di rilevante ammontare15. Per ovviare a queste difficoltà, e per ridurre il rischio di azioni nei confronti dei managers, per i danni arrecati alla società, talune legislazioni hanno introdotto limitazioni alla loro responsabilità che, però non escludono del tutto una qualsiasi forma di controllo sull’operato dei managers, sebbene la restringano ad ipotesi ben determinate16. In dottrina, non sono mancate voci critiche verso sistemi di questo genere, poiché “indemnification and insurance reduces management’s incentive to act responsibly and thus impedes an effective system of accountability”17. Si è però osservato che il modo più efficiente, per ottenere il comportamento desiderato, è quello di “shifting the risk”, e cioè di individuare un soggetto che li sopporti e che sia diverso dai managers i quali altrimenti, finiranno con l’indirizzarsi verso una decisione meno rischiosa18. Che, peraltro, il duty of care possegga una forza minore rispetto al duty of loyalty, sembra in concreto non solo dimostrato dall’esiguo numero di questioni che sono approdate dinanzi alle Corti, ma altresì testimoniato da quanto sostiene 14 Cfr., R. H. HAMILTON, Cases and Materials on Corporations - Including Partnership and limited Partnership, St. Paul, 1990, pp. 702-703, che, riportando le conclusioni della COMMITTEE ON CORPORATE LAW osserva come la soluzione di compromesso sia condensata nella frase “we are saying that there is a business judgement rule, that we know what it is and when it should be applied, but we can’t define it”. 15 Smith v. van Gorkom, 488 A.2d 858 (Del. 1985); così, A. T. MOORE, The 1980s – Did we save the Stockholders while the Corporation burned?, in Wash. Univ. L. Q., 1992, n.70, pp. 277, 281280. 16 J. J. HANKS Jr., Evaluating Recent State Lagislation on Director and Officer Liability Indemnification, in Bus. Law., 1988, n. 43, p. 1236, che riporta gli esempi dello stato della Virginia, che fissa un tetto massimo al risarcimento; e lo stato dell’Indiana che, in “accordance with the statutory standard of care”, stabilisce che i managers “[…]will not be liable for breach or failure unless it constituted willful misconduct or recklesness”. 17 Cfr. J. W. BISHOP, Sitting Ducks and Decoy Ducks: New Trends in the Indemnification of Corporate Directors and Officers, in Yale L. J., 1968, n. 787, p. 1078. 18 Così, invece, R. KRAAKMAN, Corporate Liability Strategies and the Cost of Legal Controls, in Yale L. J., 1984, n. 93, p. 857. parte della dottrina, per la quale “the differences between the duty of care and the duty of loyalty are so fundamental that the latter should be strengthened and the former abolished”19. 3- Profili del duty of loyalty Secondo la definizione data dalla corte del Delaware, il duty of loyalty si fonda sulla posizione di trust and confiance di cui godono gli amministratori e di cui non dovrebbero abusare per perseguire interessi personali20. L’articolazione del duty in esame, in una serie di ipotesi specifiche è stata, poi, tratteggiata in dottrina al fine di rendere più chiare le diverse situazioni contrattuali, e non, in cui può venirsi a trovare un amministratore21. In teoria, infatti, nulla impedisce che egli possa in assenza di una eventuale situazione di conflitto d’interessi rendersi acquirente di un bene della società o, magari servirsene. Il problema è semmai nello stabilire quando questa situazione non si crei o, in altri termini, quando la qualificazione soggettiva da lui rivestita non abbia influenza alcuna sul tipo di negoziazione che lo vede coinvolto. In questo senso, si può evidenziare come la fairness dello scambio dipenda da circostanze tanto interne che esterne. A fondamento dell’invalidità del contratto concluso dal manager si pone l’osservazione che egli è portatore di un interesse, quello della società, che non può più adeguatamente tutelare, allorché sia anch’egli interessato all’affare. L’attività svolta fa, infatti, presumere che essi vengano in possesso di informazioni delicate e di cui potrebbero facilmente profittare. L’oggetto della negoziazione qui non è indifferente poiché una cosa è comprare, ad esempio, un bene fungibile che magari possegga un prezzo di mercato ben determinato, altra rendersi acquirente di un bene infungibile. Nel primo caso l’esistenza di un elemento esterno, già fissato esclude in radice qualsiasi conflitto d’interesse senza che sia necessario imporre ulteriori obblighi, quali ad esempio quelli di informazione. Nel secondo, viceversa, lo spazio assegnato ad un’eventuale contrattazione impone si rendano note le condizioni della stessa, onde consentire una qualche attività di controllo. 19 K. E. SCOTT, Corporation law and the American Law Institute Corporate Governace Project, in Stan. L. Rev., 1983, n. 35, p. 927. 20 Guth v. Loft. Inc., 5 A.2d 503, 510 (Del. 1939); M. A. EISENBERG, op. cit., p. 629. 21 Secondo l’elaborazione di R.C. CLARK, Corporate Law., Boston-Toronto, 1986, pp. 143, 160, 191 e 264, esistono talune categorie che possono implicare fenomeni di abuso. Le ipotesi sono quelle di self-dealing; executive compensation; corporate opportunity; insider trading; corporate action with mixed motives. In particolare, il §144 del Del. Gen. Corp. Law, prevede che per una serie di transactions la fairness sia salva laddove intervenga l’approvazione da parte di fullyinformed disinterested directors, o disinterested shareholders, in base al §4 (a)(2). Ciò consentirebbe di invocare la business judgement rule e limitare la “judicial review to issue of gift or was with the burden of proof upon the party attacking the transaction”. Più rigido l’atteggiamento dell’ALI che richiede oltre alla fairness, anche un’adeguata disclosure. In questi casi la ratifica da parte del corporate decision maker, alla luce di quanto stabilito nei ccdd. safe harbour statutes, serve a superare la regola dell’automatica invalidità del contratto concluso dagli amministratori, cfr. E. M. TABELLINI, op. cit., p. 818 ss. Accanto a questa ipotesi un elemento che consente di escludere un qualsiasi conflitto di interessi è rappresentato da una forma di autorizzazione conseguente alla disclosure plus approval by disinterested directors ovvero alla disclosure plus shareholders’ approval. Solo se la situazione obiettiva di conflitto d’interessi influisce sul contenuto del contratto essa è causa di invalidità dello stesso, con la conseguenza di aprire ad un’azione in rescission o di restitution. Sia l’autorizzazione del dominus (nella duplice veste dei disinterested directors o dei shareholder) sia l’esistenza di un prezzo già fissato escludono, dunque, il conflitto d’interessi22. La verifica della trasparenza della self-dealing transaction, vale a dire la sua fairness sembra tuttavia giocare un ruolo sussidiario, essendo chiamata ad operare solo dopo che si sia verificato il mancato rispetto di uno, o entrambi, i requisiti cui si accennava in precedenza. Il duty of loyalty dunque si sostanzia in un divieto, per i managers, di attribuirsi eccessive compensations, utilizzare beni della società, profittare della propria posizione per tornaconto personale, o anche svolgere attività di insider trading23. In tutte queste ipotesi, il principio secondo cui la transaction non è necessariamente invalida se sia intervenuta l’approvazione by disinterested directors or shareholders fa trasparire una certa flessibilità della regola, mostrando, in sostanza, come il ricorso a soluzioni alternative mascheri il tentativo di evitare l’applicazione di “stricter standards of judicial review”, sebbene l’intervento delle corti continui a rimanere a garanzia di comportamenti disonesti24. 4 – I fiduciary duties nel contesto di takeover In relazione al contesto delle takeover defenses, sono opportune, tuttavia, talune precisazioni. La sfumatura fiduciaria dei duties degli amministratori rende, infatti, indispensabile un’ulteriore indagine, riguardo ad una questione pur primaria: segnatamente, l’individuazione di chi siano i destinatari di tali doveri. Considerando l’esperienza della dottrina e giurisprudenza americana, e considerando che nella galassia globale della corporate governance i fiduciary duties sono generalmente “dovuti alla società”, vale a dire vincolano i fiduciari alla società e non ai soci, la precisazione delle eccezioni a questo principio non 22 In dottrina si precisa che “The fiduciary cannot represent both himself and his principal or beneficiary. Validation of the transaction then requires (1) a full disclosure by the fiduciary of his conflict of interest and any material information he may have about the transaction, and (2) informed consent by or on behalf of the principal or beneficiary”, N. P. BEVERIDGE, Jr., The Corporate Directors’ Fiduciary Duty of Loyalty: Understanding the Self-Interested Director Transaction, in De Paul L.Rev., 1992, n. 41, pp. 659-62. 23 M. A. EISENBERG, op. cit., p. 632, sottolinea come sia l’interesse personale a viziare questo tipo di atti. In quei casi in cui l’autorizzazione intervenga a rimuovere questo conflitto, un’eventuale azione di responsabilità riposa sulla prova che, il contratto concluso dall’amministratore, manchi di fairness. L’amministratore, dal canto suo, per liberarsi da responsabilità, dovrà semplicemente dimostrare che lo scambio era fair. La tendenza a regolare legislativamente questi profili ha dato origine a leggi di difficile interpretazione che testimoniano dell’indagine sulla fairness. Sulla delicatezza dello statutory approach, cfr. Remillard Brick Co. v. Remillard-Dandini Co. 109 Cal.App.2d 405, 241 P.2d 66, 73-77 (1952), nonché Marciano v. Nakash 535 A.2d 400 (Del. 1987). 24 Cfr. F. H. EASTERBROOK e D. R. FISCHEL, op. cit., p. 104. può essere svincolata da un confronto con gli aspetti procedurali e sostanziali delle azioni di responsabilità nei confonti degli amministratori. Se l’obiettivo è dimostrare che nel contesto di un corporate takeover i fiduciary duties sono dovuti direttamente ai soci, il percorso deve prevedere la risposta ad una questione procedurale: possono in questo caso, gli azionisti, citare gli amministratori direttamente ed in tutela di un proprio diritto, anziché proporre un’azione derivativa nell’interesse della società25? Nel panorama delle azioni contro le tattiche difensive da scalate ostili risulta particolarmente difficile fissare una linea di demarcazione tra azione derivativa ed individuale, anche perché la medesima domanda potrebbe avere una differente natura a seconda della natura del diritto di cui si lamenta la violazione. E la conseguenza non è di poco conto, se è vero che solo nel caso di direct action il risarcimento potrà essere legittimamente riconosciuto in capo ai soci; tanto volendo tacere dell’assenza, nell’esperimento di un’azione diretta, dell’ampio numero di standing requirements che giurisprudenza e legislazione impongono alle derivative suits. Ad esempio, qualificare la violazione del diritto di condurre una proxy contest come danno immediato o mediato dell’azionista, e di conseguenza consentire a questi un’azione individuale o derivativa, non è circostanza sempre agevole; non è, in altri termini, semplice comprendere se si lamenti l’inosservanza di un diritto dovuto direttamente al socio o generalmente alla società, poichè la condotta lesiva si invera, spesso, in situazioni liminari, passibili di definizione diretta o derivativa a seconda della ricostruzione e dell’orientamento cui si aderisca. Nell’esempio che si proponeva, un comportamento teso ad impedire ad uno specifico azionista l’accesso ad una proxy contest o ad una tender offer potrebbe integrare quella “particular injury” che permetta all’azionista di agire individualmente; con beneficio diretto, come detto, del proprio patrimonio26. Ma se, al contrario, nessuna specifica persona abbia iniziato una control contest, e nella domanda si evidenzi un danno in capo a tutti gli azionisti, egualmente, l’azione non potrà non essere considerata derivativa. Tuttavia, ulteriori precisazioni si impongono. Non dimenticando che, di là dal contenuto sostanziale della domanda, una certa terminologia potrebbe bastare a colorare l’azione come diretta o derivativa27, si può generalmente osservare che, nei casi di proxy contests, takeovers o proposte di fusione, è più facile che i giudici riconoscano il mutamento di destinatario dei fiduciary duties, ammettendo, così, l’azione diretta. L’elemento che complica ulteriormente lo scenario, in vero, è la necessaria concorrenza di almeno due di queste situazioni, nel senso che, per legittimare una direct action, è necessario che, in pendenza o nell’imminenza di una proxy contest, un soggetto stia tentando di acquistare il controllo della società28. In tal modo, infatti, si può sostenere che l’adozione di una tattica possa integrare i requisiti necessari all’esperimento dell’azione individuale, vale a dire uno “special 25 Da ultimo, in argomento, J. SHOENBLUM, Fiduciary Duty and the Direct-Derivative Distinction in the Takeover-Merger Context, in A. D’ANGELO (a cura di) Amministratori fiduciari: di chi?, vol. 3, pp. 261-271, Milano 2001; ma la letteratura in materia è, come noto, vastissima. 26 Cfr. Packer v. Yampol C. A. No. 8432 (Del. Ch. Apr. 18, 1986); MacAndrews & Forbes Holding, Inc. v. Revlon, Inc. C. A. No. 8126 (Del. Ch. Oct. 9, 1985); Lerman v. Diagnostic Data, Inc. 421 A.2d 906 (Del. Ch. 1980) 27 Si veda Kramer v. Western Pac. Indus., Inc., 546 A.2d 348 (1988). 28 J. SHOEBLUM, op. cit., p. 264 injury” ed un “breach of a contractual right” (in specie il diritto di voto), bastando anche una sola di tali condizioni per produrre l’effetto descritto29. Da questa costruzione sembrerebbero derivare due ulteriori considerazioni. Innanzitutto, colui che agisce per ottenere il controllo della società deve esserne già un socio; altrimenti come giustificare le implicazioni contrattuali? In secondo luogo soltanto questo soggetto, a differenza degli altri azionisti, può lamentare la lesione diretta del diritto e proporre azione individuale. Queste osservazioni devono, tuttavia, essere investite da una concezione particolare ma quantomai persuasiva fornita nel caso Gaylord Container30, ove si è riconosciuta l’esistenza, nell’ambito di una takeover contest, di una contrapposizione tra prospective sellers (gli azionisti) e prospective buyers (gli scalatori) a prescindere dal loro status di soci, entrambi legittimati a proporre azioni individuali per proteggere da interferenze improprie (non necessariamente legate a violazioni dei fiduciary duties) il proprio interesse a negoziare. Da una summa delle argomentazioni sopra descritte si può ricavare che, in genere, il contesto di takeover pone le basi per considerare che i fiduciary duties siano, in determinate circostanze, dovuti ai soci e non alla società, legittimando quindi il socio-scalatore, nei cui confronti una tattica difensiva abbia provocato un “breach of contractual rights” o uno “special injury” a proporre, in via diretta ed individuale, un’azione di responsabilità verso gli amministratori. Tuttavia, l’azione per la lesione di un diritto individuale potrà essere proposta anche dal bidder non azionista e dai soci riceventi l’offerta non, ovviamente, nella forma di azione di responsabilità sociale, ma come azione di responsabilità extracontrattuale tout court (tort). Di là da fattispecie particolari, da orientamenti più o meno “estremi” e da pronunce che sembrano non in linea con quanto sostenuto, appare qui quantomai necessario cogliere il trend. Risponde ad una logica di equità, peraltro, che, laddove l’intervento dell’amministratore incida direttamente sulla decisione del socio di aderire o meno all’offerta d’acquisto, il rapporto che si instauri sia tale da fondare una situazione giuridica attiva in capo all’azionista e di conseguenza una direct action. Di nuovo rileva, allora, quell’idea di affidamento cui si è accennato in precedenza. L’amministratore, infatti, in ragione della sua posizione, ed in specie delle informazioni che egli, e solo egli detiene, avrà il potere di influenzare in maniera decisiva la maggior parte degli azionisti; potere che non può essere lasciato dall’ordinamento privo di limiti e di sanzioni nell’eventualità di un suo abuso. Pare, allora, non improbabile ipotizzarsi come, nell’intervento diretto dell’amministratore nella decisione di vendere da parte dell’azionista si possa ravvisare un contatto di sapore negoziale, tale da giustificare la responsabilità 29 Si veda Moran v. Household 490 A.2d 1059, 1070 (Del. Ch.), aff’d, 500 A.2d 1346 (Del. 1985) “To set out an individual action, the plaintiff must allege either ‘an injury which is separate and distinct from that suffered by other shareholders[…]’ or a wrong involving a contractual right of a shareholder, such as the right to vote, or assert majority control, which exists independently of any right of the corporation.” L’azione è stata considerate individuale, fra l’altro, nelle seguenti circostanze: azione di tutela del diritto di voto (Lipton v. News Int’l Plc. 514 A.2d 10751078 [Del. 1986]; Margolies v. Pope & Talbot, Inc. C. A. No. 8244 [Del. Ch. 1986] ); azione contro una operazione che avrebbe diluito impropriamente gli interessi proporzionali degli azionisti nella società (Bennett v. Breuil Petroleum Corp., 34 Del. Ch. 6, 99 A.2d 236 [Del. Ch. 1935]; Crane Co. v. Harsco Corp., 511 F. Supp. 294-304 [D.Del. 1981] ); azione contro il rinvio dell’assemblea annuale con l’obiettivo di neutralizzare il proxy contest sollecitato dall’attore ( Thorpe v. CERBCO, Inc., C. A. No. 11713 [Del. Ch. 1993] ) 30 In re Gaylord Container Corp. Shareholder Litigation, 747 A.2d 71 (Del. Ch. 1999). La considerazione di Strine è stata riportata da J. SHOENBLUM, op. cit., pp.269-270 diretta. E così i doveri fiduciari, che pur di norma vincolano il fiduciario alla sola società, nelle particolari ed eccezionali fattispecie in cui gli amministratori, in virtù della loro funzione, assumono (finanche non volendo) un ruolo determinante nella modificazione della sfera giuridica del socio, estendono la loro efficacia e la relativa tutela anche in capo al singolo soggetto azionista. Questa considerazione non inficia la regola generale, ma la completa, non essendo sostenibile come, in situazioni di tal sorta, l’azionista debba rimanere privo di una tutela diretta; d’altronde, diretto e determinante è l’intervento, diretto sarà l’eventuale danno, diretta deve essere l’azione31. La teoria risponde a ragioni pratiche di giustizia sostanziale e, nel tradizionale pragmatismo delle corti americane, sembra prescindere da un inquadramento in termini di agency conclusa tacitamente o imposta ex lege; e sembra aver riguardo maggiormente alla situazione di fatto, sufficiente all’estensione dei fiduciary duties in commento. Ciò volendo tacere del fatto che la copertura dei fiduciary duties, in una prospettiva di analisi economica del diritto, consente di espandere il relativo meccanismo di controllo alle ipotesi di takeover, a supporto degli strumenti che il mercato e la legislazione già offrono32. In questo senso, vieppiù, sembra spingere lo stesso dato normativo, nell’attribuire in capo agli azionisti una serie di diritti da essi direttamente azionabili33. 31 Per tutti cfr. R.C. CLARK, op. cit., p.588 Si veda, per tutti, F.H. EASTERBROOK, D.R. FISCHEL, op. cit., pp. 162 ss. 33 Si pensi alla circostanza che il Williams Act riconosce in capo agli azionisti il diritto ad essere inclusi nella tender offer ed ricevere lo stesso prezzo, come sottolinea A.R. PINTO, Corporate Takeover in the Public Market in the United States, in Am. J. Comp. L., 1994, pp. 350-354 32